La scapigliatura e il 6 febbrajo : edizion ELTeC Righetti, Carlo [Cletto Arrighi] (1828-1906) 65883 COST Action "Distant Reading for European Literary History" (CA16204) Zenodo.org CLIGS version "La scapigliatura e il 6 febbrajo", di Cletto Arrighi Mursia, Milano 1988 1861

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LA SCAPIGLIATURA E IL 6 FEBBRAJO (UN DRAMMA IN FAMIGLIA) romanzo contemporaneo di Cletto Arrighi

... sconosciuti ai ricchi contenti, ai giovani ordinati e dabbene, alle fanciulle guardate a vista, alle donne che amano il marito, ed agli uomini serii che battono la strada maestra della vita... - senza emozioni come senza pericoli.

INTRODUZIONE

In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui di ambo i sessi, fra i venti e i trentacinque anni, non piú; pieni d'ingegno quasi sempre; piú avanzati del loro tempo; indipendenti come l'aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; irrequieti, travagliati,... turbolenti - i quali - o per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato - vale a dire fra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca - o per certe influenze sociali da cui sono trascinati - o anche solo per una certa particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere - o, infine, per mille altre cause, e mille altri effetti, il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo - meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia sociale, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte le altre.

Questa casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo; personificazione della follia che sta fuori dai manicomii; serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti; - io l'ho chiamata appunto la Scapigliatura.

La qual parola prettamente italiana(*) mi rese abbastanza bene il concetto di tal parte di popolazione, cosí diversa dall'altra pei suoi misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi traviamenti, sconosciuti ai ricchi contenti, ai giovani dabbene, alle fanciulle guardate a vista, alle donne che amano il marito ed agli uomini serii che battono la strada maestra della vita, comoda, ombreggiata, senza emozioni, come senza pericoli.

La Scapigliatura è composta da individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale.

Proletariato, medio ceto, e aristocrazia; foro, letteratura, arte e commercio; celibato e matrimonio; ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta qualche membro d'ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell'ordine dell'universo attrae fra di loro le sostanze consimili.

La speranza è la sua religione; la fierezza è la sua divisa; la povertà il suo carattere essenziale. Non la povertà del pitocco che stende la mano all'elemosina, ma la povertà di un duca, a cui tocca di licenziare una dozzina di servitori, vendere molte coppie di cavalli, e ridurre a quattro le portate della sua tavola, perché, fatti i conti coll'intendente, ha trovato di non aver piú a questo mondo... che cinquantamila lire di rendita.

Come il Mefistofele del Nipote, essa ha dunque due aspetti, la mia Scapigliatura.

Da un lato: un profilo piú italiano che milanese, pieno di brio, di speranza e di amore; e rappresenta il lato simpatico e forte di questa classe, inconscia della propria potenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare di tutte le idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici, poetici, rivoluzionari del proprio paese; che per ogni causa bella, grande, o folle balza d'entusiasmo; che del riso conosce la sfumatura arguta come lo scroscio franco e prolungato; che ha le lagrime d'un fanciullo sul ciglio, e le memorie feconde nel cuore.

Dall'altro lato, invece, un volto smunto, solcato, cadaverico; su cui stanno le impronte delle notti passate nello stravizzo e nel giuoco; su cui si adombra il segreto d'un dolore infinito... i sogni tentatori di una felicità inarrivabile, e le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie, e la finale disperazione.

Nel suo complesso perciò la Scapigliatura è tutt'altro che disonesta. Se non che, come accade anche nei partiti politici, che gli estremi accolgono nel loro seno i rifiuti di tutti gli altri, anch'essa conta un buon numero di persone tutt'altro che oneste, le quali finiscono collo screditare la classe intera. Ma codesti signori sono come nel ferro le scorie; e c'è per essi un nome abbastanza conosciuto senza ricorrere alla Scapigliatura; e anch'io sarei tentato di dirli cavalieri d'industria o birbanti, se l'educazione non mi vietasse di chiamar chicchessia col suo vero nome. Ma appunto come tali, essi non hanno una fisonomia particolare, e si perdono in quella putrida vegetazione comune a tutti paesi del mondo - come i ladri e le spie - gente nata per lo piú nel fango, e viventi nel fango del proprio mestiere senza perdono e senza poesia possibile.

Però la vera Scapigliatura, li fugge per la prima, e li rinnegherebbe ad alta voce se ella fosse conscia della propria esistenza.

PROLOGO

In certe notti d'inverno - quando la luna, che comincia a declinar verso Ticino, trapela a stento dall'annuvolato, e la nebbia cala giú presso terra a rendere piú fosche le fiammelle del gas - Milano, a chi lo percorre frettoloso, ad ora tarda, presenta talvolta degli aspetti assai curiosi.

Nella irregolarità delle sue vie deserte e illuminate a risparmio, negli angoli sporgenti e rientranti delle sue case, nell'alto e basso delle sue grondaie, ti si affacciano talvolta dei capricci di ombra e di luce non mai prima avvertiti.

Ora è il buio monotono che vien rotto improvvisamente ad una svolta dal chiarore che esce da una bottega attardata e ancora aperta; ora è la luna che mostrandosi da una fessura del cielo, rischiara la bruna facciata d'un palazzo, che ti si rizza a un tratto dinanzi gigantesca e minacciosa; e allora, per poco che tu sia superstizioso o pusillanime, ti prende quasi un'uggia di esser solo in quel silenzio e affretti il passo; tuo malgrado ti ricorre alla memoria la storiella di ladri udita poco prima, e se vedi venirti incontro una fisonomia sospetta le cedi volentieri la dritta.

Fu in una di queste notti sinistre a mezzo un dicembre, che un giovine, disceso da una carrozza che s'era fermata sulla piazza di Sant'Ambrogio, percorreva sotto l'acquerugiola, che cadeva fitta e minuta, quella contrada che congiunge la piazza al Carrobbio, cercando collo sguardo qualche cosa sulla muraglia delle case di destra.

Chi lo avesse veduto passar sotto il raggio dei lampioni, avrebbe osservato su quel volto i segnali di un'angustia violenta, come di chi cerca invano qualche cosa che gli preme.

Giunto allo sbocco della contrada del Cappuccio, lo sconosciuto ristette come sconsolato; poi, voltosi indietro precipitosamente, rifece la via esaminando piú attentamente le pareti delle case... finché un'esclamazione di gioia che gli uscí dalle labbra mostrò che avea finalmente trovato.

Allora s'accostò al muro, prese colla destra la maniglia d'un cordone da campanello di chirurgo, lo tirò con forza, e si ritrasse di nuovo in mezzo alla strada, alzando la testa alle finestre di terzo piano a cui corrispondeva il filo.

Stette cosí un minuto, nel quale, all'ansia cocente di poco prima, era succeduta sul suo viso la naturale impazienza di chi aspetta.

Una finestra s'aperse al terzo piano e una voce di donna chiese:

- Chi è?

- Cerco del professore; - disse lo sconosciuto con voce alterata - È in casa?

- C'è; - rispose la voce dall'alto.

- Ho bisogno di lui. Ditegli che faccia la carità di ricevermi.

- Ma, è a letto che dorme; - replicò la voce.

- Bisogna svegliarlo; - gridò l'altro imperiosamente - si tratta di vita o di morte. Scendete ad aprirmi. Avrete buona mancia.

Sia che il tuono commosso e insieme risoluto del giovane persuadessero la fantesca che non sarebbe stato cosí facile il congedar quell'uomo; sia che l'antifona della mancia ne vellicasse l'istinto prepotente in molte umane creature - e specialmente nelle serve - il fatto è che rispose: - Vengo; - e si ritrasse chiudendo la finestra.

Lo sconosciuto piegò il capo sul petto come uomo che si raccoglie ne' suoi pensieri. La scarsa luce, che gli batteva da un riverbero sulla persona, avrebbe mostrato ai passanti un giovane nei 25 anni; di mezza statura; coperto da un leggero soprabito a dispetto della pioggia e del freddo; né bello né brutto;... tale insomma da non fermare lo sguardo di chicchessia.

Non erano scorsi due minuti che il rumore d'una chiave nella toppa dello sportello gli fe' alzare vivamente la testa. Allora si mosse, attraversò il marciapiedi, e curvata la persona, varcò la soglia della piccola apertura che gli si era schiusa dinanzi.

Lo sconosciuto si mise per l'andito, dietro alla fantesca, che reggendo il lume dinanzi a lui, s'avviava verso la scala.

- L'avete già svegliato? - le chiese.

- Sí signore.

- Che cosa ha detto?

- Nulla ha detto, pover'uomo! Ormai ci ha fatto il callo.

- Gli toccano spesso questi casi?

- Una notte dovette svegliarsi e uscire fin tre volte.

- Questo pel vostro incomodo; - disse lo sconosciuto, dopo aver cavato una moneta dal taschino del farsetto.

E sí dicendo allungava il braccio per mettere la mancia nella sinistra della donna che le pendeva libera al fianco. Costei, sebbene non potesse vedere quell'atto, lo indovinò; giacché, con mirabile accordo, stese indietro il braccio, abbrancò la moneta, biascicando un grazie, e la intascò, non senza prima averla sogguardata sul palmo colla coda dell'occhio.

Il giovane non rifece parola, e neppur essa. Montarono in silenzio i gradini della scala fino al terzo piano ed entrarono in casa del professore sul cui uscio d'ingresso stava scritto:

PIER AMBROGIO BARTELLONI

chirurgo ostetrico.

Ancora mezzo intronato dal sonno, il professore stava a sedere sul letto disponendosi un po' di mala voglia ad ubbidire a quella voce potente nelle anime oneste che si chiama il dovere.

Era un uomo sui cinquant'anni, d'una forza e d'una salute meravigliosa; la quale ei soleva attribuire alla sua invincibile avversione ai medici ed ai farmacisti. Nel quartiere, questa sua bizzarra professione di fede - in apparenza cosí contraria all'arte sua - e un certo metodo di vita fuor del consueto, e la sua maniera di vestirsi negletta e antiquata, gli aveano meritato il soprannome di filosofo, che, come tutti sanno, per certa gente dabbene equivale a poco meno di matto.

- Che cosa mi comanda? - diss'egli al giovine che la Caterina gli veniva presentando.

E, volgendosi a lei, soggiunse:

- Ho bisogno di lei - cominciò lo sconosciuto - per un affare delicato... assai delicato.

Il professore all'accento turbato di quella voce, all'espressione misteriosa di quelle parole alzò fieramente la testa e corrugò la fronte. Un sospetto oltraggioso gli aveva attraversato la mente.

- Spero, - diss'egli fissando i suoi occhi penetranti in faccia allo sconosciuto - spero che ella non sia venuto a chiedermi una cosa illecita.

Ma l'altro, prima che il professore avesse terminato, senz'ascoltarlo, soggiungeva:

- E sono pronto a qualunque sacrificio pecuniario per ricompensare degnamente l'incomodo che ella dovrà prendersi.

- Le ripeto, signore, che io sono pronto a prestar l'opera mia quand'essa non debba essere contraria alle mie abitudini...

- L'opera che io son venuto a chiederle è né piú né meno che quella della sua professione

- Quand'è cosí - sclamò il professore rovesciando indietro la le coltri e mettendo le gambe fuori del letto - siamo bell'e intesi.

- Però, l'incomodo ch'ella dovrà prendersi, - replicò il giovane risolutamente - è forse superiore a quello che s'immagina. Prima di tutto debbo dirle che s'andrà fuori di Milano.

- Molto lungi?

- No; il viaggio d'un ora al piú...

- Manco male

- Poi debbo prevenirla che c'è una condizione a cui sarei desolato s'ella rifiutasse di assoggettarsi.

Il professore che in questo frattempo era andato raccapezzando su pel letto le sue robe, e già stava per infilar le mutande, ristette di nuovo.

- Una condizione? e quale?

- Lei è troppo dell'arte per non sapere che qualche volta una donna può aver dei motivi per non lasciarsi scorgere in viso neppur dal dottore.

- Ho capito! - sclamò l'altro rizzandosi in piedi e continuando a vestirsi. - Se la condizione sta tutta in ciò non v'è nulla in contrario. Conosco queste cose, e non sarà certo l'ultima volta ch'io sarò per assistere una donna mascherata.

- Mascherata sta bene; - riprese il giovine con ansia crescente - ma questo non è tutto. Essa volle che io le promettessi che la persona che le avrei condotto non avrebbe veduto neppure il luogo dove essa abita...

- Questa la mi è nuova! - sclamò l'altro sorridendo - Vuol dire che bisognerà ch'io ci venga a occhi bendati?

- S'ella fosse tanto buono!

- Dato il caso che io avessi dei nemici, prudenza consiglierebbe a rifiutare. Ma come, grazie a Dio, non ne ho, cosí accetto anche questa condizione.

- Che Dio la benedica! - sclamò il giovine rasserenando ad un tratto la fisonomia come chi esce da un dubbio tormentoso.

- Ella sarà venuto colla carrozza? - chiese il professore.

- Sí; l'ho lasciata laggiú sulla piazza. Corro a farla avvicinare alla porta.

- Ed io mi metto l'abito, il pastrano, e sono con lei.

E il giovane si slanciò fuori della camera.

Vestito che fu, il professore cercò sul tavolino da notte la tabacchiera, e se la mise in tasca; aprí un armadio, ne trasse fuori un astuccio in cui teneva i ferri, e lo posò sul letto; tornò all'armadio levò da un cassetto due pistole corte, le intascò anch'esse; aprí l'uscio, chiamò Caterina, e a lei che accorreva pose nelle mani l'astuccio dei ferri dicendo:

- Va pure innanzi.

Poi udendo giú nella via il rumor della carrozza che s'avvicinava, levò da un angolo della camera la fida canna tradizionale dei dottori ostetrici di trent'anni fa, diè un ultimo sguardo intorno ed uscí.

Quando fu al basso, egli si fe' dare l'astuccio da Caterina e le disse:

- Va pure a letto, e non aspettarmi per questa notte. Se domani mattina capita don Giacomo, digli di ripassare dopo mezzogiorno.

Cosí detto, facendo arco della schiena uscí dallo sportello.

Come fu nella via, si vide dinanzi una bella berlina da viaggio a due cavalli alla Daumont, che fumavano copiosamente di sudore, mostrando di avere fatto poco prima, se non lunga, rapidissima corsa. Un fanciullo palafreniere, colle braccia incrociate sul petto come un piccolo Napoleone, stava immobile dinanzi ad essi.

Lo sconosciuto, colla maniglia dello sportello in mano, aspettava il professore. Il quale, deposto l'astuccio nell'interno della carrozza, senza far complimenti entrò pel primo, e il giovine gli tenne dietro. Nel frattempo il piccolo palafraniere, montato a cavallo, partí come un lampo.

S'era messo un freddo da lupo. La pioggia mutata in nevischio, cadeva a spruzzoli sodi e minuti, brizzolando qua e là il bruno selciato della via.

Il professore, non appena si fu seduto in carrozza, trasse di tasca il fazzoletto con un tacito e arguto sorriso, e piegatolo diagonalmente sulle ginocchia si volse all'altro e gli disse:

- Dunque bisogna che ella mi faccia il nodo.

- Se lei non pigliasse la cosa con tanta disinvoltura, - osservò il suo compagno di viaggio, prendendo nelle mani i due capi del fazzoletto - io sarei in obbligo di chiederle mille scuse.

- Non val la pena per cosí poco; - sclamò il professore - La stringa un po' di piú... un po' ancora...

E quando si sentí annodato a dovere il fazzoletto sugli occhi, sdraiandosi filosoficamente nel suo angolo, sclamò con un piccolo scoppio di riso:

- Ora sfido a vederci.

E qui, consigliati dalla voluttuosa sensazione che si prova ad essere trasportati velocemente in carrozza, e dalla fatica che avrebbero dovuto fare per udirsi, col rumore delle ruote sul lastrico, fecero silenzio.

Si andava sempre con una velocità spaventosa.

Il professore - quantunque non avesse sviluppato in ispecial modo il bernoccolo della curiosità - pure non potea sottrarsi a quella legge inevitabile dell'umana natura, che un filosofo scolpí nell'aforismo nititur in vetitum, e che fu causa - dicono - del peccato di Eva.

Perciò - fin dal primo partir della carrozza, avendo seguito colla memore immaginativa la strada ch'essa teneva, per indovinarne, quasi suo malgrado, la direzione - dalle frequenti svoltate a sinistra fu tratto ad arguire che si dovesse andar fuori da porta Comasina. Dopo aver battuto il lastrico per dieci minuti la carrozza si fermò un istante; e quando ripigliò la corsa, il rumore sordo delle ruote su un terreno molle di fango avvertí il professore che si era varcata la porta della città.

Allora - cessato il rumor delle ruote - primo a rompere il silenzio fu lo sconosciuto; il quale con una di quelle domande oziose, che non servono ad altro che ad avviare un discorso, gli chiese:

- Come va, professore?

- Bene! - rispose questi - Oscuramente bene!

- Sa ella che sono stato già da due altri chirurghi che non hanno voluto accettare?

- Lo credo - rispose il professore ridendo - C'è chi ha paura; c'è chi crede offesa la propria dignità di chirurgo ostetrico. Essi dicono d'essere inviolabilmente segreti come il confessore, e pretendono di venir considerati come tali.

- Sarà benissimo; - osservò il giovine - ma v'hanno dei peccati a questo mondo che non si vorrebbero dire neppur al confessore...

- Naturalissimo. Principalmente i peccati veniali. Ci sono delle debolezze che fanno piú vergogna a noi stessi... che non un delitto... dato che fossimo capaci di commettere un delitto.

La conversazione, nutrita di filosofia e di morale, continuò cosí una buona mezz'ora, finché una troppo rapida svoltata della carrozza per poco non fece cozzar l'un contro l'altro i due viaggiatori. Il legno fu lí lí per dar la balta; ma, ripigliato fortunatamente il suo centro di gravità, continuò per piccolo tratto ancora la sua corsa precipitosa, passò sotto un androne selciato, e si arrestò in un luogo aperto, che dovea essere necessariamente il cortile d'una casa.

- Eccoci! - disse il giovine al professore levandosi da sedere.

- Ci siamo? - sclamò questi - Bene arrivati.

L'altro, quando fu uscito, gli stese la mano, lo aiutò a smontare, levò di sotto al sedile l'astuccio dei ferri, e s'avviò a braccetto del suo cieco compagno. Attraversato un portico, l'avvertí che stavano per incominciare i gradini di una scala. La montarono. Giunti sul secondo pianerottolo, aperse un uscio muto sui cardini, e conducendo sempre per mano il professore attraversò un'anticamera, per un altr'uscio passò in una seconda stanza, e disse:

- Ci fermeremo qui.

- Posso sbendarmi? - disse il professore.

- Senza dubbio.

Bartelloni non se lo fece dir due volte. Toltosi il fazzoletto, girò intorno lo sguardo e si trovò in un'ampia sala illuminata scarsamente da due lumi posati sopra una tavola rotonda, che vi sorgeva nel mezzo.

Lo sconosciuto, deposto su quella tavola l'astuccio, pregò l'altro di attenderlo per un istante; e attraversata la stanza scomparve per un uscio a fior di muro.

Rimasto solo il professore girò un altro sguardo molto piú curioso del primo sugli oggetti che si trovavano in quella camera, e si diede ad esaminarli.

La era una di quelle malinconiche sale, come se ne trovano ancora molte nelle case di campagna, mentre, per amor del ricavo e de' propri comodi, il proprietario in città le ha totalmente abolite.

La vôlta altissima, a spicchi, era fregiata di stucchi foggiati a pampini, che correvano su a intrecciar la cornice ovale di un medaglione di discreto autore, che rappresentava la solita... la eterna toilette di Venere. Degli specchi antichi dalle cornici barocche - che la moda rifece preziosi oggidí - stavano appesi alle pareti, coperte da un arazzo di un colore fra l'albeggiante e il lionato. Qua e là accanto agli specchi, disposti senza simmetria, alcuni quadri. Sul piano di un vasto camino, si rifletteva da un altro specchio un pendolo e due vasi della China, sui quali la bizzarra fantasia dei figli del sole aveva riprodotta la vita chinese nella sua piú grottesca e fantastica espressione.

Un po' di polvere, e qualche ragnatelo, completavano - come dicono i romanzieri - la fisonomia di quella sala.

Il professore, preso in mano un lume, s'accostò alla parete e, fatto riverbero della mano, aguzzò l'occhio su uno dei quadri che stavano appesi alla destra del camino; e non appena il suo sguardo si fu posato su quel dipinto, tutta la sua fisonomia fu illuminata da un'espressione di gioia e di meraviglia.

Chiunque in quel punto avrebbe riconosciuto nel professor Bartelloni un profondo conoscitore.

- Possibile! - sclamò sommessamente. - Ed io non saperlo...? Diamine! Chi sarà mai il padrone di questa casa?

E già si moveva ansioso per esaminare gli altri quadri che ornavano le quattro pareti, quando l'uscio per cui poco prima era scomparso il suo compagno di viaggio si schiuse di nuovo e questi si mostrò sulla soglia facendogli cenno di seguirlo.

Il professore, deposto il lume s'avviò e venne introdotto in un'altra sala.

Essa non dissomigliava dalla prima, e come la prima si avrebbe potuto crederla disabitata, se la temperatura sensibilmente accresciuta, e un certo vago e parlante disordine di robe sparse sulle poche suppellettili che l'ammobigliavano, non avessero fatto accorto chiunque che la era abitata... e abitata da una donna.

Una lucerna, posata su una consòle, la illuminava per metà. Nella penombra prodotta da un paralume, il professore vide un letto a sopracielo cortinato e capí tosto che la creatura a cui egli veniva a recar gli aiuti della sua scienza era là.

Una veste da camera femminile foderata di martora bionda stava rovesciata sul dossale d'una sedia a bracciuoli accanto al letto, e sul tavolino da notte vide, insieme ad un servizio di cristallo turchino, alcuni libri, un braccialetto, e un cestello da ricamo.

Il giovine che precedeva il professore, giunto al letto, ne rimosse le cortine e si curvò a parlare con alcuno che vi stava celato di dietro.

Detta qualche parola sottovoce si volse al professore che s'era fermato qualche passo indietro e gli fe' cenno di venir innanzi.

Allora questi dato un passo vide sdraiata in quel letto... col volto coperto da una maschera... una donna... che gemeva sommessamente.

Tre ore dopo quella camera poco prima cosí silenziosa echeggiava dei vagiti di una creaturina... venuta a questo mondo a godere o a soffrire.

La madre era fuori di pericolo.

Il professore guardò l'orologio. Erano le sei del mattino

Le sei del mattino del giorno 16 dicembre 1829.

CAPITOLO PRIMO LA COMPAGNIA BRUSCA

In quegli anni di quiete torbida e desolata che succedette ai disastrosi tentativi d'indipendenza che furono oppressi a Custoza e a Novara, quindi a Venezia ed a Roma, c'era a Milano una certa compagnia di giovani tra i 20 e i 30 anni, la quale nel quartiere dove teneva la sua principal residenza era chiamata - quasi per antonomasia - la Compagnia brusca, e con questo qualificativo stava registrata perfino nel libraccio nero di chi sapeva o avrebbe dovuto saper tutto.

Erano sette - numero mistico; numero cabalistico! - erano sette; ma ad un'occasione potevano passar benissimo per ventiquattro: seduti a cena, per esempio, o in un coro, o in una rissa... La loro sede ufficiale e pubblica era dal tabaccaio sull'angolo d'una contrada centrale. Fuori di là neppur il diavolo avrebbe saputo trovarli con certezza, e in casa meno che altrove.

Quand'erano seduti in circolo intorno al braciere del tabaccaio sarebbero parsi i piú buoni figliuoli del mondo, che non pensassero ad altro che a fumare il maggior numero di sigari, e ad affumicare il maggior numero di pipine possibile. Ma una volta che si alzavano e si avviavano a qualche impresa... guai al luogo dove avessero stabilito di far serenata... guai alle spalle su cui dovevano cadere quei pugni... guai alla pattuglia che avesse voluto far con essi il bell'umore!

Questa piccola società non avea uno scopo apparente fuori di quello di riunirsi a fumare ed a ciarlare. L'amicizia e una certa conformità di carattere, di posizione e di gusti pareva legasse fra loro i sette membri di questa misteriosa compagnia. Ma il tabaccaio, in un angolo della cui bottega essi erano venuti ad installarsi, la pensava altrimenti; e, quantunque sapesse che, a Milano, la sola conoscenza e il bisogno di scambiar parole bastassero a riunire, ad una data ora d'ogni giorno dell'anno, certe persone, in tutte le osterie ed in tutti i caffè; pure avea dovuto persuadersi a lungo andare che una ragione piú seria e piú segreta legava fra loro que' suoi sette avventori.

La polizia, che in quei tempi stava piú che mai all'erta, ne aveva avuto anch'essa un sentore ed aveva interrogato l'onesto tabaccaio sulle abitudini, sui discorsi tenuti da quelle sue pratiche, e su ciò ch'ei ne pensasse in cuor suo. Il tabaccaio, quantunque avesse ottenuta la dispensa dalla sovrana degnazione, rispose schietto alle prime due domande: essere le abitudini e i discorsi de' suoi sette fumatori la cosa piú innocua di questo mondo; quanto alla terza si guardò bene di esporre l'animo suo, e rispose crederli bravi giovinotti, che per riguardi economici avessero scelta la sua bottega invece d'un club o d'un caffè...

Era stato congedato colla solita raccomandazione di tenerli d'occhio, e di riferire sulla loro condotta.

La mattina del giorno 3 febbraio 1853, che era un giovedí - vale a dire circa 24 anni dopo la scena raccontata nel prologo - cinque dei sette trovavansi radunati nella bottega intorno al braciere, e, tranne uno, fumavan tutti.

Erano piú serii del solito; giacché è bene sapere che, quantunque nel corso dell'anno gli scrosci di risa, le arguzie e le stramberie, che uscivano da quelle bocche si avrebbe durato fatica a contarle, pure di regola erano molto serii.

La conversazione annuvolata e profumata dalle quattro pipine, ancora incerta come il volo della falena, che non sa su qual fiore posarsi, s'era finalmente adagiata in quell'eterno argomento da scapigliato: i debiti. Ora voi avreste trovato difficilmente in tutta Italia una mano di giovani piú profondamente e piú coscienziosamente versati in tale materia.

Un d'essi stava raccontando agli altri di un dialogo avuto la mattina con un usuraio che gli avea fatto l'onore di prestargli seicento lire, delle quali, un terzo in mezze genovine scarse dai sette ai dieci grani, e le altre quattrocento in una gran cassa di guanti colore di foglia tenera e tutti mancini

- Naturalmente - continuava il narratore io ho cercato di vendere subito quella cassa. Ma quale fu il mio stupore quando il guantaio venuto ad esaminar la mercanzia mi avverti che que' guanti erano tutti della mano sinistra... come un matrimonio morganatico. Potete immaginarvi il mio furore. Corsi a casa dell'usuraio... gridai... tempestai, ma invano. Un'altra cassa, uguale alla mia, di guanti verdolini e tutti destri, era stata data ad un altro infelice, chissà in qual parte del mondo. Sperai un momento di trovarla cogli avvisi, e spesi dieci svanziche a far annunciare tre volte nella quarta pagina dei giornali:

""Chi possedesse una cassa di guanti verdolini per la sola mano destra, è pregato a darne avviso per relativo contratto di compra o vendita, trovandosi chi ne possiede un'altra di ugualmente verdolini e tutti della mano sinistra. Dirigersi all'ufficio, ecc. ecc." Ma non vidi mai venir nessuno, e dovetti finalmente cedere la cassa spajata all'usuraio stesso, che me la valutò qualche lira piú di quello che me la stimassero gli stessi guantai."

- Stamattina che era il giorno della scadenza - continuò il narratore dopo aver sbirciato il caminello della sua pipa di gesso, rappresentante la testa di Manara che cominciava a macchiarsi al basso d'un bel colorino caffè e latte - stamattina quell'animale venne da me. Come abbia saputo del mio nuovo domicilio è un mistero. Da una settimana soltanto, come sapete, sono andato ad abitare in borgo di S. Gottardo, dove mi sono ritirato credendo di fuggire i rumori della città, per finire una commedia colossale, che fra poco sarà rappresentata al teatro Re. Potevano essere otto ore al piú; proprio quando il sonno ti ripiglia piú serrato, che dài senza accorgerti la tua brava volta pel letto, e ti distendi voluttuosamente sotto le coltri a far l'ultimo pisolo. Io, ciuco, avevo lasciato l'uscio aperto, non so come: la notte, sapete, eravamo stati un po' a zonzo a far chiasso, ma non ero ubbriaco però, e nemmeno brillo, che non vorrei - continuò abbassando la voce - non vorrei aveste a pigliar pretesto da questa mia confessione per farmi pagar la multa di temperanza. Dunque, come vi dicevo, egli entrò in camera e cominciò: "È permesso?..." con quella sua voce nel naso "è permesso?... è permesso?". Io fingeva di dormir chiuso, anzi mi misi a russare come un contrabbasso, per veder se quell'animale aveva tanto muso da destarmi. Egli si avvicina al letto, si curva a contemplarmi, poi prende una sedia e si mette presso al capezzale. "Ah se tu aspetti che io mi desti da solo, stai fresco" pensavo fra me. Se non che dopo una mezz'ora, l'usuraio, stufo di attendere, cominciò a chiamarmi per nome: "Signor Gustavo, sono io... signor Gustavo...". Io duro, ed egli da capo. Finalmente mi scosse per un braccio in tal modo che mi fu impossibile di fingere oltre. Allora come se mi destassi da un mal sogno di sbalzo, feci un movimento brusco, e colla mano rovescia gli lasciai correre una potente ceffata.

