Il Duca D'Atene : edizion ELTeC Tommaseo, Niccoló (1802-1874) Editor Ciotti, Fabio 59561 COST Action "Distant Reading for European Literary History" (CA16204) Zenodo.org Il Duca D'Atene Niccolò Tommaseo Editor Francesco Sanvito Presso Francesco Sanvito Milano 1858 1837

Italiano Latino Francese Revision in ELTeC format: Demma, Lorenzo Revision in ELTeC format: Pasqual, Valentina
IL DUCA D'ATENE NARRAZIONE DI N. TOMMASEO MILANO PRESSO FRANCESCO SANVITO 1858.
I

QUI COMINCIA LA STORIA

DELLA CACCIATA DEL DUCA D'ATENE

DALLA CITTÀ DI FIORENZA.

Stavasi Tile de' Cavicciuli lungo il fiume fuor di Porta alla Croce, e guardava, di contro al sole cadente, il Ponte Vecchio, e le pietre che gli operai ne portavano per murare il nuovo recinto al palazzo. Quando Filippo Bordoni, popolano de' ricchi, il quale usciva d'un sentieretto tra i campi e 'l fiume, scese e gli venne a rincontro dicendo:

«Tile, che guati?

- Guato al ponte, e penso al covile che la fiera si sta preparando.

- L'uomo ha veduta la Grecia, ove dicesi siano avanzi di begli edifizi: e' vorrà forse far di Fiorenza una macìa greca.

- Ben fa. Quando città già franche lo gridano signore, ben fa egli a usare del titolo.

- Ma cotesto, Tile, non dura.

- Chi ci pon fine?

- Noi, se vogliamo.

- E le forze?

- Un'anima che vuole può contra mille: un popolo non potrà contr'un uomo?

- Quest'uomo ha seguaci e soldati.

- E costoro, hann'eglin altro che due braccia e una lancia? Ma una cosa non hanno, che possiamo aver noi: coscienza.

- Tu, Bordoni, vorresti?...

- E tu no?

- Potessi!

- Possiamo. E dirò 'l come. Ma a chi parl'io?

- A uno Adimari; ad uomo noto.

- Or qual uomo è noto?

- E se non io a te, nè tu a me. Rimanti con Dio.

- Sta.»

E Filippo Bordoni, scopertosi il petto, mostrò a Tile un'imagine del crocefisso, e gli disse: «Giura per Dio, che il segreto custodirai con silenzio; e dì: Nel nome del Salvatore, prometto. E Tile disse: «Nel nome del Salvatore, prometto.»

Allora, andando contra 'l fiume a passo lento, con voce bassa e con parole pronte Filippo disse: «Una congiura è presta; Antonio degli Adimari n'è capo; poi i Medici, gli Oricellai, Luigi Aldobrandini, casa nostra, e molti mezzani. Siena abbiamo con noi. Si pensava assalirlo nel palagio; ma, sia caso o sospetto, tu sai ch'e' mutò sergenti e famigliari due volte. Or ecco il presente proposito: quand'e' cavalca alla croce al Trebbio per amore di Bice nostra parente, asserragliare la via. Le sbarre abbiam pronte; le case da' due capi son nostre; e armi e balestre non mancano. Cinquanta masnadieri gli si avventano addosso: altri giovani arditi, grandi e popolani, rincalzano: leviam la terra a rumore: i caporali di fuora a cavallo e a piè attendono in arme per venire al soccorso: in men d'un'ora Fiorenza è Fiorenza.

- Ma se il colpo va in fallo? Se, accortosi, e' non passasse di via Bordoni?

- Tu chiedi accorgimento all'amore?

- L'ama egli?

- L'appetisce.

- E Bice?

- Chi intende la donna? Del cavalcare ch'e' fa con armati sotto le finestre di lei, gode nell'animo: lo dispregia, e gli arride siccome a duca. E noi soffriamo gli arrida per dargli baldanza.

- Bada, Filippo.

- Tile, i' non chieggo consigli. Se' tu con noi?

- L'animo è.

- Ma la mano?

- Un legame la tiene.

- Or che giurasti?

- Silenzio.

- Se non altro giuravi, io potevo con pari diletto aprire il mio segreto agli scopeti del fiume. Tile, tu se' con noi.

- Non posso.

- Vuoi tu tradirci?

- E chi tradisce, dic'egli: non posso? Un'altra promessa mel vieta.

- A chi data?

- Non a' Francesi.

- Dunque un'altra congiura! Parla.

- Promisi silenzio. Nè ch'altra congiura sia, t'affermo nè nego. E m'è duro il tacere.

- Ma tu non taci: già so.

- Nulla sai. Questo tanto io dirò, che ad ogni pericolo m'avrai compagno.»

E in così dire, Tile saliva leggiero e si dileguava tra gli alberi. Il Bordoni voleva richiamarlo; ma udendo voci sopravvegnenti, si tenne: diede un guardo al fiume, uno al cielo stellato; e senza sospetto di Tile, rincorato di nuova speranza, mosse con agile passo alla città.

Ma d'altri pensieri si pasceva Matilde Adimari, figliuola d'Antonio; che, presa della bontà di Rinaldo conte d'Altavilla, ed egli della sua, s'amavano dell'anima e senza parole. E, ignara delle più tra le cose che seguivano nella città, non vedeva ella quant'odio sovrastasse alle genti di Francia, quanto pericolo al padre: e dall'ignorare le veniva speranza. Sperava Matilde, e non sapeva che. Poco ella gli aveva parlato, nelle feste di maggio o altrove; e interrotte parole. E sebbene le case degli Adimari in Porta Rossa fossero di faccia al soggiorno di Rinaldo, pur non potevano se non rado affacciarsi all'alte e custodite finestre; e non osavano. Ella di sedici anni, egli di trenta, la prendeva con l'aspetto della forte bellezza, e con la fama che correva del senno di lui, e della continenza, maggiore che di Francese. Onde sotto sembiante di quieta mestizia, ell'era lieta. E ancorchè sentisse per la via e nelle case proprie, un bisbiglio, un andare e venire di gente pensosa; era lieta. Lieta, con un dolce continuo turbamento, che insolita vita aggiungeva, come fiamma in fiamma, alla sua giovane vita.

Era il giorno della Visitazione: e intanto che Matilde pregava in Santa-Maria-Novella, stringendo di più forza le mani giunte in pensare al suo desiderato, nel vicino convento stavano a colloquio frate Angelo dei predicatori, vescovo di Fiorenza, e Cenni degli Oricellai: il quale, già grande nel comune, e padre di quel Naddo che fu morto dal duca, s'era reso dell'Ordine, e preso il nome di frate Domenico. Or, quando il vescovo lo vide entrare, licenziati gli altri: «Che novelle, frate Domenico, dell'anima tua?

- Triste, padre. La battaglia dell'anima mia non ristà. Il dolore ingrossa ad ora ad ora, e trabocca in ira. A giorni, sento una pace stillarmi dentro come la pace degli angeli; e posso piangere. Ma il dì viene quando, non so per quali miei falli irritata, l'ambascia si fa selvaggia. Questo cinto mi pesa, mi pesa l'aria morta di questo chiostro: e per gli altari e per gli avelli, insieme confusi, mi tremano agli occhi mille fantasmi. In ogni imagine dipinta, in ogni cadavere disteso, veggo il figliuolo mio.

- Pace, frate Domenico, pace.

- Oh figliuol mio, e tu potevi scampar la morte. E quando costui stringeva i mallevadori a farti ritornar di Perugia, perchè nol vieta' io? Se danaro chiedeva cotesta voragine, non potev'io ir mendicando danaro, e gettarglielo; e porre per te la mia vita? Questo mi accora: l'inganno; il rimorso di non avere rinvenuto nel mio cuore paterno un consiglio di salute. Oh me perduto! Padre, trovatemi una parola di conforto.... (E il vescovo gli additava un'imagine di Gesù crocefisso. ) Non vale. Allorchè quest'ira accorata mi prende, l'imagine di un uomo morto, pendente, mi ridipinge Naddo mio, il collo in un laccio, la lingua e gli occhi sporgenti.

- Fratello, il vostro dolore ha pochi pari: ma pensate ai dolori della intera città.

- Quale consolazione, accumulare le onte mie con le altrui?

- Grande, fratello. Perchè la pietà si mesce nell'ira, e la fa men acre; perchè all'uomo, sia che voglia essere buono, sia che voglia essere tranquillo, è forza uscire di sè, rompere il chiostro che il dolore o l'orgoglio serrano intorno all'anima sua. Dunque pensate alla patria misera che ha i piedi stretti di catena più ignominiosa di quella....

- Che stringeva i piedi del figliuol mio. Crudeli uomini! Incatenare un cadavere; interdirgli la pace della sepoltura, il lavacro delle lagrime paterne; fare a goccia a goccia stillare su lui la rugiada e la pioggia dall'alto; far nelle misere reliquie incrudelire il cielo stesso ch'è tetto ospitale di tutte le creature; lasciare che le bestie lecchino appiè del patibolo la marcia delle membra fradicie; comandare al vento che nella notte movendo le ossa nudate, ne tragga suono di maledizione. E io sciagurato non potevo torcere la vista di lì; e ad ogni ora mi pareva vedere una parte del caro corpo disfarsi; e sentivo le membra del corpo mio staccarsi e marcire con esso, e il cuor mio vivo battere tra le costole del petto scarnato del figliuol mio.

- Io non oso, fratello, nè piangere con voi, nè interrompere il vostro pianto. Perchè pochi sanno consolare; pochi son degni di tanto. Non posso che levar gli occhi a Dio, e chiedergli che versi in me quanto soprabonda dal calice vostro. L'anima mia è capace, parmi.

- Padre, ben dite: parmi. Perchè qual anima è assai capace di lagrime? E anch'io mi tenevo forte, e contro gli urti nemici immobile. Vero è che voi non avete figli.»

Tacquero un poco: poi frate Domenico seguitò: «Qual uomo perdesti, Fiorenza! E forse avrai tra breve bisogno di tali.

- Credo,» mormorò il vescovo.

«E fosse pur reo: spettava egli a cotesto duca d'ogni peccato, punirnelo?

- Fratello, i più rei son più pronti a punire; e i più stolti, a biasimare: non sai? Fossi tu solo cui dure sventure incolgano! Ma vedi: or fa pochi giorni Bettone de' Cini, di Campi, fregiato d'onori da costui, per avere susurrato di non so quale imposta, e' gli fa strappare la lingua infino alla strozza, e quella fitta in cima a una lancia, lui seguente dietro, fa portare per tutta la terra. E' morì della piaga: stamane n'abbiamo da Pesaro la novella. Pubblicano vile: ma se costui non perdona a' pari suoi, or pensa, ai migliori. E di Matteo di Morozzo non ti rammenti? Per avere detto che i Medici tramavano contro al duca, condotto su un carro, attanagliato, impiccato.

- Oh figliuol mio!

- Almeno il tuo non patì così duri tormenti. Io lo rincontrai quel Matteo, che gli mordevano le carni con tanaglie roventi, e m'adoprai per deliberarnelo: e n'ebbi dal duca pungenti parole. Ma quelle punte saranno ritorte nel petto di lui.

- Padre, tu pensi a vendetta?

- Io dico che la giustizia lo troverà. Distinguiamo, figliuolo, vendetta da pena; perchè la verità è nel distinguere. Può l'uomo, anch'offeso che sia, punire il tristo, se lo fa non per vendetta ma per bene, e senz'ira. Perchè qui di nuovo giova distinguere: altro è ira, altr'è sdegno. E lo sdegno del male è santo; ma l'ira è rea.

- Onde, padre, se io potessi punire di mia mano o d'altrui l'uccisore del mio figliuolo....

- Se tu potessi deporre il dolore che ti occupa, e far pura di furore la pena; dovresti punire non l'uccisore del figliuolo tuo, sì 'l tiranno della repubblica: ma questo per ora non puoi.

- Tu dì, padre, che te pure il duca oltraggiò.

- Sì: fu' io che m'adoprai tanto a farlo eleggere signore di Fiorenza; e le speranze che avevo di lui, con incaute parole magnificai. E fu' io che, con parecchi dei grandi, chiesi a' dodici gonfalonieri e agli altri consiglieri del Comune, lo creassero signore; e n'ebbi risposta che già mi parve stolta, e ora la intendo: «Ch'e' non volevano assentire di sottomettere la libertà della repubblica di Fiorenza a giogo di signore a vita, il quale non fu mai da' nostri maggiori acconsentito.» Ma io feci tanto che il mio fallo fu pieno. E le campane sonarono a Dio lodiamo per l'avvenimento dell'oppressore nostro; e sa Dio quando la campana della podestà sonerà la sua fuga.

- Oh fosse!

- Tosto o tardi sarà. Nè questo dico a nutrir di speranze la tua vendetta, ma per preparare la tua mente, che l'aspetto dei mali del nemico tuo non la inebbrii.

- Tutti si lagnano. E quantunque diviso dal mondo, tanto ne sento e so, da vedere alcuna trama apparecchiarsi.

- Da chi lo sai?» domandò il vescovo con ansietà.

«Da qualche parola tronca d'un Pazzi, d'un Medici, e di...

- Segui.

- Di Dino Frescobaldi.

- E che ti diss'egli?

- Accennò a lontani pericoli; volle (perchè mi sanno non nuovo delle cose del Comune) il consiglio mio.

- E tu?

- Risposi: «Tacete: pochi sappiano, sian pronti molti. Non una parola in iscritto: non conventicole, o rade, e mai di soppiatto. Ponete giù gli odii: chè carità è la fortissima delle congiure.» Null'altro dissi; null'altro aggiunsero: e per tema di mescolare alle cure della patria le vendette mie, mi ritrassi.

- Mal facesti. Cerca di loro: io te lo permetto e comando. A Dino Frescobaldi non dar mente, ch'è giovane troppo: ma cerca de' Bordoni e de' Pazzi. Or dì: ti par egli che ambedue siano in uno stesso trattato?

- Non so; non mi pare.

- Conosci ogni cosa, ogni cosa annunziami: il dì, la notte, sii a me, ove bisogni.

- Padre, perdonate: ma l'antico favoreggiatore di duca Gualtieri....

- È il nemico suo: vuoi tu crederlo?»

E con tale accento esclamò l'Acciajuoli, che a frate Domenico non parve poter rispondere con parola; e gli arrise con gli occhi un cenno di fiducia tra torbida e lieta. Poi, dopo breve silenzio, inchinandosi uscì: e scese in chiesa; e, adesso che alcuna speranza gli sorgeva dal fondo della vuota anima, gli parve poter pregare una più tranquilla preghiera.

Come in un incendio le cose che più veggonsi ardere, non sono quelle ove per primo si apprese la fiamma; non dal popolo si rifaceva il moto che tutta già agita la città di Fiorenza; ma nel popolo egli è più intimo, e l'armeggiare dei grandi e dei ricchi s'appoggia ad esso, come posano fondati in terren sodo i palazzi. Pesava a costoro più chinare l'occhio che tendere la mano alla plebe, più diffidenti essi di lei ch'ella d'essi. I migliori nell'anima e più savi ne' pensieri, non boriosi per solito, ora ricevevano il premio della temperanza; chè meno costava ad essi affiatarsi, e con meno abbassamento ottengono più credenza. E sentendosi creduti, non s'affannano tanto a persuadere, nè si perdono in lusingherie, la cui bassezza dall'usata alterigia è fatta più vile, come dal ciglio più fonda la fossa. Ma quanto più impacciati, i superbi più si confondevano nel piaggiare, dipinti non dell'onesto pudore che l'umile sente dinanzi e al maggiore e al minore di sè, ma di falsa e stizzosa vergogna. Si vergognano dell'abbisognare di gente tenuta a vile, e ancora più si vergognano del mascherare il bisogno sotto sembianze d'affetto. E dell'impaccio proprio si vergognavano, e stizzivano, mettendo fuori certi sorrisi attoniti come di persona tra inferma e trasognata.

Ma i popolani migliori, ingegnandosi pur di leggere sotto a que' sorrisi la parola del cuore, non ne facevano fomite, non che a odii o a diffidenza, ma nè a quegli spregi che il debole ha terribili a volte, come sfogo di vecchia vendetta. E siccome in primavera un tepore diffuso per ogni dove comprende le cose, sicchè in breve niuna resiste, e per tutto, più o men agile, ricomincia la vita; così in questo popolo i più diffidenti per prove amare o per indole più chiusa, si aprono a fiducia novella, e senza volerlo, vogliono concordemente. Anco aizzati, respingono gli assalti dell'odio; fatti dalla coscienza più acuti a discernere, veggono più chiari che mai i falli e i difetti dei ricchi e dei grandi, e meno che mai mostrano d'avvedersene; e il sorriso che vorrebbe spuntare dallo scherno, ricoprono con un altro sorriso pio, e quasi pudico. Non jattanza dell'essere chiamati in parte all'opera della comune salute, ma gratitudine del poter, quasi a pubbliche autorità, partecipare ai pericoli.

Gli sgherri del duca, a cui la paura non rubò tutta la mente (che nelle anime fredde riman più serena), lasciano adesso il popolo minuto, come si fa di bestia che vogliasi poi più irritata avventare a un assalto; ma quelle arti cadono ributtate senz'ira, come chi, occupato da più nobile affetto, raccoglie in alto le forze sue, e lascia la passione, quasi serpe intormentita, giacere nel basso. E pure là aveva la tirannia del duca le sue radici più vive; che è istinto dei tiranni rafforzare sè colle speranze e coi sospetti dei deboli, e fare amar sè con l'odio che ispirano contro altrui. L'ora oggimai era giunta: e fino i più cattivi diffidano del cattivo signore, dacchè esso già diffida di sè.

Delle congiure pochi sanno; ma quasi tutti indovinano tutto, perchè non cospirazione ma ispirazione è ormai quella. Con una parola, con un silenzio che interpreta la parola, s'intendono; rispondono con un cenno, con uno di quegli atti delle labbra che il popolano ha più intelligenti, e più eloquenti che niuno; di quelli che serba a sè, come suoi proprii segreti, l'amore. Nè si maravigliano dell'essere a un tratto levati in regione nuova, conscii che quella è la natural sede dell'anima umana; e sanno, essi popolo, appareggiarsi meglio ai potenti, che non costoro ad essi; quasi un presentimento gli vaticinasse nel cuore ch'e' sono destinati a dover prevalere. Ma non se ne accorgono; e verace, piena sentono l'eguaglianza. Così quando un'aura commove di spirito unanime la foresta, le più ardue piante scuotendo i rami non li piegano però, le più gracili docilmente obbediscono all'impulso dell'alto, e s'accostano umilmente alle più grandi, e par che tra loro si bacino.

Di dì in dì, d'ora in ora, cresceva di qua e di là il commovimento. Le chiese, più frequenti di gente che mai, ora sonavano delle grida incomposte di cittadini cantanti a tutta voce, ora tra quelle de' preti spuntavano sole le voci di donne. Per le vie la gente pareva affrettarsi inquieta, e parlarsi con lo sguardo o con cenni; oppure il colloquio era sommesso e lungo, e, dopo molto stare nella via, si ritiravano dietro un antiporto a ragionare più caldo. I Borgognoni e gli amici del duca pareva camminando fuggissero: ma taluni o seduti ne' trebbii, o ritti a' canti, come persone che aspettano.

In tutti, e grandi e popolo, era un'aspettazione di cosa ignota, e pure certa, una sicurezza piena d'ansietà. Quelli dei grandi che o per indole o per casi o per odii si trovavano o si tenevano lontani dagli altri, provavano adesso grave quella solitudine o inimichevole o negligente; come chi si trova in luogo deserto senz'arme a difesa, o per pendío sdrucciolevole senza bastone che regga i suoi passi. Era tra costoro Francesco Brunelleschi cavaliere, nemico antico a Antonio degli Adimari, e uomo di sua natura chiuso, più per debolezza d'animo che per cupezza, in cui l'amore di patria era torbo d'odii e d'orgogli. A lui non s'erano fin dal primo aperti nessuno delle tre congiure, non già per diffidenza o dispregio, anzi per tenersi sicuri di lui: e l'uno si figurava già che l'altro ne lo avesse fatto consapevole, e tutti lo credevano pronto al bisogno: giacchè talvolta accade che la fiducia paja non curanza, e la stessa famigliarità poca stima. Venivano agli orecchi di lui quei mormorii cospiranti, come un lontano suono confuso che non si sa se sia d'allegrezza o d'ira o di pianto, e ora par di sentire nell'aura il grido dell'uno affetto or dell'altro, secondo che in noi parla il cuore o la fantasia parole contrarie e dubbie. Erano in Francesco impeti di passione violenta, ma il volere debole: e i deboli a scosse diventano violenti; e dall'uno all'altro eccesso balzano, prima inconscii, poi attoniti di sè stessi, attoniti o con gioja vana se par loro d'eccedere in bene, e se in male, con ribrezzo ineffabile. E il debole trascende or di qua or di là, o per ammendare il male fatto o temuto, e renderne dimentichi gli altri e sè, o per dileguare i sospetti meritati, o per riguadagnare il perduto tempo, o per generosità, o per paura. Così la mediocrità, per dissimulare sè a sè stessa, trasmoda smaniosa d'apparire grandezza.

Tentato a cose magnanime, il Brunelleschi si sarebbe fin dalle prime messo volenteroso tra i primi; e lo stesso suo odio contro gli Adimari gli avrebbe più istigato il coraggio, per vincere anche in ciò il suo nemico, e scuotere da sè il sospettato disprezzo, il quale alle anime che odiano è più grave d'ogni odio. Parendogli d'essere rigettato, in quel silenzio quasi di deserto ascoltava più intentamente le voci dell'ira vecchia che ora gli susurra scellerati consigli. Egli paventa e di sapere e d'ignorare le trame de' suoi; non sa s'abbia a sperare o a temere i pericoli del duca, i pericoli della patria; non sa da qual parte gettarsi, a qual parte volgere pure il pensiero. E in quella tempesta del cuore, più paurosa per il bujo del dubbio, e' pativa grave la pena dell'avere lungamente odiato in vita sua e dubitato. -

De' masnadieri de' grandi pochi se ne vedeva per le vie; o affaccendati, come gente fluttuante tra la torba esultazione e i dubbii d'imminente cimento. Costoro in origine razza d'uomini non trista (nè tristo suonava il nome), già facevano un ordine quasi da sè, preludendo ai soldati di ventura: tra militi e servi, tra mercenari ed amici, tra difensori e protetti, tra complici delle ire e conscii degli affetti ascosi; più cuore che mente, men cuore che braccio, più orecchio che lingua: e la parola così come il ferro nel fodero, breve, acuta, violenta. I grandi si aprivano ad essi con men sospetti che a' proprii pari e con meno vergogna; perchè il superbo ha paura de' pari suoi, e però li astia e piaggia; innanzi ai minori non arrossisce deporre le armi e le vesti, e mostrarsi in nudità turpe, com'uomo dinanzi a bruto, perchè li tiene men ch'uomini. E sprezzando, pur li ama, com'uomo ama la bestia, sommessa e fidata compagna; come ama l'arnese di giuoco e di guerra, da trastullarsi e esercitare sè stesso, da difendersi e offendere. E pure in quelle affezioni prave s'insinua un qualche alito generoso; e il potente a momenti ama in verità l'uomo arnese, e l'uomo animale, come se fosse uno spirito: l'ama perchè sente sè uomo e debole, e si umilia dinanzi alla dignità della - comune natura; l'ama perchè ne teme, senza terrore; l'ama perchè non l'intende, perchè il debole al forte è libro più chiuso, che non questo a quello, tuttochè a studio si sforzi di chiuderglisi.

E quei masnadieri leggendo ad ora ad ora nel volto dei padroni la gioja ineffabile della fiducia, in quel lampo fugace si consolavano del servizio lungo e duro, e spesso ignobile e atroce; si sentivano uguali nelle cose degne e nelle indegne; si sentivano sovente maggiori e nell'affetto e nel coraggio e nella fede alla fede altrui: e i men buoni tra quelli gioivano del vedere la propria malvagità necessaria alla malvagità de' signori, e dell'essere partecipi ai lor truci segreti, e del leggerglieli in viso, anco che celati a grand'arte; e insuperbivano dell'apporsi ai feroci imperii non espressi in parola; e alteri del servire più che altri del comandare, si facevano più che ministri alle altrui, autori di proprie prepotenze. Alle quali i signori erano poi forzati a condiscendere, e della loro ombra proteggerle, e infamarsi dell'infamia non voluta; servi essi e alla potenza propria e agli infimi servi loro. E questi, raccattati e di città e di campagna, e di vicine terre e di lontane, formavano una fraternità malaugurata, l'unica che fra le italiane scissure si componesse, e che - più e più squarciava le viscere della patria. E siccome ora i servi nelle anticamere tendono dall'uno all'altro palazzo una rete d'insidie ladre e di calunnie falsamente vere, e son quasi tutti congiurati tra sè, e come per vie sotterranee si comunicano i segreti dell'alcova e del gabinetto; così quelli, addestrati a guerra, come veltri alla caccia, fino in pace covavano guerra; nè solo tra i Grandi consorti, ma sotto alle case nemiche tessevano nascose trame e i segreti ora avvertitamente ora a caso manifestavano, come volanti che di terra in terra trasportano, e lasciano cadere dall'alto, maligne e buone sementi.

Or mentrechè il Brunelleschi se ne stava sospeso tra il dispetto e il sospetto, entra a lui un masnadiere senese, de' suoi più fidati, che avendolo la mattina visto parlare lungamente con Francesco del Manzeca, onorevole cittadino di Porta San Piero, e congiurato coi Bordoni e cogli Adimari, credette lui consapevole d'ogni cosa; e si doleva tra sè che il suo signore non se ne fosse aperto a lui diffidandone o disprezzandolo, così come esso Brunelleschi si sdegnava che i concittadini suoi paressero volergli tener nascosta la trama. Se non che nel cavaliere il cruccio era d'orgoglio torbo e cupo; nel masnadiere di affezione fida, mista all'alterezza del servo che, uso ai segreti del maggiore di sè, perciò solo pretende possederli tutti, e, servendogli, dominarlo. All'uomo d'arme che entrava il Brunelleschi affisse gli occhi negli occhi quasi volesse per forza trarne un qualche lume a' suoi dubbii; e dopo breve tacere:

«Che novelle?»

E senza aspettare risposta, come suole chi per affrettarla, la impaccia e ritarda, soggiunse:

«Gravi!»

E sopra pensiero accostò al sinistro fianco la mano. Al quale atto il masnadiere, consentendo prima con la persona che con l'anima, come è vezzo di quella gente, mise la mano alla daga che aveva sotto, e con voce piana rispose:

«Messere, io avrei a dolermi di voi.»

Il Cavaliere, fatto sempre più ansioso, bramava strappargli dall'anima le parole; nè mai l'albagia imperiosa dei grandi gli si fece sentire tanto tormentosa e tiranna. Ma conveniva contenersi, e ricevere a stilla a stilla, come al servitore piaceva, quello di che egli ha sete tanto affannosa. Abbassando gli occhi, che non vi si leggesse la voglia impaziente e lo sdegno mal represso, rispose:

- Di'.

- Voi siete avviato a impresa onorata e di pericolo; e la celate a me che sapete...

- Io ti conosco. Ma dimmi quel che tu sai.

- Mi dolgo a un tempo e mi rallegro dell'affetto magnanimo che vi conduce, per amor di Fiorenza, a stendere la mano al vostro nemico.

A questa lode il Fiorentino, più che arrossire, fremè di vergogna; e con impeto che al povero popolano parve di generosità:

- Or chi è il mio nemico?

- Ben dite, messere. Dacchè è contro il duca, l'Adimari è per voi.

Il Brunelleschi si scosse: ma con quella signoria di sè che per lungo uso e per tormentosa necessità acquistano gli uomini condannati a comandare altrui, rivolgendo l'interrogazione imperiosa in domanda quasi sommessa di consiglio amico:

- A te che ne pare?

- Mi pare bello.

- E che riesca?

- Siete tanti. Forse più che essere non crediate. E noi che osserviamo di fuori, e che penetriamo di sotto, ci vediam forse più addentro che voi.

- Di' quel ch'è a tua notizia.

- Ma, e voi, signore, non aprite a me che l'orecchio? Noi siamo braccio, non lingua.

- Voi siete cuore. Di' quel che sai, acciocchè le parole mie confuse co' tuoi pensieri non intorbidino la verità di quanto hai raccolto tu stesso, e che mi giova conoscere per l'appunto.

La lode tanto più acuta quanto più breve alla sua fedeltà, fece all'uomo quel che fa sprone a cavallo docilmente animoso. E mescendo i conforti e il congratulare alla sposizione de' fatti, narrò cose al cavaliere inaspettate; e da ultimo, come i Fiorentini mandassero per intendersi col Comune di Siena. Questo pareva al masnadiere suggello di buona speranza; onde l'altro coprendo con un sorriso di scherno la confusione dell'animo:

- Ecco il Senese! Ma se il comune di Siena fosse contro di me tuo signore e che t'amo?

- Messere (rispose il servo, levando la fronte altera), io sono di nazione Senese.

Indispettito non tanto della risposta, quanto di sè medesimo, il Brunelleschi gli comanda d'attendere lì presso, e rimane alle prese co' proprii pensieri. E la coscienza e l'odio gli parlarono dentro così:

«L'Adimari de' loro? E io posso con una parola aprirgli sotto i piedi la terra che lo ingoi. - Ma quel sangue chiazzerà il viso mio: e saranno confuse con esso le lagrime d'una figliuola orfana, di Matilde. - E che? se il mio capo stesse sotto la scure d'Antonio degli Adimari, ne asterrebb'egli la mano? - Ma se alcuno de' miei partecipasse alla setta? - I' lo saprei. - E forse questo masnadiere è mandato dal duca a tentarmi: e s'io non rivelo, muojo. - Ma s'io rivelo, non creduto; o se, com'avvenne d'altri, mi si apprestano, a merito del mio zelo, le tanaglie roventi? Da ogni parte la morte: di qui la vendetta, di là la vergogna. - Vergogna? Son io forse di coloro che andarono di notte a Santa Croce a consigliarlo prendesse la signoria? Son io Arrigo Fei creator di gabelle, o Giulio d'Assisi carnefice? O uno de' vescovi che per conservare le loro terre si tengono aggrappati a lui? Ho io mai piaggiata la costui villania? Ho io portate le grosse fibbie e il puntale alla foggia francese, per compiacergli? - Ma che diranno di me? E che si dice del Fei, che del duca? Nulla, o come se nulla. O taccia o mormori, o urli o esclami, il popolo è iniquo o matto: s'impenna come destriero, poi si china e pascola come capra. - E forse le cose che son gridate dannose e infami, son utili e pie. Una parola mia può forse essere risparmio di terrori e di sangue. E chi sa se a questo reggimento non istia sotto un peggiore? Il popolo briaco non sa che sonare campane e bruciar libri, e gridare viva e muoja: ma all'ubriachezza succede il sonno; e allora i forti lo legano, i vili lo rubano; e, desto, e' rigrida viva e muoja, secondo che la memoria o un impeto nuovo gli detta. E chi sa quando un popolo dica davvero? Iddio. - Forse la mia parola affretta a questi o ad altri cospiranti il momento del prorompere, e li fa per disperazione animosi: forse la vita stessa del nemico mio la faranno salva il suo nome, il terrore del duca. - E cotesto duca io l'aborro: e quando il tempo verrà, avventerò anch'io il mio quadrello. Intanto, se questo è un laccio del Francese, strighiamcene; avviluppiamo lui; guardiamogli in faccia, caviamogli parte del segreto suo dalle viscere. Scoprire quel ch'egli sa e quel che pensa, può essere forse salute e benefizio di tutti. Se non è, gastighiamo l'orgoglio dell'Adimari, e in lui de' suoi. E s'egli è detto che s'abbia a morire, (or che è la vita?) morremo.

E' pensava in sul primo scoprire la cosa a uno dei parenti del duca, e sopra persona più accetta lasciar cadere i primi sospetti, e le ire che genera la paura ne' tristi. Poi gli parve codardia; e volle assumere in sè così il merito dell'atto come la vergogna e il pericolo; sebbene del pericolo sapesse omai essere quasi nulla, perchè Gualtieri, atterrito, aveva fatto spargere nella città, accoglierebbe senz'ira ogni rivelator di trattato. E se dapprima e' li punì, fu per fare le viste di credere le congiure impossibili; poi per sospetto volessero beffarsi di lui, mettendo taglia sui terrori dell'anima sua. Non so se ragione o pretesto, ma certo fu spinta a quel passo del Brunelleschi il pensiero di poter tanto scoprire della verità quanto giovasse meno a lui che a' suoi consorti e al comune di Fiorenza, a cui fin nell'atto del tradimento intendeva lo sciagurato giovare: giovarle, o coll'antivenire la sommossa, se avesse a essere rovinosa, o coll'indirizzarla a termine più sicuro. Condusse il masnadiere seco, maravigliato, ma pur lontanissimo dal sospettare la viltà della cosa; dacchè gli umili, per depravati che siano o che pajano, serbano ostinata la fede alla fede altrui, e i maggiori di sè amano stimare migliori.

Il Brunelleschi parlò spedito, come chi temendo non poter compire cosa, si studia a venirne a fine, o come chi da paura è fatto animoso: ma quella franchezza gli dava sembiante d'uomo che arditamente fa opera buona. Gualtieri affisando gli occhi agli occhi di lui, come belva che non sai se minacci o accarezzi, lo congedò dicendo: «Messer lo cavaliere, se scoprite altro, le porte del mio palazzo vi son note già.»

Queste parole, da lui profferite col men falso animo che la sua tetra natura gli concedesse, parvero al cavaliere, che le ripensava, raffaccio insopportabile. E tra la vergogna del meritare i ringraziamenti di tale uomo, tra il sospetto dell'aver provocato il disprezzo di lui, se n'andava ruminando: Le porte del mio palazzo vi sono già note; e gli pareva che nessuno uomo gli avesse mai detta villania sì fiera, nè egli mai aver pensato che parole simili gli si potessero dire. E' correva per la via con in cuore una smania rabbiosa, simile alla smania del traditore che riconosce sè stesso; e il nome di traditore, non gli pareva tuttavia meritarlo. Ma soddisfatto alla passione dell'odio, le altre, o passioni o affetti che già gridavan men alto, ora si facevano sentire; e l'orgoglio di Fiorentino, e l'odio dello straniero signore, e il timore dell'infamia, e il timore della pena se il duca sospettasse, o se gli altri vincessero; e, più fonda di tutte le voci, ma più potente perchè continua, la coscienza. E vedendosi, per guiderdone, creato dal duca suo delatore, sentì l'odio ribollire. Propose, ormai che n'aveva la chiave, penetrare nei consigli della congiura; e, incerto qual via terrebbe (segno non era mutato che a mezzo), osservare.

Stavano nella casa d'Antonio degli Adimari, stretti a consiglio, que' della terza setta, più pronta di tutte: e il Medici voleva s'indugiasse, l'Aldobrandini s'aspettasse risposta da que' di Prato: il Bordoni, più giovane, mettessesi mano al ferro; di tal fiamma non poter non uscire fumo o favilla; unica salvezza rompere le dimore. Quand'ecco un familiare annunzia ad Antonio degli Adimari, un sergente del duca richiederlo immantinente al palagio. E fu come quando una lieta brigata di viaggiatori è colta dal turbine o da' ladroni. Tacquero tutti: il Bordoni sorrise amaramente in vedere il suo dire avverato: il Medici fisse gli occhi in viso all'Adimari per leggervi il turbamento, ma nulla lesse.

«Amici, disse Antonio levato in piedi: l'ora del pericolo è giunta; e se il mio sangue deve far lubrica la via dove cada il tiranno, vada il mio sangue. Purchè lo vendichiate, fratelli; purchè lo spavento non vi disperda, come passere a un grido; purchè stiate stretti in un volere.»

L'Aldobrandini prendendolo per mano, e con voce commossa: «Tu puoi ancora fuggire: Antonio, che nol fai? Nè egli saprà sì tosto; nè, sapesse, oserebbe inseguirti, chè 'l nome tuo gli farebbe paura.

- Le cose, amico, che più fanno paura, quando il terrore è all'estremo, più audacemente romponsi. Nè io vo' fuggire. Nobile cosa, dopo la minaccia appiattarsi! Gualtieri potrebb'egli far peggio? No. Io mi metterò nella tana del leone; ma voi lascio fuori: e quand'egli esca per nuova pastura, ricordatevi dell'amico vostro.»

I più nuovi al pericolo si turbavano nell'affetto: i maturi stavano con le braccia al petto, in silenzio. Il Bordoni percotendosi a un tratto la fronte, gridava: «Io so il traditore.

- Chi? domandò l'Adimari.

- Un de' tuoi, ma, è gran tempo, diviso da te: Tile.

- Non credere.

- Io posso affermarlo.

- E io giurare che no. Finchè la verità non sia certa, statevi da ogni vendetta: l'ira tutta volgete contro Gualtieri. Non vi lasciate cogliere alla sprovvista. A un cenno ch'e' faccia di correr la terra, corretela voi. Il popolo è desto: gridate, e sorgerà. Picchiate alla porta de' buoni cittadini, siano o no del trattato: a un picchio usciranno. Il frutto è maturo: scotete la pianta, e cadrà. Or tempo è di partirci.»

E chiamato da banda Cosimo Oricellai, l'Adimari gli disse. «Cosimo, agli altri ho raccomandata la vendetta: a te raccomando Matilde. Se io muojo, il tuo occhio non l'abbandoni. Ella è sola: e tu se' padre, o Cosimo.»

L'Oricellai non poteva parlare dal turbamento dell'animo. E' l'abbracciarono ad uno ad uno: e, poichè l'Adimari diede a Filippo Bordoni, che gliela chiese, la sua spada, uscirono. Rimaso solo, Antonio chiamò a sè Matilde, la fece sedere accanto al letto ove sua madre era morta, sull'inginocchiatojo ove sua madre pregava, e con fronte serena disse così:

«Figliuola mia, raccomandati a Dio, prepara l'anima tua a un dolore grande.... Deh non ti turbare: forse quel ch'io sospetto non sarà, o sarà leggier cosa; ma debbo fartene avvertita acciocchè tu non tema oltre al vero. Mia buona Matilde (e le accarezzava con mano i capelli, che mai non fece se non una volta quand'ell'era malata e in fine), tu forse non sai quant'io t'ami: mai non te lo dissi a parole, per non ammollire senza pro l'anima tua nè la mia. - Or sappi che il duca mi chiama a sè con improvviso comando.»

Matilde, ignara delle più fra le atrocità di Gualtieri, e delle macchinazioni del padre, non intendeva; ond'egli: «Che voglia il duca, non so: forse mi prese in sospetto, perchè egli è sospettoso uomo e crudele.

- Crudele! (esclamò la fanciulla, a cui l'affetto diede in un subito l'intelletto del pericolo). Non ubbidite, padre mio; non andate. Le vie di fuggire non mancano.

- Fuggire non posso, figliuola; e sarebbe o vano, o più dannoso, forse a me, forse a molti. Potrebbe dunque Gualtieri tenermi per alcun tempo: se tu non mi vedessi tornare tosto, non ne prendere affanno. O prima o poi avrai novelle di me; e nulla, spero, saprai che faccia onta al nome del padre tuo.

- Deh quali parole, che io non intendo, e mi straziano! dite più chiaro; ah! dite ogni cosa: se c'è pericolo.... Io ho forza di tenere un segreto: e il Signore misericordioso può coprire del suo scudo il petto di una giovane donna così come d'un antico guerriero. Ditemi, signore, il vostro pericolo, tutto quanto: entrerò io al duca per voi; per voi parlerò.

- Non ingrandire, prego, nè il pericolo, nè l'agevolezza del vincerlo. Ascolta i consigli miei, no il tuo cuore. Se io non ritorno quest'oggi, se non ritorno domani....»

Matilde aveva già inteso; ma la novità del dolore, e una segreta speranza, compagna di tutti i suoi pensieri, le lasciavano ancora il varco alle lagrime: e il padre al vederla singhiozzare s'inteneriva a suo dispetto, e con voce tremante seguitava:

- Non piangere, figlia mia. Non potrebb'egli, Dio, domani, quest'oggi, ora, togliermi a te?

- Oh, Iddio nol farà, nè permetterà che gli uomini crudeli lo facciano. Io vi rivedrò, non è vero?

- Mi rivedrai, figlia mia. Un giorno o due passan presto: un po' di lagrime, qualch'ora di sonno; e poi tutti desti nella luce di Dio. Che è mai la vita, Matilde mia? Ma in questa breve giornata che passerai senza me, abbi in onore la memoria del padre tuo. Tu se' sola erede del nome d'Antonio degli Adimari; e Matilde lo porterà puro, puro lo lascerà a' figli suoi, se Iddio le dà figli. Quand'io non sarò più teco, abbi rispetto ai consorti della nostra casa; ma tieni in luogo di padre messere Cosimo degli Oricellai, buono uomo, e amico nostro; e con le figliuole di lui abbi dimestichezza. Alle altre fanciulle fiorentine sii piuttosto affettuosa che amica: quelle ch'han nome di avere amata o sofferta la signoria de' nemici di Fiorenza, fuggi siccome tocche da pestifera malattia. In te, Matilde, il senno e la bontà prevengono gli anni: onde non temo da te cosa vile, come nè da me stesso. Una sola preghiera ti lascio nel nome di tua madre, nel nome della Vergine beata, nel nome di Fiorenza, infelice e gloriosa madre nostra. Tu ami, Matilde, un uomo straniero; io lo so: nè mai te ne feci motto; chè 'l silenzio vigilante stimai essere guardia più sicura. Non vergognare dell'amor tuo: perchè Rinaldo, conte d'Altavilla, tuttochè Francese, è forte uomo, e pieno del timore di Dio: e, comechè amico de' miei nemici, io gli ho riverenza. Ma s'egli mutasse, se nell'ora della battaglia si gettasse da' suoi contro la patria tua, se di macchia veruna si contaminasse la vita di lui o la fama; Matilde, abbandonalo: abbandonalo, figliuola mia; e la benedizione del cielo coronerà il tuo dolore. Io non ti dico: Se tu lo segui, sarai maledetta. Non te lo comando come padre; ma come compagno della madre tua, come cristiano a cristiana, come Fiorentino uomo a donna Fiorentina, ti supplico: tra la passione e la patria, fa che vinca il migliore. Se il conte si serba qual fu sin ora, e tu sposati a lui. (Deh non piangere, Matilde: vedi, già mi forzi al pianto. Lasciami finire in pace.) Sposati a lui, figliuola mia, nella benedizione di Dio. Sèguilo in Francia, se così è destinato: e Iddio benedica i tuoi figli, e i figli de' figli tuoi. Non dimenticare mai che sei nata cittadina della città di Fiorenza; insegna a' tuoi figliuoli per primo il tuo dolce idioma natio: parla loro di questa repubblica, e di tuo padre. E non temere che tuo marito ne adonti: se altro facessi, allora e' ti sprezzerebbe; perchè l'anima che rinnega la patria e la lingua e il legnaggio suo, è la più vile e la più sprezzata delle anime.»

Matilde, che lungamente era stata col viso tra le mani, piangendo, ora si getta a' piedi del padre; e posta la fronte sulle ginocchia di lui, interrompeva le parole paterne co' singhiozzi, e con dire: «Che farò io sola al mondo?

- No, tu non sarai sola, figliuola mia: io veglierò sempre invisibile sopra di te. Quel Dio che provvede di cibo ai nati della rondine, provvederà a te, unica mia.»

Qui levando la faccia piena di lagrime, e singhiozzando come fanciullo, il forte guerriero esclamò: «Dio de' padri nostri, pietà di quest'orfana: non cadano sul suo capo i peccati del padre suo. Beneditela, Signore, dall'alto, com'io la benedico qui 'n terra; e lascio a lei, poichè forse i beni non potrò, il nome e lo spirito e l'onor mio.»

S'inginocchiarono ambedue sulla sponda del letto, e recitarono insieme un'orazione pe' morti. E Antonio alzandosi disse: «Ogni sera, Matilde, reciterai quest'orazione per l'anima del padre tuo. Ma no (tutt'a un tratto rassicurando la voce): noi ci rivedremo fra poco.»

E la baciò in fronte frettoloso; e s'involò, non com'uomo che affronti il pericolo, ma che lo fugga.

E si presentò al palagio; e, cercato del duca, gli si offerse in quella vece Giulio d'Assisi bargello; ond'e' credette venuta la sua ultim'ora: ma dato sfogo agli affetti di padre, e attutati dalla fine imminente i pensieri della vendetta, non altro senso l'occupava che della eternità. Quel d'Assisi l'accolse con meno bestiali modi di quel che in palagio si solesse, e dissegli, essere piacere del duca ch'e' dimorasse quivi alcun tempo, infino che la verità, dubitata, d'alcuni fatti venisse in chiaro. Antonio voleva in sul primo con la risposta affrettare il supplizio: ma pensando essere impazienza nè lecita nè animosa picchiare all'uscio chiuso della morte; e che quella impazienza poteva farsi confessione di cosa non più che sospetta, si tacque.

L'annunzio del fatto sparse nella città lo sgomento: e allora si vide qual fosse l'animo di molti congiurati, e de' più caldi a parole. Salvestrino de' Rossi fuggì ne' suoi poderi; il Mancini si nascose; Cosimo de' Medici aveva paura e di nascondersi e di fuggire e di mostrare la faccia, onde il suo peritarsi faceva a' compagni, più che ira, pietà. Altri predicava con insolito ardore prudenza, pazienza, carità: altri tessevano cagioni d'indugio. Che se in quel tentennare della città Gualtieri l'avesse afferrata, e gettatasela a piedi, di tante catene e colpi forse poteva fiaccarla quanti bastassero a servitù lunga: ma il suo peccato l'acciecò, e gli mise tanta viltà nell'anima che non sapeva che si fare. Credette più spediente il lento tradimento: e intanto che i soccorsi di fuora giungessero, addì XXV di luglio chiamò a sè trecento de' maggiori cittadini, come a consiglio, da tutti i sesti della città; argomentando: o e' fuggono, e portan via il mio pericolo; o vengono, e gli ho a terrore degli altri e ad ostaggi. Erano tra costoro non pochi de' congiurati; degli Altoviti, de' Pazzi, de' Cavicciuli, de' Rossi, dei Frescobaldi, de' Bardi. I non consapevoli delle congiure vennero: de' consapevoli altri ricusò (e s'affaccendava a maturar la vendetta): altri, per non dare sospetto, andarono devoti a morte. Avuti ch'e' gli ebbe, impacciato di così grossa preda, chiamò i suoi sgherri a consiglio, il Fei, quel d'Assisi, il Visdomini: e ben di consigli sentiva necessità, perchè 'l senno e l'animo d'ora in ora più gli fallivano, com'uomo che senta il suolo affondarsegli sotto a' piè.

Ma Cerrettieri primo e più franco (perchè tra' servi del tiranno straniero i cittadini della terra tiranneggiata sono i più libidinosi d'infamia), consigliò: «Poichè la gran sala del palagio è munita di grosse porte, e di valide inferriate le finestre, siano munite a qualch'uso. Chiudiamvi cotesti leoni dal cuore di cervo, e le quadrella e le spade de' Borgognoni faranno la caccia.