I tre ascoltatori di Gustavo e il tabaccaio che stava al banco diedero in uno scoppio di riso. Gustavo continuò:

""Chi va là!" gridai sorgendo a sedere sul letto cogli occhi spaventati... "Sono io" rispondeva l'usuraio tenendo la mano sulla guancia addolorata "Ah è lei, caro signor Nicoletti...? Che cos'è accaduto? Mi pare di essermi spaventato per nulla. Le ho forse fatto male?" "Oh niente!" mi risponde l'usuraio "Cosa che passa." "Ma come è accaduto?" dico io. "È stato" risponde egli "che nel destarsi forse da qualche brutto sogno, la mi ha dato un piccolo schiaffo." "Oh povero signor Nicoletti, mi rincresce." "Non è nulla, caro signore" ripeteva quell'assassino colla sua voce rugiadosa, mostrandomi il pavonazzo della guancia. C'era il segno delle cinque dita. Ed ei lo chiamava un piccolo schiaffo! "Dunque" ricominciò "essendo passato di qua per caso..." gli usurai passano sempre per caso dalla porta dei debitori "sono salito a vedere se..." "A vedere che cosa?" dissi io. "La dica pure, caro sig. Nicoletti" "A vedere se ella fosse in caso di pagarmi quella piccola cambialetta delle seicento lire per risparmiare le spese del protesto." "Quella cambialetta dei guanti dispajati?" "Sí signore." "Ma senza dubbio, caro signor Nicoletti, è mio dovere; ella non ha che a parlare. Soltanto che avrei bisogno dalla sua provata gentilezza un gran favore." "La dica" mi rispose il galantuomo. "Ella sa bene che in quel poco che io posso cerco sempre di aiutare la gioventú... perché, dico il vero, io porto molto interesse ai bravi giovani." "Sí?" gli dissi io. "Credevo invece che fossero i bravi giovani che lo portassero a lei molto interesse." Come potete imaginarvi, quel bue non capí il mio bellissimo calembourg, perché gli usurai sono la gente piú priva di spirito di tutto il genere umano... anzi, dietro profonde ricerche posso assicurarvi che essi sono un grado al di sotto dall'ipopotamo e due dal pipistrello. Dunque gli chiesi seriamente mi facesse il favore di prestarmi il denaro che ci voleva per pagar la sua cambiale, piú qualche centinaio di lire, per poter celebrare degnamente la chiusura del carnevale. A questa domanda un po' eteroclita quell'animale balzò sulla sedia e vedendo che io parlavo sul serio non sapeva da che parte farsi per rispondermi. Per venire alle corte io lo strinsi in tal modo coi piú sentimentali argomenti che per salvarsi dovette rinnovar la cambiale a sei mesi, se no scommetto, avrebbe dato in uno scoppio di pianto... Vedete dunque in me un uomo che per sei mesi ancora è sicuro di vivere liberamente all'aria aperta, ciò che tra parentesi, non garantisco di voi altri."

Gustavo tacque, e guardò in viso a ciascuno de' suoi quattro compagni, quasi volesse scrutarvi l'effetto della sua chiusa.

- Ebbene, - sclamò quello fra essi che non fumava e che avea divorate una ad una le parole del narratore - giacché hai toccato questo cantino, sappiatelo, io sono a questa estremità.

Gli occhi dei quattro compagni si volsero a lui con interesse.

- Possibile!

- Tu Teodoro?

- Sí; - rispose questi con noncuranza - La polizia è già sulle mie traccie.

- E perché non ci hai detto nulla? - chiese Gustavo a voce sommessa.

- Perché ho sperato fino a ieri di trovar denaro.

- E adesso non isperi piú?

- No. Chi dovea prestarmeli mi mancò di parola... ed io non voglio seccarmi oltre.

Questa frase ad uno che non avesse conosciuto quello strano giovine sarebbe sembrata un'enormità. Ai suoi compagni non fece gran senso.

Gustavo continuò:

- È denaro su cambiale?

- Sí; scaduta da sei giorni.

- Di quanto si tratta?

- Di venti marenghi.

- E che pensi di fare?

- Nulla. Io non ho la bacchetta magica, io.

- Venti marenghi! - sclamò Gustavo grattandosi la testa - È un affar serio.

- Lo so bene anch'io. Gli è perciò che ho dimesso il pensiero di trovarli.

- Hai veduto papà Niso?

- Sí, ma non ne ha. Dove vorresti mai che andasse a trovar venti marenghi a questi lumi di luna?

- Capisco... ma i patti ci devono pur essere per qualche cosa... se no sarebbe inutile star in società.

- No... io non voglio. Io non ho mai fatto nulla per voi; non voglio che voi vi sacrificate per me.

- Ma e noi non vogliamo che tu vada in prigione.

- E come fare? - chiese Teodoro.

- Non lo so... pure un mezzo bisogna trovarlo. Chi manca qui? - continuò Gustavo sempre a bassa voce.

- Manca Niso ed Emilio; - gli fu risposto.

- Da Emilio sei stato?

- Oh tu sai bene che egli ha ben altro pel capo adesso.

- Eh che importa se è innamorato? Tanto meglio! E poi, ripeto, se ne ha, è suo dovere di salvarti.

- Ahimé! - sclamò un terzo - Emilio oggi ne ha meno di noi. S'è messo a fare il lion!

- In ogni modo nelle mani della polizia tu non ci puoi... non ci devi andare. Ma dove diamine li gettasti... venti marenghi...?

Teodoro alzò le spalle e si fe' rosso.

- Per la Teresa forse? - chiese Gustavo sotto voce.

Teodoro non disse di no.

- Ed ella sa che sei a questi estremi per amor suo?

- No. Mi crede ricco.

- E se lo sapesse sarebbe in grado di salvarti coi denari che le hai dati?

- Io non lo vorrei, per Dio!

- Ma che cosa vuoi dunque?

- Non lo so.

In questo punto l'uscio della bottega si aperse, e un giovine assai ben messo e raggiante di gioia in volto entrò alzando un braccio in atto di vittoria.

- Ecco Emilio! - sclamarono gli amici: - Viva Emilio! Ben levato Emilio!

CAPITOLO SECONDO EMILIO

Chi entrava in sí buon punto e, coll'organo potente di una bella voce baritona, intuonava in recitativo di Ernani all'uscita:

"Mercè, diletti amici, A tanto amor mercè"

era un giovine tra i 22 e i 25 anni, d'una bellezza veramente distinta.

Ma le descrizioni di fisonomie, piú o meno espressive, piú o meno apollinee, essendo eccessivamente ripetute in ogni romanzo, io mi prendo la libertà di lasciare alla fantasia delle mie belle lettrici la creazione della simpatica imagine del mio personaggio, sicuro, qual sono, della loro perfetta collaborazione.

La sola cosa che trovo utile di accennare - per non far nascere equivoco fra il biondo ed il nero - si è, che giammai Spagnuolo o Siciliano possedette capelli piú neri ed occhi piú fulminei di quelli.

Anche sulla messa di Emilio non dirò che poche parole.

Egli vestiva con una semplicissima eleganza; né avrebbe potuto far altrimenti, giacché, come vi ha della gente che neppur il primo sarto dell'orbe terracqueo riuscirebbe a vestire con garbo, ve n'ha anche di quella a cui ogni abito sta dipinto...

Emilio era appunto cosí.

Senonché bisogna sapere che da qualche tempo s'era fatta una grande trasformazione nella sua maniera di vestirsi. Soltanto un mese prima, a dispetto della nativa eleganza, i suoi abiti troppo democratici lo avrebbero fatto scambiar da lontano per un mascalzone.

Ora invece si vedeva a prima vista il gentiluomo. Le sue mani, che prima di allora non avevano mai fatta conoscenza coi guanti, s'erano decise a calzarne qualche paio. Il suo capo, che non era mai stato coperto da altro cappello che di feltro a larga tesa, s'era già assuefatto al cilindro, il quale quantunque orribile, è però sempre il cappello della gente educata, che non stia per andarsene in campagna.

Contuttociò - ripeto - sue mani, piccole, bianchissime, colle unghie rosee e irriprovevoli, a dispetto di quella totale assenza di guanti, faceano fede ch'ei ne aveva sempre avuta una cura speciale; quanto al cappello di feltro è certo che faceva risaltare la maschia e poetica bellezza de' suoi nobili tratti, piú che il ridicolo cilindro.

- Amici - diss'egli con un gesto sublime - ho una notizia strepitosa da darvi. Aprite le orecchie ed esultate. Quella sgualdrinella, che sulle carte di tarocchi è rappresentata cogli occhi bendati, in cima di una ruota, ha avuto finalmente la buona ispirazione di interessarsi de' fatti miei. Amici... ho vinto sei mila fiorini alla lotteria di Francoforte.

Se una bomba vicina a scoppiare fosse caduta in quell'istante in mezzo al braciere, non avrebbe fatto balzar dai sedili i cinque amici di Emilio con tanto impeto, come fecero le sue parole.

- Scherzi tu?

- Sarebbe vero!

- È possibile!

- Lodato il cielo!

Tali, o ad un dispresso furono le esclamazioni che uscirono da quelle bocche...

E il tabaccaio, che dal suo banco stava ad osservarli, e che soleva fare su quelle fisonomie de' preziosi studi, non iscoprí negli occhi di alcuno di essi un solo sospetto di quel verme roditore dell'uman genere che si chiama invidia.

Invece vide spianarsi una fronte poco prima oscura, e sorgervi quella regina dei sentimenti umani la speranza a farla sorridente.

Era la fronte di Teodoro che si sentiva salvato dalla prigione.

- Non vi mostro il biglietto, - aveva continuato Emilio - perché basta la parola. Sono seimila fiorini, né piú né meno. Non c'è sbaglio... Domani ci sarà il denaro... Domani saremo ricchi... Domani il mondo sarà nostro. Io sono il re di Milano; sono milionario... Adoratemi.

Emilio fece una piroletta e continuò.

- Come portano gli statuti, il quinto sarà speso subito in una gran baldoria. La gloria di Lucullo e di Baldassare sarà ecclissata dalla mia. Nei secoli venturi si parlerà di una cena di Emilio Digliani con entusiasmo. Saremo sette uomini e sette donne, come il solito... cioè, come di rado! Viva la lotteria di Francoforte!

- Viva! - ripeterono in coro i sei amici.

E Teodoro, preso Gustavo per mano, si diede a ballar in mezzo alla bottega e a girar in tondo come un selvaggio della Nuova Olanda dinanzi al vinto nemico che sta cuocendo allo spiedo.

Ma quell'allegria fu di cortissima durata.

Teodoro s'arrestò di botto collo sguardo fisso all'uscio della bottega che si schiudeva.

Un uomo di aspetto sinistro, con due ignobili baffi cadenti sul mento rasato, seguito da due guardie di polizia entrò nella bottega.

Teodoro aveva abbandonate le mani di Gustavo, e stava per fuggire...

Un pensiero lo arrestò: diede un'occhiata sublime ad Emilio, che non s'era accorto di nulla, e andò incontro al commissario.

- Ella cerca forse di me, non è vero?

- Sí signore. Lei è il signor Teodoro Frenzi?

- Per servirla.

- Allora mi rincresce di doverle dire che deve seguirci perché abbiamo l'ordine di...

- Lo so; - interruppe Teodoro.

Poi voltosi a Gustavo che aveva capito tutto, e stava già per parlarne ad Emilio, disse:

- Fallo venir di fuori.

E s'avviò per uscire.

Il commissario gli tenne dietro, seguíto egli stesso da Emilio e da Gustavo che spiegava la cosa all'amico.

- Come si può fare, per non incomodarsi? - chiese Emilio al commissario - Pago io per lui.

- Lei, signor Digliani? - sclamò il commissario squadrandolo dal capo alle piante.

- Sí io, se le accomoda; - rispose Emilio.

- Nulla di piú facile. Si accompagna il suo amico alla polizia, si fa una dichiarazione, si versa il danaro, e il signor Frenzi è libero come un uccello dell'aria.

- Andiamo dunque; - disse Emilio - Tu va con loro, io ti raggiungerò fra poco.

E abbassata la voce continuò:

- Bada ad esser docile, e a non farne qualcuna delle tue, che non avessero a pigliar qualche pretesto per andar a casa a farti una perquisizione.

- Ho capito; - interruppe Teodoro - Lasciate fare a me.

E stretta la mano all'amico, montò nella carrozza preparata per lui, colla disinvoltura d'uno sposo che vada a nozze.

I galantuomini entrarono anch'essi, calarono le cortine, e il cocchiere sferzò i cavalli.

- Teodoro finirà col disgustarci se continua cosí - disse Gustavo - Egli non ci ha dato che dei disturbi finora. E tutto per quella sua Teresa...

Emilio sorrise e non disse che:

- È innamorato!

Ma con quel sorriso, e con quella frase scusò l'amico piú che con mille ragioni.

- Bisogna pensare a liberarlo subito; - soggiunse - Andiamo da papà Niso, a cui ho consegnato ieri sera il biglietto della lotteria. Quanto meno Teodoro starà in quel luogo, tanto meglio per tutti.

Cosí dicendo allungarono il passo, e pigliando giú per una via a destra, s'avviarono verso la contrada dove stava di casa Niso Piertini.

Nel tempo ch'essi impiegano a far la strada noi occupiamoci un po' della loro fisiologia.

Gustavo lo spiccio in due tratti.

Abbiamo udito da lui stesso che stava scrivendo una commedia per un teatro milanese. Su di essa fondava ogni sua speranza. Lo sventurato faceva il drammaturgo per vivere.

Questo tipo, del letterato per mestiere, fu ormai tanto studiato, che basta presentarlo a lettori intelligenti, perché sia conosciuto e... compianto.

Del resto la sua storia, era press'a poco la storia di tutti i suoi simili.

A diciott'anni quella sirena morale che i poeti chiamano desio di gloria gli avea cantata nel cuore la solita melodia.

Da Bergamo, sua patria, dove avrebbe potuto vivere, se non felice, tranquillo, era disceso in questo microscopico Parigi della Lombardia, per tentare la sorte delle lettere... ed essere dichiarato genio.

Pochi mesi dopo il suo arrivo, era sopraggiunto quel magnifico ribollimento di teste e di cuori che con una parola sola fu chiamato il quarantotto.

Anch'egli era stato sbalestrato qua e là per la penisola con un fucile sulle spalle... e, quando tutto fu finito, avea fatto ritorno alla sua Bergamo.

Ma com'era da aspettarsi, dopo un anno di calma, la sirena lo avea risospinto a Milano...

Sei mesi dopo egli si era veduto sospendere i sussidii da casa.

Suo padre s'era stancato di mantenere alla capitale un fannullone - diceva lui - che non veniva mai a capo di nulla.

Il povero vecchio s'era andato immaginando in buona fede che all'arrivo a Milano del suo Gustavo - un figliuolo di tanto talento! - tutti i giornali dovessero gridare ai quattro venti la cosa.

Il figliuolo di tanto talento s'era dunque trovato a 23 anni nella piú orribile delle miserie... la miseria dell'uomo educato.

Eppure Gustavo avea subíta la sua posizione con una indifferenza che avrebbe fatto onore a un discepolo di Diogene. Ma, come bisognava pensare a non morir di fame, ei non potè piú aspettare che l'ispirazione venisse a cercarlo... dovette egli stesso andarla a cercare. Da quel punto la sirena cessò per sempre il suo canto. Fra una farsa abborracciata per un teatro diurno, e un protesto di cambiale - fra un articolo da un tallero, e un biglietto del monte di pietà... il povero desio di gloria era morto di vergogna e di dolore.

A Milano egli avea trovato due compagni d'arme: Niso Piertini ed Emilio Digliani, e da essi era nata la compagnia brusca.

Quanto a Emilio si sarebbe detto che prima del quarantotto non avesse ancora vissuto.

Niso e Gustavo l'avevano conosciuto per la prima volta nel battaglione Manara e avean fatto con lui tutta la campagna del 48 e 49.

Nessuno aveva mai udito dal suo labbro una parola sul suo passato; nessuno gli avea mai sorpresa una frase che accennasse ad un'infanzia, ad una famiglia, ad una madre...

Uno strano mistero avvolgeva nel buio quella giovinetta esistenza; un segreto doloroso covava forse in quell'anima, che a tutti sembrava spensierata e senza cure.

Ogniqualvolta i suoi compagni lo avevano sorpreso immerso in tetri pensieri, e gliene avevano chiesta la cagione, egli soleva rispondere con qualche frizzo cosí naturale e spontaneo, che nessuno s'era attentato di toccargliene oltre.

Talvolta, seduto a bivacco, udendo qualche amico parlar di sua madre, il povero fanciullo si facea pallido come un cadavere. Ma, se appena s'accorgeva d'essere osservato, balzando in piedi, come per scuotersi di dosso un molesto pensiero, ridiventava il piú allegro e il piú spensierato di tutti.

Il suo coraggio, spinto all'audacia, era proverbiale nel battaglione.

Manara avea detto che, se in lui fosse stata uguale la disciplina all'ardimento, sarebbe stato il migliore de' suoi volontari.

Come desolato sulla terra, egli aveva concentrate tutte le forze affettive dell'anima sua nell'amicizia de' suoi due compagni d'arme. Fuori di questi, egli pareva non curarsi di persona al mondo: e neppur essi non l'avevano mai veduto scrivere o ricevere lettera, che accennasse ad un legame d'amicizia, di parentela o di amore.

Eppure qualcheduno che pensava a lui c'era a questo mondo.

Ad ogni fin di mese il foriere della compagnia riceveva da Milano un involtino di danaro a lui diretto.

Erano invariabilmente sei napoleoni d'oro.

Per un soldato sei napoleoni d'oro sono una provvidenza.

Contuttociò il foriere - il quale ogni volta che gli rimetteva il suo danaro trovava in lui una serietà e un malumore insolito - non sapeva che cosa pensarne.

- Che bell'originale! - soleva dire ad un caporale suo amico - E' sembra che gli dia degli schiaffi, non de' bei marenghini sonanti.

A cui il caporale faceto non aveva mancato di rispondere:

- Sarà forse che gli parranno pochi!

Una volta il foriere, per prova, tenne il denaro in mano, come se si scordasse di rimetterglielo.

Emilio non fiatò. Pareva non avesse mai aspettato denaro di sua vita.

Il foriere credeva di sognare.

A Niso, che una volta gli chiese d'onde gli venisse quell'assegno mensile, rispose:

- Dal tutore.

E troncò ogni nuova domanda intuonando a piena gola la canzone del bersagliere.

Da quel giorno Niso e Gustavo aveano rispettato religiosamente il suo segreto. E nei quattro anni che seguirono né essi gli avevano mosso piú una sola domanda, né egli avea loro data alcuna spiegazione.

Da tutti gli indizii però i due amici aveano conchiuso col credere che egli fosse un trovatello.

Le mie lettrici, che ne sanno già piú di Niso e di Gustavo, l'avranno già indovinato da un pezzo.

Emilio era infatti un trovatello.

Ed ecco spiegato come non amasse punto parlare de' suoi genitori.

Ma Emilio non era un trovatello da romanzo;... era un trovatello degno del suo tempo.

Mi spiego.

Uno dei caratteri e dei meriti piú spiccati del nostro tempo è quello di aver dato lo sfratto a tutti i pregiudizii di nascita e di casta. Il giovine che entra nel mondo sa che ormai i suoi concittadini aspettano a giudicarlo da quello che egli è, non dai meriti o dai delitti de' suoi maggiori. Le quistioni di nascita con tutti i loro effetti sono sbandite. I romanzi che fondano tutto il loro interesse e il loro prestigio sulla desolazione del loro protagonista abbandonato da padre e madre, non devono piú trovar eco nella nostra età di giustizia e di buon senso. L'Emile di Girardin, per esempio, adesso o è un assurdo, oppure è la fisiologia di un'anima ammalata per eccesso di sensibilità.

L'amore figliale in astratto, è uno dei piú falsi sentimentalismi onde i romanzieri della scuola passata hanno empito i loro assurdi romanzi di ragazzi abbandonati e di figli del mistero. L'amor figliale in astratto non esiste. Una madre e un padre non si amano se non quando si conoscono; ed io non ho mai seriamente creduto a quegli spasimi di figli che non vivono che per cercare la loro madre che li ha crudelmente abbandonati.

Certo che se un trovatello udrà parlare di una madre potrà sentirsi rimescolare il sangue, e proverà nel cuore un desiderio fortissimo di conoscere la sciagurata che gli diede la vita per lasciarlo in balía della fortuna; e forse, perdonandole in cuor suo, capirà che potrebbe amarla ancora, se ella, uscendo a un tratto dal segreto che l'avvolge, gli si presentasse dicendo: io sono tua madre... Ma questo sentimento, che produrrà tutto al piú sulla fronte del trovatello una nube di tristezza, non può essere piú forte di quello del figlio a cui la madre è morta mentre egli nasceva, e che fu privato per sempre del piú dolce e soave amore che sia su questa terra.

No. Ai vaporosi spasimi, all'aria soffrente e rassegnata, alle sentimentali tirate dei figli abbandonati il nostro secolo non crede piú.

Ma esso crede però ancora agli inevitabili traviamenti di questi poveri diseredati dalla famiglia, che destinati forse dalla natura ad essere ricchi e felici, furono gettati dall'errore materno nella terribile situazione d'essere figli di nessuno.

Per tornare dunque ad Emilio, debbo dire a suo onore che egli era tutt'altro che un trovatello da romanzo.

Dopo aver meditato sulla propria sorte egli aveva cercato di dimenticare d'aver avuto anch'egli un padre e una madre. La voce del sangue gli diceva d'esser figlio di ricchi, e questo pensiero costante, quantunque non bastasse ad avvelenargli la vita o a turbargli i sonni, aveva avuto però una discreta influenza sul suo carattere e sulla sua esistenza: a ventitré anni egli era riuscito a farsi credere cinico e privo di cuore.

Questo abito di stanchezza morale, questa simulazione di malvagità, avrebbe finito a farlo spregevole, se di sotto a quella maschera non fossero, quasi suo malgrado, trapelate le naturali qualità d'un'anima tutt'altro che stanca, tutt'altro che malvagia.

L'ira - questo peccato mortale che è pur la chiave per iscoprire tante virtú nascoste - l'ira, che meno di qualunque altra passione soffre di essere dissimulata, giacché, veloce come il turbine, irrompe dal ciglio prima che la ragione sovrana valga a trattenerla, l'ira lo avea tradito. Ira santa, perché suscitata dal piú santo fra i sentimenti dell'anima umana, dopo l'amore della patria, il rispetto alla donna.

S'era battuto in duello per vendicare un oltraggio a una sconosciuta.

E a udirlo si sarebbe detto che egli fosse il piú feroce bestemmiatore della virtú femminile, che fosse al mondo

Quel duello - di cui aveva tentato di falsare la nobile causa anche ai suoi padrini - fu per Niso e Gustavo una rivelazione. Essi che aveano cominciato a crederlo, davvero isterilito di cuore, essi che s'immaginavano che lo splendido coraggio, onde s'era fatto un nome nei giorni delle battaglie, non fosse effetto che della cinica spensieratezza della sua anima desolata, si persuasero che tutto quell'apparato di indifferenza non era che dissimulazione e millanteria, e che sotto ad esso si agitavano ancora vergini e tremende passioni, e tanto piú tremende quanto meno avevano avuto campo di manifestarsi.

I due giovani erano giunti alla casa di Niso Piertini.

Montate le scale bussarono al suo uscio tre colpi a lento intervallo.

Niso venne loro ad aprire con un grosso volume fra le mani.

- Bravi! - sclamò vedendoli - Avete fatto bene a venire.

E dato di nuovo il chiavistello all'uscio, seguí i due amici nel suo studio.

Là fece volare in aria il volume che teneva in mano, dicendo:

- Al diavolo anche tu!

Era il codice civile austriaco.

Il povero volume andò a cadere in mezzo a una miriade di scartafacci e di carte, che stavano alla rinfusa sopra uno scrittoio.

Niso si sedette.

- Volete sentirne una grossa? - diss'egli sottovoce.

- Che c'è?

- Di qua è uscito poc'anzi un uomo mandatomi da Mazzini, a propormi un colpo di mano.

- In Milano? - chiese Gustavo.

- Sí, in Milano.

- Per quando?

- Pel giorno sei.

- Dopodoman l'altro!

- Sicuro.

- È pazzo?

- Se non lo è già, va a rischio di diventarlo!

- Hai veduto le sue cifre?

- Sí; e non si scherza; è risoluto di tentare. E so che ieri è scappato un suo cassiere con diecimila franchi.

- Infine che cosa gli hai risposto?

- Come Pilato; che me ne lavavo le mani... per me e per tutti noi. Però gli ho detto di tornar domani per aver il tempo di consultarvi in proposito.

- Io lo sapeva; - disse Emilio che non aveva ancora parlato - ma vedrai che saranno fumi.

- Basta, sentiremo. Ora ditemi che cosa avete di nuovo?

- Abbiamo di nuovo che Teodoro è arrestato - rispose Gustavo.

- Arrestato! - sclamò Niso balzando in piedi.

- Non temere. Fu arrestato per debiti.

- Manco male! - sclamò Niso; poi come risovvenendosi - È vero! L'altro giorno mi parlò d'una cambiale che stava per scadere, ma non credeva che la cosa fosse cosí urgente.

- Neppur io. Non me ne parlò che poc'anzi... prima d'essere arrestato.

- Strano carattere! Io credo ch'egli sia il giovane piú impassibile e piú neghittoso d'Italia.

- Di' pure dell'orbe terracqueo. Mi ha confessato che gli capitò spesso di sentirsi affamato, prima d'aver cominciato a pensar al mezzo di pranzare.

- In ogni modo, - sclamò Emilio - non tanto pe' suoi meriti quanto pel decoro della nostra società, bisogna liberarlo entro oggi stesso.

- Sia; - disse Piertini alzandosi e andando allo scrittoio - ma per l'ultima volta.

E aperto un cassetto ne levò il biglietto della lotteria e soggiunse:

- Bisogna dire davvero che egli sia nato sotto buona stella. Se tu Emilio non vincevi alla lotteria di Francoforte, non so come l'avremmo liberato. Avevamo in cassa soltanto due lire e quarantasei centesimi... Ecco; - soggiunse poi rimettendo ad Emilio il suo prezioso biglietto - quello che avrei fatto io, uscendo di casa, fallo tu. Leva la somma che abbisogna a liberar Teodoro, leva la tua metà, poi leva anche il quinto per la baldoria... Il resto... riportalo qui che lo metterò in cassa, o lo porterò alla Cassa di Risparmio dove sarà piú sicuro...

- Va bene; - disse Emilio mettendo in tasca il biglietto.

- E bada sopratutto non avvenga... ciò che ti persuase a lasciarmelo qui ieri.

- Non c'è pericolo; - disse Emilio mettendo la palma della mano sul taschino del farsetto.

- Ora, giacché siamo in tale argomento, - ripigliò Niso sdraiandosi nella sua sedia - propongo, che alla prima corbelleria che fa Teodoro, s'abbia a farlo uscire dalla società. Lo statuto dice bensí: ciascuno per tutti e tutti per ciascuno; ma quando s'abusa soltanto della seconda parte di esso, e non si mostra di conoscerne la prima, ci dev'essere permesso di far valere gli altri articoli dello statuto.

Cosí dicendo avea levato da un altro cassetto del suo scrittoio uno scartafaccio manoscritto e andava carteggiando per cercarvi un punto da leggere:

- Se per tre anni di seguito - continuava - un dei sette non avrà recato alcun vantaggio materiale o morale alla società, in modo che se ne possa ragionevolmente arguire essere egli inetto fisicamente o moralmente al bene di essa, potrà essere espulso e surrogato da un nuovo socio..

- Quando però vi concorra la piena votazione degli altri sei; - aggiunse Emilio.

- Ben inteso.

- Ebbene lasciate ch'io m'intenerisca per Teodoro, e chieda grazia per lui; - disse Emilio - Io divento suo protettore. Che volete? Quella sua meravigliosa noncuranza delle cose di quaggiú m'ha interessato.

- Si potrebbe almeno far in modo ch'egli lasci quella sua pettegola che lo rovina; - disse Niso.

- Impossibile! - sclamò Emilio.

Niso e Gustavo sorrisero.

- Chi avrebbe detto che tu dovessi credere a queste cose! - osservò il primo.

- Tanto piú, - continuò Emilio - che domani Teresa sarà la regina della festa.

- Qual festa? - domandò Niso.

- Diamine! La celebrazione della vincita.

- Che cosa fai conto di fare?

- Una cena nabuccodonosoresca, in cui dovranno uscir piú turaccioli dai colli delle bottiglie che non uscirono palle dalle bocche dei cannoni francesi alla battaglia d'Austerlitz.

Niso crollò il capo.

- Non ti piace?

- No.

- Perché?

- Perché so che domani gli ufficiali di guarnigione fanno anch'essi una cena.

- Ragione di piú per farla allo loro barba coi denari di Francoforte.

- Ebbene ci verrò anch'io, ma a un patto. Ch'io sia dispensato dalla seccatura di condurre una dama.

- Sia! Come papà ti permettiamo di venir solo.

- Ma faccio osservare - disse Gustavo - che saremo in tredici.

- È vero! Viva il tredici! - sclamò Emilio - Saremo in tredici e ci staremo alla barba dei pregiudizi.

E levandosi soggiunse:

- Domani mattina dal tabaccaio vi lascerò per tutti l'ora e il luogo dove dovremo trovarci.

Poi voltosi a Gustavo soggiunse:

- Adesso andiamo a liberar Teodoro.