- Il consiglio di messer Cerrettieri, soggiunse Arrigo Fei, è degno invero dell'arguzia fiorentina. E sarebbe pur bello vedere grandi e popolani in un fascio, fare schermo l'uno al petto dell'altro, e raggomitolarsi sotto alle panche, e strisciare sotto a' piedi altrui per cansar le saette, e trarsi le quadrella confitte negli occhi o nel dorso, e rovesciarsi bianco su nero e nero su bianco, e, una volta prima di morire, abbracciarsi.»

E Giulio conservadore: «Io consiglierei messere lo duca a cominciare lo spettacolo dalle quadrella; e quando ciascuno n'abbia almeno una coppia, sì che si sentano i diversi accenti dello stridere, e si veggano i varii modi del difendersi; allora entrar colle spade, e trinciare.

- Ma se, riprese il Visdomini, vestendo di celia un pensiero, non so come venutogli, d'umanità, se al signor nostro piacesse serbare taluno di questi uccellacci, come dei molti accivettati si fa, che ad altri allungasi il collo, altri cacciansi in gabbia; e' farà il senno suo.»

Gualtieri a tali motti, a' quali era solito rispondere con ghigno turpe o con turpi parole, diceva nulla: ma al consiglio poneva mente; se non che pareva a lui non gustare tanto il crudo sapore della vendetta, quanto altre volte soleva.

De' trecento rinchiusi i pensieri, sotto sembianze conformi, erano diversi, e d'altri, sotto diverse, conformi: nè i più loquaci nè i più taciturni, nè i più vantatori nè i più dimessi era da credere che fossero i più tranquilli nello spirito e più animosi; chè nessun segno di parola o d'aspetto è comunemente e perpetuamente verace. I men timidi per sè, temevano per i cari loro, per la patria temevano, e gli sapeva amaro vivere e morire in gabbia, e non nella luce dell'aperta battaglia. E però l'esultazione minacciosa e gli scherni di taluni tra' compagni guardavano con disdegno o con pietà, temendoli alla stretta della prova estrema ineguali. Altri si rammaricava dell'aver poco osato, altri del troppo; nè i primi erano i più coraggiosi: altri chiedevano consigli, altri più abbisognanti ne offrivano. Chi tentava il vicino per iscoprire in lui qualche segno di trepidazione che fosse scusa alla sua, e gli desse adito a sfogarla, o a temperarla vigore. Chi meno ebbe parte nella trama, non tanto perchè più timido s'aspetta peggio, quanto perchè sa, nei men forti quasi sempre riversarsi la tempesta dei casi. Tutti però, qual più qual meno, speravano nel timore del duca, e negli inesplicabili ma infallibili augurii della giornata; nè cercavano, come un tempo, dei servitori di lui per ammansarli o per conoscere il proprio destino; e questi, cercanti di loro con nuova affabilità, e' li accoglievano come se il duca prigione, essi in seggio.

Questa medesima sera che precedeva il dì di sant'Anna, nelle case degli Oricellai s'erano adunati i consorti di Antonio degli Adimari, e tutti que' della terza setta, con altri nuovi, chiamati in parte dell'opra. Tra i quali era Francesco Brunelleschi: a cui, veggendo le forze della città crescere, sempre più pareva diventar cittadino: nè egli della cagione del suo infervorarsi ben s'accorgeva. Agli adunati Cosimo Oricellai prese a dire:

- Cittadini, non tutti di voi sanno appieno le cose da noi ordinate per trarre la nostra repubblica di mano al tristo signore, del quale i misfatti non è necessità ch'io rammenti. Basta che, ne' dieci mesi di sua signoria e' s'appropriò quattrocentomila fiorin d'oro del nostro, senza quelli ch'e' trae dalle terre circostanti: col quale oro avremmo noi potuto innalzare e tempio maggiore di santa Reparata, e altri pubblici edifizii da chiamare sopra la nostra città le benedizioni del cielo e l'ammirazione del mondo. Tempo è oramai di sapere se il giglio rosso debba in perpetuo cedere il luogo al leone a oro; e se dal collo del leone debba pendere, quasi preda o trastullo, l'arme del popolo fiorentino. Quale sia l'animo de' più, e de' più ragguardevoli fra' cittadini, gli occhi e gli orecchi vel dicono. Siccome a' grandi e a' popolani ed al popolo minuto e' promise fallaci promesse, e popolani e grandi e popolo minuto stann'ora contro lui: e siccome e' fu creato signore della città e del contado, giusto è che l'oppressore della città e del contado sia dall'armi dei cittadini e dei contadini, insieme pronte, punito. Le antiche gare tacciano, o cittadini, per poco. Rammentatevi che sola la nostra grande discordia ci diede alle costui lorde mani. Sian tutte contro lo straniero le ire, e contro i satelliti suoi. E, pure tra gli stranieri, discerniamo i baroni e i contestabili al lor tristo uffizio repugnanti, da quelli i quali gustano a sorsi il vitupero: chè non ogni guarnacca stretta copre il petto d'un cavaliero sleale, nè ogni manica pendente a terra nasconde una mano artefice di viltà. Ma de' consiglieri e de' bargelli del duca, corrotti in ogni vizio, quello si faccia che sarà in piacere al Comune ed al popolo di Fiorenza. L'iniquo duca, su quella ringhiera dove sedette il dì di Nostra Donna, e ne scese oppressore nostro, su quella gioverà che riceva gli omaggi debiti a signore turpissimo. E prima che sperdere il tempo e i fiorini ed il senno in luminare e in falò, siccome facemmo allorchè creammo il tiranno (ed era degno auspizio di tirannia), meditiamo fin d'ora come sanare le piaghe dell'afflitta città; richiamare gli sbanditi e i rubelli; rendere i debiti, per cagione de' quali, altri (e nol dico a rimprovero) tolse in casa lo straniero vorace, sperando per sua soperchianza francarsene; rimettere in onore gli ordini antichi delle arti, i quali da' minuti artefici furono dimembrati per volere maggiori salarii, e non li ebbero. E poichè la comune calamità fece a ciascuno riconoscere i propri errori, facciam senno, carissimi cittadini; e la impresa nostra a Dio misericordioso e a Cristo liberatore e al Battista, della nostra città protettore validissimo, raccomandiamo.»

Presso la fine di queste parole era entrato Tile de' Benzi de' Cavicciuli, e postosi a sedere non lontano da Francesco Brunelleschi e da Filippo Bordoni. Finito ch'ebbe l'Oricellai, sorse il Bordoni, e traendo la spada, senza far parola s'avventò sopra Tile, il qual non trasse la sua. Ma il Brunelleschi ed altri tenendolo: «Che fai?» gridarono.

«Punisco un vil traditore, quello per la cui tristizia, o Adimari, il consorte vostro è in palagio.»

«Tile senza mutare nè viso nè voce disse: «Filippo, i' ti perdono, perchè tu se' ingannato.»

Ma il Brunelleschi intendendo la cagione dell'ira, e morso dalla coscienza, parlò: «Filippo, tu se' ingannato. Non Tile, ma uno masnadiere sanese noto a me, rivelò quello perchè l'Adimari è nelle mani del duca. Ad altro tempo ogni cosa ti sarà chiaro: ma questo io giuro dinanzi a tutti; e chieggo a voi, cittadini, che il capo di Tile sia salvo e onorato.»

E perchè tutti sapevano la forte e schietta e non loquace virtù di Tile, assentirono. Filippo, preso da subita fiducia e vergogna, gli tese la mano: ma Tile, la mano di lui posando sulla propria spalla, e le sue braccia stringendo al petto del Bordoni, l'abbracciò senza far motto: di che fu grande negli astanti la gioja.

Allora l'Oricellai ripigliò: «Cittadini, il pericolo stringe: e l'indugio d'un'ora può essere ruina. Domani innanzi all'alba, si farà nelle case de' Bardi adunata de' cittadini di tutti i sesti della città: questo i Bardi chiesero a me spontanei, pregando, che quanti io stimavo da ciò, convocassi. I capi di ciascuna via o setta (se sette sono) convengano; e, s'hanno fede nella fede nostra, si scoprano.»

Era già tarda la notte. Usciti delle case degli Oricellai, molti stettero vegliando e aspettando l'aurora.

Andavano taciti di contrada in contrada per cercar dagli amici, da' congiunti conforto ai dubbii, esca alle ire, alle speranze alimento. Ma dei dubbii rimaneva sol tanto quanto servisse a ispirare prudenza e modestia; e le ire, consentite da molti e rallegrate dalla speranza, si mutavano quasi in affetto. I sensi, più acuti che mai, recavano ad ogni momento nuove impressioni di sospetto; e ad ogni momento gli animi, ancor più acuti al bene desiderato, trovavano nuova cagion di sperare. Lo scalpitare ardito, il ciampeggiare sommesso, il picchiare piano alle porte, qualche mal compresso grido di dentro, il tintinnire dell'armi smosse, gli antiporti socchiusi, uomini sui veroni in atto di guardare e d'attendere; segnali di fuoco su Arno, segnali sui colli dintorno; e apparire e sparire di lumi che trapelavano dalle accostate finestre; dappertutto un commoversi pieno di vita e di minaccia.

I Francesi, usati in parte al brulichio delle notti estive fiorentine, poi stanchi dal lungo vegliare, poi rassicurati dagli ostaggi che avevano in palagio e dalla naturale spensieratezza e animosità, e rinvolti in quel velo di caligine che scende sugli occhi alla gente, condannata a perire, non s'addavano del pericolo. Solo il duca affacciandosi, e tendendo gli orecchi all'insolito bisbiglio, temeva; ma spaurito del proprio spavento come di malo augurio, non osava nè ad altri dirlo nè a sè, simile a fanciullo che chiude gli occhi e si rannicchia per paura.

I messi del vescovo circondavano non visti il palazzo, correvano la città, annunziavano ogni cosa a lui, pieno di fiducia inquieta. E' s'ingegnava in quell'impresa discernere la giustizia dalla vendetta; e delle due cose insieme attortigliate non sapeva come spegnere questa senza offendere quella. Pregava ad alta voce; e ogni tratto nuovi messi e dubbii nuovi, e nuovi alimenti all'ira interrompevano la preghiera; ed egli la rannodava da capo inginocchiandosi: e poi quando l'imagine dell'urgente pericolo gl'invadeva l'anima tutta quanta, allora, con la faccia china nelle palme, e' si perdeva quasi in un sogno affannoso, e se ne riscoteva a nuovi colloquii e a nuova preghiera. Chi dirà quante volte egli fu vincitore dell'odio suo, quante vinto? Chi dirà come gonfi, e dove franga, e in quanti sprazzi se ne vada ciascuna onda di mare in tempesta.

Fu picchiato sommessamente alla porta di molti conventi, e chiesta da uomini preparati a morire la confessione, il viatico, la benedizione dell'armi. Cenni degli Oricellai, ora frate Domenico, dalle finestre del chiostro ascoltava il confuso rumore delle voci, de' passi, dell'armi; e le antiche ire gli ribollivano, come lava freddata che si rinfiamma e scorre in rossi torrenti. Gioiva della imaginata vendetta, vedeva il carnefice di Naddo essere straziato da lunghe carneficine: e perchè la ingiuria propria gli pareva di tutte più rea, a quella avrebbe voluto che il duca morendo pensasse, a quella recasse, come a principal causa, la sua rovina. Anelava a pascere gli occhi negli occhi del tristo morente, a conficcargli nel cuore qualche parola apportatrice d'affanni intollerabili. Si vedeva rivestito dell'armi, ringiovanito nell'ira; e gli pareva avere dai proprii affanni acquistato diritto a aggravare fino alla disperazione gli altrui affanni. Nell'ebbrezza della fiera gioja esultava, misurando la cella, come tigre che si rigira nella gabbia ferrata, e di tanto in tanto scrolla con l'ugna le sbarre sonanti.

Mentr'egli agitava nell'anima questi pensieri, viene uno de' grandi, pronto a battaglia, a confessarsi a' suoi piedi. E detto che ebbe gli altri peccati, confessò gli odii che gli parevano inestricabili dalle speranze, e chiese consiglio come combattere con amore, come morire senza paura e senz'ira. A questa domanda il vecchio si riscosse, e interrompendo all'altro le parole: «Fratello, gli disse: a me chiedi consigli d'amore, a me, anima dall'odio ulcerata? Tu non sai i miei dolori: non sai quanti peccati furtivi, impotenti, vili, si vengono consumando nei segreti dello spirito mio. Io non son degno nè di consigliarti, nè d'udirti, nè d'alzare gli occhi a questo crocefisso che morì perdonando. Che vuoi tu ch'io ti dica? Di quale peccato poss'io riprenderti? Da quale proscioglierti? Io confesso innanzi a Dio e innanzi a te l'indegnità mia, e te prego, preghi per me ch'e' m'ascolti. Oh fratello, preghiamo insieme!»

Il vecchio s'inginocchiò accanto al guerriero armato, si chiuse il volto nelle mani, e singhiozzando gridava: «Perdonaci, come noi perdoniamo. - Noi perdoniamo», ripeteva, come per figgersi in mente il senso di quella dolce parola; e abbracciava l'inginocchiato al suo fianco, e piangeva. La canizie del frate, mista all'ondeggiante capigliera del giovane armato, implorava mercè da Dio, e l'otteneva. «Figliuol mio, disse riscosso a un tratto, così Dio assolva me com'io nel suo nome t'assolvo.» E dicendo, figliuolo, pensò all'unico suo, pensò all'uccisore di lui; e ambedue li congiunse in una ineffabile comprensione di carità.

Nelle case, chi traeva fuora le vecchie lance o balestre, chi le spade affilava. I fanciulli riscossi dal sonno domandavano senza paura il perchè del trambusto, e dell'ignota novità giubilavano. Altrove pregavasi a bassa voce devotamente: molti de' più animosi dormivano, e sognando battaglia, si risentivano ad ogni tratto.

Coloro stessi che prima non davano mente a ciò, in quella notte macchinavan trattati, e agli amici, già d'altra congiura partecipi, li esponevano. Andavano spontanei, e non consapevoli, a profferire ai congiurati l'opera loro; e questi allo sguardo, all'accento riconoscevano la franchezza dell'amica profferta. Gl'incerti e i timidi strascinava l'esempio; e coraggiosi li faceva la paura di tanto coraggio. Così nella mischia il temente, dalla calca sospinto, corre al pericolo con quant'impeto da lui fuggirebbe. Ma i tementi eran pochi: uno spirito nuovo li portava insieme con pari impeto tutti. Non pensavano nè alla sconfitta, nè alla vittoria; pensavano a combattere, come l'affamato s'avventa a mangiare. Del come, del perchè, dell'esito, non disputavano; e la semplicità dello scopo a cui miravano tutti, li faceva concordi. Delle donne stesse non molte temevano, molte confortavano di parole e d'amplesso i lor cari: un solo pericolo stava nelle menti di tutti, il pericolo del Comune.

Sole le innamorate del soldato straniero tremavano: e qual piangeva celatamente, quale sconsigliava il marito o il padre dal combattere; quale confessava gli adùlteri amori, forsennatamente disperata. Quella dura notte scontò quante mai gioje, o infelici, provaste nei brevi colloquii e nei lungamente desiderati e temuti abbracciamenti. E alle più di loro il pericolo del capo amato apportò maggiore ambascia che non facesse la perdita; e più piansero temendoli che sentendoli uccisi.

Siccome agli oppressi da grave malattia un punto che varchino è morte o salute; così quella notte agitava i tuoi destini, o diletta città. Una subita pioggia, un incendio, una falsa novella, eran forse sufficienti ad allentare quell'impeto: ma le stelle del cielo, quasi guerrieri armati in ischiera, vegliavano, Fiorenza, su te. I Santi nati e cresciuti nel tuo dolce seno ti guardavano dall'alto pregando; e ai tuoi passati mali, e ai mali e alle vergogne avvenire questa gloriosa tregua, questa espiazione memoranda impetravano. A te, gentile atomo della terrena polvere, popolato d'anime e di memorie immortali, conservatore d'un'immortale parola, a te gli spiriti del cielo congioivano di questo, ahi troppo breve, trionfo. O città de' miei desiderii, poichè non tu per la mia parola, possa la mia parola essere illustre per te; e i Fiorentini che di qui ad età molte, più pii e più fortunati, vivranno, sentire che amor di fratello moveva il mio canto, e con amore fraterno ridire il povero nome mio.

Dopo la mezzanotte, quando il rumore dei passi, il bisbiglio delle voci, il cigolio delle porte, e quell'indistinto susurro che annunzia un agitarsi insolito di anime umane fu queto; s'udì, dopo la mezzanotte, un picchio sommesso alla porta delle case degli Adimari, il qual riscosse Matilde, che, stanca del piangere, giaceva sul letto trasognata. La scosse come suono amico, aspettato: ond'ella balzando, scese animosa, ansiosa, quasi lieta, ad aprire, come se corresse a rincontro del padre. Gli era Cosimo Oricellai, che tra l'uno colloquio e l'altro, sacri alla salute della città, si ricordò del dolore della fanciulla e delle raccomandazioni d'Antonio: e abbracciate, forse (pensava) per l'ultima volta, le figliuole proprie, veniva a lei.

Nel vederlo, Matilde, che lo conosceva buono ed amico, e che voleva di tutta forza sperare, prima ancora di aprirgli la porta socchiusa:

«Egli viene!» esclamò, come persona che crede già vero quel che domanda. Ma il silenzio di Cosimo, e l'entrare sommesso, e il chiudere sollecito, e il prenderla pietosamente per mano, la fece dalla lieta fiducia trabalzare a certezza disperata; onde, coprendosi il viso con le palme, e il viso e la persona chinando verso terra:

«Egli è morto!» esclamò singhiozzando.

Allora non fu difficile al buono uomo riconfortarla, dicendo che il suo padre viveva, tuttavia nel palagio, ma che la città tutta s'armava per trarnelo.

«Quand'udrai domani Fiorenza levata a rumore, tu non aver paura, Matilde; ma pensa che quella è la libertà di tuo padre.

- E se l'uccidono intanto?

- Non oseranno.

- Lo scoppiar del tumulto affretterà la sua fine. Che importano a me l'ire vostre, se mio padre muore?

«Morire!» esclamava, e le pareva non intendere bene il senso di quella parola; e la ripeteva gridando senza lacrime.

«No, vi dico, Matilde: la paura li terrà dall'ucciderlo.

- Oh no, non l'uccideranno. Non è possibile ch'egli muoja; non è possibile che io non l'abbia a vedere mai....» E quest'ultima voce ripeteva piangendo.

«Sì, lo vedrete, figliuola mia.

- Lo vedrò! Perchè dunque non dirmelo al primo venire? Lo vedrò? promettetelo.»

E perch'egli taceva: «Accertatemi ch'egli vivrà.

- Che poss'io? salvo che promettervi ajuto a scamparlo, e, se altro accade, vendetta?

- E che mi fa a me la vostra vendetta? I' vo' mio padre. Che mi fa a me ch'altri sia ucciso dopo lui o per lui?»

Allora un altro pensiero le balenò nella mente, e la trafisse come doppio rimorso. E domandò:

«Credete voi che zuffa segua?

- Seguirà: e i nemici della città nostra sentiranno alla fine quanto caro costi l'oltraggio.

- I nemici? Ma non tutti sono nemici i....» Non osò dire i Francesi: e arrossì. Voleva pensare al padre solamente, e non poteva; voleva parlar di Rinaldo, e non osava. S'assise guardando Cosimo con occhi supplichevoli, quasi lo pregasse d'intendere la sua secreta preghiera. E perchè quegli taceva, ed ella ripeteva, come uscita del senno: «I nemici!» Poi riscuotendosi a un tratto: «Deh non sia; non m'aggiungete dolore a dolore. Voi sapete, signore, di chi parl'io; non me lo uccidete: egli non ha l'anima di Francese.»

Cosimo impietosito, per rassicurarla rispose: «Il conte d'Altavilla non vorrà combattere contro noi.

- Ma se volesse?

- Oh fanciulla, tu vuoi di forza ch'io vinca i tuoi timori; e a' conforti miei non dai retta. Poss'io piegare a tua voglia i casi e gli animi altrui? Volgiti a Dio, pensa a messere Antonio degli Adimari tuo padre. Egli mi ti ha raccomandata nel partire, ti consolassi, ti tenessi vece di lui.

- Vece? Egli pensa dunque a morire? Oh dite ogni cosa; fate ch'io sappia s'io sono orfana o no. Non venite a mescermi a goccia a goccia il terrore e la morte. Come sono crudeli gli uomini! E che vi ho fatt'io?

- Figliuola mia, i' ti perdono, perchè tu se' addolorata; ma credi tu che gli altri non abbiano anch'eglino i suoi dolori? Nel mezzo della notte, nell'ora del pericolo, poche ore forse innanzi di morire, io lascio le figliuole e la moglie mia; e hanno anch'esse le mie figliuole, e lagrime negli occhi e parole di rimprovero disperato: le lascio per venire a veder te, per amore del buono messere Antonio tuo padre, per compassione della tua desolata giovanezza; e tu così mi ricevi? Poich'io ti sono, e voglio esserti padre, perchè non hai viscere di figliuola tu verso di me? Oh mia Matilde, raccomandati, raccomandaci a Dio, ci soccorra, c'insegni a vivere da uomini e da cristiani a morire.»

Ella lo abbracciava senza parola; e l'Oricellai seguitava:

«Di me non so quel che Dio abbia destinato. Forse quando tuo padre correrà negli abbracciamenti tuoi, io giacerò cadavere nella vicina via. Se mai, le mie figliuole a te raccomando, come tuo padre ti ha raccomandata a me: sii loro amica, e col buono esempio le illumina, e coll'amor tuo le consola: parla ad esse di me, e delle dipartenze di questa notte, quando gl'impeti dell'angoscia siano allentati, quando si può con lagrime dolci e tranquille parlare di quelli che sono morti. Ma le mie parole, o infelice, ti sconsolano; e a questo non sono venuto io qui. Vinceremo, Matilde. Tu sentirai da lontano scalpitare il cavallo che ti riporterà libero il padre, e me vedrai di lontano correre alle mie case giubilando; e poi le giostre e le danze e le preghiere della vittoria, e poi queta e franca e civile la vita.

- Ma Rinaldo!

- Ben mi rammenti, o figliuola, che ancora non è passato il pericolo. Tu del vicino agitarsi non sbigottire; i miei ti difenderanno, e ti difenderà, meglio d'ogni cosa, la stretta in cui saran posti i nemici.

- Potess'io combattere!

- Prega.

- Oh sì, per il padre insieme e per voi.

- Buona Matilde! Tu se' la figliuola mia, non è egli vero? Chiamami dunque padre.»

E mentr'egli la baciava in fronte, Matilde, abbassando il viso, lo chiamava col nome di padre. E pur tuttavia la speranza, come il più leggiero degli affetti, galleggiava sull'anima di lei: al che le giovava non conoscere il duca, nè le vie lunghe e segrete della sventura, e il credere con tutta l'anima in Dio.

Consolato dell'aver consolata un'anima, l'Oricellai moveva Oltrarno verso le case dei Bardi, che l'alba appena vinceva le stelle: e gli uccelletti la chiamavano con ancora sommessi e radi canti; e il vento piegava le cime degli alberi che pareva se ne lamentassero con basso stormire. E' fermò un poco il passo sul ponte di Santa-Trinita, e guardò al fiume pensando: «Oggi forse uscirai fuor di porta tinto di sangue: forse me pure voltolerai fra' tuoi sassi; poi, stanco della preda, mi lascerai sotto qualche macchia di Valdarno. E chi sa quanti ch'ora dormono, o vegliano sognando vendetta, stassera dormiranno sopra un letto di carne umana e di sangue!» Volse il viso alle sue case, pensò alle figliuole e alla moglie; e guardando il cielo: «Signore, disse, a voi raccomando loro e l'anima mia. Fate che il mio corpo non sia strazio de' cani stranieri, ma posi onorevole nel sepolcro de' miei antichi.» E seguitava la via a capo chino: poi, volgendosi ad un rumore, gli venne guardato il tempio di Santa Reparata, e disse tra sè: «Oh se l'Acciaiuoli fosse con noi, quanta forza verrebbe alle nostre armi dalla sua croce! E' si stette sempre in disparte, quasi animale nè timido nè audace, ma astuto: e non come volpe foresta che dà a divedere l'astuzia, ma come gatto domestico e quietone, che aspetta il momento di spiegar l'ugna, e il quando non sa. Tanti vescovi trovò favoreggiatori l'iniquo, e la misera città nostra non avrà il suo per sè!» Così pensando entrava alle case de' Bardi, dov'erano già radunati, o venivano mano mano, molti de' Rossi, e de' Frescobaldi, Vieri degli Scali; poi parecchi della seconda e della terza congiura. Seduti ch'e' furono, Andrea di Filippo de' Bardi incominciò:

«Cittadini e fratelli, poichè l'estremo pericolo minaccia la patria, noi senza molte parole v'annunziamo essere pronti ad opporgli i petti nostri; noi Bardi e consorti, Frescobaldi e consorti, Rossi e consorti, gli Scali ed altri; tutti d'una setta e d'uno animo. E voi all'opera fraterna invitiamo; e con voi facciamo comuni le armi, l'amore, la gloria, la morte.»

E Tile de' Benzi de' Cavicciuli levatosi, disse così: «Noi vi rendiamo grazie, o cittadini e fratelli, della profferta vostra, e di buono animo l'accettiamo: e io, col consentimento di quelli della mia setta, fo manifesto a voi come in altra parte della città gli animi erano all'impresa medesima apparecchiati; i Donati, i Pazzi, parecchi degli Albizzi, io parlante, e molti de' miei. Che se, giorni fa, interrogato da voi, messere Filippo Bordoni, io tacqui, fu per serbare il giuramento dato alla mia setta sopra i sacrosanti vangeli.»

Filippo Bordoni, tra lieto e vergognoso (ma la gioja e la maraviglia vincevano), s'alzò; e voltosi a Tile in atto fraterno: «E io a messer Tile, onorevole cittadino, chieggo, innanzi a questi spettabili uomini e innanzi a Dio, perdonanza dell'avergli fatt'onta; e di qualsiasi ammenda a lui ed a voi piaccia imporre alla mia subita diffidenza, sarò contento e onorato. Poi debbo, in nome della mia setta (a queste parole corse per gli astanti un mormorio di maraviglia ineffabilmente lieta; e si guardarono tutti in viso, come gente che, stata sotto maschere, si scoprano, e si riconoscano amici desiderati); debbo in nome della mia setta, della quale era capo messere Antonio degli Adimari, e ora sono Simone e gli altri consorti suoi, alla quale appartengono e gli Oricellai e altri molti (non dico de' Medici paurosi che qui non vedete, e degli Aldobrandini, de' quali i più fuggirono all'ombra di qualche foresta o nel campanile di qualche badia); debbo in nome della mia setta, alla quale altre parecchie si sono unanimamente congiunte, con artigiani, e popolo minuto, e stranieri, buona gente tutti, rendere grazie, o messere Andrea di Filippo de' Bardi, a cotesta spontanea significazione delle vostre volontà, alla quale acconsentiamo, e promettiamo comuni con voi le forze e gl'intendimenti nostri.»

Allora messere Agnolo Frescobaldi parlò in questo modo: «Il vecchio nostro zio, priore di Sa' Iacopo, o cittadini, saputo che ebbe della nostra impresa, volle esserne partecipe anch'egli: e disse, tra i più santi uffizii del ministro di Dio essere questo di difendere da ogni reo la città nella quale Iddio lo fece nascere, e il fonte del suo battesimo. Ond'egli da più giorni va seminando nel popolo: e già molta messe è matura. Ma perchè l'uffizio suo lo tiene altrove a quest'ora, comandò a me vi facessi noto il suo animo ed alla impresa v'incuorassi, e vi pregassi per lo nome di Dio, deponghiate ogni ingiuria e malevolenza, e siate tutti un cuore ed un braccio. Al qual fine, celebrando la messa d'ieri, il venerabile vecchio posò sull'altare queste due spade che qui vedete; e dinanzi al santissimo corpo di Cristo le benedisse; e a que' due le destinò che, nemici o avversarii, in questo consesso primi si abbracciassero in abbracciamento di pace.»

Dopo le quali parole Corso d'Amerigo Donati si levò, e andando a Giramonte Frescobaldi con quell'empito che altra volta l'avrebbe cercato per forargli il costato, lo abbracciò strettamente; e ad un punto entrambi proferirono la parola fratello. Della qual cosa Antonio degli Albizzi lieto, tolse le due spade, e portele a loro, esclamò:

«Queste spade sull'altare di Dio consacrate, e ministre d'amore, siano senz'odio e senza paura adoprate contro i nemici nostri. E tu, Bindo de' Pazzi, prenditi in quella vece la spada che Giramonte de' Frescobaldi portava; e tu, Piero de' Bardi, quella di Corso Donati.»

Filippo Brunelleschi si stava confuso in un canto, e voleva pure consumare un duro sacrifizio, a che era venuto: ma la vergogna, e parte il timore, ne lo ratteneva. Alla fine, fatto animo (e come peccatore ipocrita che deliberi svestirsi l'uomo reo, e rivelare al confessore le sue brutture), parlò:

«Cittadini, io vengo, fidato nella magnanimità vostra, e più nel mio pentimento, a confessarvi un peccato che mi fa insopportabile l'aspetto vostro e del sole, e la vita. Pregovi non vogliate interrompere le mie parole.» (Ciascuna di quelle parole era come ferita che un ferro scanalato gli aprisse nel petto: ma più andava egli, e più si sentiva alleggerito; e quanto spregevole agli occhi degli uomini, tanto meno indegno si faceva ai proprii e di Dio.) «Messere Filippo Bordoni, jernotte, io vi dissi che non già Tile ma un Senese, masnadiere de' miei, ebbe al duca rivelato il trattato. Ora vi dico che quel masnadiere io condussi al palagio. Temetti, codesta non fosse insidia di Gualtieri per tentarmi; e l'antico odio contro gli Adimari, confesso, mi vinse. Potrei recarvi cagioni da alleviare il mio fallo; ma sarebbero del fallo più ree. D'ogni qualsiasi pena io mi sento meritevole: chè nessuna m'è più terribile del mio rimorso. Or tutto me nelle mani vostre abbandono. Ma se non credete la mia miserabile vita indegna che sia spesa per la nobile patria da me vituperata, questa grazia, cittadini, vi chieggo: e il corpo mio, dalle spade francesi straziato o monco, siccome leal debitore, alla vostra giustizia renderò.»

Tutti tacquero. Nessuno osava rimproverarlo, nessuno difenderlo. Moveva a maraviglia il tradimento; la confessione del tradimento a non minor maraviglia. A tutti pareva non si sarebbero lasciati ire così basso: a nessuno pareva ch'e' si sarebbe potuto levare a sì ardua umiliazione. Tacevano, pensando al pericolo corso e al da correre, all'Adimari prigione, alle calamità della patria. Ma ne' più giovani potendo più il disprezzo del male che la stima del bene, l'ira a poco a poco cominciò a ribollire: e Filippo Bordoni parlò, sommesso in prima e quasi vergognoso, poi tanto più s'accendeva quanto più sentiva i rimproveri essere importuni e crudeli.

«Dunque per lui poco stette ch'io non mettessi le mani nella vita d'un onorevole cittadino!

- Per lui, soggiunse Bindo de' Pazzi, Antonio degli Adimari sarà preda al lupo d'Assisi!»

E il Bordoni: «Per costui tante congiurazioni, tanto faticosamente condotte, e con tanto duro sacrifizio degli odii fraterni, sarebbero cadute a vuoto!

- E forse sono: rincalzò il Pazzi infuriando. Ah se mai l'empio straniero dovesse dissetar la sua rabbia con nuovo sangue, io spero almeno che Dio ci lascerà libero il braccio tanto da fare vendetta del costui tradimento.»

Allora il Brunelleschi accostandosi al Pazzi senz'audacia e senza paura: «Le ire vostre, gli disse, non temo, nè i ferri: ma l'infamia, e la coscienza mia temo. Se credete me vittima necessaria, eccomi. Nè fuggirò cotesta spada; e son venuto qui senz'armi ad affrontarla, e, più pungenti d'ogni spada, gli sguardi e il silenzio degl'incolpabili cittadini che sono qui. Se aver confessato il peccato, se chiedere d'espiarlo non basta; che altro volete da me?

- Che tu taccia (gridò imbestialito il Pazzi), e tolga a noi il malo augurio dell'aspetto tuo. Se per confessioni e per tarde ammende si potessero lavar, come cenci, i tradimenti, l'arte del traditore sarebbe tra tutte più facile e più gloriosa.»

Antonio degli Albizzi non potendo patire tanta durezza: «Messer Bindo, disse, vo' sete giovane, e le ire vi abondano sopra la pietà, perchè non sapete ancora nè le difficoltà della vita nè i pericoli della virtù. Io qui non entro difensore di Francesco Brunelleschi, nè egli vorrebbe: ma dico a voi, messer Bindo, che preghiate Iddio caldamente, vi guardi dalle tentazioni del male; perchè l'uomo è debole e cieco, e il suo domani non sa.

- Sere Antonio, rispose superbamente il giovanetto, mi credereste voi anima già fradicia e già disposta a viltà?

- Io vi credo un'anima umana. E se uomo siete, piangete gli errori degli uomini, e non vogliate incrudelire in colpa che Iddio forse ha già perdonata.

- Fratelli, non siamo più severi di Dio.» Questa voce uscì d'una stanza vicina, e parve venire dall'alto. Poi l'uscio s'aperse, e l'Acciaiuoli apparve, il vescovo di Fiorenza. Tutti assorsero (confortati e parte maravigliati a quell'aspetto): e si fece silenzio.

«Altra impresa, cominciò il vescovo, abbiamo alle mani, che gastigare i fratelli nostri pentiti; ed è male, mentre che gli odii antichi si spengono, attizzare odii nuovi. Correggiamo i difetti nostri, o carissimi cittadini, prima che fulminare gli altrui; abbiamo tra noi carità, acciocchè piacciamo all'Altissimo. Noi siam qui per riprendere di forza la potestà che il duca d'Atene ha con tradimento usurpata sopra il Comune e popolo di Fiorenza: e a voi più che a me sono chiare le cagioni perchè ci è forza ribellarci dalla costui signoria. Sola una io aggiungerò, che più s'appartiene al mio ministero: gli scandali de' quali costoro ingombrano la Chiesa di Dio e 'l disprezzo in cui tengono le cose sante. Già questo è antico vezzo della casa di Francia, sotto colore di proteggere Chiesa Santa e i pastori di lei, quella porre a mercato e fare prostituta, questi rubare e avvilire. E sapete quello che il nostro poeta Dante cantò della mala pianta che la terra cristiana tutta aduggia. Gli strazii che di Bonifazio, amico e nemico, e poi di Clemente, furono fatti, son tuttavia fresca cosa: e duca Gualtieri dimostra anima e ingegno accomodati a seguire i turpi esempi de' suoi. Non mandò egli al papa per licenza di disfare tre nostre chiese, a fine di meglio munire e d'ampliar la sua tana? Buon per noi che da Roma non gli fu consentito: ma da lui non mancò. Adunque ogni divina legge ed umana ci persuade a ribellione contro cotesto iniquo uomo: al che, Fiorentini, certo non vi bisognano incitamenti. Or vediamo de' modi.»

L'Oricellai disse: «Io propongo, se a voi parrà, che qui da Oltrarno i Bardi e i Frescobaldi sieno conduttori d'ogni difesa ed assalto; dalla nostra banda, quest'onore si renda, per Antonio degli Adimari, a' consorti suoi, ch'eglino siano capi de' cinque sesti.»

E tutti assentirono. Iacopo de' Bardi allora:

«I popolani, per contrade, si ridurranno ciascuno a' suoi gonfaloni. Sarà nostra cura abbarrare i capi de' ponti, acciocchè, se tutta la terra di là (che non sia) si perdesse, possiamo tenerci francamente di qua.»

E Simone Adimari: «Tutta sarà similmente abbarrata la città ad ogni capo di vie, sì che debba il nemico, prima di correre una strada, assalire più ripari, e combattere ad ogni passo, e snidarci, se può, di serraglio in serraglio.»

Qui l'Oricellai: «Il tempo stringe. L'ora del movere?»

E l'Albizzi: «Sonato nona, quando i lavoranti escono delle botteghe, si levi rumore, e s'assalga il palagio.

- Bene sta (concordarono tutti): sonato nona.»

Allora Bindo de' Pazzi con aria grave: «Una cosa rimane a risolvere; chè non tutti siamo intorno a ciò d'un avviso. Vuolsi egli togliere all'uomo pure la signoria, ovvero, la vita?

- Giovanetto (parlò il frate vescovo con atto d'amore che all'altro fece dispetto), finchè l'uccello è su per le tetta, non pensare al modo del cuocerlo. Di ciò terremo disputa poi. D'una cosa vi prego, cittadini: sia franca e leale e pia, quanto potete, la guerra. I nemici vostri tale non la faranno; ma voi non pigliate esempio da gente, i cui tristi esempi siete chiamati a punire.»

Taciuto un poco, riprese: «E qui un duro uffizio mi resta a compire: e perch'io possa compirlo efficacemente, all'amor vostro, fratelli, mi raccomando. Abbiamo di Siena, di Perugia e d'altrove promesse d'ajuti; ajuti avremo da Pisa, e saranno debiti al buono zelo de' Frescobaldi, e de' Bardi nelle cui case siamo. Ma io non posso tacere a questi onorevoli cittadini, che l'aver loro chiamato in nome proprio, e non del Comune, il soccorso di gente a noi non amica, e confederata al traditore, turbò forte taluni della città nostra. A torto, ben so: ma nell'ora del pericolo giova che sia cansata pure l'occasion del sospetto. Onde per l'amore della comune patria vi supplico, o buoni cittadini, vogliate provvedere che scandalo di ciò non segua.

- Non seguirà, disse Andrea di Filippo de' Bardi. E se i Frescobaldi consentono (Agnolo e i suoi accennarono di sì), noi siam pronti a rimandare indietro i sospettati sussidii.

- E Iddio (così il vescovo) vi renderà premio della generosità vostra, e vi darà più netta e più facile la vittoria. Perchè non ne' molti cavalli e non ne' molti cavalieri è la vittoria, figliuoli, ma nel nome di Dio. Or ogni cosa mi pare fermato: non altro resta che pregare al Signore, e giurarci nel nome suo.»

Il vescovo s'inginocchiò, e tutti seco. E disse questa preghiera: «Dio degli eserciti, unico Signore de' popoli, dispensatore della libertà, della servitù e della vita e della morte; noi figliuoli vostri, prostrati con l'anima innanzi a voi, pieni d'amore ai fratelli e ai nemici nostri, vi supplichiamo per la salute e per la libertà del vostro diletto popolo di Fiorenza. Se le vite e le cose nostre più care a voi piace ricevere in cambio dell'inestimabile dono, ecco, o Dio, le offeriamo. Fate che nel combattere l'ingiustizia perdoniamo agl'ingiusti; che tanto solo degli iniqui sgombriamo, quanto bisogna a respirare pura l'aria di libertà, nella quale fummo nati e cresciuti; fate che nessuno atto o pensiero di crudeltà o di licenza contamini il sacrifizio di sangue; e che della battaglia usciamo, o alle nostre case o al tribunale vostro, puri siccome dal santo battesimo. Dio degli eserciti, Signore de' popoli, raccomandiamo a voi le anime nostre, e la salute e la libertà del vostro diletto popolo di Fiorenza.»

Poi levandosi: «Fratelli, giurate, e ripetete a parola quel ch'io dirò. Poichè qui non abbiamo nè l'Ostia santa nè i santi evangeli, giurate sulle spade.»

Incrociarono le spade, e in mezzo a quelle ritto il vescovo, sovrastante a tutti del capo, e posta la mano sul suo povero crocefisso di bronzo, dettò il sacramento:

«Nel nome di Dio e di Maria, per il sangue di Cristo, nella presenza di tutti gli spiriti del cielo, giuriamo combattere con umile amore e con leale coraggio per la libertà della nostra repubblica, fino alla morte.»

Chi ripetè le parole a bassa voce, chi ad alta. I più vecchi, e de' giovani i più veramente arditi, dissero sommessamente: Bindo de' Pazzi, a cui sola una pareva poco, due volte ridisse: «Fino alla morte.»

L'Acciaiuoli: «Ora, figliuoli, prima d'uscire, abbracciatevi.»

S'abbracciarono: ma tutti fuggivano l'amplesso di Francesco Brunelleschi: il che vedendo il vescovo, gli stese le braccia in atto pietoso e quasi riverente. Ma Francesco, vinto da tenerezza e da vergogna, presagli quasi tremante la mano, gli si gettò a' piedi, e: «Padre, la vostra benedizione.» E seguitava: «Lavatemi dal peccato dell'infamia: io sono pentito. Iddio legge nell'anima mia.

- E Iddio nella mia (rispose il vescovo): e sa con qual cuore io vi raccolga e vi benedica.»

Lo raccolse da terra, e volle con dolce forza abbracciarlo. I due più giovani, tra la vergogna e il dispetto, erano usciti: ma gli altri gli apersero le braccia tutti, e taluni con affetto quasi d'amore indarno represso. Allora il Brunelleschi sentì più cocente che mai la vergogna: chè più gli altri gl'indulgevano, e meno e' perdonava a sè stesso. E allora l'anima sua veramente incominciò a ricrearsi.

Quella mattina, Ippolito, figliuolo di Giulio d'Assisi bargello, leggiadro giovanetto ma degno del padre, entrava di Lungarno in Terma alla Lucia Buondelmonti, presa di lui. Amorosa e delicata donna; sulla quale il lume della già casta e or fuggente gioventù, raccolto in quelle quasi ultime ore del dì femminile, dava più vivo e più ardente che mai: quando l'amore sente e pensa sè stesso, e il timore del non essere assai piacente lo fa più modesto e più sollecito: quando la gioja dell'esser piacente tuttavia diffonde negli atti una grazia contenta, e avviva il dolce pallore del viso d'un dolce foco che rinvergina la bellezza. Rinvergina la bellezza, ma fa parere più amaro il momento quando la dolorosa s'accorge che il tempo è mutato, e che di più giovani vite s'infiora la terra.

La famigliarità del duca e de' suoi con parecchi de' Buondelmonti, aperse al giovane l'adito in quelle case; chè tutti i servitori di Gualtieri, seguendo la natura entrante dei Francesi, s'insinuavano in ogni parte; e qual donna non potevano con gli sporchi abbracciamenti, con l'alito della calunnia contaminavano: la calunnia, alle donne antica tiranna e persuaditrice di male. Nè già in un tratto, ma a poco a poco, e a suo dispetto quasi, s'era accesa Lucia del giovane fello, che amoroso in sul primo, poi spensierato e insolente e rozzo e crudele, esercitava spesso nell'anima di lei il tristo ministero paterno. E' l'amava, ma al modo che le fiere amano; con barbara gioja di possedere una bella e molto desiderabile cosa, e poterne fare il piacer suo, e farla a un cenno piangere e sorridere, e tingerla di peccato. E significava l'amore con lunghi sguardi feroci, e con violenti abbracciari; e con quanti modi offendono il pudore di donna già vinta ma buona. Ella lo amava come devota a fatale necessità: e in lui cercava (e le pareva ritrovare) la bontà natia, soppressa dagli abiti ormai invecchiati nell'anima, quanto più tenera tanto men potente del vincerli. E sperava potere grado grado temperare quella ferocia; e talvolta le veniva fatto, perchè qualche suo cittadino scampò per lei all'esilio o alla morte. Questi rari beni, e coll'onta propria comprati, le parevano scusa dell'onta.

Venne quella mattina Ippolito, che la donna l'aspettava con angoscioso desiderio: e come lo vide:

«Quali novelle?

- Nessuna.

- Nessun timore?

- Di che? Dugento ostaggi abbiamo in palagio: e se la città si commove, i galli non uscirebbero vivi di stia.

- Deh non dire. Il duca signor tuo, nol farà. Non oserebbe tanto.

- E chi ne lo tiene?

- Tu nel terresti, Ippolito: non è egli vero? Dimmi che sì; dammi questa consolazione, a me afflitta tanto.

- E chi ti dice d'affliggerti, e andare braccando i dolori? Che fa egli a te se una coppia o un centinajo di questi Fiorentinelli ciecacci reciono l'anima?

- Or non son io Fiorentina?

- I tuoi son col duca: e chi è col duca, è egli più Fiorentino?

- Deh non mi dire così dure parole. Dove le trovi tu? Io non le saprei imaginare nemmeno. Perchè sì crudele, o giovanetto, in tanta bellezza?

- Non mi parlar di bellezza; tu mi fai stizzire, già sai. Tu sì, tu se' bella, o Lucia.

E l'afferrava quasi furibondo, e baciava. Ed ella umiliata: «Ma se i Buondelmonti non fossero co' tuoi; se mio padre dovesse cadere sotto la giustizia del duca?

- Perchè non di', tuo marito?

- Oh taci per pietà!

- Se tuo padre avess'a essere giustiziato dal mio? Buon per te non sia 'l caso. Io non so in verità, che resterebbe a fare.

- Ah se tu mi domandassi che fare' io per tuo padre posto in pericolo; Ippolito, non t'avrei risposto così.

- A che parlar di pericoli? Lasciami in pace. Troppo coteste parole mi tempestano gli orecchi, come quadrella fischianti fra il tripudio della danza.

- No, tu non m'ami, Ippolito: mai una parola cortese, mai uno sguardo pietoso.

- Ma no, in fede mia, tu non mi metti punto pietà. Desiderio, sì, Lucia: desiderio per Dio, quale.... Ma non tel vo' dire. È viltà lasciar fuggire tutta l'anima in un bacio di donna. L'uomo non è nato a cotesto.

- E a che è egli nato?

- A comandare sui nati a servire; a solcar con l'aratro la terra che dà la messe, e più affondare il vomero dove la terra più cede.

- Ma se il vomero si rompe? Temi, giovanetto: Fiorenza è terreno mal fermo.

- Che di' tu, donna? Tu hai un segreto nell'anima. Parla.

- Io no: ma i presentimenti di donna son vaticinii.

- Se mi celassi....

- Tu mi denunzii, o m'uccidi.»

In così dire, Lucia lo abbracciò, e baciò in fronte d'un bacio quasi puro. Egli, confuso, e parte commosso, partendole sulla fronte i capelli, e per la prima volta contemplando quella fronte serena, indice d'uno spazioso intendere e d'un candido amare,

«Lucia, le disse, guardandola fiso e quasi ammirato, Lucia, tu se' buona! Quant'anni ha' tu?

- Trentadue.

- E io diciotto. E' torna per l'appunto: e tu mi potresti essere madre.

- Tu ti fai giuoco di me. Or bene, io ti sarò madre. Promettimi, o mio giovanetto, che se il pericolo sopravviene, tu fuggirai qui da me.

- No, il luogo mio è presso al duca.

- Ma non usciresti a combattere?

- Non è il mestier mio cotesto.

- E qual è il tuo mestiere?» disse soprapensiero la donna: poi ravvedendosi, volle rinvolgere la parola, già volata, in un bacio: ma il giovane ferito, la respinse con un «Eh lasciami»; e uscì. Ella rimase a piangere.

Al tocco di nona fu un gran rumore in porta San Piero. Un fattore di bottega s'era messo a gridare al fattore vicino in mezzo la via: «E i' ti dico che noi non siamo più Fiorentini, ma Francesi, dacchè Francese è il signore nostro: e chi si dice Fiorentino, è nemico della città.

- Oh chi lo nega! gridava l'altro a tutta voce. No' siamo Francesi, lo so.»

E il primo: «Tu ti fai beffe di me; ma tu non di' quel che tu pensi, e tu menti per la gola.»

E l'altro: «E io dico che Fiorenza non è più Fiorenza, e che tu se' un villano uomo, e la feccia di porta San Piero.»

Il popolo si radunava da tutte le parti.

Più giù da Mercato vecchio due ribaldi s'azzuffarono per questa cagione: «A te duole il caro del vino: e io dico a te che il vino quand'è caro, si cionca meglio, e meglio accosta, e dà meno al capo, e fa più a bell'agio pensare alle misericordie del duca signore nostro.»

E l'altro ribaldo: «Chi nega le misericordie del duca? Tristo che tu se'; tu mi vuo' mettere a capelli con sere Giulio d'Assisi: ma io mi vo' prima accapigliare un po' teco.»

E s'acciuffavano, e si voltolavano nel rigagnolo. La gente accorreva.

Quand'ecco un grido all'armi! uscir d'una casa vicina, poi dall'opposta contrada, lontano, un altro grido, e altri da tutte le bande; e la città ne fu piena, come del suono d'una campana in notte tranquilla. Chi aveva già chiuse le botteghe, e ripeteva all'armi! correndo; chi s'avacciava a chiudere: gli operai studiavano il passo, ciascuno verso la contrada propria: e già vedevasi qualche drappello a cavallo o a piedi correre la terra a furore. Que' dalle vie chiamavano i compagni dalle case, scendessero. Le grida si mescolavan per l'aria, come strali in dì di battaglia. Delle case de' nobili e de' popolani, e fin delle umili casupole uscivano spiegate le bandiere dell'arme del popolo: croce vermiglia in campo bianco, quali col rastrello del re, quali senza. Poi 'l giglio rosso. Le bandiere del duca, buttate dalle finestre, la ragazzaglia strascinava per la mota e nel sangue delle beccherie; e gridavano: «Muoja il duca e' suoi seguaci! viva il popolo e Comune di Fiorenza!» Le donne dalle finestre viva ripetevano e muoja; e gittavano chi al marito chi al padre una bandiera o una lancia. Altre inginocchiate a pregare, interrompevano per affacciarsi a gridare: muoja. Le vie in un momento furono fitte di gente, come formiche che s'affaccendino al venir della pioggia. Più dolce pareva a tutti l'eco della battaglia che il sorriso de' figliuoli e il sedersi al foco nel verno. Siccome la fiamma che, già più anni, appiccata da uno degli Abati, si stese impetuosa nel cuore della città, e arse i palagi, le torri, il tesoro, la mercatanzia, così fece (ma a salute di Fiorenza) quell'impeto di guerra che da Santa Croce volò a San Friano, quasi portato dal vento. E già, ciascuno sotto il gonfalone di sua contrada, tutti erano in ordinanza; e sotto il peso dell'armi andavano leggieri come sotto il sajo cittadino; sebbene operai o mercanti, già dotti con le tese lance a rompere gli usberghi nemici.

Gli Adimari, che molti erano, pe' cinque sesti correvano cavalcando a ordinare le difese e gli assalti: degli altri congiurati ciascuno provvedeva alla contrada sua. I Medici erano anch'essi usciti di sotterra; parte mossi da vergogna, parte per voglia di vendicare Giovanni consorte loro, un anno fa giudicato a morte dal duca (chè le proprie offese, al più de' ricchi e de' grandi dolevano, non le altrui). Dico che i Medici, già timidi, ora si mostravano baldanzosi; e chi del volgo badava un po', percotevano con la lancia. Ad ogni capo di via cominciavano a essere messe le sbarre; e dall'alto delle sbarre si rispondevano i cenni dall'un capo all'altro della città.

La gente del duca al rumore s'armano in fretta, e vanno alla piazza, come corvi che volano al covo sotto il battere di pioggia grandinosa, e sentono sopra 'l capo il muggito de' tuoni. E' correvano al duca: i meglio intendenti di dardi ponevansi alle finestre del palagio: i combattenti a cavallo, giù nella piazza. Ma prima di giungere quivi, molti eran presi; chi briaco; a chi un fanciullo teneva il destro piede mentre l'altro posava già sulla staffa; ad altri saltavano sopra improvvisi, e legavano, e svestivano dello splendido ferro. Altri colto allo svoltare de' canti: l'impeto audace a lui si volgeva in tremore pallido, come chi andando ne' monti, vede una serpe, e nell'arretrarsi d'un salto, già sente il morso. I destrieri de' presi, tutto che correnti a furia, erano da' Fiorentini, abili alle corse de' palii, agevolmente fermati. Poi tutt'a un tratto aprivansi e chiudevansi i serragli delle vie, dove molti rimanevano acchiappati come volpi in tagliuola, e forati con le proprie armi. Taluni, per malattia o per viltà o per indugio, rimasi negli alloggiamenti, eran colti come falchi nel nido, e fattone ludibrio: altri pochi nelle case delle amiche, segnate già dall'odio pubblico; e le donne infelici, o di plebe o gentili, oltraggiate. Intorno al palazzo, là dove il vespajo francese era più gremito, più molte le prede: ma dalle porte dei Francesi reputati non tristi, il popolo passava in silenzio. Uno tra' più boriosi e più matti di donne, trovarono con le insegne di cavaliere, adorno le armi di molt'oro, accucciolato sotto un letto; lo presero per una gamba, e gettarono sulle labarde d'un drappello che passa. Ad altro, bugiardo millantatore d'amorose vittorie, un magnano, preso un tizzo, e agguantato lui per la barba, gliel'appicciò come cero, e ne trasse fumo e puzzo, quasi di majale arrostito. Molti un quadrello fermò a mezza via: dietro a taluni, i cavalieri più snelli cacciavano il destriero fumante, lanciavano di lontano le picche, e scavallatigli, non degnavano di finirli. Spesso a chi stava per chiamare pietà, il ferro va a tagliar la parola giù nella strozza: altri morendo gridavano viva il duca! altri a cui la viltà dava speranze bugiarde fino nell'agonia: «Viva il popolo di Fiorenza!» Dinanzi a un Borgognone gigante, coperto lo scudo di pelle di tigre, e palleggiante la grossa asta con grido di minaccia, fuggiva la gente: ma un conciatore di cuoi armato di falce gli venne alle spalle, e azzeccatolo alle giunture dell'armatura tra il collo e il capo, glielo recise di netto. Il busto a manca, a destra la lancia, il capo nell'elmo ruzzolò tra i piedi al cavallo. Due fiorenti giovanetti gemelli, cresciuti al lieto sole di Provenza, coperti di scudo con punta dorata, cesellato all'intorno con fine lavoro, cavalcanti due bianche cavalle uguali a capello, correvano a visiera levata, quando due frecce li colsero a un punto, e caddero morti. Le donne misero un grido di compassione; ma due del popolo, afferrate le cavalle fuggenti, esclamarono: «Grazie al buon duca del dono! E viva il popolo di Fiorenza!»

Nè soli Francesi traevano a soccorso del duca: de' Fiorentini venivano i favoreggiati da lui, de' Peruzzi, degli Antellesi, de' Buonaccorsi, degli Acciaiuoli, Giannozzo Cavalcanti e consorti, Uguccione Buondelmonte co' suoi: poi scardassieri e beccai. Ma vista la marea del popolo venir risonante, come naviganti in porto malsicuro che temono il fiotto non li sospinga nell'alto, impallidirono. Quel dell'Antella guardava al Buonaccorsi: e volevan parlare, e non sapevano che. Andarsene non osavano: e tra i Borgognoni qua e là schierati passeggiavano la piazza, come oziosi aspettanti. Altri, impacciati nelle armi, quasi uomo che, vestito di rosso, passi accanto a toro furioso; altri appoggiati ai lunghi scudi o alle lance. Ora s'affacciavano all'un capo or all'altro delle vie; ma il rumore nemico imperversava. Il Buondelmonti si teneva più presso all'antiporto del palagio, per istrisciarvi dentro a rifugio. Gli scardassieri gridavano: Viva lo signore lo duca! ma grida stracche, e come favilla in istrame fradicio. I beccai bestemmiavano: e ai nobili confortanti a gridare e a fare, dicevano villania. Taddeo Peruzzi, uomo grosso della persona, ma pochino dell'anima, smontato di cavallo per iscappare più quatto, e appoggiata al muro la lancia, entrava in grave ragionamento con uno scardassiere, per appurare la verità delle cose.

- Domine, che trambusto!

- Messere, Fiorenza non si muove se tutta non si duole.

- E la credi tu mossa?

- Un po' più. Non sentite?

- Ma credi tu facciano daddovero?

- E' pare.

- Giovanacci! Teste che a un soffio vanno via! Ma i vecchi che veggono dinanzi e di dietro, e guardano come aggiustare alla meglio il capo e la coda delle cose, non possono altro che piangere di tali mattie.

- Veramente la guerra è cosa dura: ma fatto è che nella mischia son pure de' vecchi, messere.

- Che pensi tu fare?

- Io sto a vedere. Giova certamente, per tale uomo qual è il signor nostro, soffrire disagio. Non è già egli cagione di ciò, ma coloro che ci cacciano addosso, quasi mastino, la discordia, a noi che cignali non siamo. Fin che il duca rimane signore nostro col consentimento del popolo di Fiorenza, io sto da lui; imperocchè sto col popolo. Ma se il popolo muta e grida, muoja il duca! io non griderò, muoja il duca; ma sto col popolo. Ed eccovi, messere, l'umile parer mio.

- Certamente, il popolo è sempre popolo.

- Non è egli vero, messere? I' ho fatto il debito mio: sono accorso con questo partigianone che vedete qui: e se fossi meglio in arnese, e quale siete voi, farei forse maggiori cose. Ma io sono un povero scardassiere: cinque figliuoli, e moglie gravida: morto me, chi ci pensa? Eccoli, vengono da questa banda.»

E perchè Taddeo Peruzzi si teneva stretto al braccio dello scardassiere: «Oh lasciatemi, messere; i' son più lesto di voi.

- No no, i' vo' difenderti.

- Non vedete voi che i cavalli ci vengono addosso? Se io in dì di pace m'avviticchiassi al braccio vostro, che fareste voi? Mi dareste d'uno spunzone ne' fianchi, e vi sferrereste da me.»

E datogli d'uno spintone, lo cacciò a terra, quasi fantoccio di cenci, vestito d'armi. Che se un beccaio non era che lo rilevasse, i cavalli di Francia, non meno sconoscenti del duca, facevano di Taddeo Peruzzi assai tristo governo.

La piena cresceva: e il pericolo batteva le larghe ali su queste schiere e su quelle, serrate in ordine, sicchè poco terreno era in mezzo. Il sole che dava su le belle armi, già mostrava il rosso del sangue; e già dal palazzo cadeva una pioggia ferrea di saette. Allora ai devoti del duca la paura mise nell'animo il senno e il rimorso: e pensando non essere onesta cosa servire a signore abietto e perdente o presso a perdere, si ritiravano animosamente. Uguccione Buondelmonti picchiò, ed entrò piccino nel palagio, come lumaca nel guscio: il Buonaccorsi svignò da Mercato nuovo: de' Peruzzi e degli Antellesi, alcuni rimasero rinvolti nella calca, come anatrini in un ghiomo di lana, e volgevano un sorriso stupido ad uno artefice, o una parola senza senso a colui che or ora li aveva visti ducali. Qualche scardassiere, inteso che le grida «viva Fiorenza» rinforzavano, gridò più forte di tutti: viva Fiorenza! Qualche beccaio si mise tra' Borgognoni: e (perchè non sempre in opera vile è viltà) combattè fino a morte.

In altra maniera esercitava il coraggio messere Giannozzo Cavalcanti, parlatore valido, e simile a cicala che, su una ghiova polverosa, striscia dal ventre la lunga querela. Il quale nelle molte parole compiaceva mirabilmente a sè stesso, e tra non pochi dei grandi aveva assai benevoli ascoltatori. E ora in Mercato nuovo dinanzi alle sue case, montato su un desco di beccaio, gridava: «Popolo che m'ascoltate, vo' siete ingannati, e in molto misero modo ingannati. A' benefizii del magnifico principe che, da lontane terre venendo, e abbandonando gli splendori della corte francese, e gl'amplissimi suoi dominii di Grecia e di Puglia, scende fino a voi, e degna tenere il freno di questa imbizzarrita repubblica, deh con qual nera sconoscenza, o cittadini improvidi, rispondete? E non considerate voi che l'egregio duca d'Atene e conte di Brenna, è, per altissimo giudizio di Dio, nato di reale prosapia, e al governo della bellissima ed ingratissima città di Fiorenza predestinato? Non rammentate come noi spesse volte abbiamo desiderata la mano d'un principe che reggesse il vacillante stato nostro, e non sempre l'abbiamo (colpa de' nostri peccati orribili) ritrovata? E non pensate che se un principe del Francese lignaggio noi serbiamo col debito onore nel seno del Comune nostro, i soccorsi della real casa di Francia saranno sempre alle necessità nostre pronti e preparati, e il giglio dell'Arno coi gigli della Senna in bellissimi modi s'innesterà, e la nostra grandezza immobilmente starà?»

(Qui messere Giannozzo, tesa la mano di forza per dipingere l'immobilità, poco mancò non sdrucciolasse dal desco.)

«Or alla novella di tanto indegnissima ribellione, che dirà la real casa di Francia della infelice e matta repubblica Fiorentina? Quest'è un volere, o cittadini, diffamare in perpetuo il reggimento a comune, e il nome fiorentino di macchia turpissima contaminare.»

E perchè non gli davano mente, e messere Giannozzo, ansimando più e più: «Popolo che passate, attendete e vedete se è maraviglia e rammarico simile alla maraviglia e al rammarico miei. Tante grazie dalla larghezza del duca in voi versate, tante inimicizie conciliate, tante turbolenze che, senza il suo forte e fortemente soave reggimento, sarebbero pullulate, voi tenete adunque, o Fiorentini improvvidi, per niente? Che se gravezze sono, e quando non furono? Ma poichè a pagarle siete bastati finora, di che vi dolete? Perchè guaite? E se alcune rigide giustizie d'ora in ora son fatte, or come senza il terror della pena contenere popolo di sì dura cervice e di sì mobile ingegno come il popolo fiorentino è? E se giustizie son fatte, non son esse forse consigliate e operate da degne menti e da degne mani di uomini italiani fratelli vostri, e per virtù provata ben cogniti al mondo? E tutto quanto dal magnifico duca è deliberato, non ricev'egli il suggello della sapienza e santità di cinque vescovi di Chiesa Santa? Nè voglio mi rechiate in contrario l'esempio del non meno santo e sapiente vescovo nostro: perchè la ragione e l'esperienza c'insegnano che cinque è più d'uno. O se dubbio vi nasce intorno a questo argomento, perchè non ricorriamo all'oracolo della sede apostolica, e, intanto che la risposta viene, non lasciam libera al duca l'autorità che gli abbiamo, per vallate carte e di mano di molti notai, confidata? Egli, il romano pontefice vi dirà che la ribellione è cosa in istrano modo spiacente al Re mansueto: egli dirà che alle moltitudini non ispetta giudicare la bontà degli uomini che governano, siccome quelle che a ciò non sono nè da Dio chiamate, nè da natura fatte, nè dall'arte degli uomini periti educate: egli dirà che a mal signore (se malo è) succede sovente signore pessimo, e ad uno cento, in pena della colpevole impazienza de' popoli tracotanti. Deh non crediate alle parole che i messi di Satana vengono tra voi, nelle loro tenebrose conventicole, seminando. Considerate il pericolo che per la presente perturbazione sovrasta ai dugento, nel palagio adunati: considerate il pericolo che a tutti voi, matti Fiorentini, sovrasta; e prima che l'ira di Dio e del magnifico duca ci colga, sonate le campane, umiliatevi a' piedi d'entrambi, e da questo e da quello misericordia implorate. Già sento il tuono muggire; già veggo la folgore con ispaventevole suono scendere. Ma voi, popolo perverso e dannato, non mi ascoltate: oh vergogna, oh sventura, oh peccato! E il sole v'illumina, e la terra tuttavia vi sostenta?»

In questo dire, messere Giannozzo Cavalcanti gentiluomo, fallitogli un piede, dal desco del beccaio, bisunto di tutta sorta lotume, sdrucciolò per le terre. E nessuno ne rise, perchè 'l popolo fiorentino badavano ad altra cosa.

Allo strepito delle turbe incalzanti, e al suono delle cennamelle e delle trombe e delle campane incitanti i cittadini a combattere, sentì Rinaldo d'Altavilla serrarsi il pericolo addosso a' suoi. E sebbene egli tenesse in palagio un suo valletto da averne ogni novità, massime se ad Antonio Adimari si preparava sinistro; credette pure dover salire quelle scale, da molto tempo a lui disusate, per giovar di consiglio e d'intercessione gli uomini del suo paese, tutto che indegni. E' s'armava. Matilde, che fra lo scompiglio comune stavasi nelle case incustodita, dalle finestre rimpetto lo vide allacciarsi l'usbergo: e, portata da un impeto prepotente, scese le scale, traversò la via, fu a lui. Con le braccia distese, e, quasi vinta, gettandosi sopra una sedia: «Oh rimanete, esclamò, rimanete, signore!»

Qual fosse più attonito, ella del trovarsi là prima con la persona che col volere, o egli del vedervela, non so dire. Ma la fanciulla, alla quale il silenzio accresceva la confusione: «Non combattete i miei; non affrontate, o signore, il pericolo. Nella vita loro e nella vostra, è la mia. Abbiate misericordia della mia giovane vita.

- Matilde, e voi mi credete così cattivo? In tale stima avete voi il conte d'Altavilla, che v'ama?

- E perchè dunque quest'armi?

- Per difendere Antonio degli Adimari, per reggere i vinti di qual parte siano.

- Le mie preghiere e di mia madre, e l'angelo suo lo guarderanno mio padre: ma perchè volontario darvi, voi, nel pericolo, e raddoppiare senza pro i miei terrori? Che potreste voi fare per esso, che Dio non possa? Non vedete il popolo accorrere da tutti i lati? S'egli nol libera; pensa, voi.»

Fra queste parole Rinaldo guardava confuso alla fanciulla, in cui l'amore d'elezione velava per poco l'amor di natura: e non sapendo nè che si dire nè dove posare le mani, le metteva nelle piume dell'elmo, e librava in aria il suo peso, poi lo lasciava cader grave e sonante.

Ed essa: «Ecco il vostro linguaggio, il trastullo vostro e la gloria: le armi, sempre le armi.

- Oh Matilde, io conosco ben altro linguaggio, ben altra gloria; e mercè vostra. Vostro dono è se l'anima mia s'è levata sopra le anime gravi di ferro e brutte di sangue, degli uomini che mi stanno d'intorno. Chi se non voi mi fece in prima accorto della viltà di servire a signore indegno; chi mi staccò da Gualtieri, come le labbra del bambino si divezzano dal latte di madre non sana? Voi, buona, spiraste uno spirito nuovo in me.

- Io non so che rispondere a queste parole; ma di sola una cosa vi prego: restiate. Slacciate cotesto usbergo; e se qualcuno vi piace difendere, difendete me che son sola.

- Il popolo di Fiorenza, e l'arme de' miei famigliari, fanciulla, difenderanno voi; ma la mia presenza è debita ad Antonio Adimari. Il cuore, o Matilde, non vi dic'egli che quando un padre sta sotto l'ira irritata dei tristi, ogn'altro timore è peccato?

- Voi dite vero, signore, e m'insegnate a arrossire di me. Che sono diventata io mai? Non più cittadina nè figlia. Dunque mio padre è in pericolo? Dite per pietà: la certezza mi darà coraggio e rimorso.

- Infelice, tu non potresti intendere quel ch'io direi: e buon per te.

- Una promessa almeno, o Rinaldo: che non combatterete contro il popolo mio.

- Giuro.

- Che, salvo il padre mio, tornerete a noi.

- Prometto.

- Or accorrete. Io vi allaccierò di mia mano quest'elmo. Ma gli è troppo peso: e non lo posso.»

Rinaldo l'adattò da sè, ed ella glielo allacciò, lagrimando tacite lagrime, che le velavano la vista di lui: e Rinaldo la mirava con un certo come spavento di gioja e di pietà. Poichè la fanciulla ebbe guardato bene se l'elmo commettesse colla corazza, da non lasciare via al ferro, spiccò dal chiodo la spada, e disse: «Spada del mio nemico, io ti bacio.»

A cui Rinaldo: «Del vostro nemico?» E, com'uomo che torni stanco dalla battaglia, sedette abbandonatamente, lasciando cadere sullo scanno le mani sonanti de' guanti ferrei: e la guardava sbigottito.

Ella, come ferita da subita punta, gridò: «E il padre mio?» Balzò in piedi Rinaldo, afferrò la lancia accosta alla parete, e senza volgerle un guardo, uscì correndo. La fanciulla, fatti barcollone pochi passi per la stanza, si buttò bocconi a piedi del letto; quivi stette lungamente sopita in letargo pieno d'imagini strane e fuggevoli: poi, di subito, quasi desta, si diede alla fuga; e come chi scampi alle fiamme ondeggianti dietrogli, risalì le sue scale.

La zuffa, dispersa già, s'accoglieva, come torrente alla china, verso la piazza del palagio de' priori. Son già sbarrate e afforzate le bocche delle dodici vie che menano a quella. Ferivano i Francesi, ma non insultavano ai cittadini feriti, chè la stretta del pericolo non dava spazio ai tristi tripudii della vittoria.

Visto che il confuso azzuffarsi noceva ai men pratichi, gli esperti impediva; gli Adimari ordinarono la battaglia così: i cavalieri da Calimala, i saettieri da San Piero Scheraggio, dal Gardingo i fanti, là dove il circuito del palagio mal difendevano nuove torri non finite e nuovi barbacani. Ne' luoghi detti si ritiravano a riposarsi: ma rinfrescati, s'avanzavano con alterna vicenda nel mezzo della piazza, ora i saettieri difesi dagli scudi de' fanti, ora i fanti addopati ai cavalieri, or soli questi. Fra' cavalieri Francesco Brunelleschi combatteva de' primi: e senza parola (chè ogni parola alla condizion sua stimava interdetta), ma con l'esempio incorava i cittadini; e a qual vedesse pericolante in disuguale conflitto, soccorreva; e i feriti traeva di sue mani di sotto ai pie' de' cavalli e de' fanti: feroce come leone, tenero come madre. Tanto può, a rinnovellare un'anima, il ben sentito rimorso! Bindo de' Pazzi con impeto di Francese si slanciava tra i Borgognoni: e se la lunga lancia del Brunelleschi non era, due volte e' sarebbe rimaso nella rete della morte. Ma quando un acuto quadrello dalla torre gli diede tra la visiera e l'elmetto, e s'infisse sopra la tempia, allora il giovane, nuovo del dolore, portato fuor della mischia, urlava miseramente, dimentico d'ogni baldanza. Ma il Brunelleschi alzò gli occhi al cielo, e disse in suo cuore: «Se tanto è del dolore, or che dovrebb'essere del rimorso?»

Più e più s'empiva di combattenti la piazza, come di gente convitata a banchetto. Quando la porta del palagio s'apre; e un contestabile francese viene facendo cenno di parlamento: ma le saette e le grida lo investirono da ogni parte; onde a lui parve lunga corsa que' due passi da fare per ritrarsi tanto che la porta fosse richiusa, e posto in sicuro il suo nobile corpo.

Già parecchi i morti, e molti i feriti: e la strage veniva densa dal palagio fornito di molto saettamento. Quando il palagio era per vomitare le quadrella, a un segno non veduto dai nostri, i Borgognoni si ritiravano da' due lati; e vie prima che si sentisse lo stridore, veniva la morte. Allorchè, sgomento dal grandinare, il popolo indietreggiava, i Borgognoni facevan impeto in lui con grand'urla, difesi da larghi scudi, o da rotelle lucenti; armati, altri di mazza con punta, altri di tonda; e chi di spada veloce a due tagli, chi di ferro scanalato, chi di lama che più s'allarga quanto più si parte dall'elsa. Ma come serpente che minacciato s'aggroviglia in sè stesso, poi tutto si snoda, e ritto riassale; tale era il popolo, cui l'anima volonterosa insegnava come si possa contra gente agguerrita reggere validamente la guerra. E sottentravano a ribattere gl'incorrenti, a raccorre i feriti e i morti; i quali su un carro, confusi in mucchio, erano portati, questi a Santa Reparata all'onore dell'ultime preci, quelli allo spedale vicin della chiesa. Nobiltà e plebe, ricchezza e povertà agonizzavano ammonticchiati sulla medesima carretta; e spesso i piedi d'un carbonajo battevano, convulsi, nel viso ad un cavaliere. Nel sottrarre i morti loro, tiravano e talun de' Francesi o per le gambe, o per le creste dell'elmo (e talvolta il vuoto elmo seguiva solo le mani de' combattenti che lo lanciavano oltre le sbarre sdegnosi): ma tirato dietro i serragli il cadavere, gli spogliavano gli schinieri giunti con fibbia d'argento, e le spade d'argento ornate, e i gangheri d'oro del fermaglio, trapunto con vario lavoro, e a san Giovanni li votavano o a Nostra Donna.

Primi al pericolo (di che veniva al popolo e concordia e ardimento) erano i più grandi e i più ricchi, fregiati dell'arme privilegiate, già tolte loro dal duca. Ferocissimo, e simile a belva cercante la preda, uno degli Altoviti; chè un'ira selvaggia lo portava via, ed era tutto in vendicare la morte di Guglielmo consorte suo, giustiziato per baratterie da Gualtieri. Cosimo de' Medici, non animoso, ma dotto di tutte frodi, o moveva alla battaglia, come bove grasso tra tori, o si stava il più che potesse in sicuro; poi faceva capolino, gridando: «Fratelli e compagni, combattiamo per lo nostro Comune, per la diletta repubblica.» Il popolo, più generoso e sbadato che credulo e stolto, intendeva al vero quelle parole: e ne' brevi istanti che si riposavano dal combattere, stretti dietro ai serragli, dicevano tra sè:

«Compagnoni e' ci chiamano: a vittoria compiuta, saremo il minuto popolo di Fiorenza.»

Rispondeva un altro: «Cotesta ch'hai detta, è parola vera; ma ora pensiamo a fare. Intanto armeggino anch'essi in più affannosa giostra di quella che corsero all'avvenimento del duca.»

E un terzo: «Segua che può: lasciam costoro fabbricare tra sè odii ed inganni: noi combattiamo per le case nostre e per noi, non per loro. Il domani è sul libro di Dio.»

Così dicendo, tergevano il sudore sudato col sangue, e trincavan di fretta: nè li avresti detti venire dalla battaglia, ma o presti ad entrar nella danza, o, testè della danza usciti, riposando sedere.

Quando li confortava con amiche parole Cosimo Oricellai, uomo incolpabile e forte, ascoltavano tutti con fiducia fraterna: perchè tutti gli uomini sentono la bontà vera; e il popolo, come i bambini piccoli, sa chi l'ama. Era quivi un nipote dell'Oricellai, giovanetto, voluto a forza venire nella mischia, che rispinto dallo zio, senza saputa di lui, s'intruppò, non per vaghezza di lode o di rumore, ma chiamato da un'invincibile voce che acuta e allegra come squillo di tromba, gli diceva dentro: «Combatti contro la schiavitù ch'è odiosa più della morte.» E Cosimo se lo vide improvviso dinanzi, supplicante con dolce sorriso, librando una lancia grave, e pure adatta al suo pugno, e stretto dalla dura coreggia dell'elmo il mento e il tenero collo. Nè allo zio diede il cuore d'ingiungergli se n'andasse; chè se fosse stato suo figliuol proprio, gli avrebbe imposto, non che conceduto, consacrare le mani nella difesa della sacra repubblica. Ma per tempo Iddio ti chiamava, o fanciullo, alla sua pace; e dopo che, in premio del buon volere, egli ebbe infiorata la tua verde età d'una schietta ed alta speranza, e' ti tolse agl'inganni del mondo crudele, ai tedii che alle speranze, sebbene adempiute, conseguono, ai cocenti odii, ai tepidi amori. Una nube di frecce scagliata a un tratto, rasentò la terra quasi tromba d'estate; delle quali una venne apportatrice acerba dell'estremo dolore; e fittasi nel torace, domò, giovanetto, la tua vergine vita. Egli cadde supino sul lastrico: e un tremore di pietà prese tutti i riguardanti, e Fiorentini animosi e Borgognoni gagliardi. Allorchè sua madre lo seppe, disse: «Sia benedetto Iddio che, innanzi di togliermelo, gli permise fare alcuna cosa per la nostra repubblica. Egli è in luogo di salvazione, spero; perchè il giorno della battaglia aveva ricevuto il corpo del Signore.»

I dardi uncinati, che volando parevano desiderosi di bere sangue, si conficcavano dolorosi nelle carni. Poi le pietre gravi grandinavano ruinose dall'alto: e il popolo spaventava a sì male morti, perchè contro quella furia non poteva nè singolar valore nè ordine fitto di schiere. Un di loro, ritraendosi ferito dietro a un serraglio, e lasciando cadere a terra una coltella sanguinante e spuntata dal molto trafiggere, diceva: «Se non l'avessimo fatto noi quel palagio, di nostro! E vederci ora di lì tempestare l'ira di Dio!

- Dio, rispose un frate (che accavalciava le sbarre senz'aspettare l'aprissero), Dio è con noi.» E giunto all'ultima sbarra, sotto la tonaca apparve vestito di tutte arme, e destro come antico guerriero. E guardando all'ampia luce del cielo sereno, esclamò: «Dio, dispensator della guerra, dateci che respingiamo chi mal fece alla nostra città; acciocchè gli uomini delle generazioni più tarde tremino a far male all'ospite suo che gli offerse amistà e signoria.» Votata ch'egli ebbe la messa di domani alla Vergine e ai Santi, immortali patroni di Fiorenza, si confuse alla mischia. E sull'alba, riprese la cocolla, entrò per la chiesa, e celebrò molto devotamente la messa. Di che fatto consapevole il vescovo, lo benedisse; e, non in sua presenza, ma a' frati che ne mormoravano, seppe dire: «Egli ha fatto bene.»

Sapeva il vescovo, che se nella antica legge ai Leviti, era non pur conceduto, ma ingiunto eccitare alla battaglia suonando le trombe, se ai sacerdoti di Cristo predicare guerra per causa santa; nel pericolo della patria non era interdetto tingere di sangue nemico le mani consacrate, e respingere col ferro, senz'ira nel cuore, le ire peccaminose di chi contamina la città di peccato: sapeva che dove tanto solo combattasi quanto bisogna a difendersi, le armi feritrici non sono che scudo; come argine che non infrange le onde torrenti se non quant'esse incorrano infuriando per allagar la campagna, e trarre le fatiche e le vite umane nella vorticosa rapina. Sapeva che può fralle armi il sacerdote, non pur ravvivare il coraggio, ma temperare i furori, consolare le agonie miste e de' suoi e de' nemici l'un sull'altro cadenti, sottrarre questi a inutile morte, e con la spada, quasi come con la croce, nel nome di Dio benedire.

Il saio del frate apparve tra le armi, non come tra il verde della foresta luccicare minaccioso di lancie, ma come agli assetati spumeggiare lontano di fresca acqua corrente, come luce fralle tenebre al pellegrino. Alla vista di lui combattettero i Fiorentini più animosi e più miti, i nemici più arrabbiati e più trepidi. Ed egli, fra il fischiare delle saette e il rintronare de' ferri sulle armature, come se fosse il sibilo del vento tra i rami, si chinava sicuro a raccogliere la parola dei moribondi, e di lì si rizzava a sviare, or con un'arme raccattata da terra, or con la mano ignuda, la spada imminente sì al cittadino, sì al nemico implorante la vita. Pareva come tra il nero di nubi ammontate punta di metallo lucente rizzata ad attrarre quasi a stilla a stilla la corrente fulminea. Ed era refrigerio all'anima sua piagata insinuare nell'anima di qualche straniero parole di pentimento efficaci, nell'anima di taluno de' suoi parole di misericordia, che facessero doppiamente accetto il sacrifizio della morte. E allora il padre infelice sentì consumato in sè il sacrifizio degli antichi suoi sdegni, allora perdonò agli uccisori del figliuolo proprio, e in un amplesso con la patria sua libera li abbracciò. Non i rivi correnti di sangue sbramassero la sua vendetta, ma sì quant'esso per mitigare le vendette altrui fece e disse, e quanto di dire e patire desiderò. Così quella fiamma che da molte acque versate traeva alimento e in più ampi vortici fumosa saliva, al gettarvi panni bagnati, si spegne. E perchè fin ne' suoi ardimenti l'anima umana è debole, pareva al vecchio che se il sacrifizio di un altro figliuolo dovesse offrire per la patria e per Dio, l'offrirebbe. E Dio quella fiducia tra altera e sommessa, ma schietta, come grata offerta accoglieva.

Era ancora il sole alto; e, visto avviarsi vigoroso in piazza l'assalto, Corso d'Amerigo Donati e i fratelli, i quali avevano amici e parenti in prigione, sì per impazienza d'affezione e di vendetta, sì per avere più libero spazio al valore; e Corso per imitare l'esempio famoso dell'avolo suo (ma, diceva egli, per provare la virtù della bandiera del popolo), andarono verso le Stinche di costa a Santo Simone. Era l'edifizio di pietre grandi e bene commesse, ma lo sportello di legname, e di legname la bertesca; non molte le guardie, sciolti i prigioni. Tentarono sfondare co' ferri, ma e' si spuntavano; quando Rosso di Ricciardo de' Ricci, ivi entro condannato in perpetuo, gridò a que' di fuori: «Fuoco.» E misero fuoco allo sportello; e que' d'entro ajutandoli, chi con le accette e chi con le mani, fu sgangherato lo sportello; e tutti liberi in poco d'ora. E armatisi, crescendo ad ogni passo la moltitudine seguitante lungo le vie della bene edificata città, Tile de' Benzi de' Cavicciuli, e parecchi de' Pazzi, e altri che avevano loro amici in bando o presi col duca, s'avviarono a palagio dov'era il podestà, Baglione di Perugia; uomo cupido di danaro, al quale di podestà non era che il salario di quindicimila dugenquaranta fiorini d'oro, e il titolo, e tanto di ribalderia quanto bastasse a servire alla ribalderia onnifaccente del duca. Al Baglione il rumore annunziò di lontano per chi si preparasse la festa; e, radunati i famigli, romagnuoli i più, con affezione insolita, e con mostra d'ardire diverso dalla vecchia audacia sua, gridò:

«Figliuoli, questa è l'ora di valentemente difendere la signoria del duca nostro e le nostre proprie vite dagl'iniqui ladroni; quest'è l'ora di dimostrare al mondo chi voi siate, e chi sieno queste volpicciattole fiorentine dal ricco pelo e dall'ossa mal commesse, timidamente rapaci. La pace della città e la gloria d'Iddio nelle vostre mani è affidata, di Dio che detesta le sedizioni come scellerata invenzione di Lucifero, padre di tutti i ribelli.»

Ma i famigli risposero con tranquilla sfacciataggine, essere mestier loro offendere, non difendere; unico scampo la fuga. - Allora il podestà, deponendo la larva del coraggio, fatto viso di tutt'altro uomo, e tremando: «Fuggire! ma come?»

E i famigli: «Ciascuno pensi a sè: che se a signoria vostra abbisognasse de' nostri consigli, li avrebbe chiesti assai prima.»

Così dicendo, scappavano. Ond'egli, vestiti gli abiti del più guitto tra' famigli, che per carità glie li cesse, adattatasi una panziera a difesa del corpo, mancandogli tempo da soprappor la corazza, intanto che gl'infuriati venivano da una via, uscì dalla porta che dà nell'opposta: e nascondendo il viso, e non osando torcere il collo, e pur voglioso di guardarsi dietro (che già si sentiva le grida alle spalle, come il viandante colto dal mal tempo, si sente gocciolare pel dorso l'acqua temuta), alla fine mise il piede nelle case degli Albizzi. Nè mai le sue scelleratezze gli avevano data la millesima parte dell'angoscia che gli diede quel breve tragitto. Ma Dio serba i terrori, o i dolori, o (pena più crudele) i sospetti, a chi e' risparmia i rimorsi.

I famigliari dell'Albizzi, riconosciuta sotto a que' cenci la podestà, lo afferrarono, e volevano farne strazio; quando si rammentarono che il signore era in casa, ferito nel primo scontro da un quadrello di balestra grossa; e corsero a lui domandando, che fare della podestà. L'Albizzi, stizzito, non già dal dolore che provava acutissimo, ma dal non potere, sebbene maturo d'anni, combattere, rispose con ira: «Che fa a me quel carcame vivente?»

E perchè i famigliari, genìa interpretatrice, torcevano al peggior senso le sue parole, e se n'andavano allegri del potere tormentare una potestà, messere Antonio ravvedutosi, aggiunse: «Chi leva un capello da quella testa scellerata, pagherà 'l debito con la sua testa. Io non degno che pure i miei famigliari s'imbrattino in sì vil sangue.

- E che farne?

- Che chied'egli sia fatto di lui?

- Vuol vedervi, messere.

- Via da me quel basilisco di baratteria, che con gli occhi mi farebbe tutto una piaga.

- Dunque?

- Lasciatel ire.

- S'e' viene a voi per rifugio?

- Rimpiattatelo; vestitelo da famigliare, da donna: ma astenete le mani da lui, siccome fareste dall'amico del signore vostro.»

I famigliari non intendevano quel misto di sdegno, di spregio, di pietà; e stimavano messere Antonio degli Albizzi matto.

De' famigli della podestà taluni scapparono nel convento di Santa Croce: e quale de' frati non voleva aprire; altri pensava si dovessero accogliere per prudenza, acciocchè, se il duca o gli amici del duca vincessero, l'ordine di san Francesco n'avesse merito; altri, per debito d'ospizio e per carità.

La turba salì schiamazzando le scale del palagio, e mille villanie diceva al Baglione lontano. E correvano per le stanze spalancate con gli archi tesi e con in mano le spade. Ma, non trovando persona, la rabbia si volse contro gli arnesi, le finestre, le panche. Rompevano, infrangevano spezzavano, fracassavano, sminuzzolavano, pestavan co' piedi. Pochi gittavano all'impazzata giù nella via: ma i più si tenevano il frammento quale d'uno qual d'altro arnese, a memoria del giorno quando i cittadini di Fiorenza, non potendo più sopportare la servitù degli uomini stranieri, insorsero a libertà.

Spersi gli arnesi, e arso il resto, vanno alla camera del Comune, la forzano, ardono i libri ove i nomi degli sbanditi erano scritti: i debitori (ogni tempesta ha la sua schiuma) rubano gli atti della mercatanzia, per ispegnere la memoria de' debiti. Altra ruberia non fu fatta in tanto scioglimento di città, se non contro alla gente del duca. E tutto avvenne per l'unità in che si trovarono i cittadini a ricuperare la propria libertà e quella della repubblica.

Que' del sesto d'Oltrarno, che per sè era di grandezza e potenza un'altra buona città, sentendo lo sforzo della battaglia essere tutto intorno al palagio, prima che l'aria fosse bruna, apersero l'entrate de' ponti, e passarono a cavallo e a pie' in arme. I Bardi venivano scorrendo le file, e contenendo i cavalieri più veloci o più ardenti, non rompessero gli ordini. E perchè si sapeva che i radunati in sulla piazza potevano per molt'ora resistere, e per rassicurare in ogni parte la commossa città, mostrandole le forze sue, fecero levare le sbarre delle rughe maestre che non mettevano diritto alla piazza, e con le insegne del Comune e del popolo cavalcavano gridando: «viva il popolo e Comune in sua libertà!» e: «muoia il duca!» I vecchi e le donne rispondevano viva, e levavano gli occhi al cielo ringraziando; salutavano i noti, agl'ignoti arridevano come ad amici; i più appariscenti additavano; all'armatura o alla divisa o al portamento riconoscevano i volti celati dalla visiera; ai bambini indicavano con infantili parole il perchè della splendida mostra; e quelle bocche, aperte appena alla vita, gridavano anch'esse: muoja. Gli erano più di mille a cavallo, montati su destrieri tutti a briglie con freni dorati e purpurei, fra dei loro e di quelli tolti alle genti del duca; con archi soriani all'arcione, con al braccio scudi lisci ed uguali, o rilevati a vario lavoro, con tremolanti sugli elmi piume d'estrani uccelli. Poi dietro venivano diecimila armati a corazza e barbuta come cavalieri; senza l'altro minuto popolo in arme: chè la bene abitata città forniva venticinquemila combattenti; senz'alcuni forestieri, usi ai modi del guerreggiare italiano, e alcuni cavalieri lombardi, e senza que' del contado. A ciascun sesto precedevano l'insegne sue. Oltrarno, scala bianca in campo vermiglio, dragone verde in campo rosso: San Piero Scheraggio, carroccio d'oro in azzurro, toro nero in giallo, leone nero rampante in bianco: Borgo, vipera sul giallo, aquila nera sul bianco, cavallo sfrenato, covertato a bianco e a vermiglio, sul verde: San Brancazio, leone azzurro rampante coronato, nel bianco; Porta San Piero, due chiavi rosse in fondo giallo: Porta del Duomo, con in fondo il colore medesimo, drago verde. Queste ed altre le insegne de' sesti: alle quali venivano miste le militari; de' cavalieri: d'Oltrarno e del Duomo, bianca; di San Piero Scheraggio, nera e gialla; di Borgo Santo Apostolo, bianca e azzurra, addogata per lo lungo; di San Piero, gialla, di San Brancazio, bianca e verde. Verde l'insegna de' mercatini; de' balestrieri, campo bianco e balestro vermiglio, o quello vermiglio e questo bianco; degli arcadori, un arco in bianco e in vermiglio; de' pavesai, un giglio in vermiglio ed in bianco; de' cambiatori, montone bianco in vermiglio; de' medici e speziali, campo vermiglio con Nostra Donna e Gesù; de' giudici e notai, stella grande d'oro in azzurro; de' setaiuoli e merciai, porta rossa e piano bianco; de' maestri di pietra e legname, sega, scure, mannaia, piccone, e rosso il di sotto; dei fabbri, bianca la sommessa e sopra tanaglie nere grandi. Ma il bue nero de' beccai pascente in prato giallo, mancava.

Venivano a torme, a schiere, a drappelli, a larghe file, a due a due, in vago disordine: e tra quella selva di lance e di spade si smarriva lo sguardo con lieto errore: quale in ricca foresta le piante qui rade, là fitte, che all'alte cime s'alternano i giovani ramuscelli e le folte macchie; e ogni cosa, l'erbetta minuta, i fiori appiè delle negre elci, l'ellere, i rovi, la borraccina, significano la possente ubertà della terra; gli uccelli volano dall'abeto al cespuglio; e le acque correnti nutricano con amore e le mature e le giovanette, e le altere e le umili vite. Il quale popolo fu molto mirabile a vedere, e possente e unito.

Ma sotto il caldo della giornata, e sotto quel tedio che occupa, per la non vinta resistenza, gli animi instabili, la stanchezza aveva prese le membra robuste de' Borgognoni; che senza pane e senza vino, eglino, avvezzi a bene morfire così come a battagliar bene, e vedendo a ogni capo di via i cittadini ristorarsi e cioncare, quasi per far loro dispetto, già maledicevano, non il duca ma la repubblica di Fiorenza che a' loro ventri dava noia sì lunga. I più impazienti (ed erano i più corpulenti) smontando bel bello da' cavalli, picchiavano alle porticciuole; e, vietante il duca, ma volenti di forza i loro compagni, entravano. Al veder questo, l'avaro signore ricorse a tarde promesse di ricchi doni: ma tra un fiume d'oro lontano e un centellino d'acqua presente, l'assetato ha pronta la scelta. Poi sapevano le larghe promesse dell'uomo e lo stretto attenere.

I rimasi sul campo, per questo spicciolarsi, vie più si scoravano; e più rimessamente incalzavano que' della terra, più alacremente assalenti. Il numero de' Francesi feriti o prigioni cresceva. Altri presi in tanto che appoggiando il lento passo alle lunghe lance, ritenendo il respiro per non guair di dolore, rammentando i dolci campi paterni, e raccomandando l'anima fuggente a Dio (l'anima che in tristo uffizio compiva le sorti della vita), si strascinavano fuor della mischia. Altri presi in tanto che si spogliano dell'arme francesi, e raccolgono sotto l'elmo la bionda capigliera ondeggiante sul collo, e s'ingegnano di strisciare non visti tra nostri. Chi s'arrendesse spontaneo, risparmiato: ma de' resistenti, altri malmenati duramente, altri, per ludibrio, gettato nella carretta, sotto a' cadaveri, ignudo. E que' capi vivi si dibattevano sotto ai morti, come naufrago sotto le tavole del fracassato legno galleggianti. Di che fremevano i più animosi tra' Borgognoni combattenti tuttavia, e pungevano sè stessi a combattere sino all'ultimo disperatamente. Ma la notte scese a rinvolgere nel suo velo le ferite e i terrori; e, se non che qualche grido levavasi ad ora ad ora a tener desti gli animi e le ire pronte, le balestre e le lance posarono. Per cenno del duca i Francesi si raccolsero nel palagio; di che i Fiorentini lieti, come di ritirata nemica, deliberarono, se novità non sopravvenisse, cambiare in assedio l'assalto.

Sull'alba del dì di domenica il vescovo ordinò preghiere in tutte le chiese da Sant'Ambrogio a Ognissanti, per ringraziare Dio della prima vittoria, supplicarlo donasse a Fiorenza intero il benefizio della cara libertà, contenesse gli animi esultanti da ogn'impeto di crudele vendetta. Le chiese erano gremite di gente; e le madri vi portavano i bambini piccoli, che più diritta salisse a Dio la preghiera per la voce degl'innocenti. Quelli che assediavano il palagio, sull'alba, ogni saettare restato, si diedero la muta, e ascoltarono tutti con allegro fervore la messa. Tanto più fervore, che un po' di tema vi si mesceva, non per sè, ma per le persone care, e per il Comune; e che in quella concordia degli animi fiorentini si sentiva lo spirito di Dio. Ringraziavano umilmente: al perdono non pensavano molti, chè difficile è accoppiare insieme queste due cose: punizione e perdono. E da sola la virtù pregata e provata viene a noi miseri tanto amoroso senno.

Nel palazzo pregavano alla loro maniera i soldati; quella preghiera disgraziosa e diffidente che l'uomo peccatore volge nella necessità estrema al Signore, così come il vile prega all'amico tradito. Facevano voto alla Vergine o a' Santi del loro paese; ma del promettere ammenda de' mali fatti, era nulla. Poi dalla preghiera prevalicavano alla bestemmia, o a cosa simile alla bestemmia, all'impazienza superba e disperante. Fatti accorti della profondità del pericolo, e stremi fino di vettovaglia, uomini a' quali nessuna nobile ragione reggeva in quel frangente la coscienza, parevano com'onde che fremendo s'infrangono negli scogli, e l'ira loro si risolve in ischiuma. Gli erano quattrocento; e brontolavano, sè non essere venuti di Francia per basire di fame e di sete nelle terre fiorenti d'Italia; se dal fare quello che tutti non fanno (così chiamavano costoro, con francese eleganza, le ribalderie) non veniva miglior guiderdone, tant'era rendersi frati.