CAPITOLO TERZO TRE GENERAZIONI

Alla domenica e al giovedí in casa Firmiani c'era sempre qualche invitato a pranzo.

Verso l'ora appunto che precede di poco il suono di campanello delle case aristocratiche - quando i lumai cominciano a scorrere frettolosi per le remote vie ad accendere i primi lampioni - nella sala di casa Firmiani tre persone della famiglia stavano aspettando i convitati.

Il conte Lorenzo, nonagenario, era seduto nel suo fido seggiolone, alla destra del camino, su cui ardeva una lieta fiamma. A novant'anni suonati, egli soleva dire d'essere piú forte di un giovine di venti. E davvero sarebbe stato difficile trovare un viso piú rubizzo e vegeto, non dico in un uomo della sua età, ma anche di assai minore. Quantunque fosse coperto di rughe, quel viso conservava nella pienezza delle guancie e nell'espressione degli occhi un non so che di giovanile, che faceva strano contrasto colla bianchezza argentina dei capelli e delle sopracciglia: quegli occhi, a vent'anni, dovevano essere stati lampeggianti se a novanta conservavano ancora tanto fuoco.

Accanto a lui, col gomito appoggiato al bracciolo della sua sedia, sedeva una donna di mirabile bellezza, che non mostrava piú di venti o vent'un anni.

Un bell'uomo, serio serio, in piedi, volgeva le spalle al camino, tenendo le mani raccolte dietro il dorso. Egli, con voce monotona, e con sussiego diplomatico, andava discorrendo di politica agli altri due, che pareva non prestassero troppa attenzione alle sue glaciali parole.

La bella, infatti, chi l'avesse osservata attentamente, si sarebbe accorto che era astratta in un pensiero estraneo al discorso di quell'uomo; quantunque la si sforzasse di sembrar calma, ella si trovava in quel punto sotto l'influenza d'una preoccupazione tormentosa. I di lei occhi, bellissimi, grandi, ombreggiati da lunghe palpebre, si volgevano di quando in quando ansiosamente all'uscio pel quale dovevano entrare i convitati; e, insieme allo sguardo, pareva che ella tendesse furtivamente anche l'orecchio, quasi per udire da lontano l'arrivo di chi aspettava.

La bella inquieta era piú che bella; era affascinante.

I suoi tratti avrebbero forse potuto essere piú corretti, piú attraenti, no. I suoi capelli, di quel castagno ardente e quasi dorato che ne dinota la estrema finezza, avevano quello sfarzo di vegetazione che non si dà che nelle nature perfettamente dotate; quasi ribelli al pettine, si disegnavano ondati, a profluvio e pieni di rigoglio sulla fronte candida e pura come quella d'un angelo. La era una di quelle testoline ricche e voluttuose su cui un amante poserebbe con ebbrezza le labbra coprendola di insaziabili baci... I suoi occhi, color del nostro cielo, possedevano quel mistero dello sguardo in cui Dio mise l'ispirazione dell'amore: occhi al cui fascino nessun'anima d'uomo nobilmente foggiata avrebbe potuto sfuggire quando gli si fossero rivolti col pensiero di sedurre. Il di lei collo, il braccio, il corpo avevano dei movimenti d'una grazia indescrivibile; e la curva deliziosa, né troppo turgida, né troppo scarsa, del di lei seno, era degna dello scalpello d'un genio: per forza di un mirabile giusto mezzo quel seno avrebbe accontentato pienamente tanto chi sdegna nella donna le soverchie rotondità, come chi si diletta di procaci forme. Ciò poi che avrebbe finito di sedurre, chiunque fra le doti femminili non mette per ultima la piccolezza delle estremità, erano la sua mano ed il suo piede: il piedino sopratutto, che in quel punto le usciva fuori dal lembo della veste, e batteva leggermente il suolo con una specie di impazienza convulsiva, avrebbe fatto risuscitare un morto, e morire un vivo.

E anch'io dico il vero ho sempre ammirato quell'antico re di non so qual Grecia, il quale avendo trovato nel suo giardino una piccola e sottile pantofola, mandò intorno migliaia de' suoi ministri a cercare la creatura a cui essa aveva appartenuto.

È impossibile descrivere con evidenza la grazia, dirò quasi arguta, di quel piedino andaluso, calzato dal suo stivaletto di seta, colla punta di marocchino dorato, e due piccoli tacchi insolenti come quelli d'una marchesa a' tempi della Reggenza.

Ella aveva nome Noemi.

Farà un po' specie questo nome che generalmente non è portato che da donne israelite; ma non era senza ragione: nel viaggio di nozze la sua povera madre aveva corso un gran pericolo e ne era stata salvata per caso da un banchiere Ebreo; la riconoscenza del marito, era stata tale, che aveva promesso di mettere il nome del salvatore al primo figlio che gli fosse nato.

- Potrebbe essere una femmina, - aveva osservato il banchiere - e in questo caso il mio nome non servirebbe; ma giacché siete cosí gentile, se il vostro primogenito fosse una femmina mettetele il nome di mia figlia... della mia povera Noemi, che mi è morta a Napoli or sono due anni.

Noemi era l'unica figlia del secondogenito del vecchio Firmiani, e moglie dell'uomo grave che discorreva di politica, il signor Emanuele Dal Poggio.

Emanuele Dal Poggio - che, sebbene ricco proprietario, aveva dovuto rassegnarsi ad affittare tutti i suoi appartamenti, giacché il conte nonno non avrebbe lasciato uscire di casa la sua Noemi per tutto l'oro del mondo - era un bell'uomo fra i quarantacinque e i quarantasette anni, pieno di ordine, di onestà, di rettitudine, e il cui solo difetto era una dose terribile di orgoglio, e di quell'aridità di carattere, che è quasi un vanto per certi, cosí detti, uomini serii. Lagrime e sorrisi gli erano cose affatto sconosciute.

- Io l'ho sempre detto, e sempre piú mi convinco che la questione d'Oriente non è di quelle che si tronchino per paura o per desiderio di pace; - proseguí egli senza mai guardar in viso a' suoi due ascoltatori - Gli interessi che vi si urtano non sono di quelli che si possano comporre facilmente; tutt'al piú le potenze cercheranno di tirar in lungo. La politica adesso è diventata piú che mai una scienza d'aspettazione...

La lancetta del pendolo segnava già le cinque e nessuno dei convitati era ancora comparso. L'inquietudine di Noemi cresceva. Il nonno la osservava colla coda dell'occhio. Il marito seguitava a parlare senz'accorgersi di nulla.

Finalmente l'uscio si schiuse ed entrò il primo convitato.

Costui era un uomo ne' cinquant'anni, calvo come il palmo della mano, e che mostrava di essere della famiglia.

Era infatti un nipote Firmiani.

- E Cristina? - sclamò Noemi che s'era alzata e s'era mossa incontro al nuovo arrivato.

- Viene viene; - rispose questi - sta deponendo la mantiglia e il cappello.

Noemi fe' per andarle incontro; ma, prima ch'ella avesse posto la mano sulla maniglia dell'uscio, Cristina entrava in sala preceduta dal fruscio della sua ampia veste di seta.

- Come stai, cara? - disse Cristina a Noemi, baciandola a fior di labbro.

- Bene; - rispose la bella. E avrebbe voluto soggiungere qualche cosa; ma vedendo lí presso suo marito, che era venuto anch'egli a porger la mano a Cristina, ristette.

Questa andò a salutare il nonno, fe' con lui qualche parola, poi si sdrajò dicontro a lui in un altro seggiolone alla sinistra del camino, e Noemi venne a sederlesi accanto.

I nuovi arrivati, erano marito e moglie Firmiani, nipoti del vecchio conte, e cugini di Noemi Dal Poggio.

Nel 1794 il conte Lorenzo Firmiani aveva sposato la cittadina Armanda Duclos fuggita con suo padre dalla rivoluzione di Lione; da essa aveva avuto due figli, i quali cedendo piú presto del padre alla legge eterna della natura erano morti entrambi, lasciando ciascuno un rampollo. Il marito di Cristina era il rampollo del primogenito; Noemi dell'altro. I cugini rappresentavano cosí, in casa Firmiani, la terza generazione.

Il secondogenito era sempre vissuto con suo padre in casa Firmiani, e vi era morto.

Quanto al primogenito, invece, verso i dieciott'anni, aveva seguito come ufficiale dei Veliti le bandiere di Napoleone. Ferito alla Beresina, trasportato a Vilna, s'era innamorato colà di una povera fanciulla, che lo aveva curato colla carità d'una sorella, e contro il volere di suo padre l'aveva condotta in moglie.

Di ritorno a Milano, egli non era rientrato nella casa paterna, sebbene il conte gli avesse già perdonato il plebeo matrimonio. Ritiratosi colla sua Lituana in un appartamento, vi aveva vissuto felice colla pensione, e l'assegno paterno, finché l'antica ferita lo aveva tratto alla tomba.

Il conte Girolamo suo figlio, - che era appunto quello che vedemmo entrar in sala poco fa - come se volesse rimediare all'errore di suo padre, appena si era trovato in età di prender moglie, era corso a chiedere consiglio al nonno sul proprio matrimonio. Non si scherzava; egli sapeva di essere il solo Firmiani che restasse della nobile famiglia, e teneva troppo all'eredità del nonno per non fare in tutto la sua volontà.

Il conte sorridendo accolse la domanda del buon nipote, come uomo che sa in qual conto tenerla, e - contro ogni aspettativa di costui - gli consigliò di studiar prima ben bene il proprio cuore per iscoprire se gli suggerisse veramente di prender moglie.

Il nipote rispose che gli pareva sarebbe stato un peccato il lasciar spegnere il nome dei Firmiani; a cui il vecchio aveva soggiunto:

- Oh! l'Europa non si metterà in rivoluzione neppure per questo!

Il conte Lorenzo era uno di quegli uomini che si compiacciono di sconcertare qualunque testa che non sia della loro levatura.

Quella risposta tolse la parola al povero nipote...

Ma il buon vecchio proseguí:

- Nondimeno se hai voglia di pigliarla non sarò io certo quello che te ne dissuaderà.

- E chi mi direbbe ella di scegliere, caro nonno? - continuava Girolamino coll'intenzione di fargli piacere.

- Ah! Sta a vedere adesso che un vecchio decrepito condurrà un giovine di 24 anni a cercarsi l'amorosa e la sposa! Ho da sentirne ancora? Non troppo bella, non troppo giovine, non troppo ricca,... ecco tutto. Vado io forse nel mondo per scegliertela fuori del mazzo?

Girolamino per quel giorno s'accontentò della lezione.

Ma uscendo di casa Firmiani mormorava:

- Benedett'uomo che non si sa mai da che parte pigliarlo!

È inutile dire che all'epoca in cui era accaduto questo dialogo - come adesso e come sempre - le fanciulle da marito abbondavano a Milano.

Potete dunque imaginarvi come fosse accolto a braccia aperte dalle mammine il nostro Firmiani, figlio del colonnello di Napoleone e nipote del milionario conte Lorenzo, non appena lasciò trapelare idee di matrimonio.

La fanciulla che fra le molte convenne piú a Girolamino - quella che gli parve soddisfacesse non tanto al proprio cuore, quanto ai suggerimenti del ricco nonno - fu madamigella Cristina Barezzi, non troppo bella, non troppo giovine, non troppo ricca, e che gli parve buona e senza pretese.

Cristina Firmiani era una di quelle donne a cui non si saprebbe dare un'età. E se un figlio, che vivo avrebbe avuto diciott'anni, non l'avesse tradita coll'inesorabile autorità delle cifre, ella avrebbe fatto credere volontieri al mondo di non averne piú di trenta.

Questo bisogno - del resto abbastanza naturale nelle donne - di nascondere la vera età, Cristina lo rivelava assai chiaramente nell'acconciatura tutta a vezzi e fronzoli e nell'insistenza ch'ella metteva a far entrare nei suoi discorsi com'ella fosse stata maritata giovanissima. A furia di ripetere questo particolare della sua vita essa lo avea senz'accorgersi cosí esagerato, l'aveva ornato di tali superlativi che stando letteralmente alle sue parole s'avrebbe potuto credere che la poverina fosse stata abbandonata nelle braccia di uno sposo prima dell'età della ragione. E anch'essa aveva finito col persuadersi di essersi maritata a quattordici anni... non un mese di piú!

Rughe sul suo viso non ne apparivano ancora, se togli le tre leggerissime sulla fronte e sui polsi, quelle che come ognun sa arrivano innanzi a tutte, e segnano alla donna il fatale momento in cui bisogna mettere il cuore in pace e rinunciare a nuove conquiste. Se non che nella Firmiani tutto appariva al contrario. Non c'era un solo nastro in lei che non gridasse: amatemi - non un gesto che non tradisse l'erotica pretesa.

Vestirsi bene, adornarsi, usare insomma di tutti i mezzi che la toeletta e la quarta pagina dei giornali offrono alla donna, è, piú che un diritto, un dovere; giacché io son d'avviso che primo e stretto obbligo della donna sia quello di piacere.

Ma quando una donna ha toccato quell'età in cui il voler piacere a ogni costo può diventare una cosa molto ridicola; quando una donna fu già madre di un figlio che vivo avrebbe avuto quell'età in cui si destano i primi amorosi desiderii - questa donna, questa madre, per quanto senta nel segreto del suo cuore una voce che la chiama ancora ai palpiti d'un tempo, - deve rassegnarsi e chiudere per sempre il libro dell'amore.

Cristina, come vedemmo, era seduta accanto a Noemi; la quale approfittando d'un momento in cui nessuno l'osservava, giacché i tre uomini aveano riavviata tra loro la discussione politica, si curvò presso l'orecchio della cugina e le disse in fretta:

- Se qualcuno parlasse d'una cena che tu mi hai dato l'altra sera in casa tua, reggi. Ti spiegherò poi.

Un lampo sinistro di gioia passò negli occhi della cugina, che fe' un cenno a Noemi come a dire: "capisco perfettamente, lascia fare a me." E questa tranquillata dalla tacita promessa, le die' un bacio di riconoscenza, poi, per non dar sospetto, s'intromise nel discorso degli altri.

Quando il servitore annunciò che era in tavola, Noemi venne ad offrire il braccio al vecchio nonno per passare nel salotto da pranzo.

Il nonno puntando le due mani sui bracciuoli della sua seggiola, si rizzò in piedi con poco sforzo, e a braccetto di Noemi si avviò pel primo, e dietro a loro due si mosse Cristina col marito di Noemi, poi il conte Girolamo cogli altri.

Il cuoco di casa Firmiani era famoso.

Lo spettacolo - per tanta gente - consolantissimo della tavola preparata troncò quasi per incanto ogni discussione politica, e attirò sulle fisonomie degli invitati un sorriso di soddisfazione.

Il padron di casa si sedette a capo della tavola, accanto alla sua Noemi; e, mentre si infilava un lembo del tovagliolo nell'aperto del panciotto, le chiese sottovoce:

- Che cos'hai che mi sembri pensierosa?

- Nulla, caro nonno... soltanto che non ho fame; - rispose quasi riscotendosi Noemi.

- Eh! l'ho detto io! - sclamò il nonno alzando un po' la voce e guardando in viso a Cristina - tu le vuoi dar da cena, e le fa male...

Noemi a queste parole trasalí di nuovo, e lanciò a sua cugina un'occhiata divorante.

Questa che era stata preparata all'assalto da Noemi, rispose con un'aria di verità che faceva assai onore a' suoi istinti di simulazione:

- Oh non può essere, caro nonno; ha mangiato pochissimo.

Il conte Gerolamo che aveva udito il dialogo voltasi a sua moglie chiese:

- Dove?

Obbligata a rispondere anche a suo marito, Cristina non potè che continuare nella sua finzione.

- A casa; - disse coll'aria indifferente di chi vorrebbe troncar su quell'argomento.

- A casa nostra?

- Ma sí! - ripetè Cristina con impazienza.

- Ed io non ne so nulla?

- Eri al club - continuò Cristina, ridendo a fior di labbro.

- Non m'hai detto nulla; - insisteva il conte.

- Oh sta vedere che si dovranno dire al marito tutti i pettegolezzi...

E per troncare si volse a parlare di tutt'altro col vicino di sinistra.

Noemi intanto avea diretto di fianco la parola a suo marito come per tenerlo a bada. Ma Cristina aveva veduto che coll'orecchio vigile aveva tenuto dietro con una specie di ansia angosciosa al suo discorso.

Il sorriso sinistro di poco prima si dipinse di nuovo ne' suoi occhi.

Era di gioia, di speranza o d'invidia?

Cristina Firmiani aveva sortito da natura degli istinti perversi. La cupidigia e l'invidia, due dei piú brutti peccati che infestino la misera umanità, avevano trovato nel suo cuore un comodissimo nido. In altre circostanze, con un altro marito, senza quel continuo barbaglio che le facevano dinanzi agli occhi i milioni del nonno, Cristina sarebbe forse stata una donna rispettabile ed una buona moglie. Cosí ella si trovava, quasi senz'avvedersi, sulla china fatale che rende infami e spregevoli le creature di Dio.

Dal giorno che aveva sposato il Firmiani ella s'era sentito crescere a poco a poco in cuore i suoi malvagi istinti. Un'idea fissa la tormentava: quella di vedere un qualche giorno suo marito unico erede del nonagenario conte.

Ora l'affetto, la tenerezza, che questi dimostrava per Noemi l'avevano spaventata, giacché vedeva in essi un ostacolo terribile frapposto alle sue speranze.

Da quel giorno ella avea giurato in cuor suo di far ogni sforzo perché questa predilezione cessasse, da quel giorno era divenuta la piú implacabile e la piú segreta nemica di sua cugina.

Sua madre era d'origine romana; c'era nelle vene di Cristina un po' di sangue dei Borgia. Una donna come lei, quando trova un ostacolo a una passione non s'arretra; lo frange, a costo di mettere fra sé e il suo scopo il cadavere di una innocente.

V'ha chi crede che di tali caratteri non se ne diano piú nella moderna società.

Cosí fosse!

Certo che, se si dovesse narrare soltanto la vita apparente che menavano i Milanesi cinque o sei anni fa, la sarebbe una cosa da morirne di noia.

Ma sotto la vita apparente covava, allora come adesso, la vita intima, misteriosa, degli individui e delle famiglie, che nessun occhio per quanto scrutatore poteva penetrare, coperta com'era da quella maschera uniforme che serve in pubblico a celare ogni volto, a falsare ogni frase ed ogni sentimento.

Però di quando in quando, come quei lampi nelle notti d'autunno, che, a lunghi intervalli, guizzano in cielo a rischiarar la buia campagna, qualche scandaloso processo dinanzi ai tribunali rivela al mondo incredulo un misterioso complesso di delitti commessi da gente di condizione, e leva un lembo del fitto velo che nasconde il segreto rimescolamento delle passioni sociali. E allora la mente corre con ispavento a una terribile idea: chissà quanti misfatti si commettono che la giustizia umana non arriva né a sorprendere né a sospettare!

Cristina con quella svegliatezza di intelligenza e quella energia che la natura le avea concesso, non appena era stata assalita da quelle furie tentatrici, s'era messa all'opera malvagia. E questa era diventata lo scopo principale della sua vita.

Quale fosse il suo piano lo vedremo fra poco.

CAPITOLO QUARTO IL SEGRETO DI NOEMI

Ma prima di studiare il piano di Cristina vediamo quale fosse il segreto di Noemi.

Noemi era rimasta orfana a dodici anni, e appena uscita dal collegio, il nonno le aveva parlato di matrimonio.

Il solo uomo, non vecchio, ch'ella vedesse in casa Firmiani, col quale avesse una certa confidenza, perché si ricordava di averlo conosciuto fin da bambina venir spesso a far visita a sua madre, era il Dal Poggio. Quarantatré anni, trentamila lire di rendita, un bel nome, una bella presenza, e sopratutto la promessa di abitar colla sposa in casa Firmiani aveano deciso il nonno ad accettare la domanda di Emanuele Dal Poggio.

Quanto a Noemi, - la quale aveva il cuor libero come il dí ch'era nata, e, chiusa com'era nelle domestiche pareti, si annoiava a morte a tener compagnia al vecchio nonno, - non aveva desiderato di meglio. La sua educazione, come quella di quasi tutte le fanciulle che non crescono sotto gli occhi d'una tenera madre, era stata un po' trascurata. In collegio le avevano insegnato perfettamente la storia sacra e la profana, l'inglese ed il francese, il disegno e il pianoforte... ma al cuore, al povero cuore non ci avevano pensato o ben poco. De' suoi doveri di donna le avevano forse parlato qualche volta; ma alle fredde lezioni di morale avute in collegio non erano venuti in seguito i dolci consigli de' suoi genitori. Essa andò a nozze che ne sapeva del mondo tanto come un bambino.

Di una natura ardentissima, Noemi aveva amato sulle prime suo marito di quell'affetto per cosí dire istintivo, di cui la fanciulla innocente ama l'uomo - chiunque esso sia - che le rivela pel primo uno dei misteri piú interessanti della sua vita di donna.

Nel mondo queste fatali illusioni dei primi giorni di matrimonio sono piú frequenti di quel che si creda. La fanciulla che pura come un angelo passa dalle braccia d'una madre in quelle di un marito non scelto dal suo cuore - sia che predestinata all'adulterio infranga la fede conjugale sfidando pericoli e rimorsi - o sia che martire di virtú, mantenga intemerato il suo nome - è sempre da compiangere come quelle antiche vergini che una tremenda superstizione aveva condannate ad essere divorate dal mostro.

Noemi, passato il primo periodo - che chiamerei il periodo dei sensi se non ci fosse già un'altra frase ad esprimerlo - s'era accorta quasi con ispavento che l'uomo a cui si era legata per tutta la vita le diventava antipatico. Né poteva essere altrimenti. Ella era nata per amare e per essere riamata. Quale fosse il carattere di suo marito lo dissi indietro.

Allora era accaduto di lei ciò che accade di tutte le donne oneste nella sua situazione. Aveva chiamato in soccorso tutta la sua virtú, cercando di lottare corpo a corpo coll'avversione che le invadeva il cuore.

Ma suo marito non faceva nulla per ajutarla in quella lotta, tutta a suo vantaggio. Né, volendo, avrebbe potuto. Era una questione d'età, di educazione e di natura. Il Dal Poggio aveva tutte le qualità d'un buon cittadino, ma gli mancava assolutamente quella di ispirar simpatia ad una donna come Noemi. Era freddo, serio, sterile come la calva cima di un vulcano.

Venne dunque un giorno in cui Noemi, dopo aver cercato per qualche tempo di scacciar da sé quella specie di avversione che si impadroniva del suo animo, capí che la battaglia era superiore alle sue forze, e si sentí mancare ogni coraggio. Allora per la prima volta la vita le parve una cosa inutile e vuota. Le stesse feste, e gli omaggi del mondo, che ammirava la sua splendida bellezza, le vennero a noja. Ogni suo pensiero, ogni suo desiderio si concentrò nella speranza di diventar madre. Era la sola speranza rimastale delle tante illusioni amorose che la fantasia le avea dipinte quando era fanciulla. Questa idea essa l'accarezzò, la riscaldò con tutto il sentimento che avea dovuto sottrarre all'altro amore invano sognato. E finché fu sorretta da tale idea i giorni le passarono non del tutto infelici.

Ma dal suo matrimonio erano passati quattro anni... e invano. La poverina avea cominciato a persuadersi che il cielo non volesse accordarle quella grazia che l'avrebbe salvata dalle tentazioni. Ora non c'è nulla di piú triste e di piú scolorato per una donna senz'amore, che la persuasione della propria sterilità.

Quante volte le amiche, che la credevano felice, non l'aveano veduta scoppiare in lagrime all'udire una madre parlare con compiacenza de' suoi bambini!

Era in questo stato d'animo quando un giorno essendo andata a far visita a Cristina, vi aveva trovato Emilio Digliani.

Quand'essa entrò nel gabinetto di Cristina... bella come una creazione della fantasia, col suo cappellino bianco che contornava cosí bene il puro ovale del suo viso di Madonna, Emilio trasalí, tanto fu commosso da quella apparizione.

Dal canto suo Noemi - quando sua cugina dopo averla baciata, si volse a presentarle il giovine che stava in piedi estatico a guardarla - nell'abbassare gli occhi per rendergli il saluto della presentazione, si sentí montar al viso le fiamme. Essa aveva riconosciuto in Emilio un timido e sconosciuto adoratore, che, al corso, al teatro, al passeggio le avea detto mille volte collo sguardo: come sei bella! come darei volentieri la mia vita per te!

Ora, fra i suoi mille adoratori palesi e nascosti, taciti e loquaci, Emilio era quello che Noemi avrebbe preferito su tutti... se ella avesse avuto in pensiero di preferirne alcuno.

Quel giorno Noemi era venuta dalla Firmiani per sfogare il suo dolore. Al trovarsi in presenza di Emilio, senza volerlo, senza saperlo, le era uscito di mente ogni rimpianto e senz'accorgersi era stata piú interessante, piú viva, piú cara del solito.

Emilio si fermò quanto piú potè, ma all'arrivo di nuove visite dovette partire. Strinse la mano alla Firmiani, e salutò Noemi con un profondo inchino di testa. Ma se gli occhi hanno un linguaggio, i suoi furono piú che eloquenti!

Egli era partito innamorato di là. Noemi era sempre stato il suo ideale, e sebbene non avesse mai osato concepir nell'anima un solo desiderio, ad un'occasione avrebbe dato il suo sangue per lei.

Quante volte vedendo venir da lungi la sua carrozza, Emilio era scantonato frettolosamente giú da un vicolo, per non farsi veder malvestito!

Ora l'aveva udita parlare, l'aveva veduta animarsi, gestire, ridere. Tutto gli piaceva in lei; giacché Noemi era una delle poche donne che ci guadagnano da vicino.

La sua voce poi, cosí dolce, cosí insinuante, avea finito di rubargli il cuore.

L'effetto della voce è terribile in amore.

Un giovine vede una donna per la prima volta in istrada, ed è sorpreso di sentire per lei un indefinibile senso di simpatia e di tenerezza.

Perché? Cos'è che gliel'ha destata? Dove risiede il segreto di questa influenza?

Mistero!

Essa è bella, sí..., ma quante donne non vide egli piú belle di lei, per le quali non fece neppur il principio d'un desiderio?

Egli si volge a seguirla collo sguardo, ammirando la grazia della sua andatura... oppure la segue senza saper egli stesso a che scopo...

Quella signora sparisce... e quell'uomo porta con sé un'impressione che lo fa sognare nella notte di lei.

Il giorno dopo la rivede. Forse se ne era già dimenticato. Ma la rivede, e l'impressione si ridesta, si raddoppia. Chiede agli amici chi sia quella signora. Sa il di lei nome. Essa diventa il suo unico pensiero. In teatro non le distacca gli occhi d'addosso. Va al corso per incontrarla... trascura per essa la propria amante.

Finalmente un bel giorno trovandosi a caso in una bottega di guantaia, la vede entrare... bella come il solito, elegante... modesta...

È tale la sua emozione che gli tocca di sedersi.

La signora senza far mostra di accorgersi di lui, si accosta al banco e con una voce stridula, sgraziata, infelice - una voce che nessuno avrebbe mai sospettato dovesse uscir da quella bocca - chiede alla guantaia, col piú spaccato accento milanese, un paio di guanti del numero sei.

Il poverino si sente correre un brivido per le vene. I capelli gli si rizzano per la delusione sul capo.

Quella voce lo rende infelice; e senza neppur volgersi a guardare un'ultima volta quella donna, che fu per qualche tempo il suo ideale, esce da quel luogo. E da quel giorno egli non pensa piú a lei, come se non l'avesse mai osservata.

Emilio partí dunque da casa Firmiani pazzo di amore.

Cristina quando fu sola con Noemi le chiese di suo marito. Questo brusco richiamo alla sua vita abituale la commosse al punto che non potè trattener le lagrime.

La cugina si pose a consolarla con quelle ragioni che non hanno mai consolato nessuno appunto perché sono ragioni. E per quel giorno la cosa restò li. Ma da quel giorno fu decisa la sorte di Noemi.

Pretendere di trovare una maniera nuova di porgere alle mie lettrici i progressi d'un amore in circostanze cosí poco eccezionali sarebbe cosa stolta.

Noemi rivide Emilio da sua cugina pochi giorni dopo.

Partendo di là, sentí che l'imagine, i tratti, le parole del giovine le occupavano il cuore.

E qui, è d'uopo dirlo; non ebbe fin dal principio la forza di sottrarsi al dolcissimo sentimento che la invadeva.

Fino allora Noemi non aveva mai pensato a' suoi doveri di moglie. L'idea di poter rivolgere tutti i tesori della sua tenerezza su una creaturina da cui sarebbe stata chiamata madre l'aveva resa inaccessibile a qualunque sentimento estraneo alla famiglia. Perduta a poco a poco anche quella speranza... pure ella non aveva pensato - come tante donne - a procacciarsi un amante: un amante per progetto, per isfuggir la noia, le sarebbe parso una cosa orribile. La sua stessa bellezza del resto le aveva servito mirabilmente di salvaguardia nei quattro anni del suo infelice matrimonio. Fra tanti omaggi palesi o furtivi che le tributavano i suoi adoratori, ell'era rimasta indifferente. E se fra tutti aveva notato Emilio, non fu certo colla speranza o col desiderio d'esserne amata.

Ma dopo averlo trovato da sua cugina, Noemi non aveva potuto sottrarsi all'ebbrezza di vedersi adorata da lui, che pur non osava quasi alzarle in viso lo sguardo. A questo punto la china già sdrucciolevole per tutte le donne, per Noemi, mercè la cugina, doveva diventar precipitosa.