Il duca, stretto dal pericolo, mandò per Rinaldo conte d'Altavilla, il quale e' sapeva essere nel palagio, che ora stava nella camera dov'erano i dugento rinchiusi, ora sedando le bestemmie de' soldati insofferenti. Questo stesso intercedere che Rinaldo faceva per lui, glielo rendeva odioso; chè agli offensori increduli della virtù, ogni generosità pare oltraggio. Pure lo chiamò a sè, pregando n'andasse ad Antonio degli Adimari, e gli profferisse il grado di cavaliere: egli, il duca, quel giorno stesso lo fregerebbe del titolo. Il conte d'Altavilla rispose:

«Vorrei, sire, far cosa grata ed utile a voi; ma di questa l'esito io stimo e ingrato e dannoso. Nè messere Antonio degli Adimari» (il duca a quel titolo riverentemente dato a un suo prigione, e da uomo francese, s'accipigliò; e il conte, avvistosene, ripeteva) «Nè messere Antonio degli Adimari accetterà cotesto titolo in tale condizione in quale ora è; nè per tali mostre il popolo porrà giù l'ira sua. Cosa cui fare non è, sire, della dignità vostra, io non credo della mia rapportare: però vi piaccia scegliere altro messaggio.

- Conte d'Altavilla, voi oltraggiate il duca Gualtieri.

- Io rispetto il duca, sire; e nel Francese difendo, quant'è in me, il nome Francese: e a Dio fosse piaciuto ch'io avessi ragioni e modi da più degnamente difenderlo. Di questo io reputo del debito mio farvi avvertito, sire; che non per titoli si piegherà l'alterezza di questi uomini fiorentini. Le cose sono a tale oramai, che i dugento presi, torna più a voi siano lasciati, che a loro: e più tranquillo sarebbe l'animo loro in morire che il vostro in ucciderli.

- Voi consigliate, o conte, a me cosa vile.

- Sire, io non vi consiglio ucciderli, ma lasciarli.

- E se a me piacesse altrimenti?

- A voi piacerebbe la morte vostra.

- Signore d'Altavilla, a me non è bisogno de' vostri consigli.

- Se mai v'occorra bisogno dell'opera mia, rammentatevi ch'io sono Francese.»

Uscito il conte, Gualtieri chiamò a sè il Visdomini, gli comandò l'imbasciata allo Adimari; e messer Cerrettieri, che sperava con tal mediazione fare sè meno odioso, e alleviarsi il pericolo, andò. Come Antonio l'ebbe veduto arridente l'incerto sorriso de' tristi che temono:

«Chi siete voi? domandò.

- Uomo disposto a' comodi vostri: e il duca nostro signore mi manda.

- Vo' avete un duca a signore, e alla favella mi sembrate fiorentino. Uomo fiorentino della lingua, e francese dell'anima, è animale che non appartiene alla specie ond'io son nato. Dite al signor vostro, s'e' vuole o farmi sapere cosa o saperla da me, mandi uno de' suoi. Fiorentini, creature del duca d'Atene, un Adimari non degnerà di risposta.»

Il Visdomini, in cui, non la vergogna ma la paura spegneva la rabbia, uscì senza dir motto: e sì gli seppe d'amaro rapportare le parole d'Antonio, che quel momento d'umiliazione fu a quanti avevano patito da lui onta o supplizio, sufficiente vendetta. Il duca, rattenendo, non lo sdegno che già gli veniva meno, ma la disperazione che incominciava, mandò per il barone di Ciavignì, gioviale uomo, e, per servo di tale duca, non tristo, ora dal pericolo fatto migliore; non aborrito da' Fiorentini, perchè col sorriso perpetuo allentava gli odii, come colpi che caschino in materia cedevole. Costui, pregato dell'ambasciata, accettò. E la fece, scansando le parole acerbe e le vili, con destrezza velata di molta semplicità.

«Messere Antonio, il duca signor mio, conoscendo le cose essere, per non so qual caso, trascorse di là dal suo intendimento, stima opportuno manifestare al Comune di Fiorenza il vero animo suo, riconoscendo voi esente da ogni sospetto addossatovi dalla calunnia d'alcuni de' vostri, e il valor vostro onorando col titolo di suo cavaliere.

- Barone di Ciavignì (rispose l'Adimari, con piglio quasi amorevole all'ambasciadore, e con severità quasi regia verso chi l'inviava): piacciavi dire al signor vostro, ch'io da lui m'aspetto, non già le insegne di cavaliere, ma le catene e i ceppi; che quelle insegne e' non può profferirmi se non tinte del sangue de' miei; che, con qualunque intenzione egli me l'offra, io le rigetto da me con terrore, come proffertemi dal più brutto e villan cavaliere di tutta cristianità.»

A cosiffatte parole il barone avrebbe altrove data altra risposta: ma pensando ai pericoli del signor suo: «Rammentate, messere Antonio, che qui si tratta non dell'utile vostro, sì del Comune di Fiorenza, che amate tanto.

- E dell'onore si tratta, gridò corrucciato l'Adimari»: onde il Ciavignì, per non esporre a nuovi oltraggi il nome del duca, e sè al pericolo di rinnegare la pazienza:

«Or basti. Dagli onorevoli cittadini che sono con voi, prendete, messere, consiglio: e se tutti convengono nella vostra volontà, questa in breve sarà nota al duca. Io qui presso attenderò la risposta.»

I Fiorentini di là entro lodarono le misurate parole del barone, e dicevano: «Cotesti Francesi sanno pure, quando vogliono, e quel che si convenga dire e quel che tacere.» E messisi intorno ad Antonio, i più s'ingegnavano dimostrargli, come di prigione e condannato nel capo era bello uscir cavaliere; non altra più splendida prova potersi desiderare del terrore del duca, cioè della potenza del popolo fiorentino; quelle insegne esser buone da appendere a santa Maria del Fiore, come trofeo; se un ladro ti rende l'oro rubato, nessuna viltà ripigliarlo; e se cotesto parevagli disonore, il popolo fiorentino ne lo laverebbe, ribattezzandolo cavaliere nel nome suo.

Questo i più temperati: ma i più caldi incalzavano per il no; e la disputa tiravano in lungo. Il barone di fuora aspettava, punzecchiato dalla furia francese, e sbuffando, come cavallo che sente lo sprone e la briglia a un tempo. Quando l'Adimari, visto che questo pure diventava seme di rissa tra' cittadini, troncò la lite assentendo.

Ebbe gli onori di cavaliere sull'atto: e chi più ne arrossisse o fremesse, se egli o il duca, non so. Inginocchiarsi dinanzi al nemico non volle, e la cerimonia compiè ritto. Quegli di sua mano gli affibbiò con fibbiaglio d'oro lo sprone; e quasi tremando consumò gli altri riti, e biascicò le parole: «Questo cingolo ti dono in significanza di castità, di giustizia, di carità.» Strane parole in bocca a tale uomo, come sarebbe il sermone della povertà in bocca a un papa. Quando si venne al bacio, non è cosa da dir con parole che occhi facessero il Fiorentino e il Francese; quali fossero i moti, i cenni, i pensieri de' baroni, de' soldati, de' prigioni, de' consiglieri del duca iv'intorno raccolti. E' pareva in quel punto che la tirannide, conoscendosi vinta, cedesse gli onori suoi nelle mani della repubblica, e a quella con paura e con fremito si rinchinasse.

A una finestra del palagio si affacciò messer Cerrettieri con la bandiera non più del duca ma del Comune per annunziare al popolo la novella, e ingrazionirselo; ma, al pur vederlo, più urla l'accolsero che il palagio che aveva saettato quadrella. S'affacciò in vece sua, destinato quel dì a dure prove, il barone di Ciavignì, e pronto sempre ad uscirne con non paurosa e non ignobile leggiadria. Ammezzò con l'accento francese le parole soffiategli dietro da Ippolito figliuolo del bargello, e accomodandole col garbo suo proprio, e buttandovi per entro qualche sfarfallone barbarico, annunziò messere Antonio degli Adimari essere cavaliere. Dalla quale vittoria fatti più superbi e avidi, il popolo diede in urla più fiere, chiedendo, i presi fossero lasciati sull'atto.

Il duca, al qual pareva viltà concedere molto, anche spontaneo, ora si vedeva forzato; e toltogli ogni merito delle sue, com'e' fingeva crederle, grazie: e, pur dal sospetto della viltà rifuggendo (Francese pretto in ciò), repugnava. Nuova di fuori nessuna, nè de' soccorsi aspettati: al buio d'ogni verità, altro che terribile; simile ad uomo posto in tanto di luce quanta basti ad illuminare un precipizio, fitto di tenebre il resto. Gli venne in pensiero di salire in cima alla torre del palagio, e fare gli occhi propri messaggi del vero: che rado i principi fanno. Saliva solo, a passo lento, e accostandosi alle feritoie, sentiva giù la tempesta popolare mugghiare profonda; e il grido «muoja» fischiare acuto, come tra 'l rompere de' marosi, il cigolio delle antenne. Oh quanto lunga gli parve quella salita; e come l'aria schietta e vibrante dell'alto era grave alla sua anima ansante! Quando fu in cima, guardò nella piazza formicolare le turbe inimiche; e quegli animali, quasi striscianti per terra, ch'e' non poteva schiacciare, gli mettevano stizza; come la stizza del fanciullo inviziato che vuole una vendetta insensata e sopra le forze sue. Guardò sulla vetta di Trespiano, se mai vedesse un amico lampeggiare di lancie; ma sola qualche falce di mietitore gli faceva corto ed amaro inganno. Poi guardò alla città: vide per le vie prossime e per le lontane caracollare drappelli d'armati; e sventolar sulle torri e sui campanili le bandiere del Comune e del popolo; e il popolo uscire ed entrare ne' tempii a grandi onde. Quella devozione a lui avversa, e lieta dell'onta sua, gli commoveva dentro una rabbia non dissimile dalla bestemmia. E' sentiva ondeggiare nell'aperto e mescersi sotto sè, quasi cantico di vittoria, il suono delle campane; e rammentava il dì, quando le campane sonarono festive il suo avvenimento. Volò intorno con gli occhi per tutta Fiorenza, per quella selva, con bel disordine folta di monumenti di forza e di dovizia e di bellezza. Innalzò gli occhi al cielo, da sì gran tempo confitti o nelle travi d'un chiuso palagio, o nel tetro luccicare dell'armi, o nel dubbio volto d'uomini non amati, o nel freddo viso di femmine non amanti: poi li chinò sulla valle beata, sui giri scherzosi del fiume, sui colli ingiardinati e incastellati, sotto i quali la terra, fiorente dell'opera umana, si distendeva, come palpita il cuore di giovane donna sotto le caste mammelle: e dalla gioja de' campi rinnalzò gli occhi alla gioja de' cieli, a quel dolce sereno, a quel sole forte e puro, come il calore d'anima generosa. E sentì prepotente nel chiuso spirito penetrare, come fuoco in metallo, la forza della natura; e nella bellezza della natura intravvide la giustizia di Dio, come chi sente per cielo azzurro il lontano muggire di tuono estivo. Nè mai Fiorenza gli era veduta sì bella. E comprendendo in uno sguardo l'Uccellatoio, e le vicine terre e le lontane, pensò quante erano in balìa sua, quante sarebbero potute venire; pensò, ch'e' non voleva in sul primo quell'assoluta signoria alla qual poi l'anima sua s'abbarbicò con radici così sitibonde; pensò, perduto forse ogni cosa. A questa imagine non resse: e scese quasi di corsa. Più scendeva, e più l'anima, aderente alla terra, pareva s'alleviasse, come al respiro dell'etico l'aria grossa è medicina, la schietta è stimolo di morte. Adunati i suoi, ascoltato il consiglio franco ed accetto del barone di Ciavignì, deliberò lasciare i dugento.

Cigolarono sui cardini restii le porte della camera ch'era carcere ai presi: e il barone di Ciavignì, lieto del messaggio, annunziò la data libertà. Nell'uscire, i più sdegnosi volgevano gli occhi da lui, come avrebbero fatto da Giulio d'Assisi, il bargello; altri lo salutarono dello sguardo, altri della mano: Antonio degli Adimari gli porse la sua. Qual fosse il senso del barone nel tocco di quella mano, parola nol dice: perchè l'affetto rispettoso d'una nobile anima eccita in anima non avvilita tale una voluttà, ch'è negata fors'anco all'amore. E quando temi il duro o calunnioso sospetto de' buoni, vedere da uomo buono indovinata, come per rivelazione, l'anima tua, è compenso di molti dolori. Oh barone di Ciavignì, quando lasciavi per il soldo di duca Gualtieri la terra di Francia, non pensavi al certo che il più caro premio, la più memorabile gioja che tu dovevi riportare d'Italia, sarebbe la stretta di mano d'un cittadino fiorentino, prigione.

Uscivano a due a due nella piazza i liberati; ultimo l'Adimari, quasi vergognoso delle sofferte insegne: e sull'uscire incontrò gli occhi di Rinaldo conte d'Altavilla che lo guardava con riverenza di figliuolo; e si commosse nel cuore profondo.

Uscivano a due a due. I parenti, gli amici, gl'ignoti, s'affollavano loro intorno, come ad uomini usciti di sepoltura, come ad antichi cittadini di repubblica morta che in un subito risuscitasse con loro. In quella dolce confusione d'amplessi, e di parole tronche, e di voci a cui mancavano le parole, molte faville d'odio, rimase nel fondo de' cuori, si spensero, perchè la gioja spegne gli odii meglio che non fa la paura.

Dispersisi quelli, per andare a vedere le mogli e i figliuoli (che li aspettavano chi alle finestre, chi sulle scale, chi ne' cortili, e chi nella via, secondochè la dignità permetteva all'affetto, o l'affetto vinceva la dignità), la moltitudine sulla piazza, calmata l'ansia dell'aspettazione, rassicurati, incominciarono a ragionare. I più confidenti, o forse alcuni tra' ligi allo straniero, facevano ogni cosa finito: potersi la città rimettere in pace; il duca cederebbe di buona voglia e anderebbe via. Per tali discorsi infuriavano i più; e: che cacciare la tigre nella tana, non era già averla spenta; e che smacchierebbe feroce, e farebbe impeto nella campagna; e bisognare la morte della fiera, e de' tigri, creature sue. Gridava uno: «S'i' lo vedessi abbracciato a un Santo del paradiso, e non ne lo potessi spiccicare, passerei da banda a banda il Francese col Santo.» E un altro: «Stritolargli le ossa bisogna, in minuzzoli più piccini della sua coscienza, di quel piccinaccio, di quel reciticcio. I tristi che non hann'anima nel petto, l'hanno in ogni membro del corpo: e, a mazzerarli come canapa, si rihanno.» E qui urlare con voci roche: muojano! muojano! E di que' che gridavan più alto, i più non avevano jernotte combattuto altro che in sogno. Ma quando la paura ne' vili finisce, il timore negli animosi comincia: e là dove allo stolto le difficoltà si dileguano, appariscono al saggio.

Fin da domenica notte erano venuti di Siena, capitanati da Francesco Montone, trecento cavalieri e quattrocento balestrieri, molto bella gente; ed entrati nella città, fra le grida del popolo, a lume di fiaccole e a suon di campane. Riposati che si furono, e sentita la messa in Santa Reparata, i sei ambasciadori, tre grandi e tre popolani, si presentarono al vescovo e a' più onorevoli cittadini raccolti intorno di lui; e Francesco de' Salimbeni cavaliere disse queste parole:

«È intendimento del Comune e del popolo di Siena, con questo leggier soccorso mandare al popolo di Fiorenza una significazione della benevolenza sua: e questo stima debito di repubblica a repubblica, e di gente toscana a gente toscana: e vive sicuro che in ogni occorrenza il Comune e il popolo di Fiorenza farebbe il simile verso il popolo e il Comune di Siena.»

Queste semplici parole furono più soavi a dire e a udire che in altri tempi non fosse ogni civile vittoria delle più gloriose: nè tanto Farinata godè a Montaperti della debellata, quanto il Salimbeni ora della soccorsa Fiorenza. Il vescovo a lui rispose:

«Non vi desideriamo, onorevoli cittadini, tali occasioni quale questa è, da provare la fede nostra; ma questo vi promettiamo, che ogni pericolo della vostra repubblica sarà da Fiorenza tenuto siccome suo. Io intanto e questi cittadini presenti a voi, nel nome del Comune, con leal cuore vi ringraziamo del buono animo vostro: e al popolo e al Comune di Siena ogni bene e grandezza dal misericordioso Iddio, e dalla Vergine, vostra signora e nostra, imploriamo.»

Vennero i Samminiatesi, vennero i Pratesi domenica mattina, co' loro soccorsi: venne il conte Simone da Battifolle, venerabile vecchio, e Guido nepote suo. E con forte voce ma tremante per la lieta turbazione dell'animo, il conte disse così:

«Ringrazio Dio che ha serbata la mia canizie a questo giorno tanto fortunato alla vostra città, degna figliuola ed erede della libertà e gentilezza di Roma. E mi sarebbe doluto morire, e la vostra diletta repubblica, sì lungo tempo durata in grande libertà, lasciar tuttavia sotto la mannaia di straniero carnefice. Ormai, magnifici cittadini del Comune di Fiorenza, i' non morrò a tale ora ch'io consolato non muoja, perchè gli occhi miei hanno vedute le bandiere del vostro popolo spiegate di nuovo in sulle torri dell'antica città. E m'è grato che questi pochi guerrieri, da me condotti come soccorritori alla battaglia, giungano testimoni della vittoria.»

A lui il vescovo: «Iddio benedica, o signore, la vostra vecchiezza, e la bontà dell'animo vostro.» - E voleva seguitare; ma non trovava parole che dicessero più nè meglio di queste poche: quando l'affollarsi intorno al nobile vecchio de' cittadini affettuosi, tolse l'Acciaiuoli d'impaccio.

E la domenica al tardi e il lunedì concorrevano da tutte le porte i contadini armati, chi per cenno de' loro signori, i più per devozione al Comune; vogliosi di sentire l'odore della battaglia, ora (nella gioja) dolenti quasi della non da sè cooperata vittoria. Mezzo ignudi taluni: ma sotto a que' cenci batteva un cuore d'uomo franco e di cristiano, credente nelle forze del Comune e nel nome della libertà. I sacerdoti, sopra tutti, accoglievano con amore que' poveretti; e al vederne le torme, non fiacche ma ubbidienti con altera docilità al ben compreso comando, e che movevansi da spontaneo impeto concitate, godevano in cuore. Chi dell'armatura guerriera non aveva che l'elmo, chi soli i cosciali, chi un pavese arrugginito: ma le falci erano lucenti, e taglienti le accette, e gli archi fecondi di certa saetta. E dicevano in loro schietto e potente linguaggio, dello sbarbare la mala erba francese, e del potare i rami fradici dalla buona pianta. Ad un setaiuolo brillo, il qual si faceva beffe della veneranda e terribile semplicità di costoro, e si lasciava fuggire parole pericolose in dì di vittoria popolare, sicure il dì poi; un contadino cencioso ma pulito de' suoi cenci, guatando bieco ma freddo, rispose: «Se vo' sapeste vivere come noi viviamo, non fradici di vino, e rimpinzati d'untuosi banchetti, e invidiosi, e peccatori; vo' non correreste rischio di perdere ad ogn'istante la vostra libertà e de' figliuoli vostri. Perchè la maledizione di Dio v'entra in città, come la pestilenza, cucita in quegli abiti foderati di vaio e d'ermellini. O anime di volpi, gente vestita d'orgoglio, e addobbata di male frodi!» - E' voleva seguitare, quando il briaco gli si avventò per zombarlo: ma il contadino non degnava adoprare l'accetta. Ed ecco gente venne che, gridando, fece fuggire lo sbeffeggiatore briaco, il quale, inciampato in un sasso, cascò come morto.

L'Acciaiuoli, con altri buoni cittadini, grandi e popolani, fecero richiedere quanta sapevano buona gente, e bandire parlamento per riformare lo stato della città. Il lunedì, furono congregati nella chiesa di Santa Reparata, tutti in arme; e chi non poteva le armi per ferita toccata in battaglia, avevano ripresi gli abiti all'antica foggia fiorentina. Grandi e popolani senza distinzione si sedevano là dove trovassero il luogo libero; e i più potenti parevano ambire il men alto. Sedie onorevoli erano serbate agli ambasciadori di Siena, e a' condottieri degli altri soccorsi; ma parve loro più bello confondersi ai cittadini. Il vescovo parlò, e disse:

«Oramai la signoria del Comune, o Fiorentini, è vacante; chè nessuno è che non vegga il duca d'Atene già fuori delle nostre porte, e non voglia, prima che il suo imperio, la morte. Onde bisogna provvedere alle necessità del Comune, e scegliere uomini a' quali sia data balìa di riformare la terra infinattanto che il popolo radunato manifesti in solenne modo la sua volontà. Io, cittadini, salva l'approvazione vostra, proporrei che a quattordici di numero fosse data essa balìa, tolti da tutti i sesti, e più dai più popolosi: e direi che, siccome fecero i nostri maggiori, i quali in altra simile riformagione nominarono dodici cittadini, due per sesto, un de' grandi, uno de' popolani; e noi similmente eleggessimo de' popolani sette, e sette de' grandi.»

Tutti dissero ch'era bene. Allora il vescovo propose a uno a uno i nomi che seguono, e ad ogni nome tutti di grande accordo rispondevano: sì; perchè già il vescovo non proponeva persona, che non fosse sicuro del consentimento comune. Nominò d'Oltrarno Rodolfo de' Bardi, Sandro di Cenni de' Biliotti, Pino de' Rossi; di San Piero Scheraggio, Filippo Magalotti, Giannozzo Cavalcanti, Simone Peruzzi; di Borgo Santo Apostolo, Giovanni Gianfigliazzi e Bindo Altoviti; di San Brancazio, Testa Tornaquinci e Marco degli Strozzi; di Porta del Duomo, Bindo della Tosa e Francesco de' Medici; di Porta San Piero, Bartolo de' Ricci, Talano degli Adimari. Nessuno quasi tra gli eletti era stato de' capi delle congiure, e poco avevano operato i più per la sconfitta del duca; anzi taluni o nel forte della congiurazione nascostisi, o dato segno d'animo titubante o d'avverso. Ma i buoni cittadini di Fiorenza pensarono, gli uomini accomodati al congiurare rado essere idonei al governare; pensarono, la balìa data ai men caldi essere indizio di confidenza che il Comune poneva in essi, e pegno di concordia, e spezzare ogni vincolo tra loro e 'l tiranno; pensarono che nel frammischiare alcuno uomo incerto, ma non tristo, a molti sicuri, era pericolo minore che nello escludere in tutto quella gente dalla somma delle cose: e pensarono che la fortuna mutata a favore della repubblica inspirerebbe nei più tiepidi nuovo ardore d'affetto. Assentiti per tanto i quattordici, il vescovo disse:

«Resta ora che si deliberi a chi affidare la podestà.» Alla quale proposta tutti quasi a una voce nominarono il conte Simone da Battifolle: ma il buon vecchio levandosi prese a dire:

«Io vi ringrazio, o cittadini di Fiorenza, di questa fiducia che in me ponete: e se la intenzione buona valesse, parrebbemi non n'essere in tutto immeritevole: ma vi dico che senza estrema necessità non saprei risolvermi a fare uffizio di giustiziere in questa terra dove non altra memoria vorrei rimanesse che della riverenza e dell'amor mio verso tutti e ciascuno de' suoi cittadini. Perchè, laddove tu debba condannare od assolvere, rado è che tu possa fuggire l'odio o 'l sospetto; e quando pure l'animo intero non fallisse mai, può fallire la scienza e la pratica delle cose. Nè questa mia canizie, ch'io ho fino ai tardi anni serbata pura d'odio e di sospetto, vorrei, Fiorentini, pur con un fallo d'ignoranza macchiare. Poi, dell'ancor muggente tempesta non può che non rimanga una lunga e faticosa marea, durante la quale non sarebbe delle mie forze sedere dì e notte al governo. E quanto maggiori cose voi v'aspettate, o buoni cittadini, dall'opera mia, tanto il vedervene, senza mia colpa, ingannati, mi vi farebbe odioso o sospetto. Però vi prego vogliate lasciarmi sicura fino alla morte la ricchezza della mia pace e dell'amore vostro.»

Così parlava il buon vecchio: e i cittadini, dolenti del niego, pure assentivano. Proposesi di chiamare a podestà Giovanni marchese di Valiano; creare intanto sei luogotenenti, tre grandi, tre popolani, un per sesto: Napo degli Spini, Berto de' Frescobaldi, Paolo Bordoni, Taddeo dell'Antella, Antonio di Lando degli Albizzi e il cavaliere Francesco Brunelleschi: al quale il Comune per tal modo significava aver preso in grado il suo pentimento. E sei n'elessero, acciocchè di più fosse insieme adunato il senno, tra più divise le cure e le odiosità in quel difficile tempo. Eglino stettero nel palagio del podestà con dugento fanti pratesi per guardia: onore che Fiorenza intendeva rendere al buon zelo della terra di Prato. E tennero ragione sommaria di ruberie e violenze; e s'ingegnavano di medicare le piaghe della straniera insolenza.

Ma prima che l'adunanza si sciogliesse, il vescovo disse ancora: «A tutti voi, cittadini, è noto come parecchie e terre e città, già soggette al nostro Comune, ribellandosi alla signoria del duca, se stesse rivendicarono in piena libertà: del qual danno non è questo il tempo di prendere o rammarico o ira, noi, occupati da gaudio sì grande e da più prossima cura. Ma questo io vorrei fermato sin d'ora: che non per via di vendette violente a noi convenga ripetere i contesi diritti, e questa nostra libertà, per divino benefizio rinata, battezzare in sangue fraterno. Le città già nostre, abbiamoci, anzichè nemiche, consorti e sorelle: e se con la potenza e col senno la repubblica fiorentina saprà salire all'altezza alla quale ell'è destinata, non dubitiamo che quelle verranno spontanee ad invocare la nostra autorità quasi bene massimo. Ma se il potere e il sapere ci manchi, quand'anco la signoria di quelle per forza ricuperassimo, sarebbe corta vittoria, e piena di sdegni e di pericoli, che l'uno dall'altro nascerebbero senza posa mai.»

Alla qual cosa assentito ch'ebbero tutti, il vescovo levandosi disse: «Da ora innanzi, a bandire il parlamento de' Signori della balìa e de' principali cittadini sonerà la campana della podestà; a congregare il popolo sonerà la campana a martello, com'era usanza. E così riprendendo le buone consuetudini della repubblica nostra, riprendiamo, o cittadini, (fuor gli odii e le gelosie) il vecchio animo fiorentino.»

Ben fecero i buoni cittadini a provvedere alle cose del Comune: che il popolo a questo non dava mente, pieno dei dolori passati e della presente gioja; il popolo che, siccome animale faticante, rumina a bell'agio le cose; ond'è che i tristi sovente lo colgono sprovveduto. E questa del vivere più nel passato che nell'avvenire, è così potenza e grandezza come sventura della misera plebe.

I più corrotti, come briachi a' quali il dì festivo non è d'altro occasione che d'intemperanze, badavano pure a vendetta. Intanto l'assedio seguitava notte e dì senz'assalto: chè già la fame, quieta e invincibile, come la morte, stringeva i rinchiusi a uno a uno, e sotto a' ferrei usberghi ficcava il suo dente. Di che facevano gran fiottare i soldati; ma i baroni, più delicati, tacevano per orgoglio; il quale nell'apparenza tien vece di molte virtù.

Dico che i più cattivi tra i cittadini correvano braccheggiando la vendetta; e non tanto cercavano, o mandavano pe' masnadieri cercando i paggi o i valletti o i damigelli del fiero duca, quanto i ministri delle sue crudeltà. Non rammentando (tanto li acciecava la fiera voglia) che il bargello d'Assisi stava rinchiuso col figliuolo Ippolito nel castello, l'andarono taluni a cercare nelle case de' Cerchi Bianchi nel Garbo, dov'era l'abitazione di lui. In lui sopra tutti, ed in Cerrettieri Visdomini tendeva la rabbia popolare. La quale dispersasi per la città, fatto de' viuzzoli, delle vie mozze, delle cantonate quasi tante maglie di rete fitta da incalappiar i nemici, se n'andava annusando per addentarli a morte. Bindo Altoviti sorprese un notaio, crudele uomo, vestito da donna, il quale attraversata la via come gatto che fugge, scendeva a acquattarsi giù a' lavatoi tra' giunchi del fiume. L'Altoviti, al passo virile e al guardar sospettoso, s'accorse del vero, e, smascheratolo, l'additò alla marmaglia seguitante. Voleva egli fare scherno di costui, non istrazio: ma coloro, alzate le gonnelle al notaio, e stracciategli le brache, si misero a flagellarlo. E perchè il cattivello gridava il nome di Maria, ed eglino: «Madonna vuol partorire: oh che nuovo peccato vuo' tu mettere al mondo? Forse un nuovo patto tra 'l duca e 'l Comune, con cautele e sacramenti a modo del primo? Ah cane di notaio; ah servitor del bargello! Di' quanti n'hai fatt'ire al patibolo, e quanti a' tormenti!» E le busse sonavano a tutto andare. Quando un vagliatore, afferratolo per il petto: «Tanti bocconi ci convien far di costui quanti e' tradì cittadini.» E strapparlo, squartarlo vivo, sbocconcellargli ogni membro (che guizzando pareva cercasse il tuttor vivo compagno), fu un punto.

Alla crudele opera davano mano parecchi tra' figliuoli di quegli scardassieri ch'jeri facevano per lo straniero; e taluno di que' beccai stessi ch'aizzava jeri i suoi cani contro i cittadini combattenti per la libertà, li cacciava oggi addosso ai servi del duca vinti. A raffittire questa turba aggiungevansi molti artigiani delle arti più sozze, o delle più molli (e questi erano i guidatori); e qualche legista armato di bacinetto che riluceva al sole, maravigliato di tanto. La turba cresceva continuo. E perchè 'l vinaio era ben conosciuto razza ducale, contro a' vinai si scagliavano costoro, o piuttosto contro alle canove loro. I quali vinai, come pecore nella stalla quando si mungono, stavano cheti, e belavano pietosamente. E per deliberarsi da tante spugne assetate di giustizia, ciascuno denunziava la canova del vicino, come rea di vino più fine: nè si salvavan però; che, per dare giudizio retto, i severi uomini assaggiavano d'ogni botticina; e con molta equità sentenziavano. Se non che il vino così tracannato scemò grandemente il numero de' giustizieri, molti de' quali, come sanguisughe sature, cadevano in lungo letargo. E così non poche crudeltà furono risparmiate da questa prima rapina: perchè siccome il bene è grande ajuto al bene, e così 'l male è limite potente a sè stesso.

Ma il vino de' vinai ducali, o Simone da Norcia, non campò te da amara agonia. Costui, uffiziale alle ragioni del Comune, barattierissimo punitore di baratterie, che molti aveva tormentati a torto, a diritto taluni; da quelli che a torto, fu lasciato stare, da quelli che a diritto, era adesso inseguito. E fuggiva, com'uomo che sente la piena del torrente rotto romoreggiare alle spalle; preso ch'e' l'ebbero, si levò una voce: «Buttiamolo giù dal ponte.

- No, ch'egli avvelenerebbe Arno,» gridò un'altra voce. «Facciamogli un bagno di piombo strutto, da tuffarvi entro quella boccaccia che tanta sete ebbe d'altro metallo.»

E un altro: «O sepolcro della giustizia, i' ti voglio aprire, e vedere che ti resta costà entro del tanto ch'hai divorato del nostro.»

Ma un barbiere ch'era dietro, presa l'ascia di mano a un contadino che guardava stupido e commosso, tagliò a Simone da Norcia la testa di netto, come buon cerusico che il barbiere era. Gli altri lo tagliarono a minuzzoli, e lo sparpagliarono per la via, come si fa la fiorita. Ed era fradicia di cervella schizzate, e di frattaglie sierose, e di sangue nero la terra.

Un altro uccellaccio stava per essere aggraffato, un altro notaio, Matteo napoletano, capitano de' sergenti a piedi, all'osceno duca. E' correva correva, su per le borgora di Pinti; e quelli dietro, e urlavano: «Il diavolo ha date l'ale a costui.» E i più indietro: «Chi primo l'acchiappa, non lo finisca.» I cittadini quieti, il popolo vero, potevano fermare il perseguito, e darlo in mano alla morte; ma non degnavano: e se non era paura della furia degl'inseguenti, l'avrebbero volentieri campato. I più faceti, godendo del vederlo sottrarsi a quelle fiere, dicevano: «Per un sergente a piè, e' corre bene.» Matteo svoltò da una viuzza, e poi da un'altra, e poi da un'altra, tanto che riuscì, sfinito, allo stradino dov'erano le femmine mondane, e diede del capo in Jache della Malora, un Francese ribaldo del duca corrottamente dai Fiorentini chiamato così; il quale, non trovando luogo più sicuro, andava per chiedere rifugio a quelle sciupate. Ma di tal foga correva Matteo, e con tant'empito pinse Jache, che tutti e due stramazzarono a terra con riso e tripudio di que' dietro. Il primo de' quali (ed era un macellaro) acchiappatolo, gridò: «Ti fossi gittato in Arno, i' sarei affogato per correrti appresso, tristo Matteo.» Jache rilevatosi, vide sè in mezzo a una calca nemica, e raccomandò al beato messer san Dionigi l'anima sua. Le peccatrici al rumore s'affacciavano, scapigliate, trista cosa a vedere; altre attillate già, ma con le occhiaie della affralita giovinezza, e lo squallido pallore de' patiti piaceri. Le più attempate ridacchiavano; le giovanette guardavano attente senza parola; le già su' vensei parevano mosse a pietà. Allora disse uno di que' della via: «Diamo a queste pinzochere un santo diletto: facciam correre Jache e Matteo il palio ignudi: il palio sarà la cuffia della più vecchia tra voi, femmine.» Una cuffia fu buttata dalla man d'una giovane; e Jache e Matteo, ignudi nati, a forza di scudisciate, corsero e ricorsero il viuzzolo come due bovi che movono saltelloni al macello, stimolati dalla mazza del beccaio che li comperò. A mala pena e' potevano andare di pari: onde l'urtarsi a ogni tratto, e il cadere, tra l'angustia, e il dolore delle percosse, e la rabbia. Le donne lasciavano stare Matteo, che nol conoscevano; ma Jache il qual bazzicava laggiù, era segno agli scherni delle men buone. «Oh Jache! Oh Giacotto! Oh Lapo! Oh Jacopone!» - E una, giovanettissima ma svergognata: «Bella persona di francesaccio sudicio! Oh non mi died'egli, un mese fa, un fiorin d'oro perch'io stessi a vederlo cavalcare la costa, e al suo cadere gridassi, quasi vaga di lui, per farsi bello co' suoi compagnoni dell'amore di giovane donna.» Stanchi dello sbertarli a quel modo, li fecero montare uno a cavalluccio dell'altro e correre lo stradino così. Ora Matteo era il ronzino, ora Jache; ora fatti andare di galoppo, or di passo: e gridavano, contraffacendo alla peggio la favella di Napoli: «Matteo, se tu stavi nello castiello a parlimiento, tu non staresti ora rutto d'onne membro come tu se'. Non chiangere, meschino del duca, non chiangere: per poco tiempo tu stara' qui presune. Vuo' tu essere impiso o abbocconato?

- Abbocconato,» gridarono con cupe urla molti: e così lo strapparono dalle spalle di Jache, e s'apparecchiavano a fargli la festa. Jache se ne stava come brennaccia che scuota una dura soma, e aspetti nuove picchiate; quando aocchiò un uscio socchiuso, e una delle femmine, di quelle sui vensei, che pietosa gli ammiccava, entrasse: e sgusciò come coniglio sotto la macchia.

Intanto verso la cerchia delle mura nuove di sotto a san Gallo fuggiva dal convento de' Servi un frate, pieno il cappuccio di maledizioni sue e d'altrui; e non osava nè correre nè andare piano, chè sentiva la morte battergli con le nere ali la fronte, e strisciargli fredda sotto all'abito sacro. Certi fanciulli che venivano da Cafaggio, lo colsero vicino al merlo abbattuto dal fulmine, e ravvisarono la faccia gattesca d'Arrigo Fei, quel delle gabelle del duca. E perch'erano gente di fuor di Porta, e dalle querele quotidiane de' padri avevano concepito contro il gabelliere sovrano odio degno di gente che vive di frodo, gli saltarono addosso come avoltoi piccoli a uomo semivivo giacente in via deserta; e gridando: «Oh fra Dolcino!» si misero a strappar gli abiti, e le difese di ferro ch'aveva sotto, e i capelli e la barba. Indi a forza di sassi e di coltellacci male arrotati lo finirono con lungo martoro. E, morto, lo strascinarono ignudo per lo lastrico della città; ringrossata la turba de' fanciulli da uomini fatti. Gli occhi e il naso e le guance dell'ignudo percosse a' sassi e agli scaglioni, lasciavano per ogni via traccia di sè; e dalle braccia protese nel tramenìo, quasi in atto di pregare misericordia, e dal petto straziato gocciava sangue, e si spiccavano brandelli di carne. Così da san Gallo fece il cadavere la via per infino alla piazza de' Priori; e quivi i sopravvegnenti, in cui l'odio era fresco, nuove atrocità ritrovarono. Di faccia al palazzo impiccarono, così lacerato, Arrigo Fei per li piedi; lo spararono, e lo sbarrarono come porco. Il duca e Cerrettieri, abbassati gli occhi su quell'infelice, ne li ritrassero, non pietosi di lui, ma spauriti per sè. Il bargello d'Assisi non guatò; che ben sapeva, fino alla menoma fibra, quanto tempo dopo la morte palpitassero, e come nel lividore annerassero i cadaveri de' martoriati. Il popolazzo, intorno al gabelliere saltando, gridava: «E così vada ogni tiranno, e ogni servitor di tiranni.» E allora più alte le voci: «Muoja il duca e' suoi!» Come quando nella selva fremente per vento, un nuovo buffo che s'oda venir di lontano scuote più forte i sommi rami, e ne trae (misto al mormorìo continuo della fiumana che scende) un rumore più cupo, e più lungo che mai.

Ma poichè assai lo videro così sparato, o schifati di quell'aspetto, o per certo furore di novità che possede gli animi commossi, lo spiccarono: e allora i fanciulli ripresolo, così sbarrato com'era (che pareva una carogna di principe da dover essere imbalsamata) lo ristrascinarono urlando. Trassero infino al ponte vecchio; e, palleggiatolo lungamente, alla fine lo buttarono giù.

Degli orrori che racontiamo è tua in buona parte, o duca Gualtieri, l'infamia.

Nè tutti i cittadini partecipavano all'inumano convito: molti raccolti nella gioja della pura vittoria, molti intesi alle utilità del Comune, molti ai loro negozii; altri guardavano come trasognati, o come fa giovane donna il reo condotto al ceppo, che nel tendere gli occhi avidi a quella atrocità, rimbrividisce e compiange. Di là dal ponte Rubaconte (il quale ora chiamano con più dolce nome il ponte alle Grazie, perchè la Madonna delle Grazie ivi ha una chiesetta, lieta del monte in prospetto, e del fiume) veniva di Borgo San Niccolò un beccaio non ricco, devoto al duca, non come uomo tristo, ma per quasi stupida devozione, quale negli animi semplici alligna. Nè dissimulava egli ora, com'altri, l'animo suo; ma n'andava la sua via stupefatto delle nuove cose e sdegnoso. I battilani del vicinato, e qualch'altro beccaio, gli diedero addosso; e già imaginavano vederlo con gli occhi intenebrati, cadavere, e strascinarlo: ma egli tratta fuori una coltella lucente che aveva, e guatandosi tutt'intorno, e andando loro incontro li teneva addietro, come fa toro di cani abbaianti. Altri si ritraevano a passo lento; altri con quanta fretta incorrevano, con tanta fuggirono. Un frate, passando (il frate che aveva la notte del sabato combattuto là sulla piazza), sdegnato in cuor suo del codardo assalimento, prese il beccaio per mano sgridando la turba, e mostrò sotto al cappuccio l'armatura forbita, e sopra l'armatura la croce. Lo accompagnò fino al ponte: poi, ritornato a coloro: «Razza di vipere, incominciò, voi volete rivolgere in maledizione la misericordia di Dio. Or sappiate che se all'uomo forte nella coscienza del debito suo nessuna potestà può resistere, l'uomo crudele che nella violenza trasmoda, va via com'acqua per suolo di rena, che non ne rimane gocciola. Temete, cittadini, non i tiranni o i nemici di fuora: temete voi stessi.»

La moltitudine, a quella voce potente, concorreva vogliosa d'udire; e il frate, picchiando ad ora ad ora sul petto, e dal crocefisso che batteva sulla ferrea corazza traendo un suono nuovo, badava a dire. «Mala signoria è uccellaccio spiumato, che tu puoi con un bacchio levare di nido, e sbatacchiare per terra: ma chi gli fa mettere i bordoni e le piume e le penne maestre, se non la nostra superbia e invidia e cupidità? Vo' vedete come Dio ha miracolosamente percossa questa sconciatura di re, sotto a' cui piedi noi ci eravam dati perchè ci pestasse. Che veramente miracolo è a dire il grande accordo col quale voi, gente lacerata, vi uniste a gridargli: La tua giornata è finita. Ma se la concordia potè, Fiorentini, tanto; io vi dico che la discordia e la crudeltà faranno di voi un miracolo nuovo di servitù e di vergogna. Popolo diviso e immoderato è buon concio da ingrassare tiranni. E di là dove il fumo dell'odio si leva, tra non molto la fiamma divoratrice divamperà.»

La parola del frate era come l'aura che passa sul fiore e sul cardo, ma non ne liba uguale profumo. La moltitudine tuttavia stava attenta; quando un rumore di grida si fece sentire nella prossima via. E quasi tutti traggono a vedere che è. Così le foglie secche, ammontate appiè dell'albero, quando il vento si leva, se ne vanno leggére, e abbandonano la mesta pianta ond'ebbero vita.

A reprimere le poche stragi, ma malaugurose alla città, il suo vescovo che faceva? Mandava per grandi e per popolani, che spargessero tra la folla parole di pace. Ma i grandi nella burrasca delle concitate moltitudini perdono il fiato; i popolani non sentono la loro potenza novella, o troppo la sentono, e ne fanno mostra nelle ire importune. E il vescovo, e i frati da lui mandati a messaggi di perdono, e i cittadini più pii non si affannavano con la debita fretta a salvare quelle teste esecrate, sperando che l'ostinatezza coraggiosa e superba del duca non le lascierebbe al furore della plebe; sperando che, tra umanità e stanchezza, la plebe si ritrarebbe a mezzo del suo corso omicida; sperando ne' casi, ne' prodigi del cielo, non osando intanto invocare ferventemente nè la plebe nè Dio. Avesse osato il vescovo stesso entrare in mezzo al tumulto, l'aspetto di lui lo calmava forse meglio che ogni parola; ma diffidenza degli altri e di sè, più che non curanza, più che paura, falso rispetto della propria dignità lo ritenne. Temette che le sue preghiere cadessero inesaudite, non curato il suo cenno; stette a sentire, lasciò correre le ore, che, non portand'anco la morte, prolungavano ai miseri l'agonia più fiera che morte, e ai cittadini un'ebbrezza sitibonda di sangue. E coloro che egli inviava, e altri che intendevan di suo parlavano languido, come chi dispera della propria parola; e la moltitudine, che vuol cenni imperiosi e sicuri, prendeva di lì incitamento alle sanguinose richieste; e, disobbedendo, le pareva obbedire. Altri, e non della plebe, non ancora certi della vittoria, e temendo che quelli scellerati consiglieri e ministri di maledizione, scampati, diventassero più accaniti a tirannide, volevano tra questa e sè un fosso pieno di sangue: nella loro audacia era paura. E ai più buoni, quasi spossati dalla lunga battaglia di tanti affetti e passioni, mancava vigore a questa nuova e più difficile battaglia seco stessi, e con la parte loro, e con la vittoria; e cedendo, tra rassegnati e trasognati, alle grida imperversanti, sentivano in esse la voce d'una giustizia sovrumana, che giunge a suoi fini con impeto non dissimile da vendetta. Quanto d'errore si nascondesse in quei tortuosi pensieri, quanto di colpa in quei sensi rapidamente mutantisi l'uno nell'altro, quegli solo n'è giudice che ne fu testimone.

Ma i quattordici della balìa col vescovo, anco perchè occupati a spacciarsi del duca, non attendevano a raffrenare la popolare vendetta. Dico, a spacciarsi di lui, e salvarlo da fine crudele: chè all'ira ne' migliori già sottentrava disdegnosa pietà. Perchè le anime forti e severe sono com'acqua tra rive difese da folte ombre, che par bruna e torba; ma se un raggio vi penetri, ella lo riflette puro, e lo accarezza in sè con amore. E oramai che la paura del duca dava ai cittadini potenti l'adito nel palagio, mossi a pietà della fame di quegli sciagurati, e' vi mettevano dentro tanto pane (non più) quanto bastasse di giorno in giorno alla vita.

Or i quattordici, il vescovo, gli ambasciatori di Siena, il vecchio conte da Battifolle, entrarono al duca, a renderlo certo del voler loro e del popolo. Egli, facendo mostra d'intrepida dignità, ringraziò della intenzione benevola; e stava aspettando le loro proposte, siccome l'astuto suole, quando si sente impacciato. Filippo Magalotti gli fece manifesto senza circuizioni il pericolo. Raumiliato, ma tranquillo, e' domandò al conte Simone: «Or che credete voi, messere, convenga alla pace di Fiorenza e alla mia dignità?

- Ve ne andiate, signore.»

Il duca, con ira che voleva parere alterigia, chiesto tempo al pensare, pregò 'l conte volesse tra poco tornare a lui.

Ritornò. Fosse nuova speranza scesa in cuore a Gualtieri, fosse consiglio de' suoi, fosse astuzia per ottenere patti men duri, fosse superbia dell'animo inalberato dalla sventura, e' disse al conte ch'entrava: «Non posso. Invocato, esaltato sopra la condizione di re, io entrai nella città di Fiorenza: uscirne a guisa di fellone non è dell'onore del mio sangue regio.»

Il conte, parco di rimproveri importuni e crudeli, non rispose a questo; ma disse: «Pensate, messere, che quest'unica porta vi rimane all'uscita.

- Condizioni io voglio, degne della stima in cui m'ebbero insino a questo dì i Fiorentini.

- Condizioni potete, o duca, proporre, e io rapportare: con quale speranza, non so. Meglio sarà ne abbiate parola con alcuno della balìa, che potranno più speditamente o accettarle o farne altro. Perchè già il pericolo stringe: e di qui sentite le grida. Or con quale della balìa piace a voi, signore, tenere discorso?

- Con messere Simone Peruzzi.»