Per perdere una donna val piú il dito mignolo d'un'altra donna che mille uomini insieme, o un dopo l'altro. Cristina s'era accorta di tutto, e dissimulando aggiungeva una terribile esca al fuoco.

Noemi non era andata una volta sola a trovarla senza incontrarvi Emilio. La sventurata non aveva sentito la forza di sospendere le sue visite. Si passava cosí bene la sera da lei!

Suo marito la conduceva spesso alla porta della Firmiani, poi correva al club a discutere la quistione d'Oriente. E non s'accorgeva, lo sciagurato, che la piú terribile delle questioni si agitava presso di lui, in quel luogo dov'ei lasciava sua moglie colla noncuranza dell'uomo rigido e orgoglioso. Eppure il Dal Poggio conosceva un po' i fatti di Cristina, e sapeva ch'essa non era fedele a suo marito; e sapeva che una donna maritata che ha un amante - quantunque buona - soffre difficilmente che una sua amica non l'abbia.

Una sera Noemi alla conversazione di Cristina non trovò che Emilio e un altro signore che passava appunto pel di lei amante. Cristina propose di rimandar la carrozza di Noemi, e di accompagnarla a piedi fino a casa, per far una passeggiata al fresco. Questa rifiutò sulle prime, ma finí per accettare.

Sulla porta Cristina die' il braccio al suo cavaliere, e fe' cenno a Emilio di offrirlo a Noemi.

La mano della cara donna si posò per la prima volta sul braccio di quel giovine che l'adorava... e da cui godeva di essere adorata.

Emilio sentí su di esso palpitare la soda rotondità del seno di Noemi... di quella donna che un mese prima soltanto gli sembrava cosí lontana da sé da non pensar neppur in sogno alla possibilità di rivolgerle la parola. Il giovine era tanto commosso che non ebbe la forza di aprir bocca sulle prime. Ma a poco a poco la conversazione s'avviò anche fra loro un po' piú intima del solito. Però Emilio non le parlò d'amore... non arrischiò neppur il sospetto di una dichiarazione; nondimeno ciò ch'ei le disse dovea restar profondamente scolpito nel cuore di Noemi.

Dicono che ad innamorare una donna basti un fiore offerto con grazia.

Emilio in mezz'ora le svelò un poema sconosciuto di passione, con una modestia, con una riserva che aggiungeva una verità e una forza immensa alle sue parole. Ella non avrebbe potuto rifiutarsi di ascoltarle, ancorché fosse stata la piú ritrosa delle donne.

Non furono dichiarazioni, ma furono mille volte piú potenti d'ogni dichiarazione. Cominciò, quasi con noncuranza, a raccontarle della prima volta che l'aveva veduta, tre anni prima. Era d'estate;... la sua carrozza s'era fermata dinanzi alla bottega di un mercante di mode: ella ne era discesa, e nel discendere gli avea svelato il suo ammirabile piedino...

Emilio stette piú di tre minuti su questo argomento; poi le seppe dire di che stoffa fosse il vestito che ella indossava quel giorno... le seppe dire il colore dei nastri del cappello... le seppe dire perfino la forma d'un suo braccialetto...

Noemi stupita, e un po' anche commossa, ascoltava in silenzio la rivelazione d'un amore che porgeva, quasi senza volerlo, tante prove della propria sincerità... Quel portento di memoria non poteva essere dato che da una passione vera e profonda.

Fu quella sera, dopo aver lasciato Emilio, che Noemi s'accorse per la prima volta del pericolo in cui si trovava, e risolse di non piú affrontarlo per qualche tempo, ond'averne la vera misura.

Inganno! Il dovere le dicea questo; ma il cuore le suggeriva di star lontana da Emilio per metterne a prova l'amore.

Stette quindici giorni senza andar da Cristina, senza uscir di casa, senza udir parlare di Emilio, che passava buona parte del giorno, e della notte sotto le sue finestre.

A Cristina diceva d'essere ammalata.

Il sedicesimo giorno si vide comparir dinanzi l'uomo - che essa amava già, senza volerlo confessare a sé stessa - pallido, cogli occhi sbattuti dall'insonnia e dal dolore.

Egli aveva forzato, per cosí dire, la porta, ed era venuto fino ai piedi di Noemi sfidando ogni possibile caso. E quel giorno Emilio aveva acquistata la inebbriante certezza d'essere riamato da lei.

In amore, quel periodo che sta fra la confessione e la colpa, è per la donna di una ineffabile dolcezza.

Questo periodo per Noemi era durato tre mesi.

Finalmente una sera Emilio era partito dalla conversazione della Firmiani... con una divina promessa... pel giorno dopo.

Il mondo, che, sopratutto nelle questioni di morale, si compiace qualche volta di professare delle opinioni d'una inconcepibile assurdità, fa maggior colpa alla donna maritata che va a trovar l'amante, che non a quella che lo riceve in casa.

Questa storta idea prova, come due e due fan quattro, che il mondo non bada che alle apparenze.

Quanto a me, fra una moglie che tradisce la fede sotto il domestico tetto, violando per cosí dire l'ospitalità coniugale, e facendo respirar a suo marito e a' suoi figli l'aura del proprio adulterio; e una moglie che coraggiosa sfida i pericoli e va a nascondere altrove il proprio errore... io sarei disposto a disprezzare piú la prima che la seconda, se la mia naturale indulgenza per certe debolezze non mi portasse a compatirle entrambe.

Emilio, il giorno dopo che Noemi gli avea data quella promessa, avea lasciato il suo vecchio alloggio, ed era andato a cercarsi tre belle stanzine in una via quasi deserta, dove Noemi potesse venire sicura di non essere vista.

Ma Noemi non era venuta quel giorno. Era passata e ripassata piú volte dinanzi alla porta del suo amante, senza avere il coraggio di varcarne la soglia.

Ritornata a casa, insieme al rincrescimento che provava pensando al povero giovine, ch'essa amava già con tutta la forza d'un primo amore, Noemi risentí una gioia immensa di trovarsi ancor pura dinanzi a suo marito.

Essa fu piú tenera del solito con lui.

Se quell'anima gelida avesse avuto un lampo solo di divinazione, forse Noemi era ancora salva.

Invece le parlò della questione d'Oriente.

Essa lo pregò di passar quella sera a casa con lei. Il Dal Poggio sorrise, alzò le spalle e disse:

- Che novità son queste, cara la mia Noemi? Io ho le mie abitudini... sai bene.

Ella si fece accompagnare dalla Firmiani, e vi trovò Emilio abbattuto, ma rassegnato. Il suo contegno fe' sul cuore della povera donna un'impressione tremenda.

Ormai non c'era piú via di scampo per lei. O fuggire lungi da Emilio... o cedere. Inevitabile dilemma!

Promise di nuovo!

Il giorno dopo il giovane amante avea tutta parata di fiori freschissimi la sua stanzina; poi due ore prima della fissata s'era messo a spiar dalle socchiuse gelosie la venuta del suo angelo.

Quando Noemi passò la soglia della porta di Emilio credette di morire di sgomento. Nondimeno l'avea passata... e qualche ora dopo la povera donna s'era come svegliata da un sogno tutta in lagrime... e s'era trovata d'essere l'amante di Emilio.

Ella era stata felice due mesi.

Aveva fatto di lui la sua vita, il suo universo, il suo Dio. Avrebbe commesso un delitto se Emilio gliel'avesse chiesto.

Certe donne maritate sono cosí quando hanno avuto lo sventurato coraggio di darsi ad un amante.

Perfino alla riputazione Noemi non pensava piú. Si sentiva come fiera di poterla immolare dinanzi al suo amore; e talvolta le prendeva quasi una vertigine e una smania di svelare a tutti il suo fallo...

Ma dopo due soli mesi erano incominciate le lagrime.

L'inesplicabile carattere di Emilio portava i suoi frutti.

Dai piú fervidi trasporti di passione era capace a un tratto di diventar il piú distratto od il piú agghiacciato degli amanti.

L'impero di Noemi era stato troppo breve! La sventurata cominciava già soffrire.

Un giorno, dopo sei lunghi dí che non l'aveva veduto, quella sventurata donna, sentendo di non poter vivere un minuto di piú se non si decideva a sapere cosa fosse accaduto di lui, andò a casa sua.

Ormai ell'era a tale che il resistere ai moti della sua passione le era divenuto impossibile. La sua stessa bontà la perdeva. Non sostenuta dagli altri principii, che rendono forti e virtuose quelle donne, che al disopra d'ogni cosa mettono il rispetto della propria riputazione, la stessa bontà istintiva di quell'anima poco educata, contribuiva a precipitarla.

La poverina, pensando forse che non poteva farsi perdonare il suo fallo che coll'intensità, e la eternità del suo amore, provava una specie di folle voluttà nell'andar agli estremi.

Triste cosa a dirsi!

Se Noemi fosse stata meno appassionata; se come tante donne avesse saputo frenar i moti del cuore coll'impero della ragione e coi calcoli della convenienza; se infine ella fosse stata meno buona di quello che era, fin dal principio forse avrebbe scongiurato il deplorabile naufragio di tutto ciò che fa bella, calma e stimata l'esistenza d'una moglie.

Emilio era in casa; ma stava per uscirne.

Vedendola entrare, un'espressione di contrarietà si dipinse sulla sua fronte già oscurata da torbidi pensieri.

Noemi si lasciò cadere come affranta sulla prima sedia che trovò.

L'emozione che provava ogni volta che le toccava passar la soglia della porta di Emilio, le aveva colorito le guancie poco prima pallidissime.

Emilio depose il cappello, e stette in silenzio senza abbracciarla, senza salutarla come se la di lei visita gli fosse di noia.

Fu prima la cara donna a rompere il silenzio.

Ella era venuta per chiedere al suo amante la ragione della sua freddezza; era venuta per dargli una prova di tutto il suo amore, era venuta per dirgli che un abbandono sarebbe stato inevitabilmente la sua morte.

Alla prima risposta imbarazzata di lui, la poverina dovette pentirsi amaramente d'esser venuta.

Pure continuò a parlargli dolcemente. Ma dopo dieci minuti di colloquio ella si era alzata per partire di là...

Il contegno turbato, misterioso, inconcepibile di Emilio la rendeva pazza. Ma egli aveva fatto un cenno per trattenerla, e la sventurata si era seduta di nuovo.

Però, come se quel tentativo di rivolta avesse inviperito il mal genio nell'anima del giovine egli aveva continuato peggio di prima.

È impossibile immaginarsi ciò che soffrí Noemi, per conservare l'ultima apparenza di dignità, quella apparenza che una donna non deve mai perdere a costo di morire sul colpo di amore e di angoscia.

La fu una scena di collera... di cui Emilio avrebbe saputo, ma non le avrebbe potuto forse, dir la ragione.

Noemi era uscita di là dicendo queste parole:

- Che Dio ti perdoni il male che mi fai... Cercherò di dimenticarti.

CAPITOLO QUINTO L'AMORE D'UNO SCAPIGLIATO

Due sere dopo Emilio e Noemi s'erano riveduti in casa di Cristina.

La povera donna sebbene dubitasse che Emilio non si recasse, come erano soliti, dalla Firmiani, v'era andata piú presto del consueto, mal soffrendo la solitudine della sua camera, dove da due giorni aveva tanto sofferto.

Le pareva che la compagnia di Cristina e l'atmosfera del gabinetto dov'ella avea conosciuto il suo amante, dove avea passate tante sere felici nella tacita adorazione dei suoi occhi, le pareva, dico, dovessero diminuirle l'angoscia e darle sollievo.

- Addio, mia cara; - disse Cristina vedendola entrare e andandole incontro col suo solito sorriso impostore - ti ringrazio d'essere venuta per tempo.

E le prendeva le mani con finta cortesia: poi, fissandola un po' negli occhi, seguitò:

- Che cos'è che mi sembri di cattivo umore stassera? Si direbbe che hai pianto.

Noemi a quel brusco richiamo al suo dolore si sentí venir le lagrime grosse sul ciglio; ma sforzandosi di sorridere all'amica:

- Tu scherzi; - le diceva - perché vuoi che abbia pianto?

E allora svincolando una mano da quella di sua cugina, e prendendo con noncuranza fra le dita il lembo del di lei colletto, ch'era un bel lavoro di ricamo, si mise a fargliene i piú grandi elogi.

Vi sono poche donne che con una lode ben formulata a qualche parte del loro abbigliamento non si possano sviare da una idea, da un discorso incominciato.

Se non mi credete vi prego di farne la prova.

A mezzo d'un ragionamento di qualche vostra amica, sia pure di garbo e piena di spirito, uscite ad ammirarne il vestito, un braccialetto, una trina, e c'è da scommettere mille contro uno che ella sospenderà per lo meno il discorso per ascoltarvi e forse per rispondervi.

Perciò la contessa, staccati gli occhi da quelli di Noemi, stette a udir sorridendo le sue lodi e rispose:

- Ti pare?

- Ma certo che mi pare; - continuava Noemi - io non te l'ho mai veduto ed è una vera meraviglia di finezza e di buon gusto.

- Indovina chi me lo ha ricamato? - chiese Cristina.

Strana anomalia del cuore!

Se Noemi poco prima aveva provato un moto di gioia d'aver potuto sviar l'attenzione della cugina da' suoi occhi pregni di lagrime, ora, alla nuova domanda, ella ne sentí tutto il vuoto, e avrebbe quasi voluto tornare sul primo discorso, e dovette fare uno sforzo per non rispondere un: "non m'importa nulla di saperlo" che, se non le venne sul labbro, certo le si affacciò alla mente troppo compresa dal suo doloroso pensiero.

- Non saprei, cara; - rispose ella col tuono di voce leggermente indifferente di chi vorrebbe una risposta assai breve.

- È lavoro di mia nipote Giulia; me lo ha regalato pel mio onomastico; - riprese la Firmiani sedendosi con Noemi accanto al fuoco che ardeva sul caminetto.

- Il tuo onomastico! Quand'è stato? - chiese Noemi.

- Ieri, è stato; - rispose Cristina - Ah cattiva! Quest'anno ti passai senza un pensiero. Mi sono ben accorta non vedendoti venire da me. Ci sono state tutte a trovarmi le mie amiche; meno tu. Ma ti perdono, - soggiunse prendendole una mano con bontà - ti perdono perché so che...

E s'interruppe fissando la cugina negli occhi.

- Perché sai che...? - domandò Noemi invitando Cristina a continuare.

- Perché so che tu ami; - aggiunse sottovoce la Firmiani.

Noemi si fece in viso come una bragia, e non rispose.

- Vedi che ho indovinato... Oh io ci vedo da lontano. È un pezzo che me n'ero accorta; ma non volevo parlartene finché tu stessa non me ne davi un appiglio. Povera Noemi! Se sapessi come ti auguro che tu abbia ad esser felice...!

A questo nuovo assalto, tutto l'accoramento che covava nel cuore della cara donna irruppe ad un tratto, per quella causa misteriosa che ridesta in noi la passione allorquando udiamo altri richiamarcela con gentili parole. Noemi questa volta non fu abbastanza munita contro sé stessa per respingere il pianto che le si aggroppava negli occhi, e die' in uno scoppio doloroso nascondendo il viso nel fazzoletto.

La Firmiani si levò, e senza dir parola si pose a baciarla teneramente, come se davvero l'avesse amata, come se avesse sentíto compassione di quel dolore. E Noemi sotto quei baci si struggeva sempre piú.

- Dimmi, Noemi, confida a me i tuoi fastidii... È dunque vero che tu ami quel caposcarico? Che cosa ti ha fatto? Raccontami la tua passione.

Noemi dopo il primo sfogo, vergognosa di essersi lasciata andare cosí, asciugavasi gli occhi in silenzio.

La Firmiani incalzava, e chi indifferente fosse stato a mirar quella scena, si sarebbe accorto indubbiamente che in quella sollecitudine c'era un intimo senso di invidioso piacere.

Alla fine Noemi rispose:

- Non mi ama piú... mi ha fatto soffrir tanto...

- Oh Noemi! Si vede proprio che questo è il tuo primo amore! E sei cosí buona di accorarti per ciò? Mia cara, ridi, sta allegra, giacché egli non ti ha mai tanto amata...

Noemi la ascoltava a bocca aperta.

- Perché dici cosí? - chiese ella ingenuamente e con un leggero accento di speranza e di gioia nella voce.

- Perché sí... perché l'amore senza collere è la piú insipida cosa di questo mondo; perché s'egli ti ha detto delle cose dispiacenti è segno che è geloso, e, se è geloso, è segno che ti ama.

Era la prima volta che Noemi parlava di queste cose con Cristina. Questa sua logica, cosí volgare, cosí al dissotto dell'ideale che ella s'era formata del vero amore, la disgustava.

- No, no, Cristina; - disse Noemi tristamente - no, pur troppo, egli non è geloso; non può essere geloso. E di chi dovrebbe esserlo, mio Dio! se io non vedo persona al mondo altri che te? Anch'io temei sul principio che egli avesse un'ombra; che alcuno gli avesse parlato male di me;... ma mi dovetti disingannare;... oh è tutt'altro;... egli non mi ama piú...

E Noemi abbassò il capo sul petto.

- Che cosa pretestò dunque? - chiese la Firmiani - dimmelo; via... tu sai bene ch'io non voglio tradirti... e se non lo dici a me a chi vorrai dirlo?

- No, non cercarmi di piú... sarà forse stato un momento di cattivo umore... mi sarò forse ingannata io.

- Ebbene, ebbene? - richiedeva la Firmiani.

- Che vuoi, Cristina; non saprei come cominciare. Egli ebbe dei modi e delle parole cosí strane!... Era già da qualche tempo che io m'era accorta della sua freddezza... pur non gli feci carico sperando la fosse passeggera... ma ora...

- Capricci, mia cara! Se è tutto qui non vedo ragione per disperarsi. Gli uomini hanno tavolta certe ubbie che non sanno nemmanco essi come vengano loro in capo, e dietro cui fanno tutte le corbellerie amorose che non farebbero se si lasciassero guidare soltanto dal loro cuore. Una parola, un frizzo d'un amico basta perché l'amante non ci guardi piú in viso per una serata intera, mentre la sera prima non s'era fatto scrupolo di passarla al nostro fianco quanto fu lunga. Basta che qualcuno gli abbia detto che tu non eri messa con buon gusto...

- Oh no; egli non è cosí leggero.

- Ah tu non conosci gli uomini; - continuava Cristina colla sua logica... entrando a gonfie vele nel discorso prediletto - Poniamo dunque che alcuno gli avesse detto che tu non eri elegante... non è una ragione per mortificarti. In ogni caso egli è un uomo ben poco delicato.

- Oh no, Cristina; - sclamò Noemi - Mio Dio! sarebbe orribile s'io dovessi sospettare che Emilio mi dovesse amare soltanto per la mia acconciatura.

- Ora tu esageri, - continuò Cristina - Prima di tutto, gli uomini sono uomini e non angeli. Dal piú al meno, genii e imbecilli, essi amano tanto piú la donna quanto piú ella soddisfa il loro amor proprio. Il cuore e una capanna son cose andate giú di moda. E se dobbiamo metterci una mano sul cuore, confessiamo che questa legge ci domina anche noi donne. Cosa vuol dire che se per caso udiamo lodare l'uomo che amiamo, per qualche giorno ci pare di amarlo cento volte di piú, e l'idea che ci possa sfuggir di mano ci rende infelici, mentre forse poche ore prima non la ci faceva alcun effetto? Dunque anche l'uomo è giusto che pretenda nella donna la massima eleganza, e che sia offeso da tutto ciò che non è tale in lei. L'eleganza infine non è che una condizione del piacere, non cosí indispensabile, come molte altre, ma pure di gran peso. Se tu fossi stata sudicia, per esempio, non è forse vero che Emilio non t'avrebbe mai amata? Eppure saresti tu lo stesso. Dal sudicio al non elegante non c'è infine che un passo... Io le capisco benissimo queste cose, giacché; - continuò abbassando la voce e ridendo a mezza bocca - vuoi che ti faccia un'orribile confidenza?

Noemi fe' cenno di sí colla testa.

- Io non sarei capace di lasciarmi amare da un uomo che mi si presentasse senza guanti...

Noemi non potè tralasciar di sorridere.

- E tu? - chiese la Firmiani.

- Io, se amassi davvero, non me ne accorgerei; - rispose Noemi.

- Ah l'è un'altra questione codesta! - proruppe la cugina - Quando amassi davvero, neppure io non me ne accorgerei, oppure me ne accorgerei, e non cesserei certo di amarlo per questo. Ma invece, quando il mio cuore è indifferente ancora, quando per suscitarvi la fiamma vi abbisogna tutta la potenza d'un uomo, una piccola circostanza può bastare a lasciarlo freddo e insensibile davanti a qualunque passione, davanti a qualunque tattica. Sarò leggera, sarò ridicola... ma credo che su cento donne, se volessero consultarsi e dir la verità, forse novanta confesserebbero di essere del mio parere... Oh del resto tu sai che ogni regola ha le sue eccezioni. Tanto è vero che io stessa, io stessa, che da ragazza giurava che non avrei preso mai per marito un calvo, fra i cento mila milioni di uomini che vegetano in questa valle di lagrime... e di capelli... sono proprio andata a scegliere la piú gran piazza del mondo.

A questo punto il campanello del portinaio avvisò il servo dell'anticamera, che una visita ascendeva le scale.

Noemi si sentí dar un tuffo nel sangue e sospese l'attenzione.

La Firmiani se ne accorse e disse:

- È forse lui! Vuoi che gli facciamo dire che io non sono in casa? - soggiunse maliziosamente.

- Oh no! - sclamò Noemi con impeto - ma per carità non lasciargli trapelare nulla della mia confidenza.

Cristina sorrise e si gettò indietro nella sedia. Poco dopo s'intese aprir l'uscio e il servo annunciar nel gabinetto il signor Emilio Digliani.

Il giovine entrò colla sua solita disinvoltura, ilare in volto, e senza un'ombra di quell'emozione e di quel pentimento, che Noemi sperava di sorprendergli nello sguardo quando l'avesse veduta.

Ella abbassò gli occhi sulla fiamma del caminetto, e non li rialzò se non quando Emilio, dopo aver stretta la mano alla Firmiani, la richiese del saluto nell'egual modo.

Allora Noemi gli porse la destra con una occhiata lunga e mesta, che se non chiedeva pietà, spirava certo tenerezza ed amore.

Emilio - che la Provvidenza aveva creato buono, ma che subiva l'impero delle strane contraddizioni del suo misterioso carattere - non provava forse il bisogno di dimostrar il suo amore, se non quando la donna che amava, o che credeva di amare, gli si mostrava dura e indifferente.

Se Noemi lo avesse accolto ridendo, e con freddezza, egli non avrebbe creduto né a quel riso, né a quella freddezza, ma forse le avrebbe stretto la mano con maggior calore. Quello sguardo invece sommesso e appassionato, che appagava tutto il suo amor proprio, non gli fece provare che una gioia vivissima, e volendo goderne in piú larga dose, fu sostenuto e freddo.

Cosí è; le son cose che tutti sanno. In fatto di amore chi fa il primo gradino per scendere verso l'altro, deve bene spesso fare il secondo ed il terzo, prima che l'altro si muova. Una volta mosso, gli sarà lecito rifar i gradini, che l'altro lo seguirà, e viceversa fino alla consumazione dei secoli. Chi fugge si fa correr dietro, e chi corre dietro invita l'altro a fuggire. Fermatevi, perbacco, di quando in quando a prender fiato, e vedrete l'altro, prima rivolgersi indietro, poi rallentare la corsa, poi fermarsi a guardar se venite...; e, se non venite, si moverà egli pel primo verso di voi.

Ma Noemi amava troppo per usare di queste arti e di questa tattica, ancorché le avesse conosciute. Ell'era troppo sincera, ella aveva nell'anima troppa ingenuità, dirò quasi, troppa ignoranza, per non essere in faccia al suo amante quale si sentiva di essere. Nondimeno la cara donna si sapeva cosí innocente, cosí immeritevole del rigore di lui, che quella freddezza prolungata e senza causa la irritò piú che non l'addolorasse.

Cristina che vedeva tutto, mostrando di non veder nulla, ne godeva.

Allora incominciò fra loro tre una conversazione senza scopo, bislacca, a tastoni, che sarebbe impossibile riprodurre... una conversazione ora arguta, ora sentimentale, condita di piccole ironie, di allusioni e di frasi a doppio taglio...

Emilio, se l'estro gli dava, era pieno di spirito. Cristina, come tutte le donne cattive, ne aveva di soverchio. Quanto a Noemi - sebbene ella fosse tutt'altro che insipida, come qualche sua amica invidiosa di sua bellezza, andava dicendo, - era troppo buona e troppo innamorata per averne assai. Anzi ricominciava a soffrire di trovarne tanto in Emilio. La cara donna sapeva che chi parla dell'amore con molto spirito non lo risente in cuore, giacché l'amor vero, profondo, come lo avea sognato in lui, rende muto e malinconico un amante. Emilio invece ne parlava con una disinvoltura ed una grazia che poteva essere amabile per tutti, tranne che per lei.

Finalmente, poco dopo che erano battute le undici al pendolo del caminetto, il servo entrò annunciando a Noemi che la sua carrozza era alla porta.

Ella si levò da sedere, lanciando ad Emilio un ultimo sguardo di cordoglio. Oh come a quell'estremo punto si sarebbe gettata volontieri nelle sue braccia, se la nativa fierezza, e la presenza di Cristina, non glielo avessero vietato.

La Firmiani la andava accarezzando, e le diceva di venir presto, presto...

Emilio in piedi e pensieroso, pareva stesse covando in cuore il rimorso della sua crudele condotta.

Quando Noemi si ebbe cinto il boa intorno al collo, si accomiatarono.

Giunti a capo della scala, il giovane le offerse il braccio per discendere, ed ella si sentí consolare, sperando che ei volesse finalmente stringerle la mano e dirle una parola di conforto e di pace...

Ma Emilio nulla; giacché anch'egli dal canto suo aspettava da lei un segno di amore; aspettava - per dirla in linguaggio da innamorati - ch'ella fosse la prima.

Quando furono sotto l'andito della porta, Emilio abbandonò il braccio di Noemi, e stette a vederla entrare in carrozza. Allora la cara donna non potè resistere oltre, e cedendo al suo cuore, al terrore di dover passare un'altra notte in collera con lui, quando fu seduta, si attaccò all'ultimo, sebbene imprudente, mezzo che le restava, e disse:

- Se la vuol entrare la accompagnerò a casa.

E, certa che Emilio non avrebbe rifiutato, si tirò nel canto con un mesto sorriso.

Emilio ebbe in quel punto un'infernale ispirazione dell'amor proprio, anzi dell'orgoglio.

- No, grazie, madama - rispose egli con voce fredda - non posso; bisogna che vada al caffè.

E auguratale la buona notte, chiuse lo sportello, e disse al cocchiere:

- Avanti.

Noemi, a quel rifiuto ingeneroso, sentí come una mano che le strinse il cuore... e nel primo moto di angoscia, non potè trattenersi, dal picchiar colla mano nel cristallo alzato dello sportello, come una donna che cerca soccorso.

Fu un moto istantaneo ma sublime di dolore, di passione, di rassegnazione.

Il cocchiere sferzò i cavalli e partí. Ella sperò un momento ancora che Emilio pentito lo facesse fermar di nuovo per salire; ma quando vide che ei non volgeva neppur il capo, si gettò nel canto della carrozza e diede in un dirottissimo pianto.

Ora a chi domandasse quanta parte avesse la gioia dell'aver rifiutato, e quanto il pentimento e il rimorso nel cuore di Emilio, risponderei subito a onor del vero, che la gioia non fu che un lampo, e il rimorso lungo e cocente.

Quel gesto, che il superbo e crudele rifiuto aveva strappato a Noemi, e, con esso, il pensiero delle amarissime lagrime che la povera donna stava forse versando in carrozza... si affacciarono tosto alla mente, e piú che alla mente, al cuore di Emilio, e parlarono forte il loro severo e pietoso linguaggio.

Vi fu un momento anzi che il rimorso di quell'amoroso misfatto lo vinse in tal modo, che, quasi per un moto irriflessivo, si diede a correre, sperando di poter raggiungere la carrozza. Ma dati soli tre passi s'avvide che ancorché l'avesse raggiunta, or non avrebbe potuto piú rimediare a nulla.

Allora, piena l'anima di un'amarezza, di un odio di sé stesso e di tutti, fissando in cuore di scrivere il domani a Noemi, prese la strada che conduceva al caffè S. Carlo.

Perché al caffè S. Carlo e non al Martini, dove era solito recarsi ogni sera, verso la mezzanotte?

Eppure egli non ci aveva nulla a fare al caffè S. Carlo!

Oh il cuore è pure il gran tiranno! e la volontà, sua umile schiava, si piega al piú piccolo suggerimento, al piú lieve capriccio di esso, mentre s'impenna e resiste, e contraddice alle voci minacciose e pur potenti della ragione, della giustizia, e perfino della necessità.

Chissà quante magnanime azioni, chissà quanti delitti destati da un moto leggerissimo di questo muscolo cavo, che è il piú grande amico, e il piú grande nemico dell'uomo!

Ed ecco perché Emilio s'avviò al caffè S. Carlo, e non al Martini.

Quando Noemi lo aveva invitato in carrozza, egli aveva risposto: No, bisogna ch'io vada al caffè.

Noemi sapeva che il caffè dove ei soleva andare a mezzanotte era il Martini. Ora, siccome il Martini era precisamente sulla strada che la carrozza doveva percorrere per andar a casa, il pretesto del suo rifiuto non reggeva.