Il Peruzzi, già de' fautori del duca, assumeva di mal cuore in sè quest'uffizio: ma gli altri ve l'incuorarono; perchè que' savi cittadini stimavano essere buona cosa mostrare fede in uomo non sicuro, ma per altro non tristo; segnatamente laddove il sospetto accenda gli odii, e la fede non porti pericolo. Visto entrare il Peruzzi, Gualtieri l'accolse con più dimostrazioni d'affetto che non avesse il tetro uomo usate mai a donna bramata; e rammentò gli obblighi che lui duca stringevano alla casa Peruzzi. Il cittadino taceva. Ma quando il Francese si buttò alle promesse (che nulla costano ai tristi, ma a lui costavano molto, perch'erano confessione di paura); il Peruzzi rispose:

«Sire, molte cose voi prometteste a Fiorenza, molte a' suoi cittadini; molte e grandi, e contrarie fra sè.

- La novità del governare e l'impeto francese, confesso, mi trasviò: ma rinnoviamo la prova.

- Non si rinnovano, sire, prove di sangue. I Fiorentini hanno nome di ciechi, ma non di stupidi.»

Allora il duca quasi supplichevole: «Messere Simone Peruzzi, voi siete cittadino di repubblica: ma cittadino fiorentino ha spiriti regii, e sente quello ch'è debito e innato ad ogni umana maestà. Vo' vedete che cedere a questo modo io non posso. Proponete quali vi piacciano patti, purchè patti siano, purchè un trattato si faccia tra il duca d'Atene e il Comune della città di Fiorenza.

- Patti? Il Comune della città di Fiorenza ha in mano la vita del duca d'Atene, suo tiranno: il popolo di Fiorenza, conte di Brenna, è re vostro.»

Il miserabile uomo, quasi piangendo lagrime di rabbia (espressegli dal cuore, come il vento che tira ineguale fa le gocciole di pioggia dalla nube restia), mormorava in parole tronche: «Or che dirà il mondo di me?

«Che dirà il mondo di voi? Quel che già dice. Duca d'Atene, il vostro destino è segnato, destino di tiranno: un titolo solo vi resta; l'infamia. All'opinione del mondo e all'onore più non pensate: pensate a scampare la vita.»

Allora il vescovo, mosso a compassione, andò a lui. Lo trovò sbigottito; sbigottito non di paura, ma di vergogna; rientrato in sè, e più pochino della persona che natura nol fece. Lo guardò con quegli occhi ch'e' soleva guardare un peccatore indurato vicino a morire, con pietà, con ribrezzo, con sacra speranza nella bontà e nella forza dell'umana natura, ajutata da Dio. Gualtieri, riscosso, e levatosi da sedere, gli prende le mani, le bacia, e:

«Venerabile uomo, vi rammentate vo' il dì quando in pubblico sermone mi commendaste all'amore del popolo fiorentino? In memoria di quel giorno i' vi prego, diciate per me una parola di pace a cotesta plebe disumanata.

- Duca d'Atene, io parlai altra volta a pro vostro, e m'ingannai: pagai caro l'inganno. Nè questo era tempo da rammentarlo: ma sia. I' confesso meritato il raffaccio; chè qui non del mio orgoglio si tratta, ma della salute vostra. Parlerò sì per voi: e vi raccomanderò, non all'amore, ma alla misericordia del popolo fiorentino, purchè voi stringa, Gualtieri, misericordia di voi stesso. Umiliatevi.

- Ecco io m'umilio. Prometto al popolo ordinamenti nuovi: purchè non mi scacci. Purchè non mi scacci (gridò commovendo con mano gl'irti capelli della torbida fronte). Ai grandi prometto franchigie, franchigie ai popolani, franchigie ai cherici: prometto onori, salarii, esenzioni agli uomini, padre, della casa Acciaiuoli.»

A queste parole il vescovo, levato il capo e colorato di sdegno, esclamò: «Sire Gualtieri, la mia famiglia è Fiorenza. Se altra volta, preso da umani affetti, feci o parlai cosa men che degna di vescovo, e di fiorentino, il giorno della battaglia e del pericolo comune m'insegnò la mia dignità. Sire Gualtieri, la mia famiglia è Fiorenza: a me vescovo, grandi, popolani, operai son figliuoli; a me cristiano, grandi, popolani, operai son fratelli. Voi altri siete usi costaggiù a afferrare il pastorale con la mano regia, e a farne mazza percotitrice sui popoli: ma qui non è Francia.»

Gualtieri, ferito, dimenticando il presente suo stato, rispose con amaro sorriso: «Rammenti la mansuetudine vostra, che il duca d'Atene ebbe a consiglieri cinque vescovi, e non francesi.

- Sian dieci, siano venti; tutti non sono. E fossero, basta uno solo a dare esempio al mondo che non è necessaria cosa essere vile nel nome di Cristo; che disubbidire ai grandi della terra laddove e' comandan peccato, è cosa santa; che i tabernacoli del Signore sono assai grandi da poter ricettare quest'orfana divina, insidiata dalle frodi de' principi, perseguita dai peccati degli uomini, la libertà.»

Il vescovo signoreggiava dell'alta persona e del forte accento toscano e della cristiana autorità il laido duca, il qual pareva come rimpiccinito a' suoi piedi, men che fante, e men ch'uomo. E mentre che frate Agnolo parlava, la povera croce appesa al suo petto pareva dicesse anatema alle insegne di cavaliere appese al petto del tristo; e lì poste a fronte si combattevano e si giudicavano le due potestà. Gualtieri sentì sè minore: e non tanto paura quanto riverenza lo vinse:

«Padre, se io v'offesi, non era mio intendimento. Fate di me quel che l'animo vi consiglia.»

Lo sdegno del vescovo cadde a quelle parole; com'acqua pura che, sbattuta, in breve si ricompone, e rifà trasparente. E uscì ad impetrare grazia per la vita del tristo.

Ma il popolo nella piazza, al vedere or l'uno or l'altro de' cittadini entrare ed uscir di palagio, come fanno gli amici e i parenti nella stanza d'uomo ammalato in pericolo, ne sdegnavano; e parecchi andavan dicendo:

«Guarda carità che li prende! E' sperano condurlo a patti quel cane.

- Volesse tenerli, e' non può.

- Un modo io so di fermarlo: con funi d'oro. Promettigli fiorini, e l'avrai. Per ritrovare un bargellino, e' svierebb'Arno.

- Che di' tu, Pietro Paolo, d'averlo e di patti? Non l'abbiam noi? Chè non lo scendiamo sull'atto? Se parlamentare intendono, salgan essi que' della balìa su in palagio, e lascino lui ignudo qui a questo sole: vi dico, ch'e' tremerebbe a foglia a foglia.

- Oh pauroso non è. Non ti rammenti, Bucciolo, quando lo vidimo passare il Serchio con soli cento de' suoi, e affrontar la battaglia?

- Allora, fratello, e' non era duca. I codardi hanno in vita loro un dì di coraggio, che sia velo e titolo a perpetua codardia. Poi a costoro il coraggio è come una malattia che li piglia. E tu sai che i polsi battono più forte così di timore come d'ira.

- Codardo, o no, purchè se ne vada.»

In altro capannello dicevano: «E' volle essere signore a vita della città e del contado; ed ecco quanto gli resta; un palagio per carcere, forse per gibetto.

- E quei che volevano un signore di sangue reale, perchè nel sangue reale è più flemma di giustizia e di carità, l'han sentita ora.

- La gente ricca (vedi, il mio Stricca) desidera mutar cibo.

- E noi, non usi a palpare nè grandi nè re, noi lingue di forbice note al mondo, leccare costoro! e un sergente del pugliese parerci dappiù d'un priore!

- Noi? di' piuttosto i ricchi nostri ch'han sempre avuta la maledizione di scavare sotto il lastrico di Fiorenza un viperaio di re. In quarant'anni dacch'io mangio e beo, ecco: prima Carlo di Valois; poi re Roberto, che morì, e fece bene; poi un Filippo di Valois che non volle, e fece bene; poi un figliuolo di re Roberto, che se n'andò, e fece bene. E' non ci degnano, o la misericordia di Dio ce li leva di collo; e noi sempre all'accatto d'un cencio di re. Nasce al duca di Calabria un figliuolo: pensa sapienza che verrà al mondo da una nuova testa di duca! E Fiorenza in gloria. Troppo!

- E questa pestilenza di cavalieri ch'e' ci portarono, che crescono per le prata, come la malva. Noi li avevamo un po' diradati, e di dugencinquanta di corredo recati a sessantacinque: e costoro ce ne rimettono Dio sa di che sorta polloni. Sai tu, Lapo, quanti n'albergava Fiorenza all'entrata del duca di Calabria? Duemila. Pensa! Giotto da San Gimignano, cavaliere; cavaliere Ippolito, il figliuol del bargello. Ma i' credo ch'egli abbiano per dama la morte.»

Altrove brontolavano più sdegnati: «Oh chi li muta? I grandi per tutte le parti di cristianità sono a un modo. E' son come i bachi nel corpo umano; tira tira, ne schianti un gomitolo; il resto rimane dentro. Vedi, patteggiano.

- E che patteggiano?

- Oh chi lo sa? Più facile contare i passi della lepre che seguire le vie torte d'un grande. Il diavolo, amico, è di sangue nobile; e perchè parve a lui le sue corna non fossero alte assai, le levò contra Dio.

- Credimi, Cecco, a costoro noi siamo bestie comestibili; e s'e' ci lasciano mangiare, fanno per ingrassar sè di noi.

- Ben fecero que' di Bruggia a incarcerare i nobili caparbii; a ingabbiare gli astori. Ma noi abbiamo telai migliori, non migliore anima di que' tesserandoli.»

Vedendo Rodolfo de' Bardi entrare al palagio, certi seduti sulla ringhiera mormoravano: «Ve', ve', uno de' nostri Uberti. In grazia loro il grecaccio fece la vituperata pace con Pisa.

- Tu di' de' Bardi: e i Donati? E l'orgoglio di quel Manno, degno figliuol d'Amerigo, che vent'anni or sono (me ne rammento io: gli era d'agosto) fece congiura per rubare, ardere, uccidere; per abbattere l'uffizio de' priori, e disfare il popolo.

- E i Cavicciuli, con le loro torri, e i palagi, e i masnadieri stranieri!

- Oh ecco il vescovo entrare anche lui.

- Mal augurio quando i preti c'intingono.

- Non dire, Ansaldo, non dire cotesto. E fu pure un vescovo di Fiorenza, che (quando Arrigo imperatore ci assalse, e n'andò via scornato), s'armò co' suoi cherici a cavallo, a difesa di porta Sant'Ambrogio, e de' fossi. I' v'ero io.

- Sì: ma cotesti cherici danno sempre dell'incensiere nel naso a chi vince: hanno sempre il dito sopra un'autorità de' libri santi per provare che ogni vittoria è da Dio.

- Non dire, ti prego, del vescovo nostro. Per lui, e per messere Antonio Adimari i' mi metterei al martoro.

- Sì, messere Antonio ha viscere di Fiorentino: ma a questi popolani falliti che, dopo aver tirato coll'oro di fuori nella nostra città i peccati di tutta Europa, ora ci tirano la ruina, e fanno le viste di stare col popolo, a costoro non credere. Razza di mercatanti: ch'hanno la patria a Lione, in Analdo, in Inghilterra, nel cofano dei re, in ogni tasca piena. E che fu che fece falliti in più d'un millione di fiorin d'oro i Bardi e i Peruzzi? Fidare ne' re. Non posson eglino vivere questi venditori e venduti, senza fregare col naso la mota che il re d'Inghilterra pesta co' piedi?

- Di' pure, Brandino, quel che tu vuoi, ma grande onore è alla repubblica e alla città di Fiorenza farsi sostenitrice di regni, bàlia di re.

- Sostenitrice sciancata, che prende per suo bordone una canna infranta; bàlia diburrata. Men oro, Gianni, e più ferro; men fumo e più calore; meno astuzie più senno.»

I ragionari de' meno ardenti erano interrotti da grida di morte: i più infuriati volevano il duca, volevano i suoi. Allora Antonio degli Adimari, mosso dalle parole del vescovo e dalla propria generosità, raccolse quanta gente capiva nel palagetto de' Priori dietro a san Pietro Scheraggio, e parlò:

«Cittadini, io vengo a proporre cosa contraria al volere d'alcuno di voi, ma non vile: perchè, se vile fosse, Antonio degli Adimari non la proporrebbe ad un suo nemico, non che ad uomini battezzati al medesimo fonte con lui. È alcuno di voi che l'oppressore nostro desidera morto; e forse stassera costui si pentirebbe del desiderio, o, se adempiuto non fosse, certamente del non l'avere adempiuto non avrebbe rimorso. Or a voi dico, che volere la morte dell'uomo il qual ci nocque, è un confessarsi paurosi di lui. La tirannide è insetto che basta cacciar della mano; raro è forza schiacciarlo: e chi lo schiaccia, n'ha sulle dita la sozzura ed il puzzo. Credete: nè il duca ned altri, dopo tale prova, oseranno entrare in Fiorenza tiranni. E i tiranni, sappiate, nocciono talvolta più morti che vivi. E ferirli con ira è onorarli troppo; è un chiamare sulle ossa loro la pietà de' lontani. Perchè la morte è santificatrice, e frange gli affetti duri, e i più miti rinforza. Lasciatelo strascinare di terra in terra la sua vergogna, e portare a' lontani popoli le novelle del valore e della generosità fiorentina. Che fareste voi d'un cadavere? Io non vi dico, poniate mente alle sue parentele di Francia: chè non timore di vendetta dee stogliere uomini liberi da vendetta. Dico, gli perdoniate e col fatto e con l'animo. In ogni modo l'avete fiaccato, e vinto: vincetelo col perdono. Io, da lui messo sotto alla mannaia, che per lunghe ore mi stette pendente sul collo; io che per la sua nequizia soffersi la fame, e le angoscie della patria pericolante, e le angoscie della mia figliuola abbandonata; io, nel nome di Dio, gli perdono. Perdoniamogli, cittadini d'una forte repubblica, la quale meglio che dalla scure e dal ceppo, sarà salvata dal nome di Cristo liberatore nostro.»

Queste parole ammollirono le ire degli ascoltanti. Ma «dateci almeno l'iniquo conservadore, e il suo bordelliere Cerrettieri,» gridavano. A que' di fuora che non avevano ricevuta l'impressione delle parole d'Antonio, il sangue di tre uomini, senza il duca, pareva poco. Alla fine, patteggiando ira con ira, come i re patteggiano viltà con viltà (se non che quivi trattavano di poche anime, e i re di migliaia e di millioni in un tratto), s'accordarono tutti nel contentarsi allo strazio di que' tre.

Fra questi dibattiti passò 'l martedì, ventinovesimo di luglio; nè l'ira allentava; ed era più tesa in quelli che più gridano, e meno fanno. Ma poichè i re concuociono la vendetta in cuore per anni, non è maraviglia se un popolo (e non era l'intero popolo) per due dì. Tra' gridanti erano alcuni che, amici in secreto al duca, speravano sul sangue dei tre fare scivolare lui salvo fuor di città; i più torbidi speravano da quella strage venire a tumulti più gravi. Anco de' buoni taluni facevano schiamazzìo, perchè dalla culla avvezzi a nutrirsi d'ire cittadine, ora che meno incivilmente potevano disfogarle contro malvagi stranieri, godevano lasciar loro il freno. Ed erano tenuti più stranieri degli stranieri stessi gl'Italiani che servivano al duca: sì perchè, tranne il Visdomini, tutti d'altre contrade d'Italia; sì perchè i servi iniqui sono più svergognatamente iniqui del signore, e più aizzan gli odii mostrandosi a ogni ora, mentre colui che comanda li move non visto. Il giovanetto figliuolo del conservadore era non meno abbominato, perchè in tanta tenerezza d'età pareva mostruosa tanto ferrea durezza di sensi; e perchè lui trasportava di là da ogni modo la novità del comandare, e la giovanile baldanza. Queste cose pensando, e rimestandole ne' colloquii, facevano ribollire i furori. Le parole de' pii erano prese a sospetto, e parevano come raggio di luna che spunti un tratto sul mare in tempesta, che fa più visibile la furia dell'onde, e più tetro il biancheggiar della schiuma.

Fu mercordì, Sandro di Cenni de' Biliotti a Gualtieri; e disse i feroci imperii del popolo. Ma Gualtieri (come canna che, piegata dal vento, ad ora ad ora si rileva) negò.

«Cedere della dignità propria, disse, è cosa dura, ma non codarda sempre; gettare ai cani della via la carne de' miei servitori, è viltà che non cape in anima d'uomo francese. Usciranno con me i tre richiesti, o con me periranno. E se io li abbandono alla tempesta che rugge, chi m'assicura che i Borgognoni miei non mi sbalzino dalla medesima prua per alleggerire il pericolo?»

Gualtieri pensando all'onor suo, e al debito dell'umanità, riguardava insieme alla salute propria. E in quel coraggio era mescolato il timore. Ma il Biliotti, al quale la generosità, pure in nemico, piaceva, e al qual pareva trista cosa premere troppo per aver tre uomini da farne cadaveri, si tacque e uscì.

Cerrettieri, il conservadore e il figliuolo stavano in una stanza tendendo gli orecchi a ogni grido di fuori, a ogni rumore d'entro; e non parlavano, se non per rinfacciare quel d'Assisi al Fiorentino, e questi a vicenda le non prese cautele, i non dati consigli, le non commesse crudeltà, nelle quali credevan ora avrebbero potuto trovare salvezza. E visto uscire messer Sandro, chiesero poter parlare a Gualtieri: ma questi che, di viltà stomacato, com'uomo pieno di cibi non digesti, ne abborriva la vista in altrui; e non voleva o sentire lamenti, o dare promesse, o pensar lungamente ad altro pericolo che al proprio; e gran parte di quel pericolo imputava non alla reità, ma all'imperizia di que' tre, non li volle. Poi, ripensando, chiamò 'l giovanetto. Sperava, da quel viso e da quegli occhi recenti di vita, bevere, come soleva, ilarità, divertire la paura, attingere forza. Ippolito venne, ma sparuto, gli occhi languidi dal vegliare lungo, le braccia cascanti; sì che il feroce uomo n'ebbe pietà.

«Coraggio, disse, posandogli la mano sul capo.»

Il giovane si mise a piangere, e diceva ne' singhiozzi: «Non ci abbandonate, per Dio!

- No, finch'io vivo (poi ravvedendosi); finch'io posso, tu sarai meco.»

Ippolito lo rimirava, come chi tenta indovinare parole di lingua non nota: e Gualtieri, guardatolo lungamente: «O giovanetto, trista cosa è la vita; e già tu ne fai dura prova. Non è gran danno finirla, credi.»

Quegli che lo intese: «Oh non dite.» Poi: «Ma che deliberate di noi?»

Egli, umiliato e cruccioso: «Spetta egli a me deliberare?

- Che sperate almeno? che temete? Accertateci dell'animo vostro.

- Fanciullo, io non ho più nè speranze, nè timori, nè desiderii per me nè per altri. Il caso, il caso è oramai signor nostro.

Qui tacque un poco; poi posando la destra sul ginocchio di lui, con accento di compassione, qual forse non aveva mai provata sinora: «Infelice, tu ti se' abbattuto sulla mia via, e la traccia de' miei passi ti parve buona a seguire. I' non ti forzai: lo volesti. Ora noi siamo nella medesima fossa, circondata da lupi voraci. Se mai tu n'esci, rammentati, o giovanetto....»

Qui gli veniva sulla lingua un consiglio di virtù; ma e' s'accorse che nè quello era tempo di consigli, nè egli di consigliare era degno. E tacque, accennandogli uscisse. Il giovanetto lo guardò con occhi di preghiera; e letta negli occhi del duca una risposta amica, si partì racquetato.

A Gualtieri ogni momento sembrava un'ora (tant'era l'angoscia); e ogni ora un istante. Nè i Fiorentini, volendo, avrebbero potuto imaginare tormento maggiore di quest'agonia di dubbi, e d'indugi, e di nuovi colloquii che riuscivano in nuovi oltraggi, in nuove battaglie di terrori. E' chiamava a sè or l'uno or l'altro de' Borgognoni, e li tentava, incredulo della lealtà loro, e maravigliato del resistere ch'e' facevano all'aspra prova. Perocchè il grande ora pretende dal piccolo ogni generosità come debito, ora a mala pena la crede cosa possibile.

Nuovi messi incalzavano chiedenti le tre teste esecrate: e Gualtieri per ritrovare forza contro alla tentazione, chiamò a sè Rinaldo conte d'Altavilla, e lo mandò intercessore. Il conte, fatto venire messere Pino de' Rossi, uno della balìa, propose, quali altre condizioni il popolo di Fiorenza volesse, avrebbe, fuori che sangue.

Pino de' Rossi vergognando e abbassando la voce: «Il popolo chiede sangue.

- Ma che giovano tre ree teste alla sua pace?

- Giovano a salvare una quarta, più rea. Lasciate (dura cosa a dire!), lasciate che il destino de' tristi si compia. In bene ordinata città, già di que' tre avrebbe i capi il patibolo. Ben so che giustizia fatta a furore contrista le anime amiche di rettitudine; e par meno atroce una carnificina sigillata con autentico sigillo di giudice iniquo in nome d'iniquo re, che una testa che balzi per giustizia sommaria di plebe. Ma Dio forse pesa con altra bilancia gli atti umani. Inchiniamoci alla ferrea necessità; e ringraziamo che in tanta dissoluzione di cose peggio non segua. Voi forse, forse io patiremo un giorno gli effetti di questa rabbia popolare, alla quale ora ci è forza ubbidire. Iddio, nobile conte, abbia misericordia di noi; e se non da sventura, ci liberi da viltà.»

Tali parole proferite con rassegnata fermezza, siccome da uomo che senta profondo la difformità del male, e vegga lontano un'imagine di bene disperato bellissima, commossero il conte. E in questo ondeggiare procelloso passò la giornata di mercordì con la notte.

La nuov'alba levandosi, come suole, lieta sulla città cara alla luce, vide la calca tuttavia circondante il palazzo, e un aprir di bocche anelanti sangue. Al qual nuovo tumulto, il duca si sentì vacillante; e la paura picchiava alle porte dell'anima sua dicendo: «Se a me non apri, aprirai alla morte.» Ma donde mai il misero uomo poteva trarre ragioni valide di non essere vile? Solo un fermo proposito d'innovare sè stesso, congiunto con una preghiera potente, era da tanto. Lo sciagurato pareva simile a femmina lasciva ed innamorata, che stretta da instanti preghiere, cede col pensiero prima che in atto; e se resiste alcun tempo, gli è men pudore che orgoglio. Non diceva egli già: «Che sarò io quand'avrò consumata l'ultima infamia? Che mi dirà, brutta di quel sangue, l'anima mia?» Questo non pensav'egli, ma: «Di me che diranno in corte di Francia? Ch'io, ho macchiato lo splendore della francese cavalleria; che i miei servi e cavalieri ho abbandonati sulla via, preda ai ladri, come guerriero che non sa difendere la sua donna. Ch'io sono codardo, diranno.» - E cercava non più le ragioni del non fare, ma le scuse del fare; cercava, non gli argomenti, ma le parole appropriate a adonestar l'ignominia; perchè dove più gli argomenti mancano, ivi le parole si offrono più moltiplicate, quasi ancelle di tristo signore. E già cominciava a trovarle siffatte parole: e il buon volere e il mestiere di principe lo ajutavano in ciò.

Tuttavia la battaglia interna continuava: della quale stanco, e' non poteva più sostenere colloquio alcuno, nè più vedere chi potesse incuorarlo a fortezza. Già, tranne il vescovo (il qual non degnava farsi messaggero di morte, e invano tentava sedar quel furore di piazza; chè il suo grido era come il gemito d'un ferito fra le urla de' combattenti), tutti i quattordici della balìa, e gli ambasciatori senesi erano, ad uno ad uno, o insieme, venuti di tempo in tempo a dimostrargli sempre più stringente il pericolo, a raccomandarsi non li forzasse più oltre a così triste imbasciate. Sconfitto di dentro, e' ripugnava di fuori; si corrucciava talvolta, come se il vincitore foss'egli, e più: e quelli soffrivano, come si soffre l'imprecare d'un pazzo.

La notte venne: e da otto dì quasi, Gualtieri non aveva chius'occhio se non a breve sopore e affannoso; nè mai il vigilare del campo e la stanchezza del battagliare l'avevano tanto rotto. Quella sera, già quasi certo del come uscire d'impaccio, si sentì più tranquillo, tranquillo della quiete che segue alla febbre cassale: si sdraiò vestito e armato sul letto, con la lancia a lato, la spada sull'origliere, e dormì. Breve sonno, nel quale le imagini si confondevano, come le onde e i sassi e le piante divelte e le sozzure profonde del mare si levano in una tromba. Sognava le grida vere che sentiva scoppiar dalla piazza, e grida di naufraghi nella tempesta; sognava i suoi misfatti, misti alle memorie dell'innocente gioventù; sognava la Bice Bordoni accanto a sua madre; un campo di battaglia seminato di patiboli; uomini che feriscono torneamenti, e carnefici che straziano; sognava il mare di Grecia flagellare con le grandi onde il palagio de' Priori, barcollante come saettìa; sognava le ruine d'Atene in un misero paesello di Francia; e santa Maria del Fiore in rovine; e valle d'Arno irrigata di sangue; e donne venire baciando scheletri. Poi vedeva Arrigo Fei sparato, e gli sentiva dal ventre gorgogliar parole francesi maledicenti; e un'aquila del monte Olimpo volare tra le selve di Puglia, e di lì sull'Uccellatoio di Fiorenza, e rimpennarsi di nuovo mantello, e di nuovo spennacchiata acquattarsi; e poi sempre il mare che fluttuando gli sconturbava le viscere; e poi cadaveri sopra cadaveri, ed egli saliva su per quelli, e si aggrappava ansimante, e giunto in cima, sentiva mancarsi il piè. E ruzzolava balzelloni di scoglio in scoglio, taglienti come rasoi; e lasciava a ciascuno un brano di sè, e sospirava un fondo di acque o di fiamme ove posarsi, e non lo trovava mai. Negli spasimi di quel capitombolare interminabile si destò: tastò il letto, la spada, la lancia, e balzò in piedi gridando. L'arme ond'egli era coperto, in quella scossa gli rintronarono intorno, e gli fecero paura: ma al grido di lui nessuno rispose, sì perchè già usi a udirlo urlare ne' sogni; e sì perchè i servi, fatti indocili dalla sventura, a mala pena ubbidivano. In quel momento egli ebbe spavento di sè: non più cavalcatore dell'altrui volontà, come d'animale domo; ma debole, senz'amici, senza fama, senza virtù. Languente dall'afa, dal sudore, e più prostrato di prima, aprì la finestra, ma non s'affacciò, per paura non l'aocchiassero dalle case d'intorno. Invocava l'aura della notte, gli rinfrescasse la coscienza; e domandava, come i peccatori sogliono, al corpo la medicina dell'anima. Poi passeggiava a passi lenti e uguali la stanza, e non fermava in alcuna cosa il pensiero: e la mente di lui pareva vota, come di pargolo o d'imbecille. In quel letargo dell'intelletto la coscienza si scosse: e vergogna lo comprese, mista a profonda e non disperata pietà di sè stesso. Allora i pensieri vennero, altri pensieri; e montavano nell'anima sua, come il mare all'ora del flusso notturno, quando abbraccia la navicella che stava in secco, e a poco a poco smovendola con picciole onde, la trae con dolce forza a venire con sè. Pensò la vita passata: sentì che l'anima umana ha virtù di rifare sè stessa: questa cosa sentì come in sogno. Ma l'alba veniva: i Borgognoni, desti, scotevano le lancie, e mormoravano per il castello; e la folla ringrossava di giù. La presenza del pericolo rioccupò l'animo suo tutto quanto; come infermo che, riavutosi per brev'ora, si sente venir meno, e ricade sul letto.

Francesco de' Medici, uno della balìa, nojato del più chiedere l'elemosina di tre teste, trovò, siccome destro uomo, il modo di piegare Gualtieri. Andò ai Borgognoni, disse: unico indugio alla salute loro la resistenza del duca; diano i tre, saran fuori. I soldati mandarono uno de' lor caporali pregando il signore; ma prego espresso con parola d'impero. Quegli, o punto più che mai nell'orgoglio, o fresco dei buoni pensieri parlatigli dal suo angelo, disse che no. Sola una via non infame restava all'uomo: uscire dell'antiporto, darsi all'ira del popolo (dopo aver patteggiata per prezzo della propria la vita de' servi suoi), e morire con coraggio di Francese. Questa via non gli venne pensata. Ma guai se i cattivi potessero d'una fine bella rinvolgere una brutta vita! Al buono stesso non è cosa facile ben morire.

I soldati fremevano. I più codardi minacciavano gettar lui dalle finestre ai latranti di sotto; i migliori volevano s'indugiasse; gli animosi mettevano innanzi l'onore dell'arme francesi: i prudenti rispondevano, qui cedersi al numero, non al valore; altrove espierebbero questa e altre macchie in Fiorenza contratte; la vita esser lunga, e un dì di battaglia ad anima di soldato essere buono lavacro. Vinse il partito de' prudenti: tornarono al duca dodici de' principali, e spronavano. Egli, sempre meno restìo, ricalcitrava tuttavia. Or uno di quelli, rompendo ogni ritegno, posta la mano sul pomo della spada, e porgendo l'altra fin sotto il viso di Gualtieri:

«È oramai tempo di scegliere: o la testa dei tre, sire duca, o la vostra.

- Che di' tu?» esclamò egli, ritraendosi inorridito, quasi dal tocco d'una serpe.

«Io dico il volere mio, e il volere de' trecento raccolti qui fuori.»

E i trecento a una voce: «Vogliamo.» E picchiavano con le lance chi 'l suolo, e chi l'armi.

«Io sono il signore vostro: a me spetta volere.

- Noi siamo quest'oggi, sire, più duchi di voi, perchè siamo trecento; e vogliamo unanimi cosa contraria al volere vostro; e voi non avete, da contenerci, nè pena nè premii. Le nostre trecento teste voi non potrete far volare da coteste finestre: noi potremmo, sire, la vostra.»

Gualtieri tacque. Al Borgognone parve aver detto troppo, e della forza fatta a sè stesso fu così maravigliato e vinto, che uscì. Gli altri lo seguirono, rimaso un solo. E a costui disse il duca:

«Fra due ore, entrate: se io non fo motto o cenno, sian dati: se dico no, abbiate rispetto per poco al volere e alla coscienza mia.» Poi con frettolosa trepidazione e quasi supplichevole: «sarà per poco.»

Il soldato ripetè ai Borgognoni la preghiera, che ne furono mossi a riverenza, sì per l'abito dell'antica soggezione, sì perchè ad anime francesi piaceva la generosità di tanto resistere in tal frangente.

E due ore passarono: ed ecco sul mezzodì un Borgognone s'affaccia, senza dir motto. - «No.» - Passano ancora due ore. - «No.» - Due ancora. - «No.» - Ma la furia dentro e fuori stringeva, come laccio avvolto: le grida ricrescevano paurose, intollerabili: ma i silenzi che le interrompevano a quando a quando, come voragini buie per cammino buio, gli venivano più tremendi, perchè dalle cose di fuori lo ritraevano in sè; e egli da' pensieri suoi proprii rifuggiva, come dal mettere il piede sopra serpenti aggrovigliati. Pietà sincera non era la sua verso i tre che strappavanglisi per forza, come arma impugnata a difesa e a offesa: ma ai moti della passione sua torbidi e vorticosi s'infondeva anco un senso di nuova compassione sopra costoro, ch'egli avea amati, al suo tristo modo, ma pure amati; che si erano con la loro coscienza conglutinati alla iniqua sua vita, che morivano perseguitati dal nome suo, quasi da demone vendicatore. Ma in questo affetto era rabbia del non li poter campare, più che desiderio magnanimo di camparli; era orgogliosa vergogna dell'esser debole, del dimostrarsi debole, del pentirsi, e del parere vile; del lasciarsi sopraffare dalla popolare tempesta, le cui onde obbedienti il suo legno fendeva già imperioso. Gli omicidii e le carneficine che ei commise spontaneo, che congegnò quasi allegro, che con piglio e con voce di capitano vincitore ordinò, non gli rimordono l'anima; ma il peso di queste tre teste si aggravava insopportabile sulla sua bilancia, perchè con esso insieme Iddio vi getta tutte quante le vite che egli ha distrutte empiamente, e tutti i rimorsi contro cui con isforzo di disumanata ragione ricalcitrò. Gli duole non poterli salvare, perchè salvarli sarebbe testimonio di potenza, lo farebbe vivo, e signore agli occhi suoi proprii, e, che gl'importa ancora più, agli occhi di questo popolo già vilipeso. Vorrebbe potersi dimostrare libero e al bene e al male, egli, tiranno e delle altrui e della propria libertà; perchè questa mostra di libertà sarebbe atto di rinviperita tirannide. E pure in cotesta smania di ostile jattanza era un onore reso alla umana libertà, alla bellezza del beneficare; era un confuso e quasi futuro desiderio d'ammenda. E in tutta la incessante e sempre più rinfierita battaglia non fu paura; per la vita sua propria non ebbe paura. Ma, aborrendo dalla minore viltà e' si gettava abbandonatamente a viltà più ignominiosa, facendo fin delle buone ispirazioni fomite al principesco orgoglio. Il quale gli vietava, come vieta signore duro a servo tremante, invocare gli altrui consigli. Per montare a quella maledetta alterezza di potestà con ansia repressa dalla stessa superbia egli si era affannato tanto: e adesso in quella vertiginosa altezza, secondo le brame sue, si trovava essere solo. Guai al solo!

Dal no al sì, la sua anima non patì, o non sentì, gradi. Come il mare, che, combattuto da' venti, getta alfine la barca, disarmata di vela e di remi, incontro agli scogli; duca Gualtieri fu, mal suo grado, ancora omicida. Trista condizione de' tristi! a grado a grado condotti a tale che il male diventi nell'opinione loro necessità aborrita, e quel che già fu cagion del pericolo, paia unica via di salute. Entrarono. Il duca non mosse nè lingua nè fibra: e più tormento gli fu quel tacere che quanti dolori o misfatti e' commise o patì. Usciti quelli, voleva gridare, ma gli parve non fosse più tempo. E di questo inganno ch'e' faceva a sè stesso, sentì rimorso: e Dio, nella sua misericordia veggente, gli avrà forse riputati a merito molti istanti di quella lunga battaglia.

Il conte d'Altavilla e il barone di Ciavignì stavano attenti all'orribile momento (da loro già antiveduto), per temperare a quegli sciagurati, almeno con una parola, gli spasimi della pienamente sentita e compresa morte. Quando intesero che Gualtieri concedeva: «Ma di chi?» domandarono. E i soldati, a' quali l'interrogazione pareva sciocca: «Dei tre.» L'Altavilla e il barone, guardatisi, indovinarono il mutuo pensiero, corsero al duca, e: «Quale dei tre per primo?» Egli che non aveva pur pensato potersi, offerendo a una a una le prede, saziare forse con sola una la rabbia di laggiù (che non hanno così fine il sentire i tiranni), disse, come ravveduto:

«Gli è vero. Un solo per ora: ma non sia Cerrettieri.

- E chi de' due?

- Qual volete.

- Sire (rispose irritato il barone), quello che noi vorremmo e faremmo, sappiamo. Tocca a voi condannare.»

E il duca, più irritato ancora: «Qual primo vuole, o qual prescelgono i soldati: o traggano a sorte; purchè non sia Cerrettieri.»

I due gentiluomini, vergognando che tale beccaio fosse francese, ai Borgognoni recarono la risposta; ma mettere il piede nella stanza, per vedere una gara vile o pietosa, e un atroce spettacolo, non osarono.

Entrò un soldato, e li trovò pieni della morte presente. Il Visdomini stava volto alla parete, col capo nelle palme, chino, e quasi pendente tra le ginocchia, le quali tremavano, come per febbre. Il padre rimpetto al figliuolo: quegli, le braccia intrecciate sul petto; questi, spenzolate lungo la persona e la scranna: sì che le mani parevano toccare terra. E' non si guardavano. Il soldato disse:

«Il signor nostro, stretto dalla prepotenza della plebe, non può cosa per voi.»

A quell'annunzio, aspettato da loro, nessuno si mosse; ma le tre faccie diventarono, nel loro pallore di cencio, più livide, e pezzate di giallo. Il soldato continuò: «Uscirete a uno a uno; ultimo messer Cerrettieri.»

Alla qual parola tutti e tre si scossero, come se in un punto sentissero e rinascer la vita e cominciare la morte. Il Visdomini guardò al soldato con occhi attoniti e invetriati, come il moribondo che vuol far segno di riconoscere alcuno e vederlo volentieri, e non può.

I due perduti avevano, in sul primo, inteso assai quell'annunzio, e sentitone il freddo: poi, nel vagellar del terrore, parvero dimenticarlo: e stavano immoti. Il soldato, a cui ciascuna parola ch'e' doveva dire pareva traesse l'anima dal corpo, soggiunse: «Io dico che un di voi due è destinato a uscire per primo. Chi viene? Chi resta?» I due si guatarono, come gente sconosciuta: e tacevano. L'anima razionale pareva morta in essi, e rimasavi solo la vita del bruto. Il peccato aveva a mano a mano conglutinato il loro spirito all'oro, al sangue, alle più vili cose della terra; e ora la morte lo rinvolgeva nell'amara sua nebbia. Si guatavano. Il Borgognone chiamò parecchi de' suoi a consiglio. Bisbigliarono a bassa voce; ma non sì che i due non sentissero: «Il più vecchio.» E un altro aggiunse: «E il più reo.»

Così sentenziato, due de' soldati s'accostano al padre, tremanti quasi al par di lui; e lo prendono per le mani, facendo l'atto di sollevarlo: il quale, allorchè sentì il guanto di ferro aggiungere un nuovo freddo al freddo della sua paura, disse con voce esile e profonda d'uomo che muore: «Ippolito mio!» A questa voce la natura (sempre, nelle profondità sue intime, buona), si ridestò la natura del giovanetto: e sciogliendo dal guanto de' Francesi le mani del padre, e porgendo le sue, disse: «A me.» Il vecchio ricadde sulla scranna, come corpo stanco, e trasse un lungo sospiro. Ippolito uscì a corsa: e non s'abbracciarono.

E' camminava ratto: e le mani tenutegli da' soldati, ritirò con ribrezzo. Sulla scala era il conte che l'aspettava, pallido, e umile, e pieno gli occhi di non so che divino. Il giovanetto, al vederlo, si fermò, e: «Nessuna speranza?»

Il conte, prendendogli le mani con affetto di fratello, con tenerezza di padre, con carità di sacerdote: «Ippolito, pensate a Dio. Un solo affetto che venga dal cuore, ed egli vi ha perdonato. Una parola che dica: mal feci.

- Oh mal feci!» soggiunse il giovane con umiltà di fanciullo, con dolore abbattuto, e quasi senile; e si picchiò con una mano il petto, coll'altra la fronte «Mal feci! Io sono stato un malvagio. Dio mio, mi perdonerete voi?

- Dio vi perdonerà, Ippolito: Dio vi perdona. Sperate.

- Sì, spero.»

E lo abbracciò strettamente, come quando il malfattore pentito abbraccia il buon prete appiè del patibolo. Stette un poco sopra sè: poi, com'uomo che, vinto l'orror della morte, si butta di lancio nell'acque per salvare un fratello, scese con agile e fermo passo le scale. Rinaldo d'Altavilla, rimaso in cima, lo guardava, consolato nella pietà e nello spavento, contava i suoi passi, pregava per lui. Ma per i suoi uccisori, per la sciagurata città, pe' futuri destini di lei, chi pregava? Chi intravvedeva la lunga sua servitù, e gli ignominiosi e licenziosi e abusati dolori?

Giunsero all'antiporto, e l'apersero. Il giovanetto, levati gli occhi al cielo, per essere più tosto ad espiare nel mondo sicuro i suoi falli, prese una rincorsa, come chi sotto la pioggia che scroscia fa d'attraversare la via; e si trovò, scesa già la ringhiera, in mezzo alla moltitudine armata. I neri capelli ondeggiavano al corrente sugli omeri; e di nuovo fuoco di vita, sopravvenuto al pallore, ardeva il viso. E forse quella delicata giovanezza avrebbe vinta la ferocia de' più, se quel correre non dava sembianza di fuga. Inveleniti ch'e' sperasse sottrarsi a tanta aspettazione, e deluderli con nuovo inganno, gli furono sopra cento in un attimo. - Povero giovanetto, se t'avesse veduto allora Lucia Buondelmonti!

Gli furono sopra: e con tale impeto premettero a lui, l'atterrarono e gli cascarono addosso, un sull'altro ammontati, che, soffocandolo prima di ferirlo, gli risparmiarono l'atroce agonia. Nè soli gli uomini del minuto popolo, ma (come a più delicato convito) ebbero parte a quella carneficina taluni degli Altoviti, de' Medici, degli Oricellai (repugnanti i loro consorti.) E i nobili più si ruppero a quella vendetta. Cacciarono nelle floride membra i coltelli, le coltelle, le spade, le mani; e togliendosi l'uno all'altro di sotto quel tesoro di maledizione, tagliarono in prima, poi squarciarono, poi sbranarono. Il bianco viso, tinto del sangue dell'altre membra lacerate; la bocca mezzo aperta, come per ricercare il forte alito, sì presto fuggito; la testa ch'or sull'uno or sull'altr'omero spenzolava, ultimi rimanevano al fiero strazio. Gli strapparono i be' capelli dal capo, come il villano strappa dal suolo diletto le male erbe aborrite: e la lingua tagliata recarono in cima a una lancia. Avevano già prima rotto, siccome tronco di giovane e pur robusto arbuscello, l'osso sacro; e fra costola e costola ficcati i ferri, come per cercarvi un vestigio di vita, o la voluttà della vendetta che pur non trovavano. I consorti del Cini, nobili terrazzani, schernivano dicendo: «Ve' il bello cavaliere! ve' com'e' tende le mani supino; come ubbidisce ad ogni urto che lo spinga, a ogni ferro che lo divida!»

E ad ogni colpo posavano, e riguardavano come per vederne l'effetto: al modo che fa il buono scultore che, digrossando la mole del marmo, a ogni tratto ferma la mano, e riguarda se l'opera risponda all'idea. Parecchi col giovane sangue andavano disegnando per terra il giglio rosso, o scrivevano sulle muraglie libertà. E d'orme di vendetta rosseggiava la piazza, rosseggiavano le prossime vie.

Ma il fumo di servitù che manda al cielo quel sangue, non involge intera Fiorenza. Molti per alterezza d'animo schivo, molti per senso di pietà umana, molti più per carità di cristiani, aborrivano da que' furori. E intanto che alla piazza colavano, come a cloaca, gli odii dell'ampia città, nelle case, ne' chiostri, ne' templi, molte anime buone entro al chiuso petto sacrificavano un sacrifizio di pace. Pochi, è vero, o nessuno sentiva assai profondamente (Dio solo misura tutt'intero l'abisso del male, e l'altezza del bene) quanto rea cosa fosse la vendetta consumata in nome della libertà: pochi vedevano, o nessuno, di quanta messe di spade tiranne dovesse fecondare la terra quel sangue che, versato, macchiava tante mani, tant'anime, tante idee. Pochi, o nessuno; perchè tutti, anco i buoni, vivono la vita dell'età loro, e (comechè possano rinchiudersi in monda cella, o spaziare con l'occhio da un'ardua e salubre cima) un orizzonte medesimo, una medesim'aria li circonda e li copre. Pochi, o nessuno: ma un sentimento ineffabile di paura e di sciagura, quasi alito ch'esca di cadavere non visto e non sospettato, affannava le anime buone a que' truci spettacoli; e faceva la preghiera loro più mesta, più sollecita, più amorosa, più umile, più gentile. Così dal male stesso, quasi rosa dal concio, fiorisce il bene; e il dissolversi degli spiriti rei rinvigorisce i buoni; e il merito, raccolto in pochi, com'oro purgato da fiamma, in loro si condensa più schietto.

Un grido si leva, e mille lo seguono: «Il padre!» Onde i Borgognoni, temendo le scuri non si volgessero contro le porte, corsero alla stanza ov'era il bargello, e lui, cascato per terra, con la schiuma alla bocca, presero a furia, e scesero come corpo morto. Le braccia e le gambe spenzoloni radevano gli scalini, e percotevano in quelli. Alla qual vista Rinaldo d'Altavilla e il Ciavignì inorridirono. Quando l'antiporto s'aperse, la plebe, avventandosi a rincontro dell'uomo odiato, quasi si cacciava in palazzo: ma i Borgognoni per istornarnela, palleggiato il corpo del conservadore, lo lanciarono di botto giù per la ringhiera, come a cane si scaglia un sasso lontano perchè lo morda. Nel ruzzolare ch'e' fece per gli scaglioni, tinti del sangue del figliuolo, il vecchio rinvenne in sè, e aperse gli occhi gravi, appunto quando cento braccia e cento ferri a lui sovrastavano, minacciando ciascuno un proprio tormento. Ferirono molti a un tratto: poi diedero luogo agl'incalzanti, che rallargarono le ferite, ma senza farle mortali, perchè pareva avessero patteggiato di bere questo secondo calice a sorsi. Odio nel figliuolo, nel padre sentivano odio e disprezzo: però con le ferite venivan gli sputi e i vituperii, e il rammemorargli le sue crudeltà. Egli (riscossigli dal rimorso gli spiriti) intendeva ogni parola, sentiva ogni spasimo: chè già i veri spasimi gl'incominciano. Ferito da un'affilata forca guerriera in un nervo delle tempie, e da una lunga partigiana da caccia nella nuca, incominciò a tremar tutto, e la vita a risolversi, e rattrarsi le mani, e il corpo rattrappirsi, e i denti serrati dirugginarsi. Ma mentre infierivano, s'avvidero a un tratto che in lui ogni alito di vita era spento. Allora tagliatagli la testa, e presala pe' radi capelli, la mostravano in alto, come i fanciulli fanno di presente ottenuto; e cacciavano strilli senza umana parola. Fu chi le crude carni addentò, e nel gialliccio fegato del bargello mettendo il morso, ne sentì con gioja l'amaro. In cima agli spuntoni, alle picche, alle lancie, alle labarde mostravano chi l'uno e chi l'altro brano del padre e del figliuolo per le vie di qua e di là d'Arno. Le genti a vedere; e le donne a compiangere il giovanetto. Nè mancò chi portasse a casa, quasi lacchezzo squisito, alcuna parte della preda sanguinosa; e, dopo avere con mani sozze di strage abbracciati i figliuoli e la moglie, le carni ancora palpitanti arrostisse.