Quando fu solo, col rimorso che gli sorgeva nell'anima, questo ragionamento produsse il suo effetto logico; e quasi per iscusar sé stesso, o per trovar poi una scusa da rispondere a Noemi, quando le avesse rinfacciato quel rifiuto crudele, invece di tenere la stessa strada della carrozza prese per la sinistra verso il caffè S. Carlo.

Quella scusa era frivola, era puerile; chi non lo vede? Ma quanto piú frivola e puerile, tanto piú è preziosa per noi; giacché mostra a quali miserabili appigli si attacca talvolta l'amor proprio per illuder sé stesso, per darsi ragione, per fingere almeno di non aver avuto torto.

- Stolto! - gli gridava da un lato la voce del criterio - Se tu avessi avuto bisogno di andare al caffè S. Carlo, la carrozza di Noemi vi ti avrebbe condotto ugualmente!

- Ma; - replicava quella dell'amor proprio - Noemi avrebbe dovuto allungar la sua strada, il che sarebbe stato un incomodo ch'io non voleva darle.

- Ipocrita! - tornava a gridar la ragione - Incomodo per chi? pel cocchiere? pei cavalli forse? Tu avevi pur veduto che Noemi bruciava di far pace con te, e che lo stesso invito era già una caparra di perdono e quasi di pentimento.

Ripeto - forse a qualche lettore, tutto ciò parrà ben frivolo e puerile.

Mi duole assai di non essere del suo parere. Nulla v'ha di frivolo nello studio dei moti del cuore. Se la povera Noemi - per esempio - avesse raccontato a suo marito - l'uomo grave - per quali ragioni ella si fosse innamorata di Emilio, l'uomo grave le avrebbe trovate assai frivole quelle ragioni; se ella avesse detto: una sera... trascurata, incompresa da te, venne un giovane, il quale, col piú gran rispetto del mondo, mi seppe dire di qual colore fossero i nastri d'un mio cappello, e dello stivaletto, che calzava il mio piede tre anni prima... ed io, senza avvedermi, sentii accendermi a poco poco per lui di una fatale passione... - l'uomo grave - che non soleva dar importanza che ai prezzi di Borsa e alla quistione d'Oriente, avrebbe crollate le spalle con noncuranza...

Lo sventurato non sapeva quale tremenda sciagura gli stavano preparando le frivole ragioni!

Emilio entrò dunque in caffè S. Carlo, e il suo viso era cosí tetro e stravolto dall'interna lotta, che il fattorino gli chiese se si sentisse male.

In quel punto l'amarezza dell'anima sua era giunta all'estremo, e il rimorso al punto di maggiore incandescenza.

Emilio, seguendo la sua natura violenta, cominciava a sentir nelle mani il bisogno di una lotta fisica, che nell'emozione del combattimento gli facesse sfogare il suo corruccio...

La sua natura potente, ma un po' materialista, come quella di noi tutti figli del nostro secolo, non sapeva concentrarsi in sé stessa per istudiare le fasi di un dolore che ha sempre la sua voluttà per chi vuol trarne ammaestramento per l'avvenire. Sentiva invece un gran bisogno di espandere fisicamente la sua bile... e cercava una vittima.

E la vittima non si fece lungamente aspettare.

Entrato a caso nella sala posteriore del caffè, vide un suo amico - un altro dei sette - che stava altercando con due ignobili ceffi, di quei passeggiatori di notte, la cui vita giornaliera comincia coll'accendersi del gas e termina coll'apparir del sole...; specie di nottole umane, campioni della vita scioperata e viziosa, che sarebbero stati usurai se avessero avuto denaro da dar a un povero figlio di famiglia, barattieri sempre, quando potevan trovare il piccione da spennare, ladri fors'anche, e spie, se avessero avuto il coraggio di rubare, o se la polizia avesse saputo fiutarli.

Questa genía, che a Milano era un po' piú numerosa di quella che potesse credere una gentildonna che vedesse la città dal suo gabinetto, dal palchetto della Scala, dai salons di conversazione, e dalla trottata sugli spalti - eterno quadrivio in cui s'aggirava la vita di una donna elegante milanese - questa genía sozza ed infame, rifiuto di scapigliatura, pullulava nelle bische frequenti che in quell'anno parevano autorizzate nei pubblici caffè, dove il macao e il fioccone attiravano molti giovani avidi di emozioni e di stordimento... i quali, dacché nel 48 avevano veduto aprirsi il cielo, non potevano rassegnarsi a rivivere tranquillamente nel vuoto e nella noia della schiavitú lombarda.

Emilio si fermò ad ascoltare il diverbio fra que' due uccelli di rapina e il suo amico Alfredo Gastoni, e vide che con un far minaccioso gli si stringevano alla vita.

In caffè non c'era piú altr'anima viva, che qualche fattorino addormentato sul sedile lungo il muro. Gli avventori erano stati chiamati nella sala superiore dalla fama di un famoso banco di macao, di cui non s'aveva avuto memoria da un pezzo.

Il giovine con cui l'avevano que' due mascalzoni, premendogli di andar a giuocare, né volendo star a litigio in un caffè, trasse, come si usa, il portafogli, e disse:

- Or non ho tempo di ascoltare le loro signorie; però questo è il mio biglietto di visita.

- Che biglietto! Non so che farne del suo biglietto! - disse con voce rauca uno di quei due, dando una manata sotto la destra di Gastoni, e facendo saltar in aria il portafogli.

Gastoni si curvò per rilevarlo... Ma prima che il portafogli toccasse terra, Emilio s'era slanciato contro il mascalzone, e gli aveva lasciato andare in viso un potentissimo pugno.

Ne seguí un piccolo parapiglia. I fattorini del caffè s'interposero, e fecero uscir i due ribaldi che s'allontanarono minacciando vendetta.

Gastoni, dal canto suo, ridendo a piena gola di quel pugno cosí ben dato, prese a braccio Emilio e lo trascinò verso la scala che mette alla sala da giuoco.

- Hai molti denari da perdere? - gli chiese Emilio, montando due a due i gradini dell'angusta scaletta.

- Ho gli ultimi dodici marenghi delle duecentocinquantamila lire che mi lasciò mio padre morendo - rispose Gastoni.

- E poi?

- E poi, o in un reggimento di cavalleria piemontese, o una buona palla di pistola nel cuore.

E per quella notte Emilio dimenticò Noemi.

Il giorno dopo la povera Noemi era stata messa a piú terribile prova.

Aveva rifiutato di accompagnare il nonno alla trottata prima di pranzo, e se ne stava nel suo gabinetto mestamente seduta ad una finestra, che guardava sulla corte, quando vide entrar in casa suo marito, accompagnato dal suo agente di cambio, al quale ei parlava piú vivamente del solito.

Noemi dal giorno della colpa non poteva vedere suo marito senza provare nell'animo un senso di torbida paura.

Che non fu dunque, allorché, - intesolo entrare nella stanza vicina, mentre l'attraversava per entrar nel suo studio - lo udí pronunciar distintamente il nome di Emilio Digliani?

La sventurata donna sentí arrestarsi il sangue nelle arterie, e un freddo mortale invaderle il corpo. Portò le mani alle tempia, come se vi provasse un gran dolore e sclamò fra sé:

- Sa tutto! Sono perduta!

Questa idea le si affacciò in tutta la sua terribile gravezza... e sentí paura.

Il Dal Poggio si fermò nel suo studio, che era attiguo al gabinetto in cui si trovava Noemi.

Ella si levò barcollando; sulla punta dei piedi s'accostò all'uscio, e trattenendo l'alito, stette ad origliare.

- Il fatto è che ci vuole una bella audacia a quest'ora; - diceva l'agente di cambio, terminando una frase di cui Noemi non aveva potuto cogliere il resto - E la ferita è grave?

- Non lo so; - rispose il Dal Poggio - Non ebbi tempo che di arrestar il feritore che mi veniva incontro e di consegnarlo alla guardia di polizia. Fortuna volle che il colpo gli fu dato precisamente sulla porta di casa sua, mentre entrava. Almeno cosí mi dissero. Credo che mia moglie lo debba conoscere questo signor Digliani. Mi pare di averlo udito nominare da lei una volta...

E qui, troncando a un tratto su quell'argomento, soggiunse:

- Veniamo a noi... Dite dunque che il rialzo d'oggi...?

Noemi ne aveva udito abbastanza per rimettersi dal suo primo terrore... quello cioè che suo marito sapesse il suo fallo.

Ma, come se fosse deciso che la misera donna non dovesse uscir da una angoscia che per cadere in un'altra piú grave, invece di sentirsi sollevata, provò un nuovo e piú forte sgomento.

Egli è che per una donna innamorata come la povera Noemi, è piú sopportabile una sventura propria che non quella da cui è colpito l'essere adorato; mentre prima ella non sentiva minacciata che sé stessa... ora si trattava della salute... forse della vita di Emilio.

Si staccò dall'uscio e si lasciò cadere di nuovo nella sua sedia, colla testa nelle mani. Che fare? Ma non aveva mossa intera la domanda, che la passione aveva già suggerito un intero piano in risposta.

S'alzò, corse allo specchio. Era pallida, sí, ma non tanto che con un sorriso non potesse dissimulare sul suo volto l'angoscia che la uccideva. Si provò a sorridere... Le parve che suo marito non dovesse accorgersi di nulla;... sforzò le labbra ad atteggiarsi alla gioia;... poi chiamando a raccolta tutte le forze dell'anima sua, armandosi di tutta la disinvoltura di cui fosse capace nello stato in cui si trovava, andò all'uscio dove poco prima era stata origliando, ed apertolo entrò sorridente nello studio di suo marito.

- Vengo ad avvisarti che oggi non sto in casa a pranzo; - diss'ella quasi precipitosamente, e prima che il Dal Poggio avesse tempo di aprir bocca.

Poi fingendo di vedere in quel punto l'agente di cambio, che s'era levato da sedere al suo entrare, accennò di ritirarsi.

- Dove vai? - chiese il Dal Poggio seduto allo scrittoio.

- Cristina mi ha invitato per questa sera ad una piccola cena di nascosto di suo marito... fra le otto e le dieci. Per farle onore ho pensato di non pranzare, e siccome dobbiamo studiar insieme un certo non so che, cosí conto di andare da lei tra poco.

- Ora non sono che le cinque; - disse il Dal Poggio - Saranno a tavola.

- Non dico ch'io ci voglia andar subito; - rispose Noemi, che parlava cogli occhi abbassati come un fanciullo che teme un rifiuto. - Del resto sai che i Firmiani vanno a tavola prima di noi.

Il Dal Poggio crollò il capo e non soggiunse che:

- Donne! donne!

E si riponeva a far una moltiplica; ma riprese tosto:

- Mi pare però che potresti fermarti a casa a pranzo, e andarci dopo da Cristina.

- Lo so... ma sarebbe perduto lo scopo principale... Abbiamo bisogno di trovarci sole noi due... D'altronde io non potrei pranzare ugualmente in casa.

- E il nonno lo sa?

- No; mi sono scordata di dirglielo prima che montasse in carrozza.

- Basta! - sclamò il Dal Poggio, e si volse di nuovo alla sua moltiplica.

Noemi uscí; corse nella sua camera; si mise il cappello lo scialle; quasi furtivamente discese in istrada, e s'avviò lesta al piazzale piú vicino dove stazionavano le carrozze a nolo.

Cinque minuti dopo essa smontava alla porta di Emilio e diceva al cocchiere di star ad aspettarla.

Era sull'imbrunire. Entrando nell'anticamera di Emilio udí nella sua stanza da letto un rumore di voci. Non ci badò, non rifletté un istante, come se non avesse mai pensato a riputazione, come se poco prima non avesse provato quale sgomento fosse per lei il pensare che suo marito sapesse tutto.

Entrò.

La camera era buia per lei che veniva dal di fuori.

Udí solo il rumore di due persone che si levavano da sedere; ma non le vide, né si curò di vederle. I suoi occhi stavano avidamente fissati su un punto solo... sul guanciale del letto di Emilio.

Noemi vi si accostò, e stava appunto per curvarsi sulla bruna testa, che ella aveva già veduto spiccar sul bianco origliere, quando sentí una voce senile pronunciare a bassa voce queste parole:

- Signora, la prego... non lo svegli.

Noemi si volse e vide, attraverso lo spesso velo che le copriva il volto, un vecchio venerabile dalla fisonomia dolce e buona che le additava Emilio che dormiva.

- C'è pericolo? - gli chiese Noemi, ritirandosi un passo indietro.

- Tutt'altro, - rispose il vecchio - ma ha bisogno di riposo. Erano trentasei ore che non dormiva. Questo povero giovine ha dei dispiaceri segreti e cerca di stordirsi... se non altro durante il sonno lo lasceranno quieto.

- E la ferita? - replicò Noemi.

- Non c'è ferita; fu un colpo di bastone sulla testa e uno nel petto che lo tramortirono senza recargli gran danno. Domani potrà levarsi piú sano di noi.

- Ma e il sangue?

- Non fu che un po' dal naso pel contraccolpo.

- Ma come avvenne? - ripigliò Noemi che si era seduta sulla scranna accanto al capezzale.

L'altro che non aveva ancora parlato - ed era Gastoni - le raccontò la scena della sera prima in caffè S. Carlo e come, dopo aver passata la notte al tavogliere da giuoco, fosse loro venuto il ghiribizzo di andar a prendere due cavalli a nolo, per galoppar fino a Sesto a far un po' di colazione. Come di ritorno, dopo aver lasciato giú i cavalli, Emilio fosse stato assalito sulla soglia della porta dai due furfanti della sera prima, che avevano avuto la pazienza di attenderlo fino allora.

- Il colpo fu abbastanza forte per fargli perdere i sensi, - conchiuse egli - non per ferirlo.

- Ed ora? - interrogò Noemi.

- Ora egli dorme; - rispose il vecchio che aveva preso in mano il cappello per andarsene - Quando si sveglierà sarà guarito dalla di lei presenza.

Cosí detto s'inchinò, ed uscí dalla stanza seguito da Gastoni.

Noemi vegliò il suo amante, finché il rumore che fece entrando la portinaia la quale veniva ad avvertirla che il cocchiere del brougham chiedeva di lei, non lo ebbe svegliato.

Emilio, trovando al capezzale il suo angelo che avrebbe pur avuto tanta ragione di essere con lui in collera, fu vivamente commosso.

La riconoscenza gli ispirò di quelle parole ardenti e sincere che se non sono amore, ne han tutte le apparenze, e la povera Noemi si trovò adorata come nei primi giorni.

Quand'ella discese le scale di Emilio erano quasi le dieci.

La carrozza da nolo l'aveva aspettata quattro ore alla porta.

Prima di montarvi stette perplessa un istante; poi decise di passar da Cristina e indicò al cocchiere la contrada dove essa abitava.

Giuntavi, trovò che la sua porta era chiusa. Allora si fe' condurre a casa.

Montando le scale, le ripigliò un'ansia angosciosa che suo marito avesse saputo ch'ella non era andata da Cristina; e si fermò sul pianerottolo a pensare che cosa gli avrebbe risposto nel caso che le domandasse dove aveva passata la sera.

Ormai anche la menzogna si faceva necessaria, inevitabile.

Fortunatamente suo marito - come il solito - non sapeva nulla di nulla, non s'era curato di lei. Solo la mattina seguente le chiese come fosse andata la cena da Cristina.

- Bene! - rispose Noemi fingendo di metter ordine a qualche cosa sul camino.

Il nonno pure, quando era entrata a dargli il buon giorno, volle saperne per filo e per segno... La sventurata aveva dovuto inventare perfino dei particolari, mentir tutto, mentire a lungo.

Cosí di spasimo in ispasimo, di spavento in spavento, di errore in errore, ella era giunta a tale, che ogni sera, mettendosi a letto, pregava fervorosamente il buon Dio di non destarla al mattino, di farla dormire per sempre.

Abbiamo veduto come, il giorno dopo quella sua visita a Emilio, il nonno avesse invitato a pranzo Cristina e suo marito; come questa fosse stata indettata da Noemi, di non tradirla se si fosse parlato di una cena... e come le indiscrete domande del marito Gerolamino non avessero per poco scoperto ogni cosa.

Dal canto di Emilio abbiam veduto come già perfettamente guarito, allegro, spensierato, si accingesse a celebrar con una gran cena la vincita della lotteria di Francoforte, dopo aver liberato Teodoro dalla prigione.

CAPITOLO SESTO DA GALEOTTO A MARINARO

Il pranzo Firmiani non fu molto allegro.

Noemi si sforzava di sorridere, or a questo, or a quel convitato, e di rispondere con garbo agli omaggi e alle domande che le venivano dirette da ogni parte; ma erano risposte tronche, e sorrisi a fior di labbro, che nascondevano a stento la preoccupazione dell'anima sua.

Finalmente Noemi diè la levata, e offerto il braccio, come il solito, al nonno, fe' ritorno in sala, seguita da tutta la comitiva.

Noemi dopo il caffè si mise al pianoforte; la Firmiani si sedette presso al nonno.

- Dunque, signora Cristina, - sclamò il vecchio conte, col suo fare lusinghiero e minchionatorio - lo vediamo o non lo vediamo questo nipotino... questo pronipotino?

Cristina non mostrò d'essere molto meravigliata di quest'uscita del conte. Sorrise, crollando leggermente il capo, e rispose:

- Ah, caro nonno, a lei non si ponno nascondere certe cose. Ma bisogna pensare che dalla nascita del mio povero Lorenzino sono passati diciott'anni.

- Diciott'anni! - sclamò il vecchio, come se non lo sapesse - Il tuo Lorenzino avrebbe già diciott'anni?

- Pur troppo! - sclamò la Firmiani sottovoce - Sa lei, piuttosto, caro nonno, a chi deve fare quella raccomandazione?

- A Noemi, non è vero? - disse il nonno - Oh certo! Ma! Povera Noemi! è tanto gracile!

- Sicuro! - sclamò Cristina volgendo il capo verso di lei, che stava al pianoforte suonando un pezzo della Lucia - E se ho da dir io, da qualche tempo la trovo un po' cambiata.

- Cambiata? Cambiata in che senso?

- Non saprei... Di faccia e forse anche un po' di modi. È piú pallida, e meno allegra d'una volta.

- Ah! - sclamò il nonno - pur troppo! Ella protesta di star bene, e di non aver nulla... ma, naturalmente, non c'è che suo marito che le creda... Del resto, - soggiunse socchiudendo gli occhi come soleva fare quando stava per dire qualche cosa di piccante - non mi darai ad intendere che ella non t'abbia già fatto le sue confidenze. Tu mi capisci.

- Confidenze di che sorta? - chiese Cristina per pigliar tempo.

Ella avea bisogno di studiare un po' la condotta che le conveniva di tenere. Le poche parole dette dal nonno con una specie di indulgente indifferenza, contenevano in germe il segreto della trama ch'essa volgeva in cuore a danno di Noemi.

- Confidenze di infelicità... confidenze di donne... Via, Cristina, tu mi devi intendere a volo. Qualche cosa di diverso c'è nel cuore di Noemi; nessuno me lo leva dal capo... Ci vedo troppo. Non c'è che Emanuele che non capisce... non io. Del resto Noemi è troppo aperta per nascondere tutti i suoi sentimenti a un uomo che ha vissuto novant'anni come me... m'intendi?

La Firmiani guardò in viso al nonno con indicibile espressione di ingenuità.

Assolutamente quella donna era stata creata da Dio per entusiasmare il pubblico dal palco scenico d'un teatro.

All'udire il nonno parlare di ciò ch'ella avrebbe voluto insinuargli poco prima, e parlarne con tanta tolleranza, capí che bisognava voltar strada e cominciare a farsi un merito a' suoi occhi col difendere sua cugina e mostrar buon cuore.

- Capisco; - rispose - ma io non credo menomamente che Noemi sia per mancare neppur in pensiero ai doveri che...

- Mancare! - interruppe il nonno parlando sempre sottovoce - Chi parla di mancare ai suoi doveri? Anche Emanuele, se si viene in discorso, non parla che di doveri coniugali, come se fossero azioni di strade ferrate o cartelle del prestito. Egli crede di essere un uomo positivo e non vive che di massime... Io non dico che Noemi stia menomamente per mancare in nessuna guisa... ma, principiis obsta, sero medicina paratur.

- Che vuol dire?

- Vuol dire, per bacco, di star attento in principio. Ora so che, fra donne, certe cose non si nascondono... e mi volgeva a te... capisci?... Se Noemi non fosse quella che è.... un po' romantica... un po' testa calda... non temerei... Sono uomo di mondo. Perché, infine, se non ci pensa suo marito, non so come avrei a farmene io uno scrupolo... Ma essa è tale che se sfortunatamente dovesse pigliare una passione... guai a lei!... Ti pare? Che ne dici?

Cristina dovette risolversi, bisognava o fingere di non saper nulla, o svelare il segreto di Noemi. Ma quel vedere che il nonno mostrava piú compassione che sdegno, la persuase a tenersi al primo partito.

Rispose però in modo che il nonno dovesse sospettare ch'ella non dicesse la verità.

Egli stette un po' in silenzio, soprapensiero, poi soggiunse:

- Eppure io non m'inganno; ella ha qualche cosa, o per meglio dire, qualcuno pel capo...

- Oh che cosa dice, caro nonno? Dove la vuol mai che Noemi abbia potuto...?

- Ah! - interruppe il vecchio - in casa tua per esempio. È da qualche tempo che essa mi trascura un po' alla sera per venire piú spesso da te... L'è gelosia bell'e buona codesta che mi fa parlare...

La Firmiani si sforzò di ridere, per togliersi all'imbarazzo crescente di quel dialogo.

- Ti ripeto che io non ci penserei, se non temessi pel suo riposo, per la sua felicità... Se ella fosse soltanto come un'altra mia nipote che ha nome Cristina... per esempio...

Questa ruppe a rider di nuovo, a scroscio.

Il nonno continuava sottovoce:

- ... lascerei che pensasse ella stessa alla propria felicità. Ma Noemi è un'altra cosa; e la poverina mi ha già dato molti sintomi allarmanti...

- Le giuro, caro nonno, che...

- Zitta, non voglio che tu mi giuri nulla su queste cose. Capirai bene che io sono persuaso che tu, ancorché sapessi tutto, non vorresti dirmi nulla. Ma nel caso che tu non sappia, ti prego, mettiti in guardia, e studia ogni mezzo di salvarla.

- Oh Dio! - sclamò Cristina - di salvarla? Ella dunque corre un vero pericolo?

Il Firmiani lanciò uno sguardo scrutatore in viso a Cristina che lo sostenne imperterrita.

- Dunque tu non ti sei proprio accorta di nulla? - sclamò egli quasi convinto.

- Ma in nome di Dio di che cosa?

- Oh! di che cosa ho parlato finora? - proruppe il nonno - Ascolta - continuò volgendo il pollice della mano verso il pianoforte da cui Noemi traeva suoni strazianti e tali che non possono uscire che dalle dita di donna innamorata. - Ascolta. L'hai tu udita mai suonare in questo modo? Credi tu che queste note sieno l'effetto dell'amore ch'ella porta a suo marito?

- Ah! la mi lasci dunque dire, caro nonno, che questa volta ella sogna ad occhi aperti. Noemi ha sempre suonato il cembalo perfettamente. E, quanto al resto, pretendo d'intendermene un po' anch'io; tanto piú che Noemi non mi ingannerebbe; e allora, come io le voglio tanto bene, sarei stata la prima a vegliare sopra di lei; cosí posso garantire che su questo argomento non c'è da temere... Sa piuttosto, caro nonno, che cosa la rende triste, da qualche tempo?... Il sapere che Emanuele giuoca disperatamente alla borsa...

- Oh non lo credo; - disse il nonno - Tanto piú che Emanuele non giuoca disperatamente...

Cristina si morse le labbra e continuò con finto calore:

- E sopratutto, è il dolore di non poter avere un figlio...

- O questo sí. Povera Noemi! Ma non basta; e se non ne sai piú di me, bisogna dire ch'ella non abbia lasciato trapelare nulla neppure a te...

- Oh guarda! - sclamò Cristina coll'aria piú buona e compassionevole del mondo - perché, caro nonno, vuol ella a tutti i costi farle questo torto?

- Che torto, che torto! S'ella avesse sciaguratamente a farsi un amante, il torto sarebbe piú di qualchedun altro che di lei.

Sí dicendo, die' un'occhiata al Dal Poggio, che stava gravemente discutendo i destini di Europa con Gerolamino.

- Dunque la crede, caro nonno, che Noemi abbia una ragione di non amarlo piú suo marito?

Il vecchio cominciò per rispondere di no, crollando il capo. Era questo un moto fatto in lui abituale da un non so quale spirito di contraddizione e di sottigliezza, che gli dettava ogni risposta.

- Amare un altro uomo, - diss'egli sempre sottovoce - per una donna maritata non vuol sempre dire che ella non ami piú suo marito, né che suo marito meriti di non essere piú amato. A te non farebbe bisogno di dirle, queste cose. I due amori sono d'una natura cosí diversa che possono benissimo star insieme, non dirò facendosi buona compagnia, ma senza prendersi pe' capegli. La questone non è qui, del resto. La questione è di scoprire chi sia l'oggetto de' suoi pensieri... e della sua malinconia.

Il dialogo fu interrotto dagli applausi che Noemi avea strappato dalle mani degli invitati; e per quella sera non fu punto ripreso.

Noemi levatasi sorridente e commossa, venne a baciar in fronte il buon vecchio che stava parlando di lei colla sua segreta nemica.

La Firmiani se non aveva accresciuto il sospetto del nonno, diminuito non glielo aveva di certo. Quantunque il buon vecchio non avesse in mente di farne parola al Dal Poggio, partiti che furono gli invitati, e rimasto solo con lui - mentre Noemi era uscita anch'essa dalla sala per accompagnare Cristina fino all'uscio - non potè a meno di sclamare con un po' di malumore:

- Adesso Noemi andrà di fuori e si piglierà un colpo d'aria! Mi pare, Emanuele, che tu me la trascuri un po' quella figliuola.

Era la prima volta dopo quattro anni che il nonno diceva al marito di sua nipote una frase che tenesse un po' del rimprovero... A chiunque altri avrebbe fatto un po' di senso. Al Dal Poggio, no. La natura lo aveva dotato di una intelligenza perfettamente in equilibrio col suo carattere.

- Non so che faccia tanto freddo, - rispose egli senza volgere il capo verso il vecchio - per temere quello che voi dite, caro nonno; del resto io non la trascuro menomamente.

- Se ti dico questo, - ripigliò il Firmiani quasi un po' pentito di essersi lasciato sfuggir quella frase - non è già per farti un benché minimo rimprovero...

- Lo credo perfettamente; non saprei di che cosa si potrebbe rimproverarmi...

- È solo, - continuò il vecchio - che mi par di capire che Noemi abbia bisogno di essere... un po' piú... soignée..., che so io... un po' piú distratta...

- Distratta! - ripetè il Dal Poggio con una certa maraviglia - Distratta in che modo?

- Oh Dio! non saprei... cosí... come si distrae una donna che, secondo me, comincia a impensierirsi un pochino... Non trovi tu che ella sia diventata un po' malinconica da qualche tempo in qua?

- Sarà forse, caro nonno, ma io né me ne sono accorto, né avrei avuto il tempo di accorgermene.

- Che diamine, nipote mio! So che tu dici, come gli Inglesi, che il tempo è denaro; ma per accorgersi di certe cose non fa bisogno di tempo, fa bisogno di occhi.

- Ed io vi ripeto, nonno, che gli occhi, mi avranno forse ingannato, ma non mi fecero accorto di nulla.

- Ebbene, ti dirò allora che io ho osservato in vece tua.

- Ma, - sclamò il Dal Poggio un po' piccato - in tutti i casi io non ne avrei colpa...

- Ah! vedo che tu pigli la cosa diversamente da quello che m'intendo io...

- Tutt'altro; la piglio come merita di esser pigliata:... sul serio.

Il nonno crollò il capo quasi dispettosamente.

- Caro Emanuele, tu non puoi credere che io dal canto mio possa scherzare su una cosa che riguarda Noemi...

- Ma siccome so che di quando in quando vi piace di barzellettare!... Io non ho questo vantaggio...

- Dunque la quistione non era ben posata. Tu mi parlasti di colpa, come se io volessi farti un rimprovero... ciò che non è. Non si tratta di sapere se tu abbia colpa o no... si tratta che Noemi non è piú come una volta; è impensierita;... ha perduto ogni allegria...

- Ma in tal caso non v'intendo. Che cosa volete che vi faccia io?

Il nonno cominciava a dimenarsi sulla sedia con impazienza.

- Caro Emanuele, in queste cose non si ponno dar ricette come per la febbre terzana o scarlattina. Mi pare però che volendo pigliarsi a cuore la cosa, mezzi non ne mancherebbero... a un marito...

- Ah caro nonno, voi finirete col farne un enfant gaté di mia moglie...

Il Firmiani atteggiò la fisonomia al sorriso, e sclamò:

- Eh! mio Emanuele, se non la è diventata finora sarà molto difficile che lo diventi nel tempo che mi resta a vivere... Del resto non è che io voglia farne un enfant gaté;... è che io l'amo come padre, tu come marito.

- Bene; non saprei che cosa ella potrebbe desiderare di piú? - sclamò il Dal Poggio.

Il vecchio fece un gesto colle mani sui bracciuoli della sedia, come a dire: Questo è troppo, per esempio!

Ma dissimulando, seguitò:

- Siamo entrati nel cuore della quistione. Poniamo che Noemi desiderasse qualche cosa di piú...

- Oh! ella non ha che a dirmelo. Quand'è ch'io le ho rifiutato ciò ch'ella mi mostrò desiderio di avere?

A questo punto l'impazienza del vecchio s'era cangiata in una specie di meraviglia.

- Ma spero bene, - disse - che avrai capito che non si tratta di cappellini o di palchi in teatro!...

- Allora non intendo ancora a che cosa vogliate venire, caro nonno.

- Dio mio! lo vedo; - sclamò questi - è una sfortuna che non ci possiamo intendere a prima vista... è una stranezza anche! Mi pare che non fosse cosí una volta. Dipende dalla diversità delle nostre opinioni in fatto di donne. Si può dire che abbiamo un modo di vedere al rovescio della nostra età rispettiva. Io, non so come, sono il giovine, tu sei il vecchio. Io parto dal principio della natura, tu parti dal principio dell'autorità e del dovere...

- Sarà forse cosí, giacché avete trovato questa distinzione. Io non ho mai avuto la pretesa di essere un filosofo... io.

- Ma che cosa intendi tu per essere filosofo?

- Eh! che so io?... Frascherie!... Cose inutili!

- L'ho detto io che noi facciamo una figura assurda. Ascolta un po', Emanuele; poniamo che Noemi... è un'ipotesi un po' slanciata... ma poniamo che Noemi s'innamori...

- S'innamori di chi? - chiese Emanuele aggrottando le ciglia.

- Eh mio Dio! di chi? Dell'uomo che le toccasse il cuore...

- Impossibile! - disse il Dal Poggio - conosco troppo Noemi.

- Ma questa è una frase vecchia, mio caro Emanuele. In che maniera la conosci tu, Noemi, per dire che è impossibile ch'ella possa innamorarsi d'un altr'uomo...? Poc'anzi mi confessasti che non ti eri accorto ch'ella era malinconica e sopra pensiero. Su che cosa appoggi quella tua sicurezza? Mi farai un gran piacere se mi mostrerai di saperlo...

- Ma in verità, nonno, si direbbe che stasera...

- No, non si direbbe nulla! - interruppe il vecchio, vivace - Dimmi soltanto perché credi impossibile che a Noemi non possa piacere qualche giovinotto... tra quelli che le fanno la corte?

- Oh per Dio santo! - gridò il Dal Poggio - perché ella l'avrebbe a fare con me...

- Zitto! - disse il vecchio imperiosamente - noi alziamo troppo la voce. Orsú, Emanuele, ragioniamo senza scaldarci... come se si trattasse d'un'altra donna. La tua risposta non val nulla, come vedi: la ti è sfuggita dal fegato, non dal cuore. Noemi l'avrebbe a far con te, solo quando ella tradisse i suoi doveri di moglie. Ora capirai che dalla nostra ipotesi a quel punto c'è un abisso.

- Gli è, caro nonno, che io credo che il dovere di moglie cominci dal restar fedele a suo marito anche in pensieri.

- Ammetto. Ma allora non si può dire ch'essa debba aver a farla con suo marito. La giustizia umana per punire non va a scrutare l'intenzione della colpa, punisce la colpa quand'è commessa...

- Ah! in verità lasciatemelo dire, nonno, se io non conoscessi Noemi, dovrei temere che voi vogliate farmi capire qualche cosa di orribile.

- Mi pare d'aver detto che non parlavo né di te, né di Noemi; parlavo in generale...

- Dunque è una discussione che volete fare?

- Perché no?

- Facciamola pure.

- Credi tu che il dovere basti sempre e in ogni caso a preservare dalla passione?

- Io sí lo credo. A me basta.

- Ecco l'errore. Alle donne non può, né deve bastare.

- Alle donne perdute!

- No... alle donne che si perdono. Si chiama perduta la donna quando ha già mancato al dovere. Ma prima... quand'essa sta per cadere, e potrebbe essere salvata forse da una parola, da un filo...?

- Fantasticherie! - disse il Dal Poggio.

- Chi lo direbbe! - sclamò il nonno giungendo le mani - A novant'anni udirsi dire: fantasticherie da un uomo di quarantacinque. Chi lo direbbe!

- Io non vado a cercar cinque ruote in un carro; la mia morale non fa tante distinzioni. E in ciò la penso appunto come i filosofi antichi. La donna che tradisce i suoi doveri merita la morte. E anche il codice francese mi dà ragione, coll'impunità del marito che uccide l'adultera.

- Si vede, Emanuele, che hai studiato di legge, e che non puoi staccarti dall'idea della pena. Non parliamo di pena, perbacco! qui non c'è nessuno che la merita. Parliamo piuttosto dei modi di prevenirla.

- Prevenir la pena?

- O la colpa, che è lo stesso.

- Come! Ciò che previene la colpa è appunto la paura della pena.

- Soltanto?

- Non vedo altro.

- E l'educazione, e la persuasione, e l'amore...?

- Queste, caro nonno, le ho sempre credute utopie!

- Bene, ne parleremo poi. Adesso sento ch'ella ritorna; è inutile continuare.

Infatti si udí nella camera vicina approssimarsi il rumore che facevano i piccoli tacchi di Noemi sul pavimento.

CAPITOLO SETTIMO PANDEMONIO

Tredici persone - sette giovani e sei ragazze - stanno sedute a tavola in una sala superiore dell'albergo del Rebecchino, facendo ciò che in questa valle di lagrime si usa far dai mortali seduti a cena.

Le mie sentimentali lettrici mi faranno forse un rimprovero d'essere uscito da un pranzo per entrar in una cena.

Io non ripeterò per iscusarmi il triviale proverbio: che a tavola non s'invecchia. Farò loro osservare soltanto che, come nel pranzo non parlai né di piatti né di portate, cosí della cena non narrerò che il dialogo.

Si era già a quel punto in cui nessuno piú ascolta e tutti parlano in una volta, incrocicchiando in mille guise i discorsi, sfiorando gli argomenti a centinaia, or qua, or là, sviati e interrotti dai brindisi, dalle risa, e dalle grida.

Teodoro, incaricato da Emilio, aveva fatto le cose degnamente, anzi splendidamente. Lo sciampagna - fabbricato chi sa dove - si versava - non dirò proprio a torrenti - ma a ruscelletti, e l'orgia delle parole aveva invaso la sala.

- ... Il duello? Bella novità! Chi non lo sa che è un famoso assurdo? Quante volte non fu detto e non fu scritto che... Sí, bravo, dammi ancora un po' di quel gelato... che bisognava pensare ad abolirlo?... Ma provati un po' tu a rifiutarti di batterti con me, se mi venisse il grillo di gettarti in viso questo bicchiere?

- ... Lo si lascia, o lo si sposa, se è possibile. La miglior maniera di lasciare un amante è quella di sposarlo. Sei del mio parere, Teresa?

- ... Solenne ingiustizia! Abbasso la critica! Io chiedo si abolisca la critica. Sono tutti canaglia. Non capiscono nulla; non sanno far distinzione. Loro li chiamano drammi da Stadera, li chiamano... e credono d'aver detto tutto. Asini! Imbecilli! Come se la Stadera non volesse dei drammi fatti apposta per la Stadera... Sicuro! E io li faccio! E me ne vanto!

- ...Ah il mio povero vestito tortorella!!! - s'udí una voce sottile soverchiar tutte le altre...

- Niente, niente; lo sciampagna non lascia macchia... È cosí puro!

- ... Perché la società è composta di due classi: quelli che hanno piú pranzo che appetito... e quelli che hanno piú appetito che pranzo... è chiaro come il sole.

- Mirabeau ha detto che ci sono tre maniere di vivere in società: o come mendicante, o come ladro, o come salariato.

- Mirabeau è un asino! - gridò Teresa - Io non sono né l'uno, né l'altro, né l'altro.

- Chi è questo signor Mirabeau? - s'udí un'altra voce di donna - Lo conosco io? E un bel giovane?

- ... Che cattolicismo, che cattolicismo! Noi muoviamo a gran passi verso la religione dell'amore universale...

- Ecco bravo! È quello che ho sempre detto anch'io; l'amore universale!

- Tu Gigia taci; di queste cose non ne sai nulla.

- ... Ma ti dico che non è un sogno. Fra cinque anni al piú tardi io posso essere milionario. Si tratta della piú grande scoperta del secolo... Passami quel piatto di confetti per la Pina... Grazie... Capisci? Posso essere milionario! Si tratta nientemeno che del moto perpetuo!!!

- ...E cosí fu!... per uomini della mia tempra esser padrone del suo a ventidue anni, vuol dire che a trenta non si avrà piú un centesimo. L'altro ieri perdei al giuoco i miei ultimi... i miei estremi dodici marenghi...

- Ti resta la contea. Bella cosa a esser conte. Io se fossi conte non saluterei piú nessuno in istrada.

- Che conti, che duchi?... A Milano... tutti uguali. Dove trovate un'altra città in cui tutti i conti vanno al corso a braccetto d'un plebeo? Dove, quando ti abbia lavato le mani, puoi essere presentato dappertutto...?

- ... È una stupidità... cosa importa alla natura che una sposa sia fedele al marito? In natura non ci sono spose... ci sono donne...

- ... La fisiologia del disordine? Subito fatta! Che cos'è l'ordine? L'ordine è tutto ciò che emana da un'autorità... Che cos'è l'autorità?... L'autorità è quella brutta...

- Teodoro sta in gambe... pensa che non siamo a Lugano...

- È vero! Bene dunque se l'autorità è... ciò che ho detto, l'ordine che dipende da essa non può essere che una cosa esecranda... ergo il disordine una cosa eccellente... quod erat demonstrandum.

- Io dico di no... io dico che il Mi manca la voce, Mi sento morire è assai piú bello... Dammi da bere... Dove trovare un pezzo di melodia superiore a questo nel mondo musicale?... Hai un bel cercare in Verdi... Verdi è un idiota!!!...

Cosí l'orgia del discorrere cresceva, cresceva, col crescere dei fumi del vino che rendeva già tutti brilli quei tredici scapigliati. V'era nei loro discorsi, nei gesti, negli occhi un crepuscolo di ubbriachezza. E l'orgoglio, il proverbiale orgoglio dei giovani della loro tempra, levava fiera la testa sulle altre passioni.

Udite:

- Chi nominò la compagnia brusca? - gridava Niso - Nessuno conosce la nostra potenza.

- E la vostra bolletta; - sclamò la Teresa.

- La bolletta non è che un effetto naturale della potenza. Tanto è vero che tutte le potenze sono in bolletta.

- Questo è un paradosso.

- No, no, ascoltatemi...

- Zitto, silenzio... abbasso là... ascoltiamo papà Niso che parla.

- Sapete voi, - disse Niso - sapete voi perché gli imbecilli hanno sempre a questo mondo maggiori vantaggi che gli uomini di talento come noi?

- E crepi la modestia! - gridò la Teresa.

- Sapete voi perché un asino che fallisce trova mille che gli prestano denaro, mentre un nostro pari che muore di appetito non trova un cane che gli paghi da pranzo?

- Io comincerei a non accettarlo; - notò Emilio.

- Perché proteggendo un asino quei mille si sentono superiori, mentre pagando da pranzo ad un uomo di talento non si sentirebbero neppur uguali.

- Ma noi rovesceremo il mondo, - gridò Gustavo - e muteremo la società dal sotto in su.

- Questo è da farsi. E noi donne farci tutte uguali agli uomini.

- Signori; - gridò Teodoro - la Teresa ha delle idee di emancipazione; propongo di metterle a protocollo per trattarle nella prossima seduta della società.

- ... E quanto t'è poi costato quel cappone? - chiese la Gigia alla amante di Teodoro ripigliando un discorso interrotto e parlando a bassa voce dietro la scranna del giovane che stava loro in mezzo.

- Quindici lire; - rispose Teresa.

- Che ladra!

- Ma tu sai bene che è proibito ribattere un centesimo del prezzo, altrimenti il sortilegio non riesce.

- Perché?

- Perché non so; ma se si tenta soltanto di dar alla pollaiuola un centesimo meno del cappon nero, il filtro non riesce a far innamorare nessuno.

- Ebbene, e poi?

- E poi ho comperato una dozzina di carte da spilli per mettere in fusione col cuore del cappon nero nello spirito di vino e canfora... e il resto che sai...

- Va bene e poi?

- Vi aggiunsi anche una ciocca dei suoi capelli che gli ho recisa una notte mentre dormiva dalla parte del cuore.

- È indispensabile? - chiese la Gigia.

- Sicuro.

- Ma gli è che Emilio credo che non dorma mai dalla parte del cuore.

- È segno che ne ha un'altra; - disse Teresa.

- Lo so... una donna maritata... ma penserò ben io a sbrigargliela d'attorno.

- ... E cosí - disse Teodoro - potremmo ottenere l'emancipazione della donna richiesta or ora da Teresa...

- ... E s'è accoppato? - chiese Niso a Gustavo levandosi da mensa.

- Pur troppo!

- Che cosa aveva?

- Che cos'avesse non so; ma una sera pensò bene di gettarsi dalla finestra del terzo piano e di sfracellarsi la testa sul lastrico della via...

- Chi era?

- Temistocle... un certo Temistocle - rispose Gustavo - un giovine che sarebbe stato degno di far l'ottavo... fra cotanto senno.

E mostrò a Niso i compagni ch'erano tutti ubbriachi.

- Ebbene raccontami la storia di Temistocle. S'egli s'è gettato dalla finestra è degno di essere rammentato negli annali della scapigliatura.

Si sedettero su un sofà e in mezzo al frastuono che li circondava Gustavo cominciò:

- Quand'io lo conobbi la prima volta, correva rigido il gennaio del mille ottocento quarantasette; ei se ne stava sdraiato, avvolto nel suo plaid a scaccato bianco e nero, e leggeva la Bibbia del Diodati... Mi par ancora di vederlo!

Abitava in Santa Radegonda una stanza, dove regnava un freddo moscovita; e un Reaumur, che pendeva da un chiodino infisso nella intelaiatura dei cristalli, mi fece l'effetto come di un'ironia: segnava un grado sotto lo zero.

Eppure nella stanza c'era il caminetto, e la cassa era piena di legna; ma Temistocle lo aveva acceso quando il freddo era sopportabile, poi si era dimenticato anche di aver freddo, e alla lettera si gelava.

Nel suo genere quella stanza era un vero modello. Tu Niso che ti sei messo ad avere qualche cosa a suo posto, non puoi credere come fosse quella stanza. La gretta mobiglia e gli sgraziati addobbi del riaffittatore sparivano, per cosí dire, nello spaventevole disordine delle robe di Temistocle; non un filo a suo luogo; si avrebbe anzi detto che in un eccesso di furore ei le avesse sbalestrate pei quattro angoli; tra le altre cose un solino da collo, caduto in bilico sul capo d'una statuetta di Masaniello che chiama il popolo alla riscossa, mi fe' sorridere entrando.

Io era andato da lui per affari di caricature. Allora stavo per fondare un giornale umoristico: stemmo un paio d'ore a colloquio, poi uscimmo insieme a far colezione.

Da quel giorno fummo piú amici che se ci fossimo conosciuti da dieci anni. Come quando ci trovammo noi due.

Temistocle era bello, come può essere bello un giovine tarchiato di cinque piedi e dieci pollici in mezzo alla generazione del giorno d'oggi. Il suo portamento, la foggia del vestire e l'aria un po' desolata del viso fermavano la gente in istrada; la sua barba a ventaglio arieggiava quella posticcia di un gran sacerdote da palcoscenico.

Egli aveva studiato di medicina; ma dagli ultimi esami in poi non gli era mai piú passato per il capo che ci fossero al mondo malati e mezzi da mandarli piú presto al cimitero. Era nato artista, e artista divenne. Forse, qualora suo padre l'avesse voluto artista, ei si sarebbe gettato con fervore alla medicina; giacché in queste nature predestinate alla sventura e al suicidio la contraddizione è inevitabile... sai bene?

Temistocle, un bel giorno dunque, s'era messo a schizzar delle figure, e, quand'ebbe gettato sulla carta quei primi abbozzi, scoprí di possedere il tratto felice e il cosí detto chic dell'artista contemporaneo. Nella inesperienza della matita, sotto le crudezze di quelle linee da dilettante, c'era un non so che di cosí ben trovato e un'audacia di genio... portentosa.

Allora egli fece l'entrata nel mondo artistico a colpi di litografia, e passò le sue ore a tormentare la mano sulla pietra, e la fantasia nelle scene dolorose della vita di miseria.

La sua camera divenne convegno di tre o quattro amici, nati artisti come lui, per grazia di Dio, fra i quali anch'io.

Quella fu la mia prima compagnia brusca. Allora ero giovine, e tutto mi faceva impressione. Gli altri, tutti piú vecchi di me, mi davano soggezione; essi pensavano tutti come una persona sola, e si parlavano un mistico linguaggio pieno di reminiscenze, di poesia e di frizzi, e si rispondevano in rime colte al volo con accompagnamento di franchi scoppi di risa, dei quali nessuno, tranne essi, avrebbe capita la ragione; e talvolta un'idea nostra ispirava il disegno a Temistocle e il disegno di Temistocle infiammava la musa dell'amico, che alla sua volta faceva fremere la matita nella destra del povero giovine.

Era prima del quarantotto. Allora si era piú allegri...

In quelle ore di feconda follia spesso i turaccioli dello spumante francese volavano alla soffitta, col lieto scoppio che fa stendere i calici a chi mesce. Temistocle fra i vini non amava che lo sciampagna, l'ispiratore della cortese allegria, diceva lui, e alla peggio l'autore della nobile ubbriachezza; ma non isdegnava il punch per la sua fiamma turchina, e quando si dava fuoco alla miscela, nel vapore opalino che si svolgeva in leggerissimi globi dall'ardente bole ei vedeva una sfilata fantastica intrecciare le sue danze infernali dinanzi a' suoi occhi, che gli ispirava i bizzarri soggetti de' suoi disegni.

Molti di essi diventarono poi soggetti dei miei drammi... che non ho ancora fatto rappresentare... e che faranno furore...

Temistocle aveva sopratutto l'umor nero, che gli tormentava l'esistenza e gli schiantava l'energia del fare, nella disperata conclusione dell': a che scopo? Allora le sue lugubri pensate parevano pronostici della sua fine miseranda; litografie desolanti, vere immagini di quell'anima desolata.

Qua una povera fanciulla scalza, morente di fame e di freddo, che invoca un tozzo di pane per l'amor di Dio, da un banchiere che corre alla Borsa e la ributta con una ignobile parola, perché col capo nell'Augusta non si accorge neppure che la povera creatura è bella, e che la elemosina gli potrebbe fruttare... il prezzo dell'infamia.

Là una bara che esce a mattino dalla portaccia di un povero morto di miseria e di stenti, la quale s'incontra in due domini coperti di trine e di diamanti che mettono il piede calzato di raso sul predellino di una carrozza dorata e vanno a riposare dal veglione della notte.

Scene di miseria, che non si danno o ben di rado a Milano, ma che pure facevano pensare e fremere.

Eppure anch'egli era, come Emilio, uno dei piú grandi affettatori di cinismo e di insensibilità ch'io mi abbia mai conosciuto. Povero entusiasta pieno di cuore!

In campagna, per esempio, gli si potevano sorprendere delle ingenuità, dei moti di gioia, delle contemplazioni degne di un fanciullo di dieci anni; era capace di star dei quarti d'ora a rimirare un pollo d'India far la ruota, o due galli azzuffarsi sulla concimaia, chissà che pensieri volgendo in capo, e sorrideva come chi non ha in cuore che delle speranze.

Fu a Venezia, e ne andava pazzo; là dopo veglia in teatro, dopo aver fatto il diavolo a quattro in maschera, quasi morto di stanchezza e di sonno, pur non rientrava in casa se non dopo aver camminato qualche ora su e giú per le calli ad ammirare la superba città dei Dogi sepolta nella quiete delle ultime ore di notte.

Tutto in lui era contraddizione. Tutto in lui riusciva a formare il tipo del giovine condannato alla pena di Tantalo del secolo decimonono.

Povera natura ardente! Il suolo della sua terra non ebbe per lui abbastanza emozioni. Egli era nato per vivere nel cratere di un vulcano.

Una sera sono al veglione; mi si avvicina un conoscente e mi dice:

- Buona sera, Gustavo... Anche tu al veglione? Che miracolo...! Hai sentito di quel povero diavolo che poco fa s'è gettato dalla finestra?

- No... dove? - chiesi io con una stretta al cuore.

- In contrada di Santa Radegonda.

- Oh Dio! Sarebbe mai Temistocle!

E piantando sui due piedi quel nuncio di malaugurio mi precipitai fuori di teatro e via come un energumeno pel Marino verso la casa di lui.

C'è, nella notizia di un suicidio, per quanto sconosciuto o indifferente ti sia chi si troncò la vita, c'è sempre qualche cosa di terribile e di fatale... non è vero, Niso? E tanto piú fatale quanto piú la notizia è secca, senza commento, e senza compianto.

Io credo che non ci sia scena di dramma - neppur d'un mio - che possa agir con tanta potenza sull'imaginazione di un uomo di cuore, come queste poche e ghiacciate parole lette forse nelle Notizie varie o nei Fatti diversi di qualche giornale:

"Oggi al tramonto una povera fanciulla di sedici anni, abbandonata dall'amante, si è asfissiata col carbone nella sua soffitta".

A chiunque non sia un rettile privo di cuore balenerà attraverso la fantasia un poema di amore tradito, nella vita di quella povera creatura stroncata al primo aprirsi ai raggi dell'amore.

Quante notti di pianto ruggito colla faccia nascosta nei guanciali del misero lettuccio, prima che la tremenda determinazione le si sia impiantata nell'anima!

Che uragano implacabile fra l'ultima speranza e la completa disperazione!

Ma se poi lo sventurato tu lo conosci, se poche ore prima gli hai stretto la destra con un: a rivederci, pregno di simpatia reciproca e forte, se non ti sei accorto di nulla, se credi che, giovane qual è, sano, agiato, pieno di talento e di avvenire... egli sia felice... l'impressione che ti fa la notizia della sua disperata morte è tremenda. Dio mio, che mistero di dolore nascosto nel piú profondo del cuore deve essere stato quello che lo spinse all'atto disperato!

Giunto a capo della via vidi da lontano un crocchio di gente; ma non era sotto il balcone di Temistocle; sperai e rallentai la corsa; sentivo nel cuore uno sgomento indicibile.

Arrivai al crocchio.

- Dov'è quel meschino? - chiesi a un operaio che andava sclamando: - La Provvidenza! Un giovane di quella fatta! E dicono che c'è la Provvidenza!

- Dov'è desso?

- È là in quella bottega - mi rispose.

Vi entrai, e passando quella soglia credetti di cadere per l'emozione.

Un cadavere sanguinoso e sconciato stava disteso su una tavola...

Me gli appressai, guatandolo in viso al lume incerto di una candela...

Era Temistocle!

CAPITOLO OTTAVO LA RIVALE DI NOEMI

- Dio salvi i sette da ugual fine! - sclamò Niso levandosi insieme a Gustavo dal sofà, su cui la mesta ricordanza del povero suicida li aveva tenuti per poco disgiunti dal resto della compagnia.

Guardò l'orologio; andò verso una parete della camera su cui stava appiccato un cappellinaio; staccò il proprio cappello dalla caviglia, e voltosi ai compagni, i quali dopo la levata da tavola avevano cessato di parlar tutt'insieme, disse:

- Belle dame e prodi cavalieri, ho l'onore di salutarvi, e di lasciarvi ai vostri amori ed alla vostra digestione. Voi sapete il mio voto. Mezzanotte sta per suonare. A rivederci domani.

A queste parole si levò qualche voce, con un oh! di rimprovero contro quel cattivo esempio di partenza. Ma quell'oh! fu coperto dai "buona notte" de' sei compagni di Niso, che sapevano per prova quanto il papà fosse irremovibile ne' suoi propositi.

Come dissi, nel frattempo, ammorzati i bollori del vino, anche il frastuono delle voci era andato cessando poco a poco. Le grandi questioni morali e metafisiche, cosí burlescamente dibattute a tavola, avevano lasciato campo alla galanteria ed agli scherzi. Le donne, poco prima dimenticate da quei filosofi, ripigliavano il loro dolce impero sugli animi, e la conversazione volgeva dovunque alle intime confidenze.

Varii gruppi s'erano andati formando a coppie, a tre, a quattro. Emilio dopo aver dato seriamente da bevere allo sparato della camicia s'era addormentato. Gastoni faceva il sentimentale. Teodoro a cui erano già passati i fumi del vino, stava acconciandosi in testa una specie di turbante, coi tovaglioli che avevano servito alla cena, mentre due delle ragazze gli panneggiavano sulle spalle la tovaglia e il tappeto della tavola. Egli doveva scimmieggiar Modena in una scena di sua invenzione, ch'egli aveva annunciata col titolo di Maometto fra le houris del paradiso turco. Teodoro era famoso per questi lazzi; era nato col bernoccolo dell'imitazione. Che cosa non avrebb'egli imitato, dal moscone che ronza presso i vetri di una finestra cercando invano d'uscire, fino alle piú impercettibili flessioni di voce d'un attore conosciuto... dal friggere d'un paio d'uova al tegame, fino alla confessione d'una vecchia bigotta che viene sorpresa sul piú bello dai dolori di ventre? Egli parlava il dialetto bergamasco, da far strabiliare Gustavo che se ne intendeva; il genovese come un facchino di portofranco... oh il pavese lo parlava meglio d'un abitante dell'alma città delle cento torri. Nessun canto di uccello, nessun grido di quadrupede, nessun rumore della natura gli era ignoto...

E quando ci si metteva bisognava, volere o non volere, sciogliersi dalle risa.

Mentre andava camuffandosi cosí - sul sofà - l'ignobile sofà delle osterie milanesi - di contro a quello da cui s'erano levati poco prima Niso e Gustavo, se ne stavano sdraiate un po' sguaiatamente due belle creature - le piú belle delle sei invitate - che parlavano sommessamente fra loro.

Erano la Teresa e la Gigia; la prima amante di Teodoro, la seconda di Emilio.

Belle entrambe, ma cosí diversamente, che chiunque fosse stato messo nell'impegno di Paride, ci avrebbe pensato sopra un bel pezzo.

La Gigia non figurava a dir vero come la Teresa, né per la voluttuosa rotondità delle forme, degne della Venere Callipige, né per la galante maniera di vestire. Ma nell'aperta fisonomia, nel sorriso, e soprattutto nel limpidissimo sguardo, mostrava una cosí gioconda purità d'animo, che anche senza conoscerla menomamente, si avrebbe giurato esser ella una buona ragazza.

Fresca e snella come un giunco, vestiva un abitino di seta chiaro senza balze e portava sul corpetto uno spallaccino di grôs nero, che faceva spiccare mirabilmente la curva aggraziata e modesta del seno e dei fianchi, e le dava una cert'aria da collegiale, che stonava assai colla gazzarra che le ferveva intorno.

Chi mai vedendola in quella compagnia non l'avrebbe messa a fascio con Teresa e le altre traviate?

Eppure tra lei e Teresa c'era tutta la differenza che corre dalla madamina di Milano alla lorette di Parigi; la stessa cioè che passa fra il cane ed il lupo, che sono pure d'una medesima famiglia: il cane tutto amore, fedeltà, devozione; il lupo fame ingorda, e istinti rapaci.

E Teodoro sel sapeva per prova.

Infatti Teresa non era altro che una splendida brutta-copia di francese Camelia, mentre la Gigia si sarebbe detto essere il puro e genuino tipo delle nostre crestaine.

Povera Gigia!

La sua storia a Milano è comunissima. A Torino forse, e a Parigi sopratutto - dopo la morte dell'ultima grisette - questa storia è inverosimile, anzi incredibile. A Parigi, dove tutto si compera con denaro, e tutto si vende per denaro, non si crede piú a un simile carattere. Amore, amore, e null'altro che amore, senza un solo sospetto di interesse o di egoismo, era in quell'anima pura ed ignorante come quella d'una tattuata fanciulla di tribú Irochese.

Suo padre era cocchiere in casa Cellerovigo; sua madre portinaia nella stessa casa. La Gigia con due minori sorelle era nata e cresciuta nelle stanze a terreno del paterno alloggio, con che razza di educazione... Dio vel dica. A dieci anni, levata dalle elementari, dove aveva imparato a leggere nel libro da messa di sua madre, tanto da far capire a chiunque ch'ella non ci capiva un'acca, fu mandata a scuola di modista, come fattorina minore, senz'obbligo di portar lo scatolone per le vie. A diciott'anni la Gigia che andava a scuola e tornava a casa sempre sola, quantunque fosse stata accompagnata da piú di un centinaio di cicisbei diversi, non s'era ancora innamorata di alcuno.

Chi non conosce la proverbiale manovra dell'accompagnar a casa le fanciulle che vanno sole per la via?

Un giovinetto appena scappato dal collegio, che ha avuto il permesso da papà di uscir solo di casa, allo svoltar della via s'abbatte in una ragazza, sola, graziosa, colla sua mantiglietta di seta raccolta sul seno, un sospetto di crinolino sotto la gonna, e un cappello che raccoglie nel suo curvo grembo un visino sentimentale composto: da un tuppé di capelli biondi o neri; una fronte leggermente convessa, sotto alla quale splendono due occhi piú furbi che grandi, piú tenuti in freno che per natura modesti; da un nasino schietto con due narici rosee, aperte, palpitanti - non di attualità - che si direbbe fiutino l'amore, e spirino la voluttà; e finalmente da una bocca con due labbra d'un colore piú vivo di quello d'un midollone di cocomero venduto alla prova.

Vedendola il giovinetto si ferma sui due piedi e mormora: com'è bella! Essa gli passa rasente senza lasciargli capire d'essersi accorta menomamente di quell'ammirazione, poi va a cercar nella via dove c'è dell'umido per aver il pretesto di sollevare il lembo della gonna; e cosí, in punta di piedi, dondolandosi leggermente sulle anche attraversa la strada.