La trista processione menata per la città, la stanchezza dell'odio, e il sopravvenir della notte, fecero uscir di mente ai furibondi il terzo trastullo, la testa di Cerrettieri Visdomini: come fanciulli, che nel piagnucolare per cosa desiderata s'addormentano; o come briachi che facile si sviano dal pensiero, nel quale infuriavano or ora. Cerrettieri aveva tanto ruminata la morte, che quasi l'aveva digesta. E pentitosi come meglio sapeva, e raccomandatosi ai Santi, con paurosa ma viva fiducia, se ne stava nulla sperando, pensando nulla, già più non sentendo sè stesso, quasi come è da credere che il feto stia nel ventre materno. Quando messer Piero de' Bardi e il barone di Ciavignì vennero frettolosi, e lo imbacuccarono in un abito di masnadiere; e per il buio della mezzanotte il Bardi, presolo a braccio, lo strascinò alle sue case. A lui pareva sempre scendere le mortali scale del palazzo, e cascar sotto a' ferri famelici; e quella scesa gli sembrava lunghissima, insopportabile quell'aspettazione affannosa. Andava, con gli occhi velati e con le gambe come impastoiate, tentennando, e taceva trasognato. Gli altri de' Bardi nol vollero vedere: sole le donne (fosse voglia di vista strana, o pietà) s'affacciarono mute a mirare quel viso trasfigurato già dal peccato, ora dalla pena del peccato; pallido, ma nel lividoso pallore chiazzato di rossaccio; quelle labbra pendenti, quel cadavere che si moveva. Egli le guardava, com'uomo che più non ha conoscenza; ma ad ora ad ora chinava gli occhi, quasi si vergognasse. Il priore di sa' Jacopo, il Frescobaldi, spontaneo venne; e parlandogli di Dio, sollevò un poco quell'anima sprofondata in sè stessa. Ma perchè le case de' Bardi non parevano sicuro rifugio, i parenti di lui, vestitolo da contadino, lo menarono la seguente notte in una prossima villa. Quali pensieri agitasse, avvolto in que' cenci, il gentiluomo superbo, il turpe consigliere dello straniero tiranno, chi sa?

La mattina del sabato fu quiete nella città: come quando, smaltito il vino, l'uomo si desta, e le cose nell'ebrietà fatte non raccapezza o non crede. Molti delle passate furie vergognavano; taluni, rimasticando la vendetta, la sentivano saporosa, come ghiotti che, pieni di cibo, pensano con tripudio al leccume. E non sarebbero forse tornati per la medesima via, ma dell'averla battuta provavano più mala contentezza che pena. Erano pure sazi: nè i più feroci avrebbero osato richiedere nuovi presenti di sangue. I buoni colsero il tempo per ispacciarsi del fiero ospite, il qual corrompeva vincitore, e più, vinto. Trovatolo già disposto a ogni cosa (quasi frutto mezzo dalla pioggia, ma non maturo), proposero per primo la solenne rinunzia del dominio. A patto d'uscire salvo egli e i suoi, accettò. Ma poichè l'istrumento della rinunzia giovava fosse sigillato col sigillo di Giovanni vescovo di Lecce, cancelliere del duca, fu cercato del vescovo. Egli, che già della sua devozione empiva tutti i sensi di Gualtieri, e d'impronti consigli e loquacissimi lo tribolava, s'era nell'ora della battaglia dileguato, con gli altri quattro vescovi, timidi uccelli dall'ale più forti del becco. Alla fine, frugando, cercando di quanti egli aveva benevoli o conoscenti, trovarono il covo del cancelliere in una casupola del corso de' Tintori: e il vescovo Acciaiuoli prese la cura d'andarnelo soavemente a snidare.

Sentito ch'ebbe quel di Lecce picchiare alla porta, si raggomitolò in sè stesso, e accoccolato sulle ginocchia, si mise a pregare in latino. L'appiattarono, chiedente pietà, in una stanzuccia a tetto, e lo coprirono di paglia e di letame, sgridando, tacesse; perchè la paura lo faceva come grugnire. Egli si acchiocciolò in quel letame, al modo che il febbricitante s'acquatta sotto al coltrone, battendo i denti dal freddo; intanto che il vescovo assicurava que' di casa, sè venire apportatore di novella non trista. Credettero la buona gente al viso e all'accento dell'Acciaiuoli; e dissero al cancelliere la cosa: ma egli negava fede, e come ragazzo stizzito, dando delle calcagna in aria, sparpagliava il letame che gli teneva luogo d'abito sacerdotale. Stufi alla lunga gli ospiti suoi di quel gioco, lo afferrano, e lo mettono in piedi, come si fa delle sacca mal piene di cenci: quando appunto il vescovo, per rassicurarlo di persona, saliva la scaletta a piuoli, e trovavasi di fronte a lui. Il sacro cortigiano, così inzavardato di concio la faccia e le vesti suntuose, sorretto dai due che mal tenevano le risa, somigliava a un bove, che, levandosi dalla lettiera, non sappia scuotere da sè le sozzure del suo giaciglio. Arruffati i capelli, e sulla barba e sui capelli o pagliuche o immondizie, simili ai geloni pendenti dalle grondaie; o stille di fetido umore che tremolavano, come rugiada sul cardo. La faccia teneva dimessa, e le mani in mano, come quando, chericuccio monello, e' riceveva dal suo vescovo un buon rabuffo. Ma l'Acciaiuoli, non che godere (come tra vescovi sogliono, gelosi e piccosi quasi vecchie gentildonne), mosso a pietà di tanto avvilimento, s'affrettò a raccertarlo del vero, e con parole brevi e pronte disse a che ci veniva.

Allora quel di Lecce: «Non sarà mai ch'io vada al cospetto d'un perduto, il quale tanta turbazione destò nella buona repubblica di Fiorenza, e mi fece soffrire tanto. Gli uomini sventurati a me sono più specialmente diletti, e per debito di ministero e per tenerezza della natura mia: ma la sventura colpevole!

- È doppia sventura, l'Acciaiuoli interruppe. E a voi, messere, è dato modo d'espiarla e d'alleggerirla: v'è dato insieme di provvedere ai comodi vostri. Perchè, ratificato che venga l'atto della rinunzia, voi potete seguire il signor vostro in Puglia, o dove che sia, e di migliori consigli giovarlo.

- Ma lo scandalo, Dio mio, del seguire principe spodestato!

- Veggo che voi la vergogna giudicate dalla fortuna: ma nè questo è 'l tempo, nè a voi è bisogno ch'io insegni il Vangelo.

- E l'uomo che ha tanto bruttamente tradito il popolo fiorentino, atterrà egli a me le promesse? Poss'io fidarmi alla sua compagnia?

- Non so. Questo so, che migliore compagnia non vi resta. Ben prometto che alla persona vostra non sarà fatto oltraggio; e ve ne do sicurtà la mia fede, la mia autorità, e Dio testimone. Aggiungo, che ratificando un atto gradito al Comune di Fiorenza, voi venite, come meglio è possibile, ad ammendare i tanti che già ratificaste dispiacevoli ad esso.

- Poichè questo è, disse il cancelliere, si vada: s'incontri animosamente il pericolo all'onore di Dio, e del nostro santo e difficile ministero.»

Così dicendo, scote dalla persona il letame e lo strame.

Aspettarono la notte del sabato per entrare di soppiatto in palagio. Quivi il cancelliere annunziò la sua venuta a Gualtieri, ma non chiese vederlo, nè questi lui; chè l'uno all'altro erano vergogna e rimprovero; nè lisciarsi potevano oramai, nè straziarsi, senza dolore mutuo. Domenica mattina, convennero il vescovo, i quattordici della balìa, gli ambasciadori e il capitano di Siena, il conte Simone da Battifolle: nella presenza de' quali duca Gualtieri diede ai quattordici e al vescovo autorità di operare tutto quanto stimassero conducevole al buono stato della città; rimise imperio e giurisdizione che aveva sopra quella, la prosciolse da ogni giuramento ed obbligo, restituendola nella medesima forma di quando si dette a lui: liberò dalla sua signoria le città di Pistoia, d'Arezzo, di Volterra, e' loro contadi, e tutte le altre terre, castella, fortezze e luoghi, lasciandoli soggetti al Comune di Fiorenza così com'erano innanzi: e il simile de' cherici, de' marchesi, de' conti, e altri nobili, con le loro signorie e' poderi, dando autorità al capitano e agli ambasciatori di Siena ed al conte di rimettere i Fiorentini nella possessione d'ogni cosa. Imperocchè il più de' principi non cedono se non quel ch'hanno perduto; non isciolgono i popoli se non da que' vincoli che sono già rotti; e creano rappresentanti della propria autorità allora quando l'autorità loro è finita.

Le dette rinunziazioni scrisse il cancelliere; e stava per concludere con le formole consuete, quando messere Giannozzo Cavalcanti, levato dritto in piedi, parlò. Questi è quel messere Giannozzo ch'abbiam già sentito predicare dal desco d'un beccaio sommessione: ora il Comune l'aveva creato un de' quattordici, e per non avere inimica la sua spaventosa loquacità, e per tirare a sè molti nobili, che da quella loquacità pendevano ubbidienti. Ma egli, e per rendere al Comune buona mercè dell'onore, e per far mostra di facondia, e per bene assicurarsi che l'incomodo duca non tornerebbe mai più a mettere in impaccio la sua carità patria, ebbe a dire così:

«Messere lo cancelliere, quello che avete elegantemente scritto fin qui, bene sta: ma una cosa io prego la sapienza vostra d'aggiungere, e, sottosopra, in questo tenore: «E afferma il detto duca, nella sincerità della coscienza sua, di ciò fare spontaneamente, liberamente; e impone a sè pena di cinquantamila marchi d'argento per ciascun de' capitoli ch'egli infrangesse o tentasse d'infrangere.»

Il vescovo di Lecce interrogò il duca degli occhi: ma questi tacque e abbassò lo sguardo, dopo gettatolo sopra Giannozzo con quel torvo dispregio onde i tristi puniscono i vili. E 'l cancelliere più lentamente di prima scrisse, e lesse; e fu notato che non cinquantamila marchi diceva, ma pur cinquanta: onde tutti gridarono: «Cinquantamila.» Ed egli, con mano restia, scrisse.

Ora messere Talano degli Adimari propose una particola che diceva così: «Ed obbliga la fede propria, non solamente per sè, ma e per gli uffiziali suoi, quanti sono.»

Qui sorse dubbio. Il cancelliere, per farsi grazioso al duca (dal quale solo omai poteva sperare o temere), notò, non dovere uomo promettere cosa che non dipenda dalla sua propria volontà, nè la potenza de' principi essere tanto grande da stendersi sugli animi umani.

«Questo, rispose Filippo Magalotti, doveva messere lo duca rammentare prima d'ora a sè stesso: ma poich'egli mostrò non lo credere vero, e volle accollare a sè tutte le soperchierie de' suoi fidi; e noi concorriamo nella opinione sua. Che se a lui venisse voglia, per man di taluno de' suoi uffiziali, rompere i giuramenti, e, perch'egli da sè nol fa, credersi esente da pena e da vergogna, chi non vede tornare a vuoto e quest'atto e ogni cosa finora operata da noi?»

Il cancelliere voleva rispondere: ma Francesco de' Medici, allungato il dito, raggrinzando la fronte, e allargando le narici, com'uomo irritato, esclamò: «Scrivete, messere.» E il vescovo, con più lesta mano di prima, e più tremante, scrisse.

Qui sorse a dire Sandro di Cenni de' Biliotti. «Una cosa ancora io tengo si debba da messere lo duca promettere: «ch'e' non si vorrà mai dolere per cosa fatta a lui od a' suoi.»

Qui Gualtieri diede in un moto di rabbia male represso: messer Sandro lo guardò fiso e severo, come fa maestro a fanciullo insolente, e vedutolo rabbonirsi, seguitò: «Nè di chiedere a principe o a città rappresaglia mai contro al Comune o al popolo di Fiorenza, a pena di diecimila marchi d'argento.»

Se la prima parte dell'obbligazione a tutti parve esorbitante, parve d'importanza grande la seconda: e perchè 'l duca taceva, e il cancelliere scriveva a furia il dettato di messere Sandro, come scolare scrive il dettato del maestro, nessuno osava parere meno severo al nemico suo di quel ch'egli fosse a sè stesso.

Giannozzo Cavalcanti, sentito il vento soffiare buono, incominciò con molta gravità: «Anche una cosa.» Ma ser Marco degli Strozzi, pietoso della condizione del duca, e stizzito della impronta vigliaccheria di Giannozzo, si levò dicendo:

«Basti. Non rinnovelliamo lo strazio d'altr'jer sera; non affettiamo e non rosoliamo i cadaveri.»

La quale maniera di difesa punse il duca più d'ogni offesa; ma oramai era sua legge tacere, e ricevere le parole dure, come giumenta legata all'aperto riceve la pioggia.

Queste condizioni scritte e riscritte in pergamena, e sigillate col suggello ducale, furono dal vescovo di Lecce rilette ad alta voce e sonora (per abito di cancelliere, non per oltraggio), fremente il duca. Al quale il vescovo dettò il giuramento.

«Giuro al nome di Dio, giusto vendicatore, e a tutte le potenze celesti che invisibili ed infallibili veggono l'animo mio, d'attenere le qui scritte promesse, a ogni costo: e se ora o mai mentissi agli uomini e a Dio, invoco sopra il mio capo e de' miei la maledizione eterna. Giuro di nuovo per l'onore della casa di Francia, per le ossa di mia madre, e per il sangue di Cristo che mi sia in giudizio e condanna.»

Gualtieri ripeteva con gli occhi fitti alla terra, non altro movendo del corpo suo che le labbra, e con sì leggier moto che le parole appena s'intendevano: e quando fu alle ossa di sua madre, parvegli vederla viva, e con dolore severo di donna amorosa ingiustamente afflitta, rimproverargli nelle mute lagrime gli affanni ch'e' le aveva portati, e pregarlo minacciando, non turbasse con lo spergiuro la terribile pace delle sue ossa. Ond'egli quelle parole non profferì: ma il vescovo ripigliò con voce più chiara «per le ossa di mia madre;» e allora il suono uscì come confessione di vergognoso peccato.

Fatto il sacramento, in segno del deposto dominio, e' depose il bastone ch'aveva in mano: e Bindo della Tosa, presolo, lo buttò con dispetto per terra. Ma Bartolo de' Ricci, cavaliere e legista, raccolse quel segno d'autorità, e lo appese alla parete tra un brocchiere e uno stocco. Il cancelliere posò anch'egli la penna, sbuffando, com'uomo stanco: e visto che ormai Francesco de' Medici e Talano degli Adimari e il vescovo si volgevano al duca a parlargli umanamente (sì come il giudice usa qualche parola pia al reo condannato nel capo); anch'egli, quel di Lecce, s'accostò piamente; e di sdegnoso che pareva or ora, ridivenne a un tratto l'antico uomo, famigliarmente supplichevole, timidamente audace; occhio di gatto, petto di serpe, coda di cane. Gualtieri gli volse le spalle.

Il dì seguente uscirono, patteggiati, di palagio i soldati del duca, con grande paura, sebbene e gli ambasciatori senesi e molti buoni cittadini li accompagnassero a sicurtà. Ma non n'era di bisogno, perchè tutto il popolo aveva promesso lasciarli quietamente passare così come se già passati fossero. Tra gli accompagnanti erano taluni de' già favoreggiatori del duca, il Peruzzi, il Medici, Giannozzo Cavalcanti, superbo dell'uffizio quasi militare: poi alcuni de' Bardi, e il vecchio priore di sa' Jacopo, la cui canizie proteggitrice pareva accanto a quegli armati così veneranda, come miserabile pare la canizie sacerdotale da armi ingiuste protetta.

Andavano a capo chino, dolenti per le ferite, gravati dalla vergogna. I meno odiati, che volevano pur con gli occhi e col cenno significare a' cittadini, in partendosi, alcuno non ignobile affetto, portavano la visiera levata: altri, nella celata tutta chiusa (sporgente o in becco d'uccello o in muso di bestia, o scanalata e a onde), sembravano non uomini, ma moli informi di ferro. Ad altri, l'elmo che finiva in ghirlanda, pareva ridesse in capo della presente ignominia; ad altri, le lunghe piume scendevano, miste ai rossi capelli, intrise di sangue. Chi sguarnito la testa e le spalle, chi senza bracciali; a chi il largo pettorale del cavallo qua e là squarciato. I più modesti e i più timidi coprivano con velo nero il sangue rosseggiante sull'armi: ma in altri erano tante le macchie, che forza era lasciarle palesi alla vista di coloro, dalle cui membra forse era spicciato quel sangue. Un caporale de' Borgognoni, fra tutti cospicuo e forte e grande, sull'armatura di rame dorato, rubata forse a un margravio d'Alemagna, portava spesse chiazze di sangue: e quel giallo e quel rosso insieme, parevano la comune divisa de' pari suoi. Le mazze irte di punte omicide, le ascie lunate, i martelli ricurvi, pendevano dagli arcioni; e le lunghe balestre ornate d'avorio, e le lunghe spade, si strascinavano per terra sonanti. Le divise, superbe o gaie o amorose, degli scudi, erano adesso vista dolorosa. E tra quegli scudi ve n'era lavoro d'artefici fiorentini, dono da fiorentini uomini, già sommessi, fatto a' Borgognoni, già cari: uno fra tutti bellissimo, con in mezzo, a rilievo, un arcangelo armato. Andavano a passo lento, quasi a pompa funerale, che la fretta non paresse o paura o vergogna: tutti muti; e solo si sentiva il tintinnire dell'armi e lo scalpitar de' cavalli, mesti anch'essi. Pensavano i compagni morti; altri le donne o indarno desiderate, o oltraggiate, od amanti. Il popolo fermo e tacito, senz'armi, senz'ira, guardava, come se coloro fossero vincitori, egli vinto. Molti de' cavalieri venivano a piede, o mortogli il cavallo o rubato, ma i più stati resi.

E mentre passavano, ecco un contadino, tenendo pel morso un cavallo destriero riccamente bardato ed armato; e gridava: «Messeri, chi l'ha perduto di voi?» Il cavaliere era morto: ma quel buono uomo non volle appropriarsi preda, sebbene di guerra giusta; e visto un soldato, in età, che si strascinava ferito: «A te, compagnone; chè tu te ne vada più presto lontano da noi.» E senza guardare il tristo drappello, com'uomo ch'ha maggiori cose a pensare, svoltò da altra via.

Ma il popolo, visti che gli ebbe uscire di porta, si sentì contento dell'averli risparmiati, ben più che i carnefici de' due d'Assisi non si sentissero della strage. E di quei Francesi, parecchi, appena fuori, dimenticato il pericolo e la vergogna, guardavano per l'ultima volta ammirando, com'uomini intendenti di guerra, le nuove mura e le torri e i barbacani; e ragionavano di cose guerresche, come se uscissero a breve correria. Doleva a pochi dell'oro perduto, dell'incerto avvenire: molti la novità vagheggiavano, come ventura lieta. E coloro che nel passare per la città furono più paurosi, erano adesso più gai.

Andate, sciagurati, piaga d'Italia, piaga voluta e compera: andate a cercare signore ignoto, a cui vendere il nerbo e l'audacia, anime rotte a ogni sorta e d'impetuosa battaglia e di ruberia frodolenta; sommessi e feroci, come il mastino che s'ammansa al padrone, e a chi gli è ammiccato, s'avventa. Andate, sciagurati! Nel nome di qual principe guadagnerete voi oro e rimorso, e lode più rea dell'infamia? Farete atti magnanimi e vili, patirete la fame e l'ubriachezza, ucciderete e morrete? In nome di quale repubblica? Chi sa in quanti luoghi soneranno le vostre bestemmie? Quanti idiomi udrete parlare e cinguetterete? Qual terra riceverà le sbattute vostre ossa? Andate, infelici! Così non lasciaste nella gloriosa città vestigio di voi; così non venissero altri par vostri, e più tristi, a ribadire le anella della spezzata catena!

Il popolo, nelle case, sulle piazze, teneva ragionamento di quanto fecero e dissero in que' dì i più notabili cittadini; e ridiceva i motti, e contava le ferite, e raccendeva in parole la spenta battaglia. Poi gli atti dei Borgognoni uscenti, poi le novelle che venivano del loro passar nel contado, e quelle che delle città ribellate; poi le congratulazioni de' Comuni, e degli amici concorrenti in città. E qui menarli a vedere, e rifarsi a raccontare ogni cosa; e nella vista dell'appena passato pericolo, celiare. Alcuni pochi si lagnavano che, avendoli in gabbia quegli astoracci de' Borgognoni, non si fosse provato a schiacciar loro il capo a uno a uno: ma altri rispondeva: «Non vedi tu che assai ci fu pur di due? Di que' due non dico: ma freddarli bastava. Farne lo strazio che s'è fatto, gli è un rubare il mestiere a' demonii.

Ma tra la gioja, e le doglianze della non piena vendetta, altre lamentanze gravi facevansi sentire; il minuto popolo diffidava dei grandi e de' popolani ricchi, e questi dei grandi e del minuto popolo, e i grandi d'ogni razza di popolo, cencioso o no. Chi voleva i diciannove gonfalonieri delle compagnie, a modo del popolo vecchio; chi, otto priori popolani, due per quartiere, col gonfaloniere, com'era prima; altri, non escludeva dal governo i grandi, ma chiedeva che alcuni buoni popolani fossero aggiunti, i quali consigliassero i priori, nè senza loro consentimento potessero questi fare deliberazione grave: chi voleva l'intricata riformagione del MCCCXXVIII co' suoi tanti squittinii: altri, che i priori nuovi eleggessero i successori per lo avvenire; e i nuovi scelti fossero tratti a sorte di tempo in tempo, siccome era stato altra volta tentato con mala fine: chi ritornare cencinquant'anni addietro, ed eleggere consoli, con senato di cento buoni uomini; e l'uffizio de' consoli durasse un anno o più, e rendessero giustizia, senza podestà forestiero. E di tali differenze le diffidenze si alimentavano; e non erano ancora discordie, ma le discordie si venivano preparando; come quando arde il sole sereno, e trae in alto i vapori, materia di subitane tempeste. Le gelosie e le ignoranze del popolo, le gelosie e l'imperizie de' popolani ricchi, le gelosie e gli orgogli de' grandi, fomentava la inquieta blaterazione de' giuristi e de' saputi d'ogni maniera, i quali ne' reggimenti degli stati sono come cani che si cacciano tra le gambe a chi va, e ritardando l'irritano.

Due giorni ancora stette Gualtieri con la sua privata famiglia in palagio, sbalordito di sbigottimento, inchiodato dalla paura, forse invescato da una cieca, e a sè stesso ignota speranza, che, nell'orgoglio così come nell'amore delusi, è più credula quanto più vana. Sperava, non tanto nei soccorsi di fuori, non tanto nei vecchi partigiani suoi dentro, quanto nelle discordie fiorentine, radice vera alla sua potestà e de' suoi pari. Al presente, così diverso da tutto il passato, non dava fede, nell'atto di toccarlo con mano; non dava fede, a sè stesso: e credeva intanto fortune incredibili nella rovina estrema; dacchè colpa e pena dei tristi è pretendere dagli uomini e dal cielo miracoli, che i buoni appena ne sarebbero meritevoli, e pur non li sognano. D'ora in ora strascinava, quasi serpe fiaccata, le sue speranze; e il protrarre a qualunque costo le vituperose dimore nella città, gli pareva ingegnoso e bello; come il reo condannato a morte, il quale s'ingegna d'allungare la via che è fra le tenebre della carcere e le tenebre del sepolcro.

Chiamava a sè or l'uno or l'altro de' cittadini, quando dei già più devoti, e quando dei più avversi; e quelli rifuggivano dal vederlo, per vergogna del popolo e di sè, questi per compassione più che per ribrezzo; quelli più superbi di questi: ed egli, nelle parole avido, altero nell'aspetto, pareva sentirsi signore tuttavia, come francese di spiriti e uso al comando, e che de' cenni a sommo studio imperiosi, e impetuosi a freddo, faceva già arte di regno. E così in quel brigare seco stesso, distraeva l'anima dal senso dell'onta propria, e dei rimorsi; e nel parer meno abietto, era più. Così il naufrago, pieno ancora di vita i polsi e il petto, combatte con l'onde, che gli soffogano, prima che la speranza, la vita.

Alla fine, il dì sesto d'agosto, uscì co' Sanesi, col conte Simone, con molti nobili e popolani, deputati a ciò dal Comune. Era seco il barone di Ciavignì, fattogli dalla sventura, non amico, ma pio. E Rinaldo d'Altavilla che, uscito già di palagio, si disponeva a rimanere in Fiorenza a' preghi de' buoni cittadini, volle tenergli compagnia, e consolarlo di compassione, non loquace e non oltraggiosa. L'ora del dì, e il disprezzo ormai pieno, sottentrato all'odio, fecero a Gualtieri l'uscita tranquilla. Degli uomini, i più lo guardavano un tratto, per figgersi bene in mente l'imagine dell'animale mal grazioso e maligno, e dipingerla ai figliuoli e ai nepoti; altri al vederlo si voltavano in là: le femmine, andando al mercato s'affisavano in lui, come si fa in bruttezza spiacente, ma che pure incanta a riguardare, e dicevano: «Fosse stata almen bella la fiera ch'avevam tolto a pascere! Quando prendi un signore a vita, prendilo almeno che non paia la morte. I' credo che Fiorenza abbia avuto un anno a rettore il più brutto cristiano del mondo.»

Partito ch'e' fu, i cittadini si disarmarono, disfecersi i serragli, i contadini si partirono e i forestieri con molti abbracciamenti: apersersi le botteghe; e ciascuno attese a suo mestiere e arte. Il Comune ordinò che la festa di sant'Anna, in memoria della liberata città, si osservasse come pasqua sempre, e celebrassesi grande uffizio, e solenne offerta dal Comune e da tutte le arti. E per rimeritare il buono amore del conte da Battifolle, fu deliberato, gli si rendessero le molte terre prese, e non mai stategli pagate dalla città di Fiorenza. Poi commisero a messer Pino degli Alberti e a messer Niccolò Guicciardini, inviati presso il pontefice, dessero notizia della cacciata del duca, e delle ragioni che a ciò fare condussero la città. Nè sappiamo che il pontefice scomunicasse o la città o gl'inviati. Messere Giannozzo Cavalcanti promise scrivere della cosa a Francesco Petrarca; e sperava da lui o una canzone, o, meglio, una lettera latina, in quel pulito stile (diceva egli) e alto dettato ch'è proprio a messer Francesco, e con eccellenti sentenze e autorità.

Quel dì stesso il vescovo, celebrato uffizio solenne, parlò al popolo congregato: e come uomo savio, poco disse della consumata vittoria, molto degl'incomincianti pericoli; dimostrò, come sempre, dov'è discordia, ivi è debolezza; confortò a dibarbare dall'animo le minute radici della diffidenza, che poi vengono pullulando in piante uggiose e mortifere; non tenessero dentro il mal pensiero, ma con parole misurate ed aperte lo esprimessero; se dell'esprimerlo vergognavano, segno che il pensiero era vile: non con insidie nè con minaccie nè con armi, ma con la persuasione inducessero altrui nella opinione propria; eleggessero, in caso di differenza, arbitri da ambe le parti avuti in onore; dalle vecchie memorie cogliessero le nobili ed amorose, le altre in oblivione lasciassero; in ogni cosa osservassero carità; fossero franchi e interi, e di buono consiglio. Soggiunse:

«Le cose passate ci siano ammaestramento, come Dio non lascia male alcuno impunito, benchè non sempre la pena sia al tempo e a piacere de' desideranti. E sia questo esempio a noi e a' cittadini che saranno, acciocchè, per bene della loro città, non siano mai vaghi di fare uffizii ad arbitrio; che sebbene si creano sotto titolo di utilità del Comune, sempre fanno dolorosa riuscita, e ne nasce tirannica signoria.»

Poi, concludendo, pregò: «Padre sovrano, amico onnipotente degli amici e de' nemici nostri, noi vi preghiamo e per essi e per noi; vi preghiamo per le anime de' cittadini nostri morti in battaglia, e per le anime de' nostri oppressori. A quelli e a questi risplenda l'eterna luce; e tutti possiamo vederli un giorno nella gioja del vostro immortale trionfo. Delle inutili o ree ferità contra loro commesse noi vi chieggiamo perdono: non li vendicate, o Signore, della nostra vendetta; ma l'odio che ci sospinse oltre alla necessaria difesa, spegnete in noi. E io primo, indegnissimo della letizia e della gloria di questo dì, confesso a voi nel cospetto del popolo vostro, che in vedere la ingiustizia dominante, troppo più acre zelo che quel della legge vostra mi divorò, che i privati odii mescolai negli uffizii del mio ministero; e non con affetto, così come dovevo, accorato, ma con ansia d'allegro desiderio, benedissi alla guerra. Perdono, Signore. Fate in noi l'amore della cara libertà, non feroce, non superbo, non interrotto da ree negligenze, non frodolento, non cupo; ma lieto, modesto, pieno di fede operosa e di fiducia prudente, vigilante nella pace, infaticato nell'armi, con magnanimità coraggioso.

Fuori di porta a San Niccolò cavalcava Gualtieri co' suoi; e le scorte lo precedevano e seguivano; tutti in silenzio. Il conte d'Altavilla, e il barone di Ciavignì, rimasi un po' addietro, venivano intertenendosi in caro colloquio, il qual presentivano essere l'ultimo. E guardando alla lietezza delle circostanti campagne, il barone diceva:

«Terra prediletta da Dio, e dalla matta discordia. E' non godono di questa tanta bellezza, sì perchè in essa nacquero, e minor bellezza non sanno; sì perchè l'odio fa velo all'anima loro, come all'infermo ogni cibo soave sa d'amaro o di nulla.

- Credete, rispose il conte, ch'io ad ora ad ora m'inchinerei a baciare questa terra e adorarla, siccome degno altare di Dio.

- A voi, conte, è più forte ragione d'amarla: chè avete qui radice oramai. E v'invidio. Ma io!

- Che sarà, buono amico, di voi?

- Non so. Mi sento svogliato e d'ogni negozio umano, e d'ogni speranza. A Gualtieri chi può pensare? Pietà mi stringe ad accompagnarlo per poco; infino a Venezia forse: ma poi, i' me ne torno alla mia Francia, dolcissima tuttavia delle contrade: e là, nelle mie terre, m'ingegnerò di vivere tranquillo, infinattanto che il segno della guerra non suoni. Guerra qualsiasi, non monta. L'ubbidienza debita al re signore nostro, la smania che mi prende allo squillar d'una tromba, e, non foss'altro, necessità di fuggire nota di codardo, mi risospingerebbero all'armi. Ma sott'altro signore che sotto il naturale mio, non impugnerò lancia mai.»

In questo dire, videro uscire d'un sentieruolo sulla strada maestra un povero contadino co' suoi arnesi in ispalla, che teneva la sua vecchia moglie per mano, col suo fardello anch'essa, e andavano insieme in quell'atto infantile, alleviando la fatica della via; e un piccolo cane li seguiva con brevi passi, non mai dipartendosi dalle amate orme loro. A quella vista il barone (che in altro tempo ci avrebbe posto mente, come a una fronda d'albero che tremi nascosta fra mille), commosso esclamò: «Queglino l'avvenir loro sanno (beati!) e se ne appagano. La chiesetta che li benedisse infanti, li benedirà trapassati. Poche hanno memorie, ma pure. Pochi piaceri: ma il piacere sentono più forte del dolore; sentono la riconoscenza e il rispetto. Poco odiano, o almeno odiano senza disprezzo, ch'è il veleno dell'anima.»

E il conte: «Ben dite: amara cosa il disprezzo.

- Ma di voi, riprese il barone, ditemi, conte, di voi. Sarete voi dunque ormai negato alla terra di Francia?

E Rinaldo: «Non so. Qui mi confortano a rimanere i consorti e gli amici degli Adimari, e sono di molti; poi tutti, che sanno com'io in momenti difficili, francese di patria, sono stato d'anima fiorentino. Ella, dopo il pericolo corso, s'è fatta più affettuosa e più intendente che mai. Abbandonare questo amore che venne spontaneo a raccogliermi quasi da terra, e a levare in alto lo spirito mio, non potrei. Ma rimanere in Fiorenza parmi grave cimento. Repubblica è cosa mobile per natura: stassera esaltato, sei calpesto domani. Il sospetto s'insinua, com'ellera, in tali edifizii, e li dissolve. Se in me solo cadesse il pericolo, sosterrei: ma se nel suocero mio, se in Matilde? E per mia cagione fare la casa d'Antonio Adimari, d'accetta ch'ell'è alla città, o aborrita o sospetta, l'avrei per misfatto. Poi nell'ebrezza della vittoria, e nell'odio del nome francese, i più vani tra cotesti Fiorentini (e son vani anch'essi), assalirebbero con parole pungenti, non me, ma, ch'è peggio, la patria mia. Or nè l'amore, nè vincolo alcuno farà sì ch'io dimentichi d'essere nato di padre e madre francesi. Possente il duca, soffersi, perchè meritati: solo, e in mezzo a' vincitori, meritati o no, non soffrirei tali oltraggi. E' misurano Francia tutta dai tristi che qui corseggiarono: ma non conoscono il puro antico sangue di Francia, le virtù nostre, non sempre forse perseveranti nè modeste, ma splendide e generose. Or io questo risico di contese continuo debbo cansare. Mi ritrarrò forse in qualche vicina città, forse in Francia stesso, se Matilde consente, e i suoi. Non so.»

Il barone gli stese da cavallo la mano nuda del guanto, e gli disse: «Vivete felice, degno uomo, onore nostro; e, rivediate o no Francia, rammentatevi alcuna volta, che lì vive un vostro leale amico.»

Così fece il conte come pensava. Unitosi a Matilde, scelsero Siena a dimora. Ma Matilde s'accorse che quel soggiorno non piaceva a lui se non quanto ella c'era, e propose spontanea il viaggio di Francia: e il padre assentì, sperando si rivedrebbero sovente, or egli in Tolosa, or ella in Fiorenza. Se non che Dio aveva ordinato altrimenti: e la tenera donna sopra parto morì. Fortunata, che sentì della vita tanto dolore quanto giova a innalzare l'anima, e ad avvivare i diletti, non più: fortunata, che non ebbe anni assai da languire nel tedio, nelle lagrime, nel rimorso; ch'altri amplessi non conobbe che i primi e puri d'un probo uomo, e svogliato del piacere, non della virtù: fortunata, che della terra straniera godette le novità, abbellite dalla gioventù e dall'amore, ma non ebbe tempo di provare quanto amaro sia vivere tra gente ignota; esprimere gli affetti e le imagini dell'infanzia in un nuovo idioma; ricominciare le prove, le consuetudini; rifare la vita. T'addormentasti serena, o Matilde, in quella terra dov'altri Italiani dovevano poi vegliare dura vigilia, e scendere illacrimati in compera sepoltura.

Cavalcava Gualtieri in silenzio, ravvolgendo nell'animo mille pensieri di matto, o d'infermo, che s'impedivano tra sè, e s'aggrovigliavano come serpi: poi, strisciando via tutti, lo lasciavano vuoto, in quel letargo dell'intelletto che i rei hanno comune co' mentecatti. Della varia verdura, dell'ondeggiare dell'ultima messe delle vigne pregnanti di sudata speranza, delle selve, de' colli, de' pianori, de' piani, delle quiete e liete solitudini di Vallombrosa, de' freschi ruscelli dalle vette del Casentino scendenti giù in Arno, niente vedeva: ma il sole, dolcissimo padre di tanta bellezza, gli dava noja sotto al peso dell'armi, e stizza. Il conte Simone gli volgeva di quando in quando parole cortesi, come si fa a pellegrino mal gradito, verso il quale è debito esercitare gli ultimi uffizii della sacra ospitalità: ma egli rispondeva o brevi parole e aride, o nulla. Quelli de' Fiorentini che gli erano più a' fianchi un giorno, ora si stavano più discosti; e già, piaggianti, e' gli avrebbe aborriti vie più. Parevagli essere menato per la pubblica via come a mostra e in trionfo; e si pentiva di non avere scelta la notte al cammino. Perchè da' campi e da' paeselli i villani accorrevano, chi con in mano il coreggiato e chi la falce: ed egli di quelle armi tremava. L'additavano con maraviglia che a lui pareva scherno: e altri aggiungeva parole dure; ma erano pochi. Taluni, ignari ancora del fatto, interrogavano, e il vicino rinarrava la cosa, udente Gualtieri, che era un rinnovare a ogni passo lo spettacolo della gogna. Avrebbe tolto piuttosto soffrire più ore di que' tormenti ch'egli aveva già dati ai rivelatori delle congiure vere. E così, tra la febbre della rabbia impotente, e la smania del chiedere alla mente sfruttata un accorgimento da ingannare la giustizia degli uomini e di Dio, giunse a Poppi. Quivi doveva egli ratificare la giurata rinunziazione, ed erano preparate le scritte, e presti i notai; perchè i Fiorentini bramavano scuotersi di dosso quel sozzo peso, come chi porta abito inzuppato in melma di gora fetida.

Il conte Simone (il quale Gualtieri pareva guardare con occhio men fosco, così come i furiosi hann'uno a cui meno ostinatamente resistono), disse: «Le carte son pronte: il nome vostro, o signore, solo manca.»

Gualtieri taceva; e il conte, dopo breve aspettare: «Dico che manca il nome vostro, o signore.»

Il duca levandosi e misurando con rapidi passi la stanza: «E manchi. La violenza fattami io non posso nè debbo ricevere per buona legge. Ciò non consente la coscienza mia, nè, conte, la vostra.»

Allora il buon vecchio prendendo i fogli, e ripiegandoli, se li mise in seno, e disse con pace: «Quello che a voi piace, sia. Nè io 'ntendo già farvi forza. Ma la città di Fiorenza non è lontana; e così come fino a qui vi condussi, laggiù di nuovo, se tanto v'aggrada, vi menerò; e vostra cura sarà rassettare bellamente le cose, di concordia col popolo fiorentino.»

Gualtieri, che fino a mezzo il discorso l'aveva guardato fiso, rimase come fanciullo gabbato; e finito appena che l'altro ebbe: «Le scritte,» gridò con voce soffocata dall'ira. Il buon vecchio si trasse con pace di seno le scritte, le rispiegò con pace; e Gualtieri v'appose il nome. E preso l'elmo da terra, s'alzò, scese, chiese il cavallo. De' Fiorentini e de' Senesi chi gli volse alcuna parola pietosa, chi dura, chi nulla: egli tacque. Del conte Simone fuggì le dipartenze; dimenticò di stringere la mano a Rinaldo d'Altavilla; e galoppò di gran corsa co' suoi, per iscuotere la stizza, che a lui pesava più dell'infamia.

Il barone di Ciavignì rimase, per abbracciare il conte d'Altavilla: e salutati amorosamente i Fiorentini, e avute da loro sincere significazioni d'affetto, venuto a Rinaldo, strinse l'armato petto di lui al suo petto armato, con lacrime molte, sì che non poteva profferire parola. Rinaldo anch'egli pianse. Così quand'Orfa moabitide ritornava alla sua terra, nel dipartirsi da Rut, fece un gran pianto: ma Rut piangendo la lasciava, e diceva a Noemi: «Il tuo popolo sarà 'l mio popolo, e il tuo Dio, madre, il mio Dio.»

Tale fu la signoria che il duca d'Atene aveva con tradimento usurpata sopra il Comune e popolo di Fiorenza. E' n'andò con molta sua onta, ma con molti danari tratti da' Fiorentini, per li loro difetti e discordie; e lasciandovi di male sequele. E di qui prendano esempio i popoli, di non volere mai signoria perpetua, nè a vita.

QUI FINISCE LA STORIA DELLA CACCIATA

DEL DUCA D'ATENE

DALLA CITTÀ DI FIORENZA.

Poche congiure, fra le tante tentate, riescono a qualche prossimo effetto: e dico, prossimo, perchè del remoto, quando pure conseguasi e sentasi di conseguirlo, non è mai la congiura la principale, e molto men l'unica, causa. Ma delle poche le quali ottengono un intento, le più sono ordite da pochi, e in servigio non tanto delle moltitudini quanto o d'una o di non molte famiglie. E anche perciò non si sventano, che il segreto non divulgato tra molti corre meno pericoli, e i molti senza saperselo sono o strumento o zimbello. Zimbello è ora il nome del popolo, ora il nome della nazione, ora un principio e ora un vessillo, ora una speranza e ora una memoria che vestesi da speranza. Ma perchè il fine è più noto e determinato, e i principii stessi s'incarnano in una o in poche persone, congiure tali sortiscono un qualche effetto; giacchè gli uomini, per commoversi risolutamente, richieggono oggetti determinati. E allora la smania dell'uscire d'una condizione noiosa forse più che penosa, umiliante forse più che infelice, la smania pur del mutare li fa muovere incontro anco al peggio, e trapassare allegri e superbi da libertà mal portata e piena di sospetti e di cure a quieta e agiata servitù. Le congiure che mettono a servitù, non sono nè le più vane, nè le meno frequenti.

Quelle che sinceramente nell'intenzione di molti mirerebbero al ben comune e al decoro, finiscono spesso male, perchè son di molti; e impossibile sceglierli tutti buoni, e ardimentosi del pari, del pari prudenti, unanimi tutti. Basta che in pochi, basta che in uno, covino germi d'ambizione o d'odio o di cupidigia, acciocchè l'ambizione o si rannicchi in sè o turbi invadendo l'opera altrui o speri soddisfacimento per via contraria: acciocchè l'odio si volga contro i compagni, o per sospetto si divida da essi e trovi sfogo da sè, o sia sopraffatto da odio maggiore; acciocchè la cupidigia si satolli o di prezzo o della speranza del prezzo, o pure paventi di perdere quello che ha già. E le passioni diverse di diversi non può che non si ritorcano l'una contro l'altra; nè certo saprebbero procedere di conserva come gli affetti virtuosi. Ma nell'affrontare il pericolo per fin di bene vuolsi quasi più ordine che impeto, perchè l'ordine è forza che fa d'una schiera un sol muro, e di tante braccia un braccio, e le muove in cadenza come esercito a squillo di sola una tromba. Aggiungi il rimorso o la vergogna che può cogliere talun di coloro il cui fine non era retto; aggiungi la paura che può serpeggiare tra i vili; aggiungi la diffidenza che striscia e agghiaccia del suo veleno anco il cuore de' buoni; aggiungi la baldanzosa jattanza o la cautela insolita che tradiscono, la vanità e la sincerità che si fanno senza saperlo delatrici; aggiungi la dissuetudine dell'operare anche soli, del consentire nelle opinioni anco astratte dai fatti; aggiungi l'abito del sospettare e del discredere, effetto e causa di servitù, fomentato dai tristi signori, accarezzato dagli schiavi come difesa alla loro debolezza: e intenderai perchè quante più son le forze raccolte al cimento, tanto più i risichi della disfatta moltiplichino. Così fra gente molto inesperta delle armi e appiattata in agguato basta che un fucile, mal maneggiato, nel silenzio notturno scatti perchè l'aguato si scopra, e gli insidianti stessi n'abbiano sgomento, e forse dalle proprie loro armi ferita e morte.

Ma quando è detto che un moto abbia a sortire effetto; quando cioè l'ingiustizia predominante pesa tanto nella bilancia non degli uomini ma di Dio, che debba di punitrice diventare punita; allora quelli che per anni e per secoli furono intoppi, che erano intoppi un istante prima, diventano agevolezze; il muro opposto si fa scala, l'erta pendio; la rivoluzione è fatta, prima che per la mano degli uomini, negli animi e nelle cose. Gli assonnati si destano, e col pur balzare in piedi inaspettatamente, sgomentano, come a vedere la risurrezione d'un morto: coloro che parevano stupidamente ignari e usciti dalla memoria di sè, conoscono, ravvisano, si ricordano nomi obbliati da generazioni e generazioni, intendono, indovinano il segreto del proprio e degli altrui cuori, e col fatto rispondono al silenzio altrui, con potenza fatidica interpretato. Gli odii si quetano, come la tempesta al cenno del Dio; i sospetti (che è più mirabile creazione) s'annientano come le tenebre al vincere di subita luce. Le passioni, convertite in affetti, servono anche esse all'amore ed al giusto; la paura figlia e punitrice del peccato trasmuta gl'impeti della fuga negl'impeti dell'assalto; il grido dello spavento diventa spaventosa minaccia; e lo stesso ignorare, lo stesso dubitare di quanti e quali siano consorti al cimento, si fa sicurezza, accresce baldanza. Tutti si credono unanimi, e credendo si fanno; si sentono forti, e questo sentimento novello esprimendo in ogni suono e in ogni atto, atterriscono l'attonito nemico. Le forze soprabondanti, l'una sull'altra si accumulano, e pur non fanno confusione; un disordine provvido, inconscie di sè stesse, le spinge, quasi anima di vento o vicenda di riflusso, che tutte moveva dianzi in un verso le onde, e tutte in un altro con fiotto invincibile le moverà. Lo stesso temersi scoperti dà l'ultima spinta alle audacie; la disperazione stessa è fomite di speranze animose. Così nelle immense officine della natura la dissoluzione è infaticabile ricreatrice di vita.

Queste cose succedono acciocchè nè l'uomo singolo per autorevole che paia, nè i popoli per quanto si tengano grandi arroghino a sè il vanto della rovesciata ingiustizia e delle franchigie istaurate. E acciocchè meglio si umiliino, segue che le trame loro stesse in uno o in più punti si vengano l'una con l'altra intralciando, e che da quello che umanamente è nodo, si svolga inopinato il divino scioglimento. Coteste trame, intrecciate tra loro, invece di farsi rete ai deboli serrano tutt'intorno il potente violento, e lo fanno rimanere immoto come in un lago di ghiaccio. Egli sente mutato ogni cosa intorno a sè, e non sa che cosa, appunto perchè il mutamento è nel tutto; come il nostro e gli altri globi movendosi intorno al sole e a sè stessi, veggono sopraggiungere inevitabile il verno e la notte. Se non che al violento la mutazione sopravviene insolita, inesplicabile; e non gli par vero che uomini, dianzi prostrati e mutoli, abbiano virtù di levare la voce e la fronte. Ai sospetti antichi, ingiusti e incauti, succede una ancor più incauta fidanza. Temendo dei proprii terrori, come di confessione di debolezza e di reità, costui respinge da sè non pure i consigli del bene, ma gli avvisi del pericolo, quegli avvisi che dianzi e' comprava a caro prezzo da' suoi delatori; e con la propria malignità li aggravava, quasi moneta coniata della sua impronta, per falsificarla con più vile metallo. Adesso e del vero e del falso egli ha paura, e meno che mai sa discernere nemici da amici; e coloro stessi che prima gli servivano o fedeli o complici o compri, lo ingannano, o dal proprio terrore ingannati, o stanchi, o pentiti, o preparandosi con perfidi consigli un merito presso il vincitore e una via segreta di scampo. Se uno dei tanti sospetti suoi cade in falso, il disingannarsi di quello lo fa noncurante dei pericoli veri, sordo ai rumori crescenti; e non sa dove cogliere, dove percuotere; paventa di troppo vedere, e troppo scoprire ad altrui; irresoluto, come chi fra le tenebre ha innanzi e dietro e da' lati un precipizio, e dopo lungo esitare e quasi vaneggiare nel pensiero della elezione, si getta disperato nel più rovinoso e più fondo.

Queste cose, nel ristampare il mio lavoruccio corretto, intendevo dapprima innestare nella narrazione stessa, non in bocca di tale o tale persona storica, bensì come considerazioni mie proprie; ma più opportuno mi parve poi separarle, anzi serbarle alla fine, acciocchè nel proemio non turbassero il giudizio che deve dai fatti medesimi risultare. Le prefazioni vengono sovente importune anco in trattati di scienza; e più vogliono essere scuse, più appaiono confessioni: ma pochi le sanno leggere per il loro verso, que' pochi appunto ai quali ogni prefazione è superflua. Nè sola la moralità ch'io ho notata riesce dal mio racconto, o per dir meglio dalla storia che gli porge argomento: e per questo la mi è parsa notabile, che offre quasi un esempio ideale di quella concordia meritamente fortunata la quale raccoglie le forze dissipate d'un popolo a fine giusto, concordia rara quanto l'innocente esecuzione d'imprese per sè legittime, e quanto il loro felice riuscimento. Il convenire dei diversi e divisi ordini della città, e delle divise città di Toscana; l'accordarsi del sentimento religioso col patrio, e la parte principale che prende un vescovo alla cacciata del duca, erano cose tanto più degne di commemorazione che, descrivendo cadeva di dover nettamente distinguere l'affetto cittadino dall'odio, l'abominazione della prepotenza d'un uomo dall'avversione contro la nazione di Francia. Più per istinto e per consiglio venutomi dall'indole stessa de' fatti, che per meditazione o per arte, in questo scritto, steso in quindici giorni ma poi quant'era da me accuratamente corretto, mi son fermato assai più nell'uso e nell'abuso che i cittadini fecero della vittoria, che non negli apparecchi della resistenza e della battaglia; giacchè quella sentii essere la parte maggiormente esemplare. Dico esemplare e nel bene e nel male: se non che la troppo minuta enumerazione di certe atrocità vidi poi essere inutile all'intento, e ne stralciai molte cose. Alcuni germi storici ho svolti; non però quanti potevo; chè il tutto non si può svolgere nè si deve dall'arte; e forse nella rapidità è verità più piena talvolta che nella esattezza penosamente affettata. Ma questo, come tutti gli altri argomenti, può essere ritrattato in nuove forme, secondo il variare de' prospetti che si viene facendo nella varietà degli ingegni e de' tempi. Nel sentenziare non poetico questo o quel tema, o non maneggiabile se non in sola una forma d'arte, conviene andare a rilento: perchè l'esperienza nuova che facciasi o da un uomo o da un popolo o da un'età può a un tratto diffondere luce novella su fatti antichi notissimi, e rischiararli di nuova moralità. Senza la quale da ultimo non c'è poesia, ancorchè la moralità astratta non faccia poesia.

Soggiungo le narrazioni storiche del Villani e del Machiavelli, acciocchè ognuno che vuole, giudichi quanto siasi serbato il colore de' tempi, e rifaccia la storia da sè con la meditazione della fantasia e dell'affetto. Non bado a comprovare nè con comenti nel testo nè con note e citazioni la verità storica di certi accenni, alla quale mi sono attenuto eziandio nel linguaggio, richiamando alcuni vocaboli spenti nell'uso moderno ma che meglio ci trasportano al secolo e al luogo, non però sì che il colorito dello stile non rimanga di lingua vivente. E questo mi venne fatto sovente non per isforzo o per merito mio ma dello stesso idioma toscano, che serba tuttavia vive e ne' monti e nel bel mezzo delle città le antiche e in apparenza più riposte e artifiziate eleganze.

Cadrebbe qui della grave questione proposta dalla coscienza e dal sapere e dal senno del più grande tra i viventi poeti d'Italia e d'Europa; se il romanzo storico sia opera conforme agli alti fini dell'arte, conciliabile alla religione del vero. Potrebbesi dall'un lato rispondere che il romanzo e il poema e il dramma, quali furono trattati finora, non segnano gli estremi limiti nè dell'arte nè dell'ingegno umano; ch'anzi l'essersi fatto in un certo modo è indizio e prova del doversi fare altrimenti; e che gli stessi argomenti recati dall'illustre uomo possono, anzichè sconsigliare novelle prove, ispirarle. Dall'altro lato cadrebbe di rispondere che le obbiezioni mosse alla mistione dell'imaginario col vero nell'opere d'arte possonsi torcere non solamente contr'ogni rappresentazione de' fatti antichi in parole, ma in qualunque sia segno visibile, contro la narrazione storica stessa, contro l'esposizione dei fatti presenti, e fin contro l'uso dell'umana favella. Nelle storie di Tacito e in tutte le storie umane, nelle relazioni degli uomini di Stato e de' privati cittadini, de' magistrati e de' testimoni intorno a cose vedute e provate ed esaminate diligentemente, nella esposizione d'intimi affetti sentiti da noi medesimi; chi può farsi mallevadore ad altri e a sè stesso che ciascuna parola corrisponda così fedelmente alla proprietà delle cose da non lasciar sospettare gli inconvenienti del romanzo storico nella cronaca, nel giornale, nella lettera famigliare, in quei giudizi ove dalla intelligenza d'una voce dipende tante volte l'onore e la vita? Potrebbesi nelle cose d'arte e in tutte distinguere il falso, l'imaginario, ed il finto; notare che il falso è sempre illecito, e mai bello per sè; il finto che alcune cose suppone per farne grado a altre, lo ammette la matematica nei postulati, le scienze corporee nelle ipotesi, la logica nelle concessioni, nelle supposizioni la vita quotidiana; che l'imaginato non solo è concesso alla mente ma necessario, così come la facoltà da cui nasce, la quale è vita della memoria e strumento alla stessa ragione; e che se può di lei farsi abuso, anco della ragione si abusa. Se non che questi nuovi scrupoli intorno alle difficoltà e ai pericoli e ai doveri dell'arte, onorano non pure l'anima che li ha sentiti ma la nazione e il secolo in cui tale anima nacque; e c'insegnano a usare e nel consorzio degli scritti e in quel della vita il prezioso talento della parola con sempre più attenta ponderazione, con sempre più severo amore, e con quel misto di trepida sollecitudine e di schietta fiducia che appunto dall'amore è ispirato e che sempre meglio lo ispira.

APPENDICE.

I. DA G. VILLANI.

Grandi mutamenti e diverse rivoluzioni avvennero in questi tempi alla nostra città di Firenze, per le nostre discordie tra' cittadini, e per lo male reggimento de' Venti della balìa, come addietro avemo fatta menzione. E fieno sì diverse, che io autore, che fui presente, mi fa dubitare che per gli nostri successori fieno appena credute di vero: e furono pure così come diremo appresso.

Tornando la detta nobile e grande oste e malavventurata da Lucca, e rendutasi Lucca a' Pisani; i Fiorentini, parendo loro male stare, e veggendo che messer Malatesta nostro capitano non s'era ben portato nella detta guerra, e per tema del trattato tenuto col Bavaro, come addietro toccammo, e per stare più sicuri, elessono per capitano e per conservadore del popolo messer Gualtieri duca d'Atene e conte di Brenna, di Francia, all'entrante di giugno 1342, con salaro e cavalieri e pedoni ch'avea messer Malatesta, per termine d'uno anno. E volle il detto duca, o per suo agiamento, o per sua sagacità, o per quello che ne seguì appresso, tornare a santa Croce al luogo de' frati minori: e la gente sua alloggiò d'intorno. E poi in calen d'agosto appresso, finito il tempo di messer Malatesta, gli fu aggiunta la capitaneria generale della guerra, e che potesse fare giustizia personale in città e di fuori della città. Il gentiluomo veggendo la città in divisione, ed essendo cupido di moneta, che n'avea bisogno come viandante e pellegrino (e bench'egli avesse il titolo del ducato d'Atene, non lo possedeva); avvenne che per sodduzione di certi grandi di Firenze, che al continuo vi cercavano di rompere gli ordini del popolo, con certi grandi popolani per essere signori, e per non rendere il debito loro a cui doveano dare, e sentendo le loro compagnie essere in male stato; al continovo a santa Croce l'andavano a consigliare, e di dì e di notte il confortavano che si recasse al tutto la signoria libera della città in mano. Il quale duca per le cagioni dette, e vago di signoria, cominciò a seguire il malvagio consiglio, e a diventare crudele e tiranno, sotto titolo di fare giustizia, e per essere temuto, e al tutto farsi signore di Firenze.

Avvenne che il dì di san Jacopo, di luglio, negli anni 1342, essendo molti Pratesi iti alla festa a Pistoia, Ridolfo di messer Tegghiaio de' Pugliesi venne per entrare in Prato, che n'era ribello, con forza degli Ubaldini e del conte Niccolò da Cerbaia, e con certi suoi fedeli, nimici de' Guazzalotri, e con certi nostri contadini sbanditi, in quantità di quaranta a cavallo e da trecento fanti a piedi; perocchè gli doveva essere data l'entrata della terra. E per sua disavventura non gli venne fatto; ma fu preso con venti nostri sbanditi andandosene per Mugello agli Ubaldini, e menatone in Firenze preso con gli altri insieme. Il duca lasciò i nostri sbanditi sopra i quali avea la giuridizione: e al detto Ridolfo, che non gli era suddito nè sbandito del comune di Firenze, a torto fece tagliare la testa. E questa fu la prima giustizia ch'egli fece in Firenze; onde molto ne fu biasimato da' savi uomini di Firenze, di crudeltà. E dissesi che n'ebbe moneta da' Guazzalotri di Prato, ch'erano suoi nimici: ovvero il fece come dice il proverbio de' tiranni, che dice: chi uno offende, molti minaccia.

Appresso all'entrare d'agosto il duca fece pigliare messer Giovanni di Bernardino de' Medici, stato, per lo nostro Comune, capitano di Lucca, e fecegli tagliare la testa, apponendogli (e fecegli confessare) che per danari avea lasciato fuggire di Lucca e ire nel campo de' Pisani messer Tarlato d'Arezzo, il quale aveva in sua guardia. E i più dissono ch'egli non ne avea colpa, se non di mala guardia. Appresso, del detto mese d'agosto fece pigliare Guiglielmo degli Altoviti, stato, per lo nostro Comune, capitano d'Arezzo, e fecegli tagliare la testa, trovando, per sua confessione, per lui fatte molte baratterie. E alcuno disse che fu procaccio e spendio de' Tarlati d'Arezzo, i quali egli avea mandati presi a Firenze: e a ciò diamo in parte fede. E condannò uno nipote di questo Guiglielmo e Matteo di Borgo Rinaldi, stati uficiali in Arezzo e in Castiglione Aretino, ciascuno in cinquecento fiorini d'oro, per avere commesse baratterie. Ancora fece pigliare Naddo di Cenni degli Oricellai grande popolano, il quale era stato in Lucca uficiale sopra le masnade de' soldati, e fecegli rimettere nella camera del Comune quattromila fiorini d'oro, i quali si disse ch'egli avea avuti da' Pisani sotto falso trattato tenuto con loro, e giurato sopra Corpus Domini di fare loro compiere l'accordo di Lucca, quando Cenni di Naddo suo padre era de' priori di Firenze. E oltre, a ciò gli fece rimettere fiorini duemilacinquecento d'oro, i quali confessò avere guadagnati in Lucca nelle paghe de' soldati e della vittuaglia; e per grazia e per prieghi di molti popolani gli perdonò la vita, e prese da lui mallevadoria di fiorini diecimila d'oro, e diegli i confini a Perugia. E per simile modo fece rimettere a Rosso di Ricciardo de' Ricci, compagno del detto Naddo e camarlingo in Lucca, fiorini tremilaottocento d'oro, confessati che avea avuti in sua parte, e guadagnati in Lucca sopra i soldati e sopra la vittuaglia: e per simile modo a grandi prieghi gli perdonò la vita, e miselo in pregione per l'avere e per la persona.

Per le dette giustizie fatte in avere e in persona di quattro popolani i maggiori di Firenze, e delle maggiori case, Medici, Altoviti, Ricci e Oricellai, il duca fu molto temuto e ridottato da tutti i cittadini: e i grandi ne presono grande baldanza: e il popolo minuto ne fece grande allegrezza, perchè avea messo mano nel reggimento. E quando il duca cavalcava per la città, andavano gridando viva il signore: e quasi in ogni canto e palagio di Firenze era dipinta l'arme sua per gli cittadini, per avere la sua benivolenza; e chi per paura. In questo tempo spirò l'uficio de' venti della balìa, stati rettori ovvero guastatori della repubblica di Firenze; e lasciando il Comune in debito di più di quarantamila fiorini d'oro co' cittadini, senza il debito promesso a messer Mastino. Per le dette cagioni il duca ne montò in grande pompa, e crebbegli la speranza del suo proponimento d'essere al tutto signore di Firenze col favore de' grandi e del popolo minuto. E così gli venne fatto. E per consiglio di certi grandi ne richiese i priori, ch'allora erano nell'ufficio. I detti priori con gli altri ordini, cioè i dodici buoni uomini e i gonfalonieri delle compagnie, e con altri consiglieri, in nulla guisa vollono acconsentire di sottomettere la libertà della repubblica di Firenze sotto giogo di signoria a vita di neuno; il quale non fu mai acconsentito nè sofferto per gli nostri padri antichi, nè all'imperadore, nè al re Carlo, nè a neuno suo discendente, che tanto fossero amici o confidenti in parte guelfa o parte ghibellina, nè per isconfitte o male stato ch'avesse mai il nostro Comune. Il detto duca per sodducimento e conforto quasi di tutti i grandi di Firenze, spezialmente di quegli della possente casa de' Bardi, e Rossi e' Frescobaldi e Cavalcanti, Buondelmonti, Adimari, Cavicciuli, Donati, Gianfigliazzi, Tornaquinci e Pazzi, per rompere gli ordini della giustizia ch'erano sopra i grandi: e così promise il duca di fare. De' popolani furono questi: Peruzzi, Acciaiuoli, Bonaccorsi, Antellesi e loro seguaci, per cagione e male stato delle loro compagnie, perchè il duca gli sostenesse in istato, non lasciandogli rompere, nè strignere a pagare i loro creditori. E gli artefici minuti, a cui era spiaciuto il reggimento de' venti popolani grassi della balìa, tutti se gli proffersono in ajuto e in arme.

Il duca, il qual era sagace, e nutrito in Grecia e in Puglia più che in Francia, veggendosi tanto favore e seguito, la vigilia di nostra Donna di settembre fece ire uno bando per la città, che volea fare parlamento la mattina vegnente in sulla piazza di santa Croce per bene del Comune. I priori e gli altri reggenti sentendo la trama del duca e del suo mal consiglio, non sentendosi forti nè provveduti, e temendo che, facendosi il detto parlamento, non fosse discordia o romore, o commutazione di città, sì v'andarono parte de' priori e de' loro colleghi la sera a santa Croce, a trattare accordo col duca: e dopo molto tirata e dibattuta la querela, essendo molto di notte, rimasono in questa concordia col duca, cioè: che il Comune di Firenze gli darebbe la signoria della città e del contado per uno anno, oltre al tempo ch'egli l'aveva, con quella giuridizione e patti e gaggi ch'ebbe messer Carlo duca di Calavra e figliuolo del re Ruberto gli anni di Cristo 1326. E questo accordo si fermò per vallati e pubblici istrumenti e carte per più notai dall'una parte e dall'altra: e saramentò in sul messale che conserverebbe in sua libertà il popolo e l'uficio de' priori e gli ordini della giustizia; riducendosi il detto ordinato parlamento la mattina in sulla piazza de' Priori per osservare i patti sopraddetti. La mattina di nostra Donna, a dì 8 di settembre 1342, il duca fece armare la sua gente intorno di centoventi uomini a cavallo: e avea in Firenze da trecento de' suoi fanti; e quasi tutti i grandi di Firenze erano dal suo lato. Messer Giovanni della Tosa e i suoi consorti furono con lui a cavallo insieme con gli altri grandi e popolani suoi amici con l'armi coperte: e accompagnaronlo da santa Croce alla piazza de' Priori presso all'ora di terza. I priori insieme con gli altri ordini del Comune scesono del palagio: e assettati a sedere col duca in su la ringhiera, fatta la proposta, messer Francesco Rustichelli giudice, ch'era allora priore, si levò suso ad aringare sopra ciò: ma, com'era ordinato, non fu lasciato troppo dire, ma a grida di popolo per certi scardassieri e popolazzo minuto, e certi masnadieri di certi grandi uomini, cominciarono a gridare dicendo: Sia la signoria del duca a vita; sia il duca nostro signore. E preso per gli grandi, il portarono in sul palagio; e perchè il palagio era serrato, gridarono alle scure: sicchè convenne che s'aprisse, tra per forza e per inganno, il palagio; e misonlo in palagio e in signoria. E i priori furono messi nella camera dell'arme del detto palagio, vilmente. E fu tolto per certi grandi il gonfalone e il libro degli ordini della giustizia sopra i grandi, e poste le bandiere del duca in su la torre, e sonate le campane a Dio laudamo. E fece la mattina all'entrare del palagio in su la porta due cavalieri, messer Cerrettieri de' Visdomini ch'era suo scudiere e famigliare, e Rinieri di Giotto da san Gimignano, stato capitano dei fanti de' priori, il quale acconsentì al tradimento d'aprire e di dargli il palagio del popolo, che agevole gli era a difenderlo, com'egli era tenuto e dovea fare per suo onore. Assentì al detto tradimento messer Guiglielmo d'Asciesi allora capitano del popolo, il quale rimase poi con lui per suo bargello e carnefice, dilettandosi di fare crude giustizie d'uomini. Messer Meliaduso d'Ascoli, allora podestà di Firenze, non volle assentire al detto tradimento, anzi volle rinunziare l'uficio della podesteria: benchè si disse per alcuno che tutto fece a frode e inganno, perocchè poi rimase pure suo uficiale. Il duca e i grandi feciono grande festa d'armeggiare, e la sera grandi luminarie e falò. E ivi a due dì appresso si fece il duca confermare signore a vita per gli opportuni consigli. E mise i priori nel palagio de' Figliuoli Petri dietro a san Piero Scheraggio con venti fanti solamente, che ne solevano prima avere cento, levando loro ogni uficio e signoria. E levò l'arme a tutti i cittadini privilegiati, e di che stato si fossono. E poi all'ottava di nostra Donna fece il duca grande festa e solennità a santa Croce per la sua signoria, e fece offerire più di centocinquanta prigioni. E il nostro vescovo sermonando, molto il lodò di magnificenza al popolo. In questo modo con tradimento il duca d'Atene usurpò la libertà della città di Firenze ch'era durata cinquant'anni, in grande libertà, stato e signoria. E noti chi questo leggerà, come Iddio per gli nostri peccati in poco tempo diede e permise alla nostra città tanti flagelli, come fu diluvio, carestia, fame, mortalità, sconfitte, vergogne d'imprese, perdimento di sustanze e di moneta, fallimenti di mercatanti, e danni di credenza, e ultimamente di libertà, recati a tirannesca signoria e servaggio. E però, per Dio, carissimi cittadini presenti e futuri, correggiamo i nostri difetti, e abbiamo tra noi amore e carità, acciocchè noi piacciamo all'altissimo Iddio, e non ci rechiamo all'ultimo giudicio della sua ira, come assai ci mostra chiaro per le sue visibili minacce. E questo basti a' buoni intenditori; tornando a nostra materia de' processi del duca.

Poi appresso ch'egli ebbe la signoria di Firenze, a' dì 24 di settembre ebbe la signoria d'Arezzo; e quella di Pistoia, dove avea già suoi vicari il duca per lo Comune di Firenze, gli si dierono a vita; e poco appresso per simile modo si dierono Colle di Valdelsa e san Gimignano, e poi la città di Volterra: onde molto si crebbe lo stato suo e signoria. E ricolse a sè8 tutti i Franceschi e Borgognoni ch'erano al soldo in Italia; di che tosto ne ebbe più di ottocento, sanza gl'Italiani: e molti suoi parenti vennero a lui infino di Francia, per le novelle ite di là, di lui, e della sua signoria e gloria. E quando ciò fu rapportato al re Filippo di Francia suo sovrano, subitamente disse a' suoi baroni che gli erano d'intorno, in sua lingua: Albergé il est le pélerin, mais il y a mauvais ostel: il quale fu uno proverbio molto di vera sentenzia, e profezia, come poco tempo appresso gli avvenne. Ancora non è da dimenticare di mettere in nota una breve lettera d'ammonizione e di grande sentenza, che si trovò in uno suo forziere quando e' fu cacciato di Firenze, la quale gli avea mandata il re Ruberto quando seppe ch'egli avea presa la signoria di Firenze sanza sua saputa o consiglio, la quale di latino facemmo recare in volgare per seguire il nostro stile, la quale dicea così:

«Non senno, non virtù, non lunga amistà, non servigi a meritare, non vendicatogli delle loro onte, t'ha fatto signore de' Fiorentini, ma la loro grande discordia e il loro grave stato; di che se' loro più tenuto, considerando l'amore ch'eglino t'hanno mostrato, credendosi riposare nelle tue braccia. Il modo c'hai a tenere volendoli bene governare, si è questo. Che tu ti ritenga col popolo che prima reggeva: e reggiti per lo loro consiglio e non loro per lo tuo. Fortifica giustizia e osserva i loro ordini; e com'eglino si governavano per sette, fa' che per te si governino per dieci, ch'è numero comune, che lega in se tutti i singulari numeri (ciò vuol dire, non gli reggere per sette nè divisi, ma a Comune). Abbiamo inteso che traesti quelli rettori della casa della loro abitazione (ciò vuol dire de' priori) del palagio del popolo fatto per loro. Rimettivegli a contentamento del popolo; e tu abita nel palagio ove stava nostro figliuolo (cioè nel palagio ove stava il loro podestà, ove abitava il duca di Calavra, quando fu signore di Firenze). E se questo non fai, non ci pare che tuo stato si possa stendere innanzi per ispazio di molto tempo. Robertus rex Jerusalem et Siciliae. Dat. Neapoli die XIX. septembris MCCCXLII. octava inditione

E non è da lasciare di fare memoria della sformata mutazione d'abito, che ci recarono di nuovo i Franceschi, quando venne il duca in Firenze. Che anticamente il loro vestire e abito era il più bello e nobile e onesto che di niuna altra nazione, a modo di togati Romani. Sì si vestivano i giovani una cotta ovvero gonella corta e stretta, che non si poteano vestire sanza l'ajuto altrui, e una correggia come cigna di cavallo, con isfoggiata fibbia e puntale, con isfoggiata scarsella alla tedesca sopra il pettignone, e il cappuccio vestito a modo di scoccobrino col batolo infino alla cintola e più, ch'era cappuccio e mantello, con molti fregi e intagli; e il becchetto del cappuccio lungo infino in terra per avvolgerlo al capo per lo freddo; e colle barbe lunghe per mostrarsi più fieri in arme. E i cavalieri vestiti d'uno sorcotto ovvero guarnacca stretta cintavi suso, e le punte de' manicottoli lunghe infino a terra foderati di vaio e ermellini. Questa stranianza d'abito, non bello nè onesto, fu di presente preso per gli giovani di Firenze, e per le donne giovani con disordinati manicottoli; come per natura siamo disposti noi vani cittadini alle mutazioni de' nuovi abiti e istrani contraffare oltre al modo d'ogni altra nazione, sempre traendo al disonesto e a vanitade. Ciò fu segno di futura mutazione di stato.

Come il duca d'Atene fu fatto signore, e avuto la signoria di Firenze per lo modo detto, per avere meno a contendere di fuori, credendosi fortificare dentro il suo stato e signoria, fece di presente pace e accordo co' Pisani e con tutti i loro seguaci, non guardando a onte o vergogne del Comune di Firenze: ove i Fiorentini speravano ch'egli facesse ogni loro vendetta. E a' dì 14 d'ottobre si pubblicò e bandì in questo modo, cioè: che la città di Lucca rimanesse a' Pisani per quindici anni, e poi rimanesse in istato Comune, rimettendovi al presente gli usciti guelfi di Lucca che tornare vi volessono, rendendo loro i loro beni; e mettendo i Lucchesi in Lucca per podestà cui eglino volessono: il detto tempo rimanendo a' Pisani la guardia del castello dell'Agosta ch'è in Lucca, e tutta la guardia e dominazione della terra. Il podestà di Lucca non aveva altro che il salario e 'l nome, che altra signoria poco potea fare più, che piacesse a' Pisani; ma pure era una possessione per lo nostro Comune, e freno a' Pisani mentre che il duca dominava Firenze, dando i Pisani al duca ogni anno ottomila fiorini d'oro; e i detti danari davan per censo il dì di san Giovanni in una coppa d'argento dorata. Facendo franchi i Fiorentini in Pisa per cinque anni, dove prima erano franchi per sempre, per gli patti antichi, rimanendo d'accordo a' Fiorentini tutte le castella di Valdarno e di Valdinievole, che eglino si tenevano, e Barga e Pietrasanta. E che i Fiorentini dovessono rimettere in Firenze e trarre di bando tutti i loro rubelli nuovi e vecchi, stati al servigio e lega co' Pisani; e perdonare agli Ubaldini e a' Pazzi di Valdarno e agli Ubertini, e trarre di pregione i Tarlati d'Arezzo rendendo loro pace, e trarre di prigione messer Giovanni Visconti di Milano. E così fu fatto di presente. Il quale messer Giovanni Visconti il duca vestì nobilmente, e fornì di cavalli e di danari, e fecelo accompagnare infino a Pisa. Il detto messer Giovanni domandò a' Pisani l'ammenda de' suoi danni e interessi avuti per loro: gl'ingrati Pisani nol vollono udire, ma appuosongli che egli era venuto in Pisa per trattare cospirazione per lo duca e Comune di Firenze nella terra: e così si partì villanamente. Della quale cosa messer Luchino signore di Milano prese molto sdegno contra' Pisani. Per lo detto accordo dal duca a' Pisani, tornaro i Bardi e i Frescobaldi e i loro seguaci in Firenze, com'era di patto; e i Pisani lasciarono ogni prigione fiorentino, e i loro collegati ch'erano presi in Pisa e in Lucca.

A dì 15 d'ottobre il duca fece in Firenze nuovi priori, i più, artefici minuti, e mischiati di quegli che i loro antichi erano stati ghibellini; e diede loro uno gonfalone di giustizia così fatto di tre insegne: ciò fu, di costa all'asta l'arme del Comune, il campo bianco e il giglio vermiglio; e appresso in mezzo, la sua, il campo azzurro e biliottato col leone ad oro, e al collo del leone uno scudo coll'arme del popolo; appresso l'arme del popolo, il campo bianco e la croce vermiglia, e di sopra, il rastrello dell'arme del re. E mise i priori dove prima stava l'esecutore, in sulla piazza, con poco uficio, e minore balìa, con poco onore, sanza sonare campana o congregare il popolo, com'era usanza. Del detto nuovo e dissimulato gonfalone, i grandi che aveano fatto signore il duca, credendosi che al tutto egli annullasse il popolo in detto e in fatto, come avea promesso loro, sì si turbarono forte: e massimamente perchè in que' dì fece condannare uno della casa de' Bardi in cinquecento fiorini d'oro, o nella mano, perchè avea stretta la gola a uno suo vicino popolano perchè gli diceva villania. E così puttaneggiando dissimulava il duca co' cittadini, togliendo ogni baldanza a' grandi che l'aveano fatto signore, togliendo la libertà e ogni balìa e uficio: e altro che il nome de' priori e popolo non rimase loro. E cassò l'uficio de' gonfalonieri delle compagnie del popolo, e tolse loro i gonfaloni; e ogni altro uficio e ordine del popolo che fosse, levò via, se non a suo beneplacito, ritenendosi co' beccai, vinattieri, e scardassieri, e artefici minuti, dando loro consoli e rettori al loro volere, dimembrando gli ordini dell'arti a chi erano sottoposti, per volere maggiore salario di loro lavorii. Per le sopradette cagioni, e altre fatte per lui, si formò cospirazione contro il duca per i grandi e popolani medesimi che l'aveano fatto signore.

E fece torre tutte le balestre grosse a' cittadini, e fece fare l'antiporto dinanzi al palagio del popolo, e ferrare le finestre della sala di sotto, ove si facea il consiglio, per gelosia e sospetto de' cittadini; e fece comprendere tutto il circuito dal detto palagio a quegli che furono de' Figliuoli Petri, e le torri e case de' Manieri, e de' Mancini, e del Bello Alberti, comprendendo tutto l'antico Gardingo e entrando in sulla piazza. Il detto compreso fece cominciare e fondare di grosse mura e torri e barbacani per fare col palagio insieme uno grande e forte castello, lasciando il lavorio d'edificare il Ponte vecchio, ch'era di tanta necessità al Comune di Firenze, togliendo di quello pietre conce e legname. Fece disfare le case di santo Romolo per fare piazza fino alle case del Garbo. E mandò a corte al papa per licenza di potere disfare san Piero Scheraggio, santa Cicilia, e santo Romolo; ma non gli fu assentito per la Chiesa di Roma. Fece torre a' cittadini certi palagi e fortezze e belle case ch'erano nella circumstanza del palagio, e misevi dentro suoi baroni e sua gente sanza pagare alcuna pigione. Fece fare alle porte nuovi antiporti di costa a' vecchi per più fortezza, e rimurare le porte.

Di donne e di donzelle de' cittadini per sè e per sue genti si cominciarono a fare di forze e di violenze, e di laide cose. E infra l'altre, per cagione di donne tolse san Sebbio a' poveri di Cristo, ch'era alla guardia dell'arte di Calimala, e diello altrui illicitamente. E per amore di donna rendè gli ornamenti alle donne di Firenze. E fece fare il loco comune delle femmine mondane, onde il suo maliscalco traeva molti danari.

Fece fare le paci tra' cittadini e' contadini; e questo fu il meglio che facesse: ma bene ne guadagnò egli e' suoi uficiali grossamente da coloro che le chiedevano. Levò gli assegnamenti a' cittadini sopra le gabelle, de' danari convenuti prestare loro per forza al Comune di Firenze per la guerra di Lombardia e quella di Lucca, ch'erano più di trecentocinquanta migliaia di fiorini d'oro, assegnati in più anni con alcuno guiderdone. E questo fu grande male, onde i cittadini più si gravarono; e fu rompimento di fede al Comune: e molti cittadini che doveano avere grossamente dal Comune, ne furono diserti. E recò a sè tutte le gabelle, che montavano più di dugentomila fiorini d'oro l'anno, sanza l'altre entrate e gravezze. Fece fare l'estimo in città e in contado, e fecelo pagare: che montò più di ottantamila fiorini d'oro. Onde i grandi e' popolani e' contadini che viveano di loro rendite, se ne teneano forte gravati. E quando fece fare l'estimo, promise e giurò di non fare di nuovo altre gravezze o imposte o prestanze: ma non l'osservò; ma al continuo gravò i cittadini di prestanze. E fece criare e crescere nuove e isformate gabelle per uno ser Arrigo Fei, a cui egli era amico, che sapeva trovare modo d'avere danari, onde che si venissero. Sicchè in dieci mesi e diciotto dì ch'egli regnò signore, gli vennono alle mani, di gabelle, e d'estimo, e di prestanze, e di condannagioni, e d'altre entrate, presso che quattrocentomila fiorini d'oro, solo di Firenze; sanza quelli che traeva dell'altre terre vicine ch'egli signoreggiava, de' quali rimandò tra in Francia e in Puglia più di fiorini dugentomila d'oro. Perocchè non teneva, fra tutte le terre ch'egli signoreggiava, ottocento cavalieri, e quegli pagava male: e al bisogno della sua ruina se n'avvide con suo danno e vergogna.

Gli ordini de' suoi uficiali e consiglieri erano in questo modo. I priori, come noi avemo detto, erano in nome, ma non in fatto, ch'erano sanza alcuna balìa. Era il podestà messer Baglione de' Baglioni da Perugia, che guadagnava volentieri; e messer Guiglielmo d'Asciesi chiamato conservadore, ovvero assassino di lui, e bargello: e stava ne' palagi de' Cerchi Bianchi nel Garbo. Aveva il duca tre giudici ordinari, che si chiamavano della sommaria, che teneano corte nelle nostre case e cortili e logge de' figliuoli Villani da san Brocolo: e questi giudici rendeano ragione di fatto con molte barattiere. Eravi uno messer Simone da Norcia giudice sopra rivedere le ragioni del Comune, ed era più barattiere di coloro che condannava per baratteria: e abitava ne' palagi che furon de' Cerchi da san Brocolo. Di suo consiglio era il vescovo di Lecce sua terra di Puglia: e suo cancelliere era Francesco il vescovo d'Asciesi fratello del conservadore: il vescovo d'Arezzo degli Ubertini, e messer Tarlato da Pietramala, e il vescovo di Pistoia e quello di Volterra, e messer Ottaviano de' Belforti di Volterra. Questi tenea per sicurtà di loro terre, e i vescovi per una coperta ipocrisia. Co' cittadini aveva di rado consiglio, e poco gli prezzava, e meno gli serviva, ristrignendosi solo al consiglio di messer Baglione, e del conservadore, e di messer Cerrettieri de' Visdomini, uomini corrotti in ogni vizio, a sua maniera. Faceva i suoi decreti di fatto e sotto suo suggello, il quale il suo cancelliere si faceva bene valere.

Signore era di piccola fermezza e di meno fede di cose che promettesse; cupido e avaro, e male grazioso: piccoletto di persona, e brutto e barbucino, e parea meglio Greco che Francesco, sagace e malizioso molto.

Il suo conservadore fece impiccare messer Piero da Piacenza uficiale della mercatanzia, opponendogli baratteria, e che mandava lettere a messer Luchino da Milano. Fece costringere i mallevadori di Naddo di Cenni degli Oricellai, ch'era a' confini a Perugia, e fecelo tornare, con sua sicurtà; ed egli tornò a dì 11 di gennaio: e non osservandogli fede, il fece impiccare con una catena in collo, acciocchè non potesse essere ispiccato; e tolse a' suoi mallevadori cinquemilacinquecentoquindici fiorini d'oro, opponendo ch'egli gli avea frodati al Comune in Lucca, oltre agli altri che gli avea tolti prima. E tutti i suoi beni, confiscò a sè, opponendogli ch'egli avea trattato col Comune di Siena e di Perugia contra lui, i quali non amavano la vicinanza e signoria del duca: e forse in parte fu vero. Questo Naddo fu sagace e sottile uomo, e molto grande e presuntuoso uomo in Comune, e bene guadagnava volentieri. Il padre, Cenni di Naddo, stato molto grande in Comune; per dolore del figliuolo e per temenza del duca si fece frate di santa Maria Novella: e fece bene dell'anima sua, se 'l fece con buona intenzione, per fare penitenzia delle colpe commesse in Comune, spezialmente in sturbare l'accordo co' Pisani, il quale si potea avere assai onorevolemente per lo nostro Comune, come toccammo addietro.

In questi tempi, del mese di marzo, fece il duca lega e compagnia co' Pisani, e taglia di duemila cavalieri contra ogni loro avversario. I Pisani teneano ottocento cavalieri, e il duca milledugento cavalieri; la quale compagnia molto dispiacque a' Fiorentini e a tutti i Toscani guelfi; e poco s'osservò, perchè non era piacevole mischiato, nè buona compagnia. Del mese di marzo detto il duca fece nel contado di Firenze sei podestà, uno per sesto, con grande balìa di potere fare giustizia reale e personale, e con grandi salarii: e i più furono delle case de' grandi, e di quelli che di nuovo erano stati rubelli, e rimessi in Firenze di poco. La qual nuova signoria molto dispiacque a' cittadini, e più a' contadini, che portavano la spesa e la gravezza.

Fece pigliare uno Matteo di Morozzo, e in su un carro il fece attanagliare, e levargli le carni co' rasoi d'addosso, e poi dalla piazza alle forche istrascinare sanza asse, e poi il fece impiccare, perch'aveva rivelato uno trattato de' Medici e d'altri che doveano offendere il duca. Egli non volle credere, che venia a suo pericolo e danno, di quello che gli avvenne. L'ultimo dì di marzo fece impiccare in su 'l monte Rinaldo Lamberto degli Abati, il quale era suto valente uomo nell'oste nostra a Lucca, ch'era colle masnade di messer Mastino, perchè gli avea rivelato uno trattato che certi grandi di Firenze teneano contro il duca con messer Guido Ricci da Fogliano capitano della gente di messer Mastino, opponendogli il contrario, ch'egli tenea trattato con messer Mastino di torgli la signoria. La qual cosa non fu vero, ma fu vero quello che il detto Lamberto gli avea rivelato: ma per le sue opere viveva in grande sospetto e gelosia. E chiunque gli rivelava trattato o da beffe o da dovero, o parlava contra lui, il faceva morire di crudeli tormenti per mano del suo conservadore.

Per la Pasqua della Resurrezione, l'anno 1343, il duca tenne grande festa a' cittadini e a' suoi baroni e conestabili e soldati, con grandi corredi; ma con mala volontà de' cittadini. E fece tenere giostra nella piazza di santa Croce per più giorni; ma pochi cittadini vi giostrarono, che già a' grandi e a' popolani cominciavano a dispiacere i suoi processi. All'uscita d'aprile del detto anno ordinò e cominciò ad afforzare e chiudere san Casciano per riducervi dentro le villate d'intorno, e che si chiamasse Castelducale, ma poco andò innanzi. Fecesi in Firenze sei brigate per fare festa, di gente di popolo minuto, vestiti insieme ciascuna brigata per sè, e danzando per la terra. La maggiore fu nella Città Rossa, e il loro signore fu chiamato lo Imperadore: l'altra a san Giorgio, e chiamavasi quella del Paglialoco: e ebbono zuffa queste due brigate insieme. L'altra fu a san Friano, e una nel borgo d'Ognissanti: l'altra da san Paolo: l'altra nella via Larga degli spadai. E fu motivo e consentimento del duca per recarsi l'amore del popolo minuto, per quella isforzata vanità: ma poco gli valse al bisogno. Per la festa di san Giovanni, fece fare l'offerta all'arti al modo antico, sanza i gonfaloni: e la mattina della festa oltre a' ceri usati delle castella del Comune, ch'erano da venti, ebbe da venticinque drappi ovvero palii ad oro, e bracchetti e sparvieri e astori per omaggio d'Arezzo, Pistoia, Volterra; e da san Gimignano, e da Colle, e da tutti i conti Guidi e da Mangona e da Corbaia, e da monte Carelli, e da Pontormo, e dagli Ubertini e da' Pazzi di Valdarno, e da ogni baroncello e conticello d'attorno, e dagli Ubaldini; che, coll'offerta de' ceri, fu una nobile cosa e festa. E raunaronsi tutti i ceri, palii, e gli altri tributi tutti alla piazza di santa Croce; e poi l'uno appresso l'altro andaro al palagio dov'era il duca, e poi gli offersono a san Giovanni. Fece aggiugnere al palio dello sciamito da rovescio una fodera di vaio isgrigiato quant'era lunga l'asta, ch'era molto ricco a vedere. E fece molto ricca festa e nobile, e fu la prima e la sezzaia ch'egli dovea fare in Firenze per le sue ree operazioni.

All'uscita di giugno fece fare una sconcia giustizia; che uno Bettone Cigni da Campi, de' menatori de' buoi dell'antico carroccio, il quale di poco il duca l'avea fatto de' priori per la dignità del carroccio, e vestitolo di scarlatto, poich'egli uscì dell'uficio, si dolse, e disse alcuna parola oziosa per una imposta che gli era stata fatta, il duca gli fece cavare la lingua infino alla strozza, e con quella innanzi in su una lancia per dilegione il mandò per tutta la terra, e poi il mandò a' confini a Pesaro: e per quella tagliatura della lingua morì. Di questa giustizia si turbarono molto i cittadini; e ciascuno la riputava in sè di non potere parlare o dolersi de' torti e oltraggi che gli fossero fatti. Ma la persona di Bettone era degna di quello, e di peggio; ch'egli era pubblicano e villano gabelliere, e colla peggiore lingua che uomo di Firenze: sicchè morì nel peccato suo.

A dì 2 di luglio il duca fermò lega e taglia con messer Mastino della Scala, e co' marchesi da Esti, e col signore di Bologna, e con lui contrasse parentado: ma più gli era utile la compagnia e benivolenza de' cittadini di Firenze, la quale al tutto s'aveva levata e tolta; e quella che fece con quelli signori, poco o niente gli valse al suo bisogno, e poco durò. Assai avemo detto sopra i processi e opere del duca d'Atene fatte in Firenze mentre ne fu signore: e non si potea fare di meno, acciocchè sieno manifeste le cagioni perchè i Fiorentini si rubellarono della sua signoria, e perchè prendano esempio per lo innanzi quelli che sono a venire di non volere signore perpetuo nè a vita. Il dì e l'ora che prese la signoria, per gli savi astrolaghi fu preso l'ascendente, che fu gradi ventidue del segno della Libra, segno mobile, e opposito del segno d'Ariete significatore di Firenze, e in termine di Marte; e Marte, nostro significatore, era nel detto segno della Libra contrario alla sua casa, e il suo signore Venus nel Leone gradi otto, faccia di Saturno, e contrario alla sua triplicità. Per la quale costellazione dissono d'accordo i detti astrolaghi, che la sua signoria non dovea compire l'anno; e come l'uscita sua doveva essere vituperevole e con molti tradimenti e romore, ma con pochi omicidii. Ma più credo che fosse la cagione il suo male reggimento e le sue ree opere per lo suo pravo e libero arbitrio, usandolo male.

E' si dice tra noi Fiorentini uno antico proverbio e materiale cioè: Firenze non si muove, se tutta non si dole: e benchè il proverbio sia di grosse parole e rima, per isperienza si trova di vera sentenzia, e viene a caso della nostra presente materia; che al certo il duca non ebbe regnati sei mesi, che quasi a' più de' cittadini non dispiacesse la sua signoria per i suoi iniqui e malvagi processi, come detto avemo addietro, e più ancora che scritto non s'è per noi; perocchè ogni singolare cosa e sue operazioni non ho potuto sapere nè ricogliere, ma le generali e aperte assai si può comprendere. Prima per i grandi che l'avevan fatto signore, e aspettavano da lui avere stato e grandezza, come aveva loro promesso: sì si trovarono ingannati e traditi: e eziandio quegli grandi ch'egli avea rimessi in Firenze, non parea loro essere bene trattati; e i grandi e' possenti popolani che prima aveano retta la terra, ch'al tutto gli avea annullati e tolto loro ogni stato, onde il nimicavano a morte. E a' mediani e artefici spiacea la sua signoria, per non guadagnare, e per lo male stato della città, e per le 'ncomportabili gravezze sì d'estimi, sì di prestanze, e d'intollerabili gabelle, e per levare a' cittadini gli assegnamenti sopra le gabelle de' danari prestati al Comune. E dove i cittadini aveano speranza che per lo suo reggimento si scemasse le spese, e desse loro buono stato, egli fece il contrario. E per male ricolte, valse lo staio del grano più di soldi venti: onde il popolo minuto male se ne contentava. E per gli oltraggi fatti per lui e le sue genti alle donne, e per altre forze e rigidezze e crude giustizie, per le quali cagioni quasi tutti i cittadini erano commossi a mala volontà contro a lui: onde più congiurazioni s'ordinarono per toglierli la signoria e la vita; e chi per una forma, e chi per un'altra trattavano, non sappiendo al cominciamento l'una setta dell'altra, che non s'ardivano a scoprire per le sue crudeli giustizie; che eziandio chi gli rivelava il trattato, il facea morire, com'è detto addietro. I principali furono tre sette e congiurazioni; della prima fu capo il nostro vescovo degli Acciaiuoli, frate predicatore, che al cominciamento delle sue prediche tanto il magnificava e gloriava; e con lui teneano i Bardi; ciò furono i principali: messer Piero e messer Gierozzo e messer Jacopo di messer Guido, e Andrea di Filippozzo e Simone di Geri, tutti della casa de' Bardi, e rimessi in Firenze per lo duca. E de' Rossi, Salvestrino e messer Pino, e più loro consorti. E de' Frescobaldi il priore di san Jacopo, messer Agnolo, e Giramonte, anche rimessi in Firenze per lo duca; e Ugo di Vieri degli Scali, e più altri grandi e popolani. Altoviti, Magalotti, Strozzi e Mancini. Della seconda congiura era capo messer Manno Donati, e Corso di messer Amerigo Donati, e Bindo e Beltramo e Mari de' Pazzi, e Niccolò di messere Alamanno, e Tile di Guido Benzi degli Adimari, e certi degli Albizi. Della terza setta e congiura era capo Antonio di Baldinaccio degli Adimari, e' Medici, e Bordoni, e Oricellai, e Luigi di Lippo Aldobrandini e più altri popolani e mediani. E troviamo che in più modi cercavano di toglierli la signoria, e chi la vita: chi trattava co' Pisani, e chi co' Sanesi, e Perugini, e co' conti Guidi: e alcuno d'assalirlo in palagio, andando al consiglio; ma per sua gelosia, di ciò si provvide, che due volte mutò i sergenti e famigliari che guardavano il palagio; e per sospetto fece ferrare le finestre del palagio. E alcuno disse di saettarlo quando andava per la terra. L'altra setta ordinò d'assalirlo in casa gli Albizi il dì di san Giovanni, che vi dovea andare a vedere correre il palio: e anche per sospetto non v'andò. La terza setta avea ordinato, imperocch'egli cavalcava sovente per amore di donna, da casa i Bordoni alla Croce al Trebbio: questi v'allogarono due case, una da ciascuno capo della via, e quelle guernirono d'arme e di balestra e di sbarre per asserragliare la via dell'uno capo e dell'altro per rinchiuderlo in mezzo. E ordinato aveno da cinquanta masnadieri arditi e franchi, che 'l doveano assalire, con certi caporali giovani e grandi e popolani a cui ne caleva, e aveanne voglia di farlo; e assalito il duca, levare la terra a romore. I caporali di fuori doveano essere in arme a cavallo e a piè al soccorso per atterrare lui e la sua compagnia, perocchè al principio egli cavalcava con venticinque in trenta compagni di sua gente disarmati, con alquanti cittadini grandi e popolani, di coloro medesimi ch'erano congiurati contro a lui. Ma tanto gli fu messo sospetto, che poi menava a sua guardia due masnade di cinquanta suoi cavalieri, e da cento fanti armati: e ismontato da cavallo, restavano armati in sulla piazza del palagio a sua guardia. Ma poco gli valevano al suo riparo, per l'ordine preso per le dette congiure alla sua ruina; perocchè quasi tutti i cittadini erano commossi contra lui per le sue ree opere.