Il giovinetto senz'avvedersene comincia a tenerle dietro. Ella colla coda dell'occhio ha già veduta la di lui ombra mettersi sulle sue peste, sorride e si prepara all'abbordaggio.

I lumai sono in volta; suona l'avemaria. Il giovinetto si porta al fianco della fanciulla - fiorista, o crestaia, o cucitrice o modella? - e le dà un'occhiata di traverso.

Ella o affretta il passo, o scivola dietro di lui dall'altra parte della via; e questo scambietto traditore lo fanno tutte, abbiano voglia o no di lasciarsi accompagnare.

Ma il giovinetto si fa coraggio, le chiede il permesso di mettersele al fianco e le domanda se ha l'amante.

Tutte le ragazze che vanno sole a chi loro domanda se hanno l'amante rispondono di no; e al perché non ne abbiano, soggiungono: - Chi vuol mai che mi pigli? - È bravo chi sa cavarle piú di questa frase, la prima volta. Accade poi, che se il giovinetto non sa dove ella stia di casa se la vede sfumar via ad un tratto in una porta, nella quale la crudele è svoltata rapidamente senza neppur dirgli né a Dio né a diavolo, lasciandolo là sulla soglia con tanto di naso a mezzo d'una tirata serio-sentimentale, quando cominciava a sperare che ella stesse per commuoversi.

La Gigia invece soleva ringraziare i suoi cavalieri serventi della premura e del disturbo, poi entrava a dar una buona risata alle loro spalle.

Senonché era poi venuto anche per lei il fatale momento.

Un bel dí ella s'era imbattuta in Emilio Digliani, e, sia che l'età stessa la chiamasse all'amore, sia che gli occhi di Emilio fossero veramente assassini, il fatto è che fin dalla prima occhiata ella capí che quel giovine le avrebbe fatto girare la testa. Quanto a Emilio, che in quel tempo cominciava ad adorare in segreto la Dal Poggio, non le aveva badato.

La Gigia, tornata a casa, s'era sentita nascere in cuore un fino allora ignoto desiderio... quello, cioè, di rivedere, quanto prima, il giovine che le aveva destato nell'animo un cosí dolce e vivo turbamento. Chiesto di lui, aveva saputo come, tornato da un anno a Milano dopo la caduta di Roma, egli si fosse allogato presso una casa bancaria, e come solitamente uscisse dallo studio verso le tre e mezza. Era appunto in quell'epoca in cui gli occhi di Noemi gli aveano fatto smettere il vestito da disperato; quel sentimentale amore, sebbene senza speranza, lo aveva riconciliato coll'esistenza monotona e positiva che gli toccava di condurre a Milano; e tirava all'ordine.

La Gigia dunque, portata dal suo desio, si era messa ad allungar la strada per vedere Emilio. La povera ragazza quando lo scorgeva venir da lontano abbassava gli occhi, e passava oltre senza aver la forza di levarglieli in viso. Emilio non s'accorgeva di nulla; ma ella era felice per tutto il giorno...

Come però la cosa andava indefinitamente per le lunghe, senza una conclusione, la Gigia cominciava a perdere il suo buon umore, e qualche volta la si lasciava cogliere a piangere da sua madre; né c'era verso che alcuno potesse piú accompagnarla a casa. Le compagne della scuola a cui essa non aveva saputo tacere il suo primo segreto d'amore irridevano quell'affetto solitario; il che non faceva che attizzar sempre piú la sua fiamma.

A furia di parlare con esse del suo Emilio - non ancora suo - la era venuta a sapere, se non altro, che egli era libero, o - come diceva lei - senza impegni. Allora la logica istintiva del suo cuore le aveva suggerito il mezzo piú semplice che possa venir in mente a donna che si strugge d'amore. Comperato un bel foglio di carta da lettere, tutto a rabeschi colorati, gli aveva scritto un'epistola cosí piena di candida tenerezza e di errori d'ortografia, che Emilio ne aveva riso per un paio di giorni.

Che serve? Non è questo un mezzo come un altro? Che cosa ne sapeva lei, povera Gigia, di convenienze sociali e di tattica amorosa?

La cara fanciulla si sentiva nell'anima un cosí ricco e smisurato tesoro di tenerezza, che non le venne neppur il sospetto che Emilio non le avrebbe corrisposto, quantunque fosse stata lei la prima a dichiararsi.

Quanto a Emilio, sebbene volgesse i suoi desiderii amorosi da un'altra parte, non aveva avuto la forza di sdegnare un'avventura in cui era tanto accarezzato il suo amor proprio e stimolata la sua curiosità.

La Gigia nella sua lettera non gli chiedeva che una risposta.

Emilio per tutta risposta le mandò un biglietto in cui le dava appuntamento in casa sua pel dopo pranzo del giorno dopo. La Gigia allora scrisse una nuova lettera per pregarlo di mutare il luogo del convegno dalla sua stanza nella corte dell'ospital maggiore.

- Ah vuol fare la virtuosa! - avea sclamato Emilio un po' smaccato - Vedremo.

Il giorno dopo s'era trovato nella corte dell'ospitale e aveva veduta venirsi incontro la Gigia bella, linda, fresca come una rosa, e sorridente come se si conoscessero da un pezzo. E perché no? Non l'amava ella? Non era Emilio per lei, il piú caro essere della creazione? Non stava ella per ripeterglielo a voce? Questi pensieri le avevan ridonato tutto il coraggio, tutto il buon umore. Nella sua fenomenale ignoranza delle cause e degli effetti in amore, ella trovava semplicissima e naturale la propria condotta...

La buona ragazza si avvicinò adunque ad Emilio col sorriso sul labbro; e per prima cosa gli fece quasi le scuse d'averlo incomodato, e lo ringraziò sinceramente ch'ei le avesse dato ascolto e fosse venuto... ma accompagnò l'ingenua uscita con uno sguardo cosí carico di tenerezza e di amore che Emilio s'era sentito commosso fin nel profondo e non aveva potuto trattenersi dal prenderle una mano, e dal baciargliela con ardore in mezzo al cortile.

Allora, messisi a fianco, s'erano avviati verso la porta posteriore, ed erano usciti pel ponte del naviglio verso la strada dei sospiri.

Emilio però non era uomo da accontentarsi di passeggiate e di sospiri. Quanto alla Gigia, poverina, non aveva una sola ragione al mondo di resistergli, non una sola obbiezione da opporgli. L'amore è una forza; il dovere, invece, se non è avvalorato dall'educazione, dalle convenienze, dall'esempio... non è che una parola. Dove poteva la Gigia trovar ragione e pretesto per essere virtuosa? Sua madre non l'aveva forse lasciata andar sola per le vie dai dodici anni in poi? Le aveva essa inculcato qualche massima di morale? Le avea dato qualche nozione di virtú o di vizio? Aveva fatto qualche cosa per iscongiurar quella disgrazia?

Nulla! La povera vecchia credeva di aver adempito ad ogni suo dovere quando di ritorno dalla scuola se la faceva sedere accanto a recitare il rosario.

E la Gigia cadde. Cadde per puro amore, senza avere da Emilio una sola parola di promessa, senza concepire un solo timore per lo avvenire, piú ignorante dell'Atala, piú pura della Margherita di Goethe.

Qualche tempo dopo, un invidioso avea soffiato alle orecchie della marchesa Cellerovigo come la figlia maggiore della sua portinaia fosse sulla via della perdizione. La severa marchesa si era creduta in dovere di farla scacciar dalla casa, e la Gigia avea dovuto prender le sue poche robe, e andar a chiedere un asilo al suo amante.

Emilio aveva messa la povera discacciata in una stanza a camera, dove, tra per l'accoramento d'aver dovuto lasciar i suoi genitori, e tra per la paura di star sola di notte, ella sparse tante lagrime da ingrossarne un fiume.

Poco a poco però sí l'una che l'altra angoscia erano assai diminuite; Emilio la trattava bene, ed ella si avvezzava a star sola. A mattino andava a scuola, dove molte volte si fermava fino alle dieci della sera. Coi ventidue soldi al giorno, che vi guadagnava, viveva. Una volta che Emilio aveva tentato di lasciarle del denaro, ella s'era offesa cosí di cuore, cosí sinceramente, che il giovine non avea ripetuta l'offerta; a stenti le avea potuto regalare un taglio d'abito di seta a Natale, quello che essa indossava a cena.

Questo magnifico disinteresse; e l'amore sterminato ch'ella gli portava; e quella stessa sua profonda e ingenua ignoranza delle cose del mondo avevano prodotto in Emilio una sembianza d'affezione, che teneva piú dell'amicizia che dell'amore. Co' suoi compagni ei parlava della Gigia come d'un cagnolino fedele, pel quale un uomo avrebbe vergogna a confessare molto interessamento. I sei amici dopo averla conosciuta, avean preso tutti ad amarla come una sorella. Di quando in quando or l'uno or l'altro andavano a trovarla nella sua stanza a quinto piano. Perché ci andavano? Non lo sapevano; ma è pur vero che non era loro dato di passare dalla porta di lei senza montare a salutarla, quando s'immaginavano che la fosse in casa. Essa li riceveva con una cosí cordiale e gioconda serenità, e li intratteneva con una tale inconscia poesia del suo grande amore per l'Emilio, che tutti, partendo di là, si sentivano rinfrescato il cuore, e migliori di prima.

Ma era poi venuto il giorno in cui Emilio - presentato in casa della Firmiani - vi aveva trovato Noemi. Allora la Gigia aveva cominciato ad essere trascurata da lui. Nessuno però le aveva mai detto parola della sua rivale. Ma, com'ella era venuta a sapere che Emilio frequentava la casa d'una contessa Cristina Firmiani, s'era ingelosita di costei. Tanto piú quando un giorno - una settimana prima di quello in cui la troviamo a cena - vide appunto la contessa venire dalla Chaillon a comandare un cappello, pregandola che le fosse mandata a casa la Gigia per provarlo.

Erano in questo stato le cose allorché ella fu condotta da Emilio al Rebecchino dove vi trovò la Teresa - ch'ella conosceva già come amante di Teodoro, - la quale le disse non solo dell'infedeltà del suo Emilio, ma anche di sapere il nome della sua rivale.

- Via, Teresa - diceva la Gigia al suo orecchio mentre Teodoro finiva di camuffarsi da Maometto - te ne scongiuro... se è vero che tu lo sappia, dillo anche a me... dillo per carità.

- Ma se non posso in coscienza... Guai se Teodoro sapesse che mi sono lasciato sfuggir di bocca quel nome.

- Teresa... abbi compassione di me... sii buona... Che vuoi tu ch'io ti giuri?... Io sono segreta come un sepolcro, se prometto... dimmelo, Teresa.

- È impossibile... te lo ripeto, non posso.

- Impossibile! Ma è impossibile piuttosto ch'io non debba saperlo... Lo sanno tutti!

- Non è vero; non lo sanno che i sette.

- Ma chi lo disse a Teodoro? Non già Emilio.

- Perché dunque?

- Perché sarebbe un infame.

- Oh! bella novità che mi conti tu, Gigia! Che cosa sono gli uomini?

- No; non credo che Emilio l'abbia detto; non può averlo detto.

- Ebbene no, non fu Emilio; questa volta hai indovinato.

- Chi fu dunque?

- Fu Gastoni che la trovò in casa sua quella stessa sera che fu ferito; l'altro jeri sai bene?

- In casa sua? Ah ella va a trovarlo in casa sua?... oh me meschina! - sclamò la Gigia cominciando a lagrimare.

- Via, non farti vedere a piagnucolare adesso. Sei pur buona di accorarti per queste cose!

La Gigia avea chinato la testa nelle palme e piangeva sommesso.

- Sta su allegra, sciocca, che a questo mondo quando si spegne un cero si accende una torcia. Ascolta; non per metter male, ma per aiutarti nel caso, tu sai che quell'altro povero giovine è sempre a' tuoi comandi appena tu faccia un segno. E ti assicuro io che egli ti tratterà un po' meglio di quel tuo spiantato orgoglioso. Egli ha quarantamila lire all'anno da spendere.

La Gigia alzava le spalle e crollava il capo.

- Sai che cosa t'ho a dire? Che sei una sciocca e che non è certo cosí che potrai farti voler bene dagli uomini.

- Che m'importa? Dopo Emilio, che Dio mi faccia morir qui sul posto se un altr'uomo potrà dire d'essere mio amante.

- Povera Gigia! Alla tua età ho detto anch'io queste parole, e le ho dette anch'io in buona fede. L'avrei giurato che dopo il primo non avrei fatto il secondo. Quando egli m'ha lasciata ebbi paura della mia solitudine...; poi un diavolo, credi, scaccia l'altro... Dopo questo non li ho piú contati... t'assicuro, non li ho piú contati.

- Teresa - ricominciò la Gigia dopo di essersi furtivamente asciugati gli occhi col rovescio della mano - mia buona Teresa... dimmi chi è... dimmelo, per carità...

- Ma e poi quand'anche lo sapessi, che cosa vorresti fare?

- Vorrei parlarle e dirle di voler bene a suo marito, e non venire a rubare l'amante ad una povera fanciulla...

- Ebbene, questo è precisamente quello che noi non vogliamo.

- E se ti promettessi di essere prudente?

- Non ti crederei.

Ma la Gigia tornò all'assalto con un tale fervore di preghiera, con un accento cosí pietoso e persuasivo, che finalmente la Teresa, la quale aveva forse tanta voglia di dirglielo quanto la Gigia d'udirlo, accostata la bocca all'orecchio della dolente, le scoccò il nome di Noemi Dal Poggio.

La Dal Poggio era assai conosciuta per la sua bellezza a Milano, e il di lei nome non poteva tornare nuovo ad alcuno; tanto meno poi ad una crestaia. Perciò, quando l'ebbe udito, la Gigia sulle prime restò quasi abbacinata dallo stupore; poi, come se le prendesse la disperazione, si gettò prona sul cuscino del sofà a piangere dirottamente.

A questo punto un omerico scoppio di riso risuonò insieme a molti applausi nella sala.

Teodoro ne avea detta una delle sue.

- Gigia, non farti scorgere, ti raccomando; - disse Teresa all'orecchio della povera ragazza sconsolata.

La Gigia si alzò cogli occhi gonfi e sclamò:

- Adesso comprendo! Pur troppo!

- Che cos'è che comprendi?

- Tu non sai. Tre o quattro giorni fa venne dalla Chaillon la contessa Firmiani a comandare un cappello, e, senza ch'io l'avessi mai veduta, la mi sorrise e la mi parlò, che non potevo capirne il perché.

- Ebbene?

- La contessa Firmiani è cugina della Dal Poggio.

- Dunque la Dal Poggio sa che tu sei l'amante di Emilio?

- Lo credo, se no, perché avrebbe mandata sua cugina?

- E sei stata a casa di questa Firmiani?

- Sí, il giorno dopo.

- Che cosa la ti disse?

- La mi parlò di Emilio.

- E tu?

- Ed io le confessai che gli voleva bene, ma che egli non pensava piú a me.

- E lei?

- Mi disse che facevo bene ad amarlo, che lo meritava, che è un bravo giovine...

- Vedi l'infame! E dicono di noi che...

- Ma può essere che lo facesse a fin di bene.

- Sei pur buona a crederlo! Se t'avessi a contare la mia vita, vedresti di che cosa è capace una donna... che ha carrozza e cavalli!...

- Sarà un caso...

- Un caso o no, è capitato a me... Ma non importa. Ricordati sopratutto di non dir nulla ad Emilio ch'io t'abbia detto quel nome.

- No, non temere... non gli dirò nulla... a che pro glielo direi? Egli mi negherebbe tutto ugualmente. Voglio prima accertarmi co' miei occhi, avessi a curarlo notte e giorno.

- E poi?

- E poi; - ripetè la Gigia fissando la compagna con due sguardi fiammeggianti - ah tu non sai tutto, Teresa, tu non sai tutto... Povera creatura ch'io sono!

- Che c'è di nuovo? - sclamò l'amica alzandosi.

- C'è, che s'egli mi avesse lasciata due mesi fa, ne sarei morta forse, ma sarei morta io soltanto; mentre ora... io non sono piú sola... mi capisci Teresa?... mi capisci?

- Oh gran che! Sarai forse tu la prima...

- Ma dunque, non mi comprendi? Se egli mi lascia come potrò io allevarlo...?

- Che!? Sei tu pazza? Che idee ti frullano pel capo?

- Come! - sclamò la Gigia - Tu vorresti forse che io non me lo tenessi con me... il figlio mio... il figlio del mio sangue...?

- Ma sta a vedere...! Per che cosa fu fatto quel buco là, lungo il naviglio... a Santa Caterina?

- Oh taci, Teresa!... taci!... Solo al pensarlo mi fa piú male che l'idea di perdere Emilio...

- E tu fai conto di tenerti quell'impiccio in casa?

- Ma dunque? Non sarò io la sua madre? Non gli avrò dato io la vita? Non sarà desso mio figlio?

- Sí... ma e vivere, Gigia... e vivere?

- Oh se c'è una provvidenza ci avrà bene a pensare!... Per Dio! non vivono tutte le madri che allevano i loro figli?... non vivono le rondini, che fanno il nido sotto il tetto della mia stanza, non vive la micia di mia madre che ne ha sotto quattro? Vivrò anch'io se c'è giustizia al mondo.

- Chi ti dice che ci sia giustizia al mondo, povera Gigia! Ma e poi? Tuo padre e tua madre se vengono a saperlo?

- Non vorranno uccidermi; né vorranno strapparmi dalle braccia il mio bambino...

- Sei pur buona, povera Gigia!

A questo punto Teodoro chiamò la Teresa perché volesse venirgli presso a completare un certo gruppo, in cui ella doveva figurare come la sultana.

Teresa, a cui la proposta piacque come una adulazione, si levò, e andò a far la sua parte.

La Gigia guardò Emilio che dormiva, e non veduta, venne a stampargli un bacio sulla fronte; poi, per poter piangere senza essere sorpresa, mi mise all'ombra nella strombatura d'una finestra e là sfogò in lagrime il suo dolore.

CAPITOLO NONO DOPPIA MANOVRA

Emanuele Dal Poggio, il marito di Noemi, non era uscito totalmente illeso dal dialogo col nonno Firmiani. Le parole del buon vecchio gli aveano fatto nell'animo un'impressione, non dirò di gelosia - che era troppo orgoglioso per questa - ma di zelante inquietudine.

Uscito di casa, cammin facendo, ruminava il discorso di poco prima, e si ingolfava in pensieri su cui non si era piú fermato da un pezzo. Ma, giudicando con quel lume di freddo criterio che la natura gli aveva concesso, finí col persuadersi che la propria condotta coniugale era irriprovevole sotto ogni aspetto, e che se Noemi diventava triste e si annoiava, era ad incolparne soltanto la di lei leggerezza e la condiscendenza del nonno.

Il Dal Poggio era un uomo a sistemi. Nel suo smisurato orgoglio, d'uomo grave, credeva in buona fede d'essere maestro consumato di scienza maritale, e viveva nella fatua certezza che una donna a cui egli aveva fatto l'onore di dar il nome e la mano non potesse ingannarlo. Fin dal primo giorno del suo matrimonio, l'infelice, coll'idea di educar Noemi alla vita coniugale, le era andato recitando una litania di massime, di precetti e di aforismi cosí pedantescamente pesanti, da inorridir l'amore e da farlo scappar lontano un miglio: il matrimonio, per esempio, non essere pretesto di piaceri, ma vita di doveri e di sagrifizii reciproci: la felicità coniugale non star nell'amore ma nel dovere:... e cosí via.

Noemi sulle prime aveva ascoltato suo marito colla mansuetudine d'uno scolaro di buona voglia; ma poi a poco a poco era accaduto nel di lei cuore il fatale fenomeno dell'antipatia che la doveva portare alla colpa.

Quanto al Dal Poggio, persuaso che Noemi non potesse per tutta la vita mutar d'un pelo i suoi sentimenti, dacché ei l'aveva munita di cosí solidi principii, viveva tranquillo nella sua sicurezza, la quale gli durava sempre come un'abitudine, come una convinzione.

Le parole del vecchio Firmiani non potevano dunque avergli dato che un leggero sospetto quello cioè, che Noemi, vedendosi un po' trascurata, non respingesse, come avrebbe dovuto, le galanterie di qualche adoratore. E non era il timore sollecito di chi teme di perdere un tesoro, che gli mettesse nell'animo quel po' d'angustia; era la paura che il mondo potesse dir qualche parola leggera sul suo conto.

Stette lí lí per confessare a sé stesso d'aver avuto un po' torto a non sorvegliare con maggior cura la condotta di sua moglie; nondimeno, pensando poi alla causa che gliel'aveva fatta trascurare da tre anni in poi, aveva finito col trovar ancora d'aver tutte le ragioni. In quei tre anni, con varii colpi di mano, aveva guadagnato alla Borsa piú di duecento mila lire... Per un Dal Poggio c'era bene di che trascurare, non una, ma cento mogli.

Nella notte sognò che Noemi gli era stata infedele, e si alzò colle lune a rovescio. Volendo pure cavarsi dal capo tale molestia, sdegnando di parlarne francamente a sua moglie, stabilí di andar da Cristina, dalla quale sperava di essere pienamente rassicurato. Pensò di parlarle con tutto riserbo, e in modo - credeva il dabben'uomo - ch'ella non dovesse avvedersi di nulla. E siccome egli andava assai di rado da Cristina, cercò un pretesto per farle visita senza destarle sospetto; e il pretesto lo trovò subito in non so qual affare in cui c'entrava Girolamino. Aspettò l'ora in cui sapeva di certo che Girolamino non era in casa, poi vi andò.

- C'è Firmiani? - chiese egli entrando dal portinaio.

- Il conte Gerolamo? No signore; è uscito or ora dopo pranzo.

- E la contessa?

- La contessa Cristina è in casa.

- Allora andrò da lei.

Montò le scale e:

- C'è il conte? - chiese di nuovo al servo che venne ad aprirgli, quasi volesse constatare che egli non veniva che per lui.

- No signore.

- E Cristina?

- È in casa.

- È sola?

- Sí signore. Credo che sia nella sua camera da letto.

- Ebbene avvisala che, giacché non ho trovato suo marito, sono qui per salutarla.

E senza neppur cavarsi il soprabito s'avviò verso la sala di ricevimento.

C'è un proverbio, o per meglio dire un adagio che suona: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Io credo che si possa soggiungere con uguale fortuna: dimmi come abiti, e ti dirò quanto vali. L'aspetto d'una stanza può essere una intera rivelazione. Cristina, con tutto il suo talento e tutto il suo spirito, non aveva saputo ammobigliarsi con buon gusto il proprio appartamento. In quella sala si sarebbe detto ch'ella non avesse saputo dissimulare i malvagi istinti e la tenace natura. C'era della bellissima roba; ma una ignobile mano aveva presieduto a quell'ammobigliamento. I colori stonavano fra di loro; nessun oggetto parlava al cuore... non un fiore, non un capo d'arte, non una memoria... Una vera sala senza espressione!

Quando una donna ben nata, ricca, educata, soffre di abitare in un appartamento in cui le leggi del buon gusto sieno lese, per quanto leggermente, il carattere di quella donna, per me, è già bell'e delineato. Ella potrebbe essere buona come un angelo, bella come una Venere, virtuosa come la madre dei Gracchi, difficilmente potrei appassionarmi per essa, giacché sarei certo che le mancherebbe una dote preziosa per la donna: la grazia... il buon gusto.

Cristina era cosí. Sappiamo già a un dipresso quali rei progetti volgesse nell'animo costei, e di quanta perfidia ella fosse capace. Pronuba, per non dir peggio, agli amori di sua cugina, era riuscita a darle un amante. Ma questo non era che il prologo del dramma che essa meditava. L'amore di Noemi doveva servirle per arrivare alla catastrofe, ad ottener la quale fidava sopratutto nella gelosia del Dal Poggio, ch'essa conosceva come il piú orgoglioso degli uomini.

Ma il difficile stava nell'aprirgli gli occhi. Di qual mezzo servirsi fra i pochi infami mezzi che si conoscono per avvisare un marito che sua moglie lo tradisce? Una lettera anonima, oltre che non sapeva da chi farla scrivere, temeva non producesse l'effetto desiderato.

"Emanuele" pensava fra sé "farebbe la stolidità di mostrarla a Noemi, e allora questa messa in guardia distruggerebbe ogni mio piano. Bisogna vibrare un colpo solo e a tempo giusto. Bisogna che egli sappia la cosa d'improvviso, quando meno se la pensa. La sua gelosia gli farà commettere un'azione da far parlar l'intera Milano. Allora, separazione di letto e di mensa, Noemi sarà perduta per sempre... e il nonno capirà che bel gioiello si tenesse tanto caro!"

Mentre volgeva in cuore l'infernale progetto, aspettando al varco l'occasione di informare segretamente il Dal Poggio di ciò che sapete, ella scoprí che Emilio, prima di Noemi, aveva avuto per amante una crestaia dalla quale non s'era distaccato ancora del tutto. Non le poteva capitar di meglio. Per poco che la crestaia fosse gelosa, c'era da aspettarsene uno sdruscito, quando la fosse venuta a sapere che Emilio aveva un'altra amante.

Coll'idea che costei le avrebbe potuto servire, era andata difilato ad ordinare un cappello da madama Chaillon, la maestra della Gigia, pregandola, come sappiamo già, di mandarle la fanciulla per provarlo. Venuta la Gigia a casa sua, l'aveva interrogata alla lontana sui suoi amori, e le aveva toccato di Emilio Digliani. La ragazza a quel nome sparse qualche lagrimina che fu per la Firmiani di ottimo augurio.

Stavan cosí le cose quando il Dal Poggio venne a casa sua. All'udire che il marito di Noemi era venuto per parlare con Girolamino non sospettò menomamente che egli avesse il secondo fine che noi sappiamo, e pensò che le cadeva la palla al balzo per cominciare a scuotere quella superba sicurezza, e per attizzare un po' la di lui curiosità riguardo alla condotta di Noemi.

- Che buon vento, Emanuele? - diss'ella entrando nella sala, gaia e sorridente come una primavera avanzata.

- Son venuto per parlar con Gerolamo, ma, come al solito, non lo trovo. M'hanno scritto per un certo affare che egli sa, e volevo chiedergli un consiglio.

- È andato dal podestà; - disse Cristina - Ma siediti un minuto, cavati il soprabito.

Dal Poggio ubbidí quasi macchinalmente e si sedette con Cristina innanzi al camino.

- Ti dirò, Emanuele, - ripigliò la Firmiani con un'aria di insinuante confidenza - io sono un po' ambiziosa... e vorrei vedere mio marito qualche cosa in paese...

- Lo so.

- Chi te lo disse?

- Lui.

- E che cosa ti disse?

- Che sei ambiziosa.

- E poi?

- Che vorresti vederlo consigliere comunale, assessore, membro dell'istituto, e cavaliere di qualche ordine.

- Sí, lo confesso. Non dirò che Gerolamo sia un'aquila... ma a queste cariche potrebbe degnamente aspirarvi; che ne dici?

- Dico che hai perfettamente ragione. Egli ha già, è vero, un titolo e un grado accademico, che gli possono bastare per far buona figura in società; ma è certo che quelle cariche aumenterebbero la importanza della sua posizione sociale.

- Egli pretende che in questi tempi sia meglio starsene oscuro che mettersi in vista; ma io non gli do ascolto e lo spingo... lo spingo.

- Fai benissimo. Che cosa intende con questi tempi? Diventa forse visionario anche tuo marito, come il nonno?

- Il nonno? Oh che dice il nonno dei tempi?

- Eh! tu sai bene, pover'uomo! Ha certe idee! Dice che, volere o non volere, prima di morire vuol vederli a partire un'altra volta.

- I Tedeschi?

- Sicuro.

- Beato lui!

- Sarebbe la quarta; ed è per questo che non la vedremo né lui né io. Omne trinum est perfectum.

- Oh! dimmi, e Noemi come sta dall'altro ieri?

- Noemi; - rispose il Dal Poggio con una indifferenza che ingannò anche la Firmiani - Noemi sta piuttosto bene.

- Lo dici in modo che lascia supporre che ella potrebbe star meglio.

- No... voglio dire che a sentire il nonno ella sarebbe un po' triste da qualche tempo in qua... non avrebbe piú il suo buon umore d'una volta.

Mentre cosí parlava, senza farsi scorgere, frugava nel viso a Cristina, che avea gli occhi altrove. La vide sorridere maliziosamente.

- Lo disse anche a me; - sclamò questa.

- Io, - continuò il Dal Poggio - gli risposi che non me n'ero accorto, e che non sapevo vedere la causa di tale imaginaria mestizia.

Cristina fe' mostra d'essere un po' imbarazzata, e non rispose.

Il Dal Poggio, che non s'aspettava questo contegno, si turbò; ma non volendo lasciar trapelare nulla di ciò che gli passava in cuore, ripigliò nello stesso modo:

- È certo però che quell'osservazione del nonno mi fece accorto che infatti Noemi s'è mutata un po' da quella che era...

- Che vuoi, Emanuele? - disse la Firmiani - tu sai bene che noi donne abbiamo talvolta certe cause di tristezza che non potete avere voi altri uomini d'affari...

- Frascherie! Leggerezze!

- Il nonno l'altr'ieri dopo pranzo tenne lo stesso discorso anche a me...

- Ma dunque la è un'idea fissa la sua?

- Pare.

- E che cosa gli hai detto?

- Ecco, ti confesso che sulle prime gli ho detto francamente che mi pareva che avesse le traveggole... ma poi osservando meglio Noemi, mi parve di scoprire infatti qualche cosa tra ciglio e ciglio che non aveva mai veduto.