Ma, come piacque a Dio, per lo meno male, la terza setta e congiura, la qual era più pronta a ciò fare, fu iscoperta per uno masnadiere sanese, che dovea essere a ciò fare; e rivelolla a messer Francesco Brunelleschi, non per tradimento, ma per consiglio come a suo signore, credendo ch'egli il sapesse e tenesse mano alla congiura. Il quale cavaliere per paura di non n'essere incolpato, ovvero per male de' suoi nimici, che di tali erano caporali alla detta congiura; il manifestò al duca, e menògli il detto fante sotto fidanza, il quale ritenne segreto e disaminollo, e seppe d'alcuno ch'era de' detti congiurati e caporali de' masnadieri. Di presente fece pigliare Pagolo di Francesco del Manzeca, orrevole popolano di porta san Piero, tutto che fosse brigante, e uno Simone da Monterappoli a dì 18 di luglio: e questi confessarono e manifestarono, come Antonio di Baldinaccio degli Adimari era loro capo con più altri; il quale Antonio richiesto, per sicurtà di sua grandezza comparì. Il duca il fece ritener nel palagio; e lui preso, tutti gli altri principali d'ogni setta chi si partì dalla città, e chi si nascose per tema di loro; onde tutta la città fu in gelosia e in grande sospetto e in timore. Il duca trovando la congiura contro a lui sì grande, e che tanti grandi e popolani cittadini vi teneano mano, non ardì di fare giustizia dei detti presi, che se subito l'avesse fatta, e corsa la terra colla sua gente e col popolazzo minuto che 'l seguivano, rimaneva signore: ma il suo peccato l'acciecò, e gli mise tanta viltà e paura nell'animo, che non sapea che si fare. E mandò d'intorno alle terre e castella per la sua gente, e al signore di Bologna per ajuto: il quale gli mandò trecento cavalieri. E si pensò di fare una grande vendetta e crudele di molti cittadini, con grande tradimento: che perchè sabato mattina, a dì 26 di luglio, era il dì di sant'Anna, il dì dinanzi fece richiedere molti cittadini che furono più di trecento de' maggiori di Firenze, grandi e popolani d'ogni famiglia e casato, ch'eglino venissono dinanzi a lui in palagio per consigliare quello ch'avesse a fare de' presi; con intenzione che come fossono raunati nella sala del palagio, che aveva le finestre ferrate, come detto avemo, di fare serrare la sala, e quanti dentro ve n'avesse, di fargli uccidere e tagliare, e correre la terra a modo che fece l'empissimo Totila flagellum Dei quando distrusse Firenze. Ma Iddio, che sempre ha guarentita al bisogno la nostra città, per le lemosine e per gli meriti delle sante persone, religiosi e laici, che vi sono, innocenti, la guardò di tanto male e pericolo. Che prima messe sospetto in cuore a tutti i richiesti di non andare in palagio al detto consiglio, intra' quali ve n'aveano molti de' congiurati; e poi il dì medesimo quasi tutt'i cittadini di grande accordo insieme, diponendo tra loro ogni ingiuria e malavoglianza, scoprendosi l'una setta all'altra, di loro ordini e trattati, tutti s'armarono per rubellarsi da lui. Di questo macello che il duca dovea fare fu manifestato a noi, poichè il duca fu uscito fuori della città.

Essendo la città di Firenze in tanto bollore e sospetto e gelosia, sì per lo duca avendo scoperte le congiurazioni fatte per tanti cittadini contra lui, e fallitogli il suo proponimento di non potere raccogliere i nobili e possenti cittadini al falso e disleale consiglio, e da altra parte i cittadini e i più possenti sentendosi in colpa delle congiure fatte contra lui, e sentendo il mal volere del duca, e che già nella terra avea più di seicento cavalieri di sue masnade, e ogni dì ne giungevano; e la gente del signore di Bologna e certi altri Romagnuoli che veniano in suo ajuto, e aveano già valicate l'Alpi, dubitarono che lo indugio non fosse a loro pericolo, ricordandosi del verso di Lucano che dice:

/ Tolle moras; nocuit semper differre paratis; /

gli Adimari, Medici, e Donati, principali, sabato, sonata nona, usciti i lavoranti delle botteghe a' dì 26 di luglio, il dì di madonna sant'Anna, 1343, ordinarono che in Mercato vecchio e in porta san Piero, certi ribaldi e fanti fittiziamente si azzuffassono insieme, e gridassono all'arme, all'arme; e così feciono. La terra era insollita e in paura. Incontanente tutt'i cittadini corsono a sgombrare i cari luoghi; e di presente, com'era ordinato, tutti i cittadini furono armati ciascuno a cavallo e a piedi, e ciascuno alla sua contrada e vicinanza traeva, traendo fuori bandiere dell'armi del popolo e del Comune, com'era ordinato gridando: Muoja il duca e i suoi seguaci, e viva il popolo e 'l Comune, e libertà! E di presente fu sbarrata la città a ogni capo di via e di contrade. Quegli del sesto d'Oltrarno, grandi e popolani, si giurarono insieme e si baciarono in bocca, e sbarrarono i capi de' ponti, con intenzione che se tutta l'altra terra di qua dall'acqua si perdesse, di tenersi francamente di là. E mandarono il dì dinanzi da parte del Comune segretamente per soccorso e ajuto a' Sanesi; e certi de' Bardi e de' Frescobaldi stati in Pisa e tornati di nuovo in Firenze mandarono per loro ispezialità per ajuto ai Pisani. La qual cosa quando si seppe per lo Comune e per gli altri cittadini, forte se ne turbarono. La gente del duca, sentendo il romore, sì s'armò e montò a cavallo; e chi potè di loro al cominciamento, corsono alla piazza del popolo in quantità di trecento a cavallo; gli altri, chi fu preso, e chi rubato per gli alberghi, e per le vie fediti, morti e scavallati; e per gli serragli erano impacciati, e rubati i cavalli e l'arme. E al cominciamento del rumore trassono al soccorso del duca in sulla piazza de' Priori certi cittadini amici del duca, cui egli avea serviti, che non sapevano il segreto delle congiure; ciò furono, dei principali, messer Uguccione Bondelmonti con alquanti suoi consorti, e con gli Acciaiuoli, e messer Gianozzo Cavalcanti e de' suoi consorti, Peruzzi, Antellesi, e certi scardassieri e alcuno beccaio, gridando: viva il signore lo duca! come eglino s'avvidono che quasi tutti i cittadini erano sommossi a furore contra lui, si tornarono a casa, e seguirono il popolo, salvo messer Uguccione, cui il duca ritenne seco in palagio, e i priori dell'arti, i quali erano rifuggiti in palagio. Ed essendo levato il romore, e tutta gente ad arme, e quelli dei cinque sesti, ond'erano capo gli Adimari, per iscampare Antonio di Baldinaccio loro consorto e gli altri presi per lo duca, i Medici, Altoviti, Ricci, Oricellai, e gli offesi da lui, come è detto addietro, presono le bocche dalle vie che vanno in sulla piazza dei Priori, ch'erano più di dodici vie, e quelle sbarrarono e afforzarono sì che nullo vi potea venire nè entrare nè uscire dal palagio alla piazza. E di dì e di notte si combatterono colla gente del duca, ch'erano in palagio e 'n su la piazza, ov'ebbe alquanti morti, ma molti fediti de' cittadini per lo molto saettamento e pietre che venivano dal palagio. Ma alla fine la gente del duca ch'era in su la piazza, la sera medesima, non possendo durare, lasciarono i loro cavalli, e i più di loro si fuggirono nel compreso del palagio dov'era il duca e' suoi baroni; e alquanto si guarentirono tra' nostri, lasciando l'armi e' cavalli: e chi preso, e chi fedito. Come si cominciò il detto romore, Corso di messere Amerigo Donati co' suoi fratelli e consorti e altri seguaci ch'aveano loro amici e parenti in pregione, assalirono e combatterono le carceri delle Stinche, mettendo fuoco nello sportello e bertesche ch'erano di legname; e coll'ajuto de' pregioni dentro ruppono le dette carceri, e uscirono tutti i detti pregioni. E con quello impeto, crescendo loro seguito di messer Manno Donati, e di Niccolò di messer Alamanno, e di Tile di Guido Benzi de' Cavicciuli, e degli altri consorti e fratelli d'Antonio di Baldinaccio degli Adimari, e di Beltramo de' Pazzi e di più altri, ch'avevano loro amici in bando e presi in palazzo, assalirono e combatterono il palagio del podestà, ov'era messer Baglione da Perugia podestà per lo duca. Il quale nè egli nè sua famiglia si misono a resistenza, ma con grande paura e pericolo si fuggì a santa Croce. E rubato il palagio d'ogni loro arnese in fino alle finestre e panche del Comune; e ogni atto e scritture vi furono prese e arse, e rotta la carcere della Volognana, e scapolati i pregioni. E poi ruppero la camera del Comune, e di quella tratti tutti i libri ov'erano scritti gli sbanditi e rubelli del Comune, e arsi tutti; e simile rubati tutti gli atti dell'uficiale della mercatanzia sanza contasto niuno. Altra ruberia ed offensione corporale non fu fatta in tanto scioglimento di città, se non contro alla gente del duca; che fu grande cosa: e tutto avvenne per l'unità in che si trovarono i cittadini a ricoverare la loro libertà e quella della repubblica. E ciò fatto, il detto sabato quelli d'Oltrarno apersono l'entrata dei ponti, e valicarono di qua a cavallo e a piè in arme, e con gli altri cittadini de' cinque sesti feciono levare le sbarre e serragli delle rughe maestre, e colle insegne del Comune e del popolo cavalcarono per la città, gridando: Viva il popolo e Comune e sua libertà, e muoja il duca e' suoi! E trovarsi i cittadini più di mille a cavallo benmontati e in arme, tra di loro cavalli e di quelli tolti alla gente del duca; e più di diecimila cittadini armati a corazze e a barbute come cavalieri, sanza l'altro popolo minuto tutto in arme, sanza alcuno forestiere o contadino. Il quale popolo fu molto nobile a vedere, e possente e unito.

Il duca e sua gente veggendosi così fieramente assaliti dal popolo nel palagio (ed era con più di quattrocento uomini, e non v'era quasi altro che biscotto e aceto e acqua), ma credendosi guarentire dal furioso popolo, la domenica mattina fece cavaliere Antonio di Baldinaccio degli Adimari, il quale non si volea fare di sua mano; ma i priori, ch'erano rinchiusi in palagio, vollono ch'egli si facesse a onore del popolo di Firenze: e così fece. E poi lasciò lui e gli altri ch'egli avea presi in palagio, e puose in sul palagio bandiere del popolo: ma però non cessò l'assedio e furia del popolo. La domenica di notte giunse il soccorso de' Sanesi, trecento cavalieri e quattromila balestrieri, molto bella gente; e con loro, sei grandi e popolani cittadini di Siena, ambasciadori. E i Samminiatesi mandarono al servigio del nostro Comune dugento pedoni bene armati, e' Pratesi cinquecento fanti. E vennevi di presente il conte Simone da Battifolle, e Guido suo nipote, con quattrocento fanti. E di nostri contadini armati il seguente dì vennono in grandissima quantità al Comune e a' singulari cittadini, onde la città fu piena d'innumerabili cittadini e contadini in arme. I Pisani mandarono alla richiesta di loro amici, come toccammo addietro, sanza assento del Comune, cinquecento cavalieri, i quali vennono infino al borgo della Lastra di là da Settimo. Sentendosi in Firenze, se n'ebbe grande gelosia, e mormorio contro a que' grandi a cui richiesta venivano: e per lo Comune a loro fu mandato che non venissono; e così feciono. Ma tornandosi addietro, da quegli di Montelupo e di Capraia e d'Empoli e di Pontormo furono assaliti, e morti e presi più di cento pure de' migliori; e perderono più di cento cavalli, tra morti e presi.

Arezzo, sentendo come il duca era al di sotto, assediato da' cittadini di Firenze nel palagio, incontanente si rubellarono alla gente e uficiali del duca per gli guelfi. E il castello d'entro fatto per gli Fiorentini, fu assediato, che v'era Guelfo di messer Bindo Bondelmonti per castellano, il quale di subito rendè agli Aretini, sanza alcuna difensione. E in Castiglionaretino era Andrea di Tingo de' Bardi, e Jacopo di Laino de' Pulci per castellani, e sanza alcuno contasto renderono a' Tarlati d'Arezzo. E ciò veduto, i Pistolesi, si rubellarono, e ridussonsi a loro libertà e popolo guelfo, e disfeciono il castello fatto per gli Fiorentini, e ripresono Serravalle. E rubelossi santa Maria a Monte, e Montepoli, tenendosi per loro; rubellossi Volterra, e tornossi alla signoria di messer Ottaviano de' Belforti, che prima la signoreggiava; e Colle e san Gimignano si rubellarono dalla signoria del duca, e disfeciono le castella, e rimasono in loro libertà. E tale fu la ruina della signoria del duca in Firenze e intorno, in pochi giorni.

Venuti in Firenze i Sanesi e l'altra amistà, il vescovo con certi altri buoni cittadini e popolani feciono richiedere a bocca tutta buona gente, e sonare la campana del palagio del podestà, e bandire parlamento per riformare lo stato e signoria di Firenze. E congregati tutti in santa Reparata in arme il lunedì appresso, di grande accordo elessono gl'infrascritti cittadini, ciò furono quattordici, sette grandi e sette popolani, con grande balìa di riformare la città e fare uficiali e leggi e statuti, per tempo e termine insino a calen d'ottobre vegnente ciò furono del sesto d'Oltrarno messer Ridolfo de' Bardi, messer Pino de' Rossi, e Sandro di Cenni de' Biliotti; e di san Piero Scheraggio messer Giannozzo Cavalcanti, messer Simone Peruzzi, e Filippo Magalotti; e per lo sesto di Borgo messer Giovanni Gianfigliazzi, e Bindo Altoviti; per lo sesto di san Brancazio messer Testa Tornaquinci, e Marco degli Strozzi; per lo sesto di porta del Duomo messer Bindo della Tosa, e messer Francesco de' Medici; per lo sesto di porta san Piero messer Talano degli Adimari, e messer Bartolo de' Ricci. I detti quattordici elessono per podestà il conte Simone, e raunaronsi nel vescovado. Ma il detto conte, come savio, rinunziò, e non volle essere giustiziere de' Fiorentini; e però chiamarono messer Giovanni marchese da Valiano: e infino che penasse a venire elessono luogotenente del podestà gl'infrascritti sei cittadini, uno per sesto, tre grandi e tre popolani; Oltrarno, messer Berto di messere Stoldo Frescobaldi; san Piero Scheraggio, Taddeo di Donato dell'Antella; in Borgo, Nepo degli Spini; san Brancazio, Pagolo Bordoni; porta del Duomo, messer Francesco Brunelleschi; porta san Piero, Antonio degli Albizzi. E stettono in palagio del podestà con dugento fanti pratesi, e teneano ragione sommaria di ruberie e forze e simili, sanza altro uficio.

In questa stanza non cessava l'assedio del duca, e di dì e di notte combattendo il palagio, e di cercare di suoi uficiali. Fu preso uno notaio del conservadore per gli Altoviti, stato micidiale e reo, e fu tutto tagliato a bocconi. E appresso fu trovato messer Simone da Norcia stato uficiale sopra le ragioni del Comune, il quale molti cittadini, cui a diritto e cui a torto, avea tormentati crudelmente e condannati: per simile modo a pezzi fu tutto tagliato. In porta santa Maria in su la fogna uno notaio napoletano, ch'era stato capitano de' sergenti a piedi del duca, reo e fellone, chiamato Filippo Terzuoli, tutto fu abbocconato dal popolo. E uno ser Arrigo Fei, ch'era sopra le gabelle, fuggendosi da' Servi vestito come frate, fu conosciuto da san Gallo, e fu morto, e poi da' fanciulli trainato ignudo per tutta la città, e poi in sulla piazza de' Priori impeso per li piedi, e sparato come porco, e sbarrato. Tale fine ebbe della sua sforzata industria di trovare nuove gabelle, e gli altri suddetti, della loro crudeltà. I signori quattordici col vescovo, e col conte Simone e con gli ambasciadori di Siena al continuo erano in trattato col duca per trarlo di palagio; e sovente a vicenda, a parte a parte, di loro entravano in palagio e uscivano, benchè poco piacesse al popolo. Alla fine nulla concordia assentìo il popolo, se non avessono dal duca il conservadore, e il figliuolo, e messer Cerrettieri Visdomini per farne giustizia. Il duca in nulla guisa l'assentiva, ma i Borgognoni ch'erano assediati in palagio s'allegarono insieme, e dissero al duca, che innanzi che volessono morire di fame e a tormento, darebbono preso lui al popolo, non che i detti tre: e ordinato l'aveano, e aveanne il podere di farlo; tanti ve n'erano, e sì v'erano forti. Il duca veggendosi a tale partito, acconsentì; e il venerdì, il primo dì d'agosto, in su l'ora della cena, i Borgognoni presono messer Guiglielmo d'Asciesi, detto conservadore della tirannia del duca d'Atene, e un suo figliuolo detto messer Gabriello d'età di diciotto anni, e di poco fatto cavaliere per lo duca, ma bene era reo e fellone a tormentare i cittadini: e pinsolo fuori dell'antiporto del palagio in mano dell'arrabbiato popolo, e de' parenti e amici cui il padre avea giustiziati, Altoviti, Medici, Oricellai, e quegli di Bettone Cini, principali, e più altri. I quali in presenza del padre per più suo dolore, il suo figliuolo, pinto fuori, innanzi il tagliarono e smembrarono a minuti pezzi; e ciò fatto, pinsero fuori il conservadore, e feciono il simigliante. E chi ne portava un pezzo in su la lancia e chi in su la spada per tutta la città; ed ebbonvi de' sì crudeli, e con furia sì bestiale e tanto animosa, che mangiarono delle loro carni crude. E cotale fu la fine del traditore e perseguitatore del popolo di Firenze. E nota, che chi è crudele, crudelmente more, dixit Dominus. E fatta la detta furiosa vendetta, molto s'acquetò e contentò la rabbia del popolo: e fu però scampo di messer Cerrettieri, che dovea essere il terzo, e bene lo meritava: ma saziati i loro avversari, non lo addomandarono; e fuggendosi poi la sera fu nascosto e portato da certi di casa de' Bardi, e altri suoi amici e parenti il trassono di palagio e menaronlo via. E per la detta furiosa vendetta fatta sopra il conservadore e il suo figliuolo, che avea giudicato a morte Naddo di Cenni e Guiglielmo Altoviti e gli altri, poco appresso si feciono cavalieri due degli Oricellai, e poi due degli Altoviti; la qual cosa fu poco lodata da' cittadini.

Ma torniamo a nostra materia de' fatti del duca, che la domenica appresso, dì 3 d'agosto, il duca s'arrendè e diede il palagio al vescovo e a' quattordici, e a' Sanesi e al conte Simone, salve le persone di lui e di sua gente. La qual sua gente uscirono con grande paura accompagnati da' Sanesi e da più altri buoni cittadini. Il duca rinunziò con saramento ogni signoria e ogni giuridizione e ragione ch'avesse acquistata sopra la città e contado e distretto di Firenze, dimettendo e perdonando ogni ingiuria, e a cautela promettendo di ratificare ciò, quando fosse fuori del contado e distretto di Firenze. E per paura della furia del popolo, con sua privata famiglia rimase in palagio alla guardia de' detti signori infino al mercoledì notte dì 6 d'agosto. E racquetato il popolo, in su 'l mattutino uscì fuori del palagio, accompagnato dalla gente de' Sanesi e del conte Simone, e da più nobili e popolani e possenti cittadini, ordinati per lo Comune. E uscì per la porta a san Nicolò, e passò l'Arno al ponte a Rignano salendo a Vallombrosa e a Poppi; e là fatta la ratificazione promessa, passò per Romagna e a Bologna, e dal signore di Bologna fu bene veduto e ricevuto, e donatogli danari e cavalli; e poi se n'andò a Ferrara e a Vinegia. E là fatte armare due galee, sanza prendere congìo di più di sua gente che gli erano iti dietro, lasciandogli malcontenti di loro gaggi, privatamente di notte si partì di Vinegia, e andonne in Puglia.

E cotale fu la fine della signoria del duca d'Atene, che avea con inganno e tradimento usurpata la libertà sopra il Comune e popolo di Firenze, per lo suo tirannesco reggimento mentre che la signoreggiò. E come egli tradì il Comune, così da' cittadini fu tradito. Il quale n'andò con molta sua onta e vergogna, ma con molti danari tratti da noi Fiorentini, detti orbi in antico volgare proverbio, per gli nostri difetti e discordie, lasciandoci di male sequele. E partito il duca di Firenze, la città s'acquetò, e disarmaronsi i cittadini, e disfecersi i serragli, e partironsi i forestieri e contadini, e apersonsi le botteghe, e ciascuno attese a suo mestiere e arte. E i detti quattordici cassarono ogni ordine e decreto che 'l duca avea fatto, salvo che confermarono le paci tra' cittadini fatte per lui. E nota, che come il detto duca occupò con frode e tradimento la libertà della repubblica di Firenze il dì di nostra Donna di settembre, non guardando sua reverenza; quasi per vendetta divina, così permise Iddio, che i franchi cittadini con armata mano la racquistassono il dì della sua madre madonna santa Anna, a dì 26 di luglio 1343: per la qual grazia s'ordinò per lo Comune, che la festa di santa Anna si guardasse come Pasqua sempre in Firenze, e si celebrasse solenne uficio e grande offerta per lo Comune e per tutte l'arti di Firenze.

II. DAL MACHIAVELLI.

Erasi nel principio di questa guerra data autorità a venti cittadini d'amministrarla, i quali messer Malatesta da Rimini per capitano dell'impresa eletto avevano. Costui con poco animo e meno prudenza l'aveva governata; e perchè eglino avevano mandato a Roberto re di Napoli per ajuti, quel re aveva mandato loro Gualtieri duca di Atene, il quale, come vollono i cieli, che al mal futuro le cose prepararono, arrivò in Firenze in quel tempo appunto che l'impresa di Lucca era al tutto perduta; onde che quelli venti veggendo sdegnato il popolo, pensarono, con eleggere nuovo capitano, quello di nuova speranza riempiere, e con tale elezione o frenare, o torli le cagioni di calunniarli. E perchè ancora avesse cagione di temere, e il duca d'Atene gli potesse con più autorità difendere, prima per conservatore e dipoi per capitano delle lor gente d'armi lo elessero. I grandi, i quali per le cagioni dette disopra vivevano malcontenti, e avendo molti di loro conoscenza con Gualtieri, quando altre volte il nome di Carlo duca di Calavria aveva governato Firenze, pensarono che fosse venuto tempo di poter con la rovina della città spegnere l'incendio loro, giudicando non aver altro modo a domar quel popolo che gli aveva afflitti, che ridursi sotto un principe il quale, conosciuta la virtù dell'una parte e l'insolenza dell'altra, frenasse l'una, e l'altra remunerasse; a che aggiungevano la speranza del bene che ne porgevano i meriti loro, quando per loro opera egli acquistasse il principato.

Furono pertanto in segreto più volte seco, e lo persuasero a pigliar la signoria del tutto, offerendogli quelli ajuti potevano maggiori. Alla autorità e conforti di costoro s'aggiunse quella di alcune famiglie popolane, le quali furono Peruzzi, Acciaiuoli, Antellesi, e Buonaccorsi, i quali gravati di debiti, non potendo del loro, desideravano di quel d'altri ai loro debiti soddisfare, e con la servitù della patria, dalla servitù de' loro creditori liberarsi. Queste persuasioni accesero l'ambizioso animo del duca di maggior desiderio di dominare; e per darsi riputazione di severo e giusto, e, per questa via, accrescersi grazia nella plebe, quelli che avevano amministrata la guerra di Lucca perseguitava. E a messer Giovan de' Medici, Naddo Ruccellai, e Guglielmo Altoviti tolse la vita; e molti in esilio, e molti in danari ne condannò. Queste esecuzioni assai i mediocri cittadini sbigottirono; solo ai grandi e alla plebe soddisfacevano, questa perchè sua natura è rallegrarsi nel male, quegli altri per vedersi vendicar di tante ingiurie dai popolani ricevute. E quando passava per le strade, con voce alta la franchezza del suo animo era laudata, e ciascuno pubblicamente a ritrovar le fraudi de' cittadini e castigarle lo confortava.

Era l'ufficio de' venti venuto a meno, e la riputazione del duca grande, e il timore grandissimo; talchè ciascuno per mostrarsegli amico, la sua insegna sopra la casa sua faceva dipingere: nè gli mancava ad esser principe altro che il titolo. E parendogli poter tentare ogni cosa sicuramente, fece intendere ai signori, com'ei giudicava per il bene della città necessario gli fusse concessa la signoria libera; e perciò desiderava, poi che tutta la città vi consentiva, che essi ancora vi consentissero. I signori, avvenga che molto innanzi avessero la rovina della patria loro preveduta, tutti a questa domanda si perturbarono; e con tutto ch'ei conoscessero il loro pericolo, nondimeno per non mancare alla patria, animosamente gliene negarono.

Aveva il duca, per dar di sè maggior segno di religione e d'umanità, eletto per sua abitazione il convento de' frati minori di santa Croce; e desideroso di dar effetto al maligno suo pensiero, fece per bando pubblicare, che tutto il popolo la mattina seguente fosse alla piazza di santa Croce davanti a lui. Questo bando sbigottì molto più i signori, che prima non avevano fatto le parole: e con quelli cittadini i quali della patria e della libertà giudicavano amatori, si ristrinsero; nè pensarono, conosciute le forze del duca, di potervi far altro rimedio, che pregarlo, a veder, dove le forze non erano sufficienti, se i preghi, o a rimoverlo dall'impresa o a far la sua signoria meno acerba bastavano. Andarono pertanto parte de' signori a trovarlo, e uno di loro gli parlò in questa sentenza;

«Noi vegnamo, o signore, a voi, mossi prima dalle vostre domande, dipoi dai comandamenti che voi avete fatti per ragunar il popolo; perchè ci pare esser certi che voi vogliate istraordinariamente ottener quello che per l'ordinario noi non v'abbiamo acconsentito. Nè la nostra intenzione è con alcuna forza opporci ai disegni vostri, ma solo di dimostrarvi quanto sia per esservi grave il peso che voi vi arrecate addosso, e pericoloso il partito che voi pigliate, acciocchè sempre vi possiate ricordare de' consigli nostri, e di quelli di coloro i quali altrimente, non per vostra utilità ma per sfogar la rabbia loro, vi consigliano.

Voi cercate far serva una città la quale sempre è vivuta libera; perchè la signoria che noi concedemmo già ai reali di Napoli, fu compagnia e non servitù. Avete voi considerato quanto in una città simile a questa, importi, e quanto sia gagliardo il nome della libertà? il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma, e merito alcuno non contrappesa. Pensate, signore, quante forze sieno necessarie a tener serva una tanta città. Quelle che forestiere voi potete sempre tenere, non bastano. Di quelle di dentro voi non vi potete fidare; perchè quelli che vi sono ora amici, e che a pigliar questo partito vi confortano, come eglino avrano battuti con l'autorità vostra i nimici loro, cercheranno come possano spegner voi, e farsi principi, loro. La plebe, in la quale voi confidate, per ogni accidente, benchè minimo, si rivolge. In modo che in poco tempo voi potete temere d'aver questa città nimica; il che fia la cagione della rovina sua e vostra. Nè potrete a questo male trovar rimedio: perchè quelli signori possono far la loro signoria sicura, che hanno pochi nimici, i quali o con la morte o con l'esiglio è facile spegnere. Ma negli universali odii non si trova mai sicurtà alcuna, perchè tu non sai d'onde ha a nascere il male; e chi teme d'ogni uomo, non si può assicurar di persona. E se pur tenti di farlo, t'aggravi ne' pericoli, perchè quelli che rimangono, s'accendono più nell'odio, e sono più parati alla vendetta. Che il tempo a consumare i desiderii della libertà non basti, è certissimo, perchè s'intende spesso quella essere in una città da loro riassunta, che mai la gustarono, ma solo, per la memoria, che ne avevano lasciata i padri loro, l'amano; e perciò, quella ricuperata, con ogni ostinazione e pericolo la conservano. E quando mai i padri non l'avessero ricordata, i palagi pubblici, i luoghi de' magistrati, l'insegne de' liberi ordini la ricordano; le quali cose conviene - che siano con grandissimo desiderio da' cittadini conosciute. Quali opere volete voi che siano le vostre che contrappesino alla dolcezza del viver libero, o che facciano mancare gli uomini del desiderio delle presenti condizioni? non se voi aggiungnessi a questo imperio tutta la Toscana, e se ogni giorno tornassi in questa città trionfante de' nemici nostri; perchè tutta quella gloria non sarebbe sua, ma vostra, e i cittadini non acquisterebbero sudditi, ma conservi, per i quali si vedrebbero nella servitù raggravare. E quando i costumi vostri fussero santi, i modi benigni; i giudicii retti, a farvi amare non basterebbero. E se voi credessi che bastassero, ve ne ingannereste; perchè a uno consueto a viver sciolto, ogni catena pesa, e ogni legame lo stringe. Ancora, che trovare uno stato violento con un principe buono sia impossibile, perchè di necessità conviene o che diventino simili, o che presto l'uno per l'altro rovini. Voi avete adunque a credere o d'aver a tenere con massima violenza questa città (alla qual cosa le cittadelle, le guardie, gli amici molte volte non bastano), o d'essere contento a quella autorità che noi v'abbiamo data. A che noi vi confortiamo ricordandovi che quel dominio è solo durabile ch'è

Tommaseo, Il Duoa, ecc. 19 volontario. Nè vogliate, accecato di un poco d'ambizione, condurvi in luogo dove non potendo stare nè più alto salire, siate, con massimo danno vostro e nostro, di cadere necessitato.»

Non mossero in alcuna parte queste parole l'indurato animo del duca; e disse non esser sua intenzione di torre la libertà a quella città, ma rendergliene, perchè sole le città disunite erano serve, e le unite, libere. E se Firenze per suo ordine, di sette, ambizione e nimicizie si privasse, se li renderebbe, non torrebbe la libertà. E come a prendere questo carico non l'ambizione sua, ma i prieghi di molti cittadini lo conducevano; e perciò farebbero eglino bene a contentarsi di quello che gli altri si contentavano. E quanto a quei pericoli ne' quali per questo poteva incorrere, non gli stimava, perchè egli era uffizio di uomo non buono, per timor del male, lasciar il bene, e di pusillanimo, per un fine dubbio, non seguire una gloriosa impresa; e ch'e' credeva portarsi in modo, che in breve tempo, aver di lui confidato poco e temuto troppo, conoscerebbero. Convennero adunque i signori (vedendo di non poter far altro bene) che la mattina seguente il popolo si raunasse sopra la piazza loro, con l'autorità del quale si desse per un anno al duca la signoria, con quelle condizioni che già a Carlo, duca di Calavria, si era data. Era l'ottavo giorno di settembre e l'anno 1342, quando il duca, accompagnato da messer Giovan della Tosa e tutti i suoi consorti, e da molti altri cittadini, venne in piazza, e insieme colla signoria salì sopra la ringhiera (che così chiamano i Fiorentini quelli gradi che sono a piè del palagio de' signori), dove si lessero al popolo le convenzioni fatte tra la signoria e lui. E quando si venne leggendo a quella parte dove per un anno se gli dava la signoria, si gridò per il popolo: a vita. E levandosi messer Francesco Rustichegli, uno de' signori, per parlare e mitigare il tumulto, furono le sue parole con le grida interrotte; in modo, che per il consenso del popolo, non per un anno, ma in perpetuo fu eletto signore, e preso e portato tra la moltitudine, gridando per la piazza il nome suo. È consuetudine che quello ch'è proposto alla guardia del palagio, stia in assenza de' signori serrato dentro; al quale ufficio era allora deputato Rinieri di Giotto. Costui, corrotto dagli amici del duca, senza aspettare alcuna forza, lo mise dentro: ed i signori sbigottiti e disonorati, se ne tornarono alle case loro; e il palagio fu dalla famiglia del duca saccheggiato, il gonfalone del popolo stracciato, e sue insegne sopra il palagio poste. Il che seguiva con dolore e noja inestimabile degli uomini buoni, e con piacer grande di quelli che o per ignoranza o per malizia vi consentivano.

Il duca, acquistato ch'ebbe la signoria, per torre l'autorità a quelli che solevano della libertà esser difensori, proibì ai signori ragunarsi in palagio, e consegnò loro una casa privata; tolse l'insegne ai gonfalonieri delle compagnie del popolo, levò gli ordini della giustizia contro ai grandi, liberò i prigioni dalle carceri, fece i Bardi e' Frescobaldi dall'esiglio ritornare, vietò di portar l'armi a ciascuno. E per poter meglio difendersi da quelli di dentro, si fece amico a quelli di fuora. Beneficò pertanto assai gli Aretini e tutti gli altri sottoposti ai Fiorentini. Fece pace coi Pisani, ancora che fosse fatto principe perchè facesse loro guerra. Tolse gli assegnamenti a quei mercanti che nella guerra di Lucca avevano prestato alla repubblica denari. Accrebbe le gabelle vecchie, e creò delle nuove. Tolse ai signori ogni autorità. E i suoi rettori erano messer Baglione da Perugia e messer Guglielmo da Scesi, con i quali e con messer Cerrettieri Bisdomini si consigliava. Le taglie che poneva ai cittadini erano gravi, e i giudicii suoi ingiusti; e quella severità e umanità che egli aveva finta, in superbia e crudeltà si era convertita. E per non si governar meglio fuora che dentro, ordinò sei rettori per il contado, i quali battevano e spogliavano i contadini. Aveva i grandi a sospetto, ancora che da loro fosse stato beneficato, e che a molti di quelli avesse la patria renduta; perchè e' non poteva credere che i generosi animi, i quali sogliono essere nella nobiltà, potessero sotto la sua ubbidienza contentarsi. Perciò si volse a beneficar la plebe, pensando coi favori di quella e con l'armi forestiere poter la tirannide conservare. Venuto pertanto il mese di maggio, nel qual tempo i popoli sogliono festeggiare, fece fare alla plebe e popolo minuto più compagnie alle quali, onorate di splendidi titoli, dette insegne e danari. Donde una parte di loro andava per la città festeggiando, e l'altra con grandissima pompa i festeggianti riceveva.

Come la fama si sparse della nuova signoria di costui, molti vennero del sangue francioso a ritrovarlo; ed egli a tutti, come uomini più fidati, dava condizione; in modo che Firenze in poco tempo divenne non solamente suddita ai Franciosi, ma a' costumi e agli abiti loro. Perchè gli uomini e le donne senza aver riguardo al viver civile, o alcuna vergogna, gli imitavano. Ma sopra ogni cosa quello che dispiaceva era la violenza che egli e i suoi, senza alcun rispetto, alle donne facevano. Vivevano adunque i cittadini pieni di indignazione, veggendo la maestà dello stato loro rovinata, gli ordini guasti, le leggi annullate, ogni onesto vivere corrotto, ogni civil modestia spenta; perchè coloro ch'erano consueti a non vedere alcuna regal pompa, non potevano senza dolore quello, di armati satelliti a piè e a cavallo circondato, riscontrare. Perchè veggendo più d'appresso la lor vergogna, erano colui che massimamente odiavano, di onorare necessitati. A che si aggiungeva il timore, veggendo le spesse morti e le continue taglie colle quali impoveriva e consumava la città. I quali sdegni e paure erano dal duca conosciute e temute: nondimeno voleva mostrare a ciascuno di credere esser amato. Onde occorse che, avendogli rivelato Matteo di Morozzo, o per gratificarsi quello, o per liberarsi dal pericolo, come la famiglia de' Medici con alcuni altri aveva contro di lui congiurato; il duca, non solamente non ricercò la cosa, ma fece il rivelatore miseramente morire. Per il qual partito tolse animo a quelli che volessero della salute sua avvertirlo, e lo dette a quelli che cercassero la sua rovina. Fece ancora tagliar la lingua con tanta crudeltà a Bettone Cini, che se ne morì, per aver biasimate le taglie che ai cittadini si ponevano. La qual cosa accrebbe ai cittadini lo sdegno, e al duca l'odio, perchè quella città che a fare e a parlare di ogni cosa e con ogni licenza era consueta, che gli fussero legate le mani e serrata la bocca, sopportar non poteva. Crebbero adunque questi sdegni in tanto, e questi odii, che, non che i Fiorentini, i quali la libertà mantener non sanno e la servitù patir non possono, ma qualunque servile popolo avrebbero alla ricuperazione della libertà infiammato. Onde che molti cittadini, e di ogni qualità, di perder la vita o di riavere la loro libertà deliberarono. E in tre parti, di tre sorti di cittadini, tre congiure si fecero, grandi, popolani, e artefici; mossi oltre alle cause universali, da parere ai grandi non aver riavuto lo stato, a' popolani averlo perduto; e agli artefici, de' loro guadagni mancare. Era arcivescovo di Firenze messer Agnolo Acciaiuoli, il quale con le prediche sue aveva già le opere del duca magnificate, e fattogli presso al popolo grandi favori. Ma poi che lo vidde signore, e i suoi tirannici modi conobbe, gli parve aver ingannato la patria sua. E per emendar il fallo commesso, pensò non aver altro rimedio, se non che quella mano che aveva fatta la ferita, la sanasse; e della prima e più forte congiura si fece capo: nella quale erano i Bardi, Rossi, Frescobaldi, Scali, Altoviti, Magalotti, Strozzi, e Mancini. Dell'una delle due altre erano principi messer Manno e Corso Donati, e con questi i Pazzi, Cavicciuli, Cerchi e Albizzi. Della terza era il primo Antonio Adimari, e con lui Medici, Bordoni, Ruccellai, e Aldobrandini. Pensavano costoro di ammazzarlo in casa degli Albizzi, dove andasse il giorno di san Giovanni a veder correre i cavalli credevano. Ma non vi sendo andato, non riuscì loro. Pensarono di assaltarlo, andando per la città a spasso; ma vedevano il modo difficile, perchè bene accompagnato e armato andava, e sempre variava le andate, in modo che non si poteva in alcun modo certo aspettarlo. Ragionarono di ucciderlo nei consigli, dove pareva loro rimanere, ancora che fosse morto, a discrezione delle forze sue.

Mentre che tra i congiurati queste cose si praticavano, Antonio Adimari, con alcuni suoi amici sanesi per aver da loro genti, la cosa scoperse, manifestando a quelli parte de' congiurati, e affermando tutta la città essere a liberarsi disposta. Onde uno di quelli communicò la cosa a messer Francesco Brunelleschi, non per scoprirla, ma per credere che ancor egli fosse de' congiurati. Messer Francesco, o per paura di sè, o per odio aveva contra ad altri, rivelò il tutto al duca. Onde che Paolo del Manzeca e Simon da Monterappoli furono presi. I quali rivelando la quantità e qualità de' congiurati, sbigottirono il duca. E fu consigliato, piuttosto gli richiedesse che pigliasse, perchè se se ne fuggivano, se ne poteva senza scandalo con l'esiglio assicurare. Fece pertanto il duca richiedere Antonio Adimari, il quale, confidandosi ne' compagni, subito comparse. Fu sostenuto costui: ed era il duca da messer Francesco Brunelleschi e messer Uguccione Buondelmonti consigliato, corresse armato la terra e i presi facesse morire. Ma a lui non parve, parendogli aver a tanti nimici poche forze. E però prese un altro partito, per il quale, quando gli fosse successo, si assicurava de' nemici, e alle forze sue provedeva.

Era il duca consueto richiedere i cittadini, che a' casi occorrenti lo consigliassero. Avendo pertanto mandato fuori a provedere di gente, fece una lista di trecento cittadini, e gli fece da' suoi sergenti, sotto color di volersi consigliar con loro, richiedere; e poichè fossero adunati, o con la morte, o con la carcere spegnerli designava. La cattura di Antonio Adimari, e il mandar per le genti, il che non si puotè far segreto, aveva i cittadini, e massime i colpevoli, sbigottiti: onde che da' più arditi fu negato il voler ubbidire. E perchè ciascuno aveva letta la lista, trovavano l'uno l'altro, e si inanimavano a prender l'armi, e voler piuttosto morire come uomini con l'armi in mano, che come vitelli esser alla beccheria condotti. In modo che in poco d'ora tutte tre le congiure l'una all'altra si scoperse; e deliberarono il dì seguente, ch'era il 26 di luglio nel 1343, far nascere un tumulto in Mercato vecchio; e dopo quello armarsi, e chiamare il popolo alla libertà. Venuto adunque l'altro giorno, al suono di nona, secondo l'ordine dato, si prese l'armi; e il popolo tutto alla voce di libertà si armò, e ciascuno si fece forte nelle sue contrade sotto insegne con le armi del popolo, le quali dai congiurati segretamente erano state fatte. Tutti i capi delle famiglie, così nobili come popolane, convennero, e la difesa loro, e la morte del duca giurarono, eccetto che alcuni de' Buondelmonti e de' Cavalcanti, e quelle quattro famiglie di popolo che a farlo signore erano concorse, i quali insieme con i beccai ed altri dell'infima plebe armati in piazza in favor del duca concorsero. A questo rumore armò il duca il palagio; e i suoi ch'erano in diverse parti alloggiati salirono a cavallo per ire in piazza; e per la via furono in molti luoghi combattuti e morti. Pure circa trecento cavalli vi si condussero. Stava il duca in dubbio s'egli usciva fuori a combattere i nimici, o se dentro il palagio si difendeva. Dall'altra parte i Medici, Cavicciuli, Ruccellai, e altre famiglie state più offese da quello, dubitavano che s'egli uscisse fuora, molti che gli avevano prese l'armi contra, non se gli scoprissero amici; e desiderosi di toglierli l'occasione di uscir fuora, e dello accrescere le forze, fatto testa, assalirono la piazza. Alla giunta di costoro quelle famiglie popolane che si erano per il duca scoperte, veggendosi francamente assalire, mutarono sentenza, poichè al duca era mutata fortuna; e tutti si accostarono ai loro cittadini; salvo che messer Uguccione Buondelmonti, che se n'andò in palagio, e messer Giannozzo Cavalcanti, il quale ritiratosi con parte de' suoi consorti in Mercato nuovo, salì alto sopra un banco, e pregava il popolo, che andava armato in piazza, che in favor del duca vi andasse. E per sbigottirli accresceva le sue forze, e gli minacciava che sarebbero tutti morti, se ostinati contro il signore seguissero l'impresa. Ma non trovando uomo che lo seguitasse, nè che della sua insolenza lo castigasse, veggendo di affaticarsi in vano, per non tentar più la fortuna, dentro alle sue case si ridusse.

La zuffa intanto in piazza tra il popolo e la gente del duca era grande. E benchè queste il palagio ajutasse, furono vinte, e parte di loro si misono nella podestà dei nemici, parte, lasciati in palagio i cavalli, si fuggirono. Mentre che in piazza si combatteva, Corso e messer Amerigo Donati con parte del popolo ruppono le Stinche, le scritture della podestà e della pubblica Camera arsero, saccheggiarono le case dei rettori, e tutti quelli ministri del duca che poterono avere, ammazzarono.

Il duca dall'altro canto vedendosi aver perduta la piazza, e tutta la città nimica, e senza speranza di alcuno ajuto, tentò se poteva con qualche umano atto guadagnarsi il popolo. E fatti venire a sè i prigioni, con parole amorevoli e grate li liberò; e Antonio Adimari, ancorachè con suo dispiacere, fece cavaliere. Fece levare l'insegne sue di sopra il palagio, e porvi quelle del popolo. Le quali cose fatte tardi e fuor di tempo, perchè erano forzate e senza grado, gli giovarono poco. Stava pertanto malcontento, assediato in palagio; e vedeva come per aver voluto troppo, perdeva ogni cosa; e di aver a morire fra pochi giorni o di fame o di ferro temeva. I cittadini per dar forma allo stato, in Santa Reparata si ridussero, e crearono quattordici cittadini, per metà grandi e popolani, i quali con il vescovo avessero qualunque autorità di potere lo stato di Firenze riformare. Elessero ancora sei, i quali l'autorità del Podestà (tanto che quello era eletto, venisse) avessero.

Erano in Firenze al soccorso del popolo molte genti venute, tra' quali erano Sanesi con sei ambasciatori, uomini assai nella loro patria onorati. Costoro tra il popolo e il duca alcuna convenzione praticarono. Ma il popolo recusò ogni ragionamento d'accordo, se prima non gli era nella sua podestà dato messer Guglielmo da Scesi, e il figliuolo, insieme con messer Cerrettieri Bisdomini consegnato. Non voleva il duca acconsentirlo, pure minacciato dalle genti ch'erano rinchiuse con lui, si lasciò sforzare. Appariscono senza dubbio li sdegni maggiori, e sono le ferite più gravi quando si ricupera una libertà che quando si difende. Furono messer Guglielmo e il figliuolo posti tra le mani de' nemici loro, e il figliuolo non aveva ancora diciott'anni. Nondimeno la età, la forma, la innocenzia sua non lo potè dalla furia della moltitudine salvare; e quegli che non poterono ferirgli vivi, gli ferirono morti; nè saziati di straziarli con ferro, con le mani e con li denti gli laceravano. E perchè tutti i sensi si soddisfacessero nella vendetta, avendo prima udite le loro querele, vedute le lor ferite, tocco le carni lacere, volevano ancora che il gusto le assaporasse, acciocchè come tutte le parti di fuora ne erano sazie, quelle di dentro se ne saziassero ancora. Questo rabbioso furore quanto egli offese costoro, tanto a messer Cerrettieri fu utile, perchè stracca la moltitudine nelle crudeltà di questi duoi, di quello non si ricordò, il quale non essendo altrimenti domandato, rimase in palagio. Donde fu la notte poi da certi suoi parenti e amici a salvamento tratto. Sfogata la moltitudine sopra il sangue di costoro, si concluse lo accordo, che il duca se ne andasse coi suoi e sue cose salvo; e a tutte le ragioni aveva sopra Firenze, rinunziasse, dipoi fuora del dominio in Casentino la rinunzia ratificasse. Dopo questo accordo, a dì sei d'agosto partì di Firenze da molti cittadini accompagnato; e arrivato in Casentino, la rinunzia, ancora che mal volontieri, ratificò: e non avrebbe servata la fede, se dal conte Simone non fosse stato di ricondurlo in Firenze minacciato.

Fu questo duca, come i governi suoi dimostrano, avaro e crudele, nelle audienze difficile, nel rispondere superbo. Voleva la servitù, non la benevolenza degli uomini; e per questo più di esser temuto che amato desiderava. Nè era da esser meno odiosa la sua presenza che si fossero i costumi, perchè era piccolo e nero, aveva la barba lunga e rada; tanto che da ogni parte di esser odiato meritava. Onde che in termine di dieci mesi i suoi cattivi costumi gli tolsero quella signoria che i cattivi consigli d'altri gli avevano data.

Questi accidenti seguiti in questa città dettero animo a tutte le terre sottoposte ai Fiorentini di tornare nella loro libertà; in modo che Arezzo, Castiglione, Pistoja, Volterra, Colle, San Gimignano si ribellarono. Talchè Firenze in un tratto del tiranno e del suo dominio priva rimase, e nel recuperar la sua libertà insegnò ai soggetti suoi come potessero recuperare la loro. Seguita adunque la cacciata del duca, e la perdita del dominio loro, i quattordici cittadini e il vescovo pensarono che fosse piuttosto da placare i sudditi loro con la pace, che farsegli inimici colla guerra, e mostrare d'essere contento della libertà di quelli, come della propria. Mandarono per tanto oratori ad Arezzo a renunziare all'imperio che sopra quella città avessero, e a fermare con quelli accordo, acciocchè, poichè come di sudditi non potevano, come amici della lor città si valessero. Con l'altre terre ancora, in quel modo che meglio poterono, convennero, purchè se le mantenessero amiche, acciocchè loro liberi potessero ajutare, e la loro libertà mantenere. Questo partito prudentemente preso ebbe felicissimo fine, perchè Arezzo non dopo molti anni tornò sotto l'imperio de' Fiorentini: e le altre terre in pochi mesi alla pristina ubbidienza si ridussero. E così si ottiene molte volte più presto, e con minor pericoli e spese, le cose a fuggirle, che con ogni forza ed ostinazione perseguitandole.

FINE.