- In verità io non saprei a che attribuire...?

- Ma le hai chiesto qualche cosa?

- Io no... Tocca a lei se ha qualche cosa a confidarlo a me.

- È verissimo... Tranne che la sia una cosa...

E qui Cristina s'interruppe fingendo che la frase che stava per pronunciare le fosse sfuggita in fallo di bocca...

- Tranne che la sia una cosa ch'ella non mi possa dire? - chiese il Dal Poggio che cominciava a sentirsi turbare seriamente.

- No, non dicevo questo nel senso che intendi tu...

- Io? Non l'intendo in nessun senso; - sclamò il marito - Che volevi dunque significare?

- Volevo significare che v'hanno in noi talvolta certe fantasticherie delle quali non vorremmo neppure render conto a noi stesse... figurati poi al marito!

- Fantasticherie? È appunto questo che non si deve! Le fantasticherie son cose da lasciarsi ai poveri poeti... Che diamine!

- Ah tu sai bene! I poeti le hanno in versi... noi donne le abbiamo in prosa...

- Oh vedi mo'; - disse il Dal Poggio affettando sempre una gran disinvoltura - io non credevo di venir oggi su questo argomento; ma, giacché ci siamo, ti assicuro che la mia curiosità con queste tue fantasticherie si è discretamente svegliata. Sono per credere che tu ne sai qualche cosa.

- Che vuoi ch'io ne sappia, - rispose la Firmiani ridendo - se le sono appunto fantasticherie? Tu sai prima di tutto che Noemi è piena d'imaginazione e che legge dei romanzi.

- Oh credo di no, adesso.

- Perché?

- Perché gliel'ho severamente proibito.

- Davvero?

- Senza dubbio; non che io dia al romanzo quella importanza, né quell'influenza che alcuni gli attribuiscono; ma gliene do abbastanza per non volere che mia moglie ne legga. Del resto, - continuò tornando direttamente sul proposito - non fa bisogno di leggere romanzi per avere dei vapori pel capo...

- Oh questo è vero!... Basta di averne già letti in passato! - sclamò Cristina che godeva dell'imbarazzo del Dal Poggio - Ma non so come tu ti sia messo a dar importanza a queste cose. Sai che Noemi è una buona donnetta, che non farà mai una cosa fuori del suo dovere... e questo ti dovrebbe bastare per essere tranquillo... Del resto, certe fisime... certe ombre che vengono talvolta in capo... passano come sono venute...

Il Dal Poggio s'alzò da sedere, perché capiva di perdere la bussola. Era quello forse il primo accesso di gelosia che lo prendesse dacché era marito di Noemi.

Cristina finse di non accorgersi, e lasciò che il Dal Poggio si rimettesse dal suo turbamento.

Questi dopo d'aver data una giravolta per la sala, come uomo che si dispone a partire, tornò a sedersi in faccia a Cristina e, cangiando tono, le disse:

- Mia cara Cristina, tu senza volerlo mi hai messo... nella posizione... di dover continuare questo discorso con una certa insistenza; perché capirai che, quantunque io conosca perfettamente mia moglie, come quella che fu, si può dire, educata da me, non trovo necessità di lasciarle in testa neppur quell'ombra passeggera a cui tu accennavi... Perché, insomma... ormai è inutile parlar in metafora... io so che quell'ombra vuol dire che Noemi può aver concepito qualche simpatia...

- Oh sta a vedere che saresti un po' geloso adesso!

- Geloso! No... Dio me ne guardi! Mi stimo troppo, e stimo troppo Noemi per esser tale... Non fa bisogno d'essere geloso per cercare i mezzi di ovviare ad un inconveniente che può nascere...

- Non dico di no... ma prima di tutto non bisogna esagerare il pericolo...

- Io non esagero nulla. Soltanto che penso una cosa; ed è che tu mi puoi essere d'un certo aiuto.

- Oh come mai?

- M'è venuto in mente che se la cosa è vera non può essere accaduta... che qui da te.

Il sorriso di Cristina persuase il Dal Poggio di aver colpito nel segno. Ella però in parole negò ricisamente:

- È impossibile! - disse - me ne sarei accorta.

- Io però ti ripeto, che è impossibile altrimenti. Ella non va in altra casa che nella tua; da noi non viene anima viva... mentre qui so che ci capita alcuno.

- Oh sí certo, io ricevo molta gente, ma tu sai che gli è appunto fra i molti che si corrono minori pericoli...

- Sarà benissimo, però non credo che tu riceva tutte le sere, e Noemi veniva spesso da te...

- Sí, è vero. Allora non capitavano che gli amici intimi: Teodoro Frenzi... Emilio Digliani...

- Digliani! Questo nome non mi è nuovo! - sclamò - Oh appunto! È quel giovane di cui ho arrestato il feritore la settimana scorsa.

- Precisamente.

- E che uomo è?

- Uno dei piú bei giovani ch'io abbia conosciuto; - rispose Cristina con disinvoltura - Ha per amante una fattorina della mia modista... che ne è innamorata... Poverina come ne è innamorata... La stavo appunto aspettando quando sei venuto.

- E viene spesso da te, questo signor Digliani?

- Senza dubbio; - rispose Cristina ridendo a mezza bocca come donna che ama di scherzare - e se io fossi un marito, dico il vero, ne avrei una terribile paura...

- Ah io non sapevo questa circostanza! - rispose il Dal Poggio cercando di sorridere. - D'ora innanzi mi permetterai di non condurti piú Noemi cosí di spesso alla sera.

Cristina mostrò d'essere stupita di tanta serietà, e accennò di volger la cosa in ischerzo.

- Ecco come siete voi; se avessi preveduto che mi dovevi prendere cosí sul serio, mi sarei guardata bene di pungerti...

E fu interrotta dal servo che si presentò sull'uscio della sala.

- Ebbene Andrea?

- Madama Chaillon le fa dire che questo dopo pranzo la Gigia non è tornata a scuola perché è andata a cena al Rebecchino, ma che domani a mezzogiorno gliela manderà senza fallo.

CAPITOLO DECIMO GRILLI MARITALI

Il Dal Poggio uscí dalla casa della Firmiani in uno stato d'animo di cui non sapeva render ragione a sé stesso. L'inquietudine di prima s'era accresciuta di tutte le insinuazioni di Cristina. Ma, a dir precisamente ciò che egli provasse, ogni parola è poca; le parole esprimono alla meglio gli affetti e i sentimenti ad uno ad uno, ma difficilmente possono rivelare in un sol colpo quel contrasto che vi fanno piú sentimenti diversi, e in cui sta appunto il segreto dell'anima.

Giunto nella via, stette a pensare dove sarebbe andato a passare la sera, e stupí di non avere desiderii. Il club non lo chiamava come il solito. La partita di wisth, i discorsi di politica e di borsa non avevano piú attrattive in quel punto... Invece si sentiva trascinato verso casa propria; e quantunque facesse forza per non lasciarsi sedurre da questa tentazione, quasi che ne provasse vergogna, aveva preso da quella parte.

L'uomo grave sdegnava di rompere un'abitudine per una specie di capriccio della mente. Gli pareva debolezza accondiscendere, e credeva di mettere in pratica un famoso detto dell'antica filosofia col vincere sé stesso, laddove c'era cosí piccolo bisogno di vincere. Noemi gli stava fissa in mente dinanzi, però; e quest'imagine, che or gli faceva l'effetto di un rimprovero, ora di una minaccia, gli turbava fieramente il suscitato orgoglio. Il rimprovero accennava al passato; e gli faceva risentire un po' di quel rimorso acquietato poco prima pensando ai súbiti guadagni di borsa. La minaccia accennava all'avvenire; e gli faceva riprovare, non la trepida e modesta paura d'un uomo che ama, ma il cruccio ingeneroso d'un marito che pensa a' proprii diritti, e teme di vederli offesi.

Si trovò sulla porta di casa sua senz'accorgersi. Le gambe ve l'avevano portato. Consultò l'orologio: erano le nove e mezza. Entrò; e dal cortile scorgendo attraverso le vetriate il lume nella camera da letto di Noemi, montò le scale ed entrò da lei.

La camera da letto di sua moglie era divisa dalla sua da un'ampia galleria di quadri. Da marito prudente, il Dal Poggio aveva adottata questa misura fin dal primo giorno del suo ritorno dal viaggio di nozze; misura che si potrebbe chiamare il termometro dell'amor coniugale, dacché non è rado di udirla predicata in teoria da scapoli, che poi non la osservano in pratica, quando siano entrati nel numero dei piú.

Ma il Dal Poggio, invece, aveva trovato nel suo carattere troppo buone ragioni per essere tentato mai di violarla. Rientrando in casa a tarda notte, sia che Noemi fosse rimasta a far compagnia al nonno, sia che la carrozza l'avesse ricondotta a casa dalla conversazione della Firmiani, ei soleva chiedere al servo se sua moglie fosse ancor levata, e, se sí, degnavasi di entrare a darle la buona notte,... se no andava difilato in camera sua e non la rivedeva che a mattino, quando la famiglia si riuniva per far colezione.

Noemi, dal giorno che l'amore per Emilio le aveva rivelato un mistero di passione fino allora sconosciuto, aveva provato uno sgomento indicibile al pensiero che suo marito potesse mostrarle un momento di tenerezza. Sulla falsa via ch'ella batteva, quel pensiero era onesto; ma doveva esser tutto a suo danno, giacché è detto che nella moglie colpevole le buone qualità debbano riuscire a maggior danno che non le cattive. Perciò ella aveva posto ogni suo studio a scongiurar quel pericolo, adoperando tutti quei mezzi e quel grado di simulazione di cui fosse capace la sua aperta natura.

Fra quei mezzi, il migliore, quello che le aveva sempre giovato al balenar del pericolo, era di fingere di non sentirsi bene. Lieve menzogna fra tutte le femminili menzogne, e forse la piú di moda. Chi sapesse far la storia di certe emicranie e di certi mali di nervi di cui si fa ancora tanto abuso dalle donne, chi sa quanti misteri non svelerebbe di questo genere!

Noemi, poco prima che suo marito entrasse in casa, se ne stava abbandonata mollemente nella sua sedia a bracciuoli dinanzi al franklin nella sua stanza da letto. Un volume le stava aperto sul grembo, dove l'aveva posato, stanca di leggere, o piuttosto che stanca, svogliata. Il suo sguardo fisso, lungo, intento sui tizzoni, che le crepitavano dinanzi, mostrava che la sua anima era altrove.

Ella pensava ad Emilio.

A un tratto dall'orologio della chiesa vicina udí scoccare il primo tocco delle nove e mezza; e nello stesso tempo intese il passo di suo marito che attraversava il cortile sotto la sua finestra.

All'udire entrare in casa Emanuele a quell'ora cosí insolita, Noemi fu presa da quella specie di molesto presentimento, che l'assaliva ogni volta che prevedeva di dovere trovarsi da sola a solo con lui; per darsi un contegno, riprese in mano il volume, e continuò la lettura; e quando il Dal Poggio ebbe battuto sul di lei uscio colla nocca dell'indice, e, avutone licenza, si presentò sulla soglia, ella non gli levò in viso lo sguardo.

- Buona sera, Noemi; - disse il Dal Poggio avanzandosi verso di lei.

Allora staccò gli occhi dal libro e sclamò con un sorriso:

- Oh! sei tu? Cosí presto?

Nel dir cosí l'aveva guardato, e s'era accorta subito che qualche cosa di nuovo si volgeva nel suo capo. Attenta com'era a ogni moto della sua fisonomia, Noemi aveva veduto nello sguardo di suo marito un'insolita espressione, che le rimescolò nelle vene il sangue.

- Che miracolo! - continuò Noemi, deponendo il romanzo che stava leggendo sul piano del franklin.

- Sí, - rispose il Dal Poggio sedendosi - non sono stato al club... ho pensato che tu eri rimasta in casa col nonno; che a quest'ora saresti stata sola e ho detto: andiamo a tenerle un po' di compagnia.

Noemi era da tanto tempo assuefatta a non udire da suo marito espressioni di cortesia, neppur in isbaglio, che quelle parole la fecero stupire.

- Ti ringrazio; - rispose ella; e nel tuono di sua voce, quantunque gentile, si sarebbe detto ch'ella volesse mostrare di non dar importanza né a ciò che aveva detto suo marito né al proprio ringraziamento.

Il Dal Poggio era l'uomo meno indagatore che la provvidenza avesse posto al mondo. Nulladimeno, da quella fredda inflessione di voce, con cui Noemi aveva pronunciato il "ti ringrazio" fu colpito. Il buon uomo si aspettava maggiore riconoscenza nella voce di sua moglie.

- Che cosa leggi di bello? - chiese egli prendendo in mano il volume che Noemi aveva posato sul piano del franklin, e leggendone il titolo sulla coperta - Questo è un romanzo...! - sclamò con voce sdegnosa - Ma non ti avevo pregata di non leggere questa sorta di libri?

Noemi godendo di stornar l'attenzione di suo marito... forse da altre idee, pensò di entrare in discussione, e rispose con una franchezza insolita:

- Mio caro Emanuele, io ho sempre creduto che t'intendessi di parlare dei romanzi cattivi e sopratutto dei romanzi francesi. Quello che hai in mano m'hanno detto invece che è buono, ed è, come puoi vedere tu stesso, italiano.

- Io non ho mai detto questo; - sclamò il Dal Poggio - per me, italiano o francese poco importa; e, quanto al buono od al cattivo, non so che cosa tu voglia dire; il romanzo per sé stesso non può essere che un libro cattivo.

- Ma tu non parli sul serio, Emanuele. Io non ho mai avuto la pretesa di discorrere a fondo di letteratura, ma un solo esempio mi basterebbe a mostrarti che hai torto...

- Oh Dio! So che cosa vuoi dire... Quegli eterni Promessi sposi! E che cosa provano del resto? Son fatti da un uomo che non conosce quasi le monete, e che da' suoi scritti non ha mai ricavato da comperarsi un cappello.

- Non capisco, Emanuele, che cosa c'entri il guadagno d'un autore col merito del suo romanzo. A me non è mai passato pel capo di scriverne; io mi limito a leggerne qualcuno di quando in quando...

- In ogni modo mi pare che per farmi un piacere avresti potuto dar totalmente il bando a queste futilità...

- Ma, ti ricorderai che ti avevo pregato di fornire tu stesso la mia piccola biblioteca. Mi sarebbe impossibile di star senza leggere. Il ricamo mi annoia... la musica mi fa male... e... non ho altro.

Ma non aveva pronunciata quest'ultima frase, che già s'era pentita d'averla lasciata sfuggire.

- Sarebbe dunque vero? - sclamò il marito - che, come mi disse il nonno, tu sia un po' in collera con me perché ti trascuro?

- Io? Perché tu mi trascuri...? Tutt'altro!... Chi ti disse questo?

- Il nonno. Egli pretende che tu sia malinconica ed annoiata. Io gli risposi che tu hai troppo buon senso per non capire che io non posso starti al fianco tutto il giorno a farti ballare sulle ginocchia. Non è vero?

- Certo! Ti assicuro che io non gli ho mai lasciato supporre d'essere annoiata. E perché dovrei esserlo?

Il marito non rispose; rimase sopra pensiero. Quella docile condiscendenza di Noemi, invece di accontentarlo, rinfocolava quel dispetto geloso che avea recato in cuore dalla casa di Cristina. Egli che s'aspettava dalla moglie qualche dolce rimprovero, e che si sentiva tanto disposto quella sera a subirlo, fu sorpreso e ferito da quella insolita freddezza.

Era la prima volta - l'ho già detto - dopo il suo matrimonio, che il Dal Poggio si trovasse da meno di sua moglie... Ma egli cominciava a sentir gli albori d'una tremenda gelosia... E gli pareva che quella donna che gli stava dinanzi non fosse piú Noemi, tanto si sentiva nuovo, quella sera, dinanzi a lei... La fissò con una curiosità inusata... e, nel guardarla, insieme all'ira repressa, insieme al nuovo turbamento, sentiva sciogliersi, per cosí dire, il ghiaccio del cuore... La sua attenzione, per tanto tempo assonnata, si era desta sotto quei pungoli prepotenti, e gli aveva fatto guardare in viso a sua moglie come non gli era mai accaduto di guardarla fino allora.

Strano fenomeno! Lo credereste? Quello sventurato s'accorse in quel punto... e dirò quasi per la prima volta, quanto Noemi fosse bella! A quel barlume di amore geloso, gli si spiegarono dinanzi, quasi per incanto, i tesori inavvertiti della splendida bellezza di Noemi... Il suo sguardo dal ricco volume dei capegli di lei, scese agli occhi incantevoli, e alla bocca rosea, e al seno voluttuoso... e allora... al pensiero che ella gli potesse sfuggire, l'uomo freddo sentí nel cuore quello spasimo che si immagina debba produrre un ferro rovente attraverso le carni.

Come talvolta a distruggere un'amicizia basta una frase, cosí a suscitar un incendio d'amore basta un lampo di gelosia. Il Dal Poggio da un leggero moto del cuore - da uno di quei moti, il cui studio egli qualificava di futilità - si sentiva, senza saperlo, mutato a un tratto, come per l'effetto di magia. Quel lampo gli aveva risvegliata la confusa memoria degli anni giovanili, quando alla Borsa e agli affari ei non dava troppa importanza. Gli parve di esser tornato a vent'anni. Il suo sguardo, intento, desioso, fissato nelle sembianze della cara donna, brillava come quello d'un ubbriaco.

- Noemi, - diss'egli; e stesa la destra fe' per prendere quella di sua moglie che spiccava bianchissima sul vestito oscuro.

A quell'invito Noemi aveva fatto un quasi impercettibile moto per ritirar la mano. Ma gliel'aveva stesa poi subito, non senza rivolgergli una nuova occhiata di meraviglia.

- Noemi, - diss'egli - sai tu che non ti ho mai veduta cosí bella?

A questa frase, la donna non fu cosí munita contro il moto istintivo del suo cuore da non tentare di ritirare la mano da quella di suo marito. La sventurata si sentí presa da un mortale sgomento.

- Questa sera tu sei d'una galanteria insolita; - diss'ella sforzandosi di ridere - Che cosa vuol dire?

- Vuol dire che ti amo; - rispose il marito con voce quasi strozzata da un'emozione nuova, strana, prepotente...

- Lo credo! - sclamò Noemi tentando di non dar alcuna importanza alle parole di suo marito; e aggiunse con un po' d'ironia: - Non ne ho mai dubitato.

Il Dal Poggio che stava lí lí per baciare la mano a sua moglie, ebbe a tornar in sé.

- Ascolta, Noemi; - diss'egli piú calmo - questa sera ti sembrerò un po' strano... infatti anch'io non mi riconosco piú; non so che cos'abbia... ma ho bisogno assolutamente di sapere se mi ami... se mi hai sempre amato... se mi amerai sempre.

Noemi meravigliata di quella uscita incoerente non trovava subito la risposta. Il Dal Poggio, che con un resto di orgoglio, aspettava ch'essa gli si gettasse nelle braccia, a quel silenzio, si rizzò colpito da una tremenda idea.

"Essa ama un altr'uomo!" pensò; e le parole di Cristina gli ripiombarono tutte sul cuore con una spaventosa evidenza. Lasciò andar la mano di sua moglie, e fe' un passo verso di lei, pallido e truce.

- Emanuele! - gridò Noemi che si vide perduta se non chiamava in soccorso un po' di sangue freddo - ascolta... calmati; tu mi turbi la mente questa sera co' tuoi modi strani.

- Rispondimi dunque; mi ami tu ancora? mi ami tu ancora?

- Perché vuoi ch'io ti dica una cosa che sai? Che idea è la tua?!... Il nonno ha straveduto... tu sai bene che il nonno...

- No; - interruppe Dal Poggio - ora non si tratta piú del nonno... si tratta di me;... te l'ho già detto: non sono piú io, questa sera;... che importa? Ho bisogno d'un giuramento;... giura qui, su questa mano, che il tuo cuore è puro ancora come il giorno che divenisti mia moglie...

E, cosí dicendo, le stendeva dinanzi la mano aperta.

La verità non ha che una forma; la finzione ne ha mille. E davvero che a considerare il mondo sotto un certo aspetto, c'è da ringraziare la Provvidenza, che abbia voluto, colla multiforme finzione, coprire tanti mali della povera umanità. Se è vero che la somma di questi sia d'assai superiore a quella del bene, la verità sola e nuda, quante tristi e scellerate cose non isvelerebbe ogni minuto!

Che sono mai la politica, la diplomazia, la storia, se non immense finzioni? Se la verità scoprisse continuamente le cause segrete e reali degli avvenimenti ne avremmo spavento e vergogna. Non è forse per mezzo della finzione che la società ha conservato quel po' di fede che le resta ancora?

La verità: è la fredda terra spogliata di verzura, che sarà presto o tardi la tomba a ciascuno di noi; la finzione: è un giardino in primavera, le cui negre zolle sono coperte dalle erbe e dai fiori. La verità: è la donna appena alzata dal letto, pallida, colle occhiaie, discinta; la finzione: è la donna abbigliata pel ballo, imbellettata, rigonfia - che importa? - pur ch'ella sappia suscitarmi un palpito nel cuore, purch'ella sappia strapparmi un: "come è bella!" dalle labbra?

Benediciamo adunque la finzione - da quella del poeta, che colla splendida fantasia ci crea dinanzi un mondo ideale - fino a quella di una moglie colpevole, che nell'accento della propria voce sa trovare la sicurezza dell'innocenza, per acquietare le furie di un marito geloso.

Noemi, come tutte le creature che temono e soffrono, aveva acquistato di fronte a suo marito una lucidità di intuizione quasi magnetica, che, anche in mezzo al suo sgomento, le faceva misurare il pericolo con sicurezza. Quanto piú ella se lo esagerava colla trepida fantasia finché era lontano, tanto piú si trovava preparata ad evitarlo, o a combatterlo, quando le si fosse presentato.

Povera Noemi! Chi avrebbe mai detto a lei cosí ingenua e sincera che sarebbe venuto un tempo in cui le sarebbe toccato di mentire? E come altrimenti? Una terribile necessità la costringeva. La verità non sarebbe stata un suicidio sulle sue labbra? Disse bene chi paragonò la vita ad una bottoniera: a chi sbaglia il primo occhiello conviene sbagliarli tutti. E del resto ha poi tanta colpa la donna d'essere finta, quando lo è? Non vive essa continuamente in un'atmosfera di pregiudizii, di false convenienze, e di ipocrisie? Quante volte la madre non ripete a sua figlia che per saper vivere bisogna nascondere le piú ingenue emozioni; dissimulare le impressioni piú innocenti; star seria quando si avrebbe voglia di ridere; ridere quando si avrebbe voglia di star seria; alzar gli occhi e guardar in viso a della gente antipatica; abbassarli e non guardare quando importerebbe tanto di vedere? E guai a lei se coraggiosa s'attenta di violare questi precetti; guai a lei se si dà a credere di poter essere schietta impunemente!

Dopo ciò lamentiamoci se la donna ha imparato a mentire!

Ma Noemi non sapeva mentire francamente. Un'impostura, una sfacciata menzogna, nessuna forza, nessun pericolo al mondo sarebbe stato capace di strappagliela dalle labbra. E quando suo marito, quasi fuor di sé, le stese la mano, perché ella vi giurasse sopra che lo amava ancora, e che l'avrebbe sempre amato, ella - che con una sola parola avrebbe potuto distruggere ogni di lui sospetto - non pensò neppur per ombra, non le passò neppur la tentazione di pronunciarla.

Nondimeno da quella stretta bisognava pur guizzarne fuori in qualche modo.

Allora, gettandosi indietro nella sua sedia, come donna assalita da invincibile ilarità, diede in un sonoro scoppio di riso, sclamando:

- Oh, ma sai, Emanuele, che questa sera tu mi sembri davvero un bell'originale!

E, come se poi le sue stesse parole le aumentassero la giocondità, continuò per qualche tempo a ridere col piú naturale abbandono.

Un secchio di acqua gelata sulla testa di un fanciullo capriccioso fa minor effetto di quello che facesse sul Dal Poggio l'ironica allegria di sua moglie. Ei ne fu cosí sconcertato, che, ritirata la mano, stette muto, indeciso, senza trovare una risposta, senza aver cuore di sdegnarsi. Nel tornare in sé si sentiva invaso dalla piú terribile delle paure che possa assalire un uomo orgoglioso: la paura di esser ridicolo, e si trovava, senza saperlo, preso nei proprii lacci.

Quel momento di pausa e di silenzio fu prezioso per Noemi, la quale, mentre rideva di fuori, si sentiva, di dentro, morire. Ella si vedeva sul margine dell'abisso, giacché se suo marito, con una dura parola le avesse troncata in bocca quell'ilarità e le avesse rinnovata la domanda, ell'era perduta.

Fortunatamente, come dissi, il Dal Poggio, tornato in sé, era rimasto perplesso fra i varii pensieri che gli agitavano l'anima ancor nuova alla passione: dispetto cocente di aver perduto in un tratto il vantaggio della propria posizione: paura del ridicolo che lo stoglieva dal continuar la scena in quel tragico modo: orgoglio e gelosia che gli vietavano di accondiscendere alla ilarità di Noemi e di riconoscere la propria debolezza.

- Non c'è nulla da ridere, mi pare; - diss'egli, adottando una mezza misura, peggiore assai di qualunque dei partiti estremi che gli si presentavano - Tu sai, Noemi, che io non amo che si prendano in ischerzo le mie parole; io non ischerzo mai. Se ciò che t'ho detto t'è sembrato un po' fuori dell'ordinario non è per questo meno serio.

Noemi si vide salva. Capiva che, scongiurato il primo pericolo, non aveva piú nulla a temere. Nel dialogo che stava per avviarsi tutti i vantaggi erano dalla sua.

- Ma, mio caro Emanuele, - diss'ella cessando dal ridere - mi concederai che dopo quattro anni di matrimonio si può essere discretamente sorpresi d'intendere per la prima volta una domanda... cosí strana.

- Strana! - sclamò il Dal Poggio con mal celato dispetto - Non trovo nulla di strano che un marito si interessi di sapere ciò che forma il cardine dell'unione matrimoniale.

Noemi a tanta pedanteria fu sul punto di ricominciare a ridere... e questa volta di cuore. Ma si trattenne e rispose:

- Anche questa è una cosa nuova per me. Mi permetterai di ricordarti che tu mi ripetesti moltissime volte come l'amore nel matrimonio sia una cosa superflua, e incompatibile coi...

- Sarà benissimo! - interruppe il Dal Poggio con una tremenda ira nell'anima - e ciò che ti ho detto allora non voglio certo disdirlo adesso... Ma io credo però di aver il diritto di chiedere a mia moglie stretto conto de' suoi sentimenti a mio riguardo. Spero di parlare con tutta freddezza, ora...

- Mi pare, - disse Noemi con dignità, ma senza levare gli occhi in viso a suo marito - mi pare che sarebbe meglio troncare questo discorso, in cui ti assicuro, finiresti col non trovarti perfettamente dalla parte della ragione.

- Ma Noemi... in verità... questo linguaggio... io non capisco...

- Oh lo so che non mi capisci! - continuò vivamente Noemi, commossa ed accalorata a poco a poco da un nembo di idee dolorose, che le sorgevano in cuore, pensando al passato - Se tu mi avessi capita fin dal principio, non ci sarebbe stato bisogno di farmi quella domanda che m'hai fatto poc'anzi...

- Ah! ma dunque non m'ingannavo!? - sclamò il Dal Poggio balzando in piedi cogli occhi scintillanti - Dunque avevo ragione di sospettare...?

- Emanuele, te ne prego... non riscaldarti di nuovo. Non ho voglia stasera di inquietarmi... non mi sento bene... Si; te lo ripeto; vi fu un tempo in cui ti avrei risposto altrimenti; e allora sarebbe bastato cosí poco da parte tua...!

E Noemi pronunciò queste parole con un inenarrabile accento di verità. In quel momento ella aveva dimenticata la propria colpa e sentiva di aver tutte le ragioni.

- Ma non si tratta del passato, adesso; - ripigliò Dal Poggio - adesso si tratta dell'avvenire...

- Oh chi lo conosce l'avvenire! - sclamò Noemi dolorosamente.

- Ah! Signora mia, non facciamo frasi!... voi sapete che io non sono uomo da accontentare con delle frasi... Mi direte voi chi sia l'uomo che ha preso nel vostro cuore il mio posto?

- Queste sono parole che non dovrebbero uscire dalla tua bocca, Emanuele, - rispose Noemi - Questa è una domanda a cui una moglie non dovrebbe rispondere neppure se lo potesse...

Il Dal Poggio, che già stava per afferrarle il braccio e per farle violenza, come colpito dalla giustezza di questa risposta e dal tuono risoluto con cui fu pronunciata, si trattenne. Stette indeciso un istante, poi cacciandosi una mano nei capegli e ritirandola subito come se non volesse mostrar a sua moglie ciò che gli passava nel cuore, sclamò:

- Va bene... so che cosa mi resta a fare.

E si mosse a dare una giravolta per la camera.

Chi avesse potuto scorgere lo sguardo che Noemi gli lanciò quand'ei le volse le spalle, avrebbe avuto compassione di lei.

Il Dal Poggio le ritornò dinanzi.

- Capirete, signora, - diss'egli con voce calma - che non la può finire cosí. Per questa sera basta. Anch'io ho bisogno di non inquietarmi. Soltanto vi proibisco severamente d'ora innanzi di mettere piede in casa di Cristina, sia di giorno che di sera... Avete capito?

- Farò come desiderate; - rispose Noemi con un filo di voce.

- Non come desidero... Come comando.

- Ah Emanuele, se credete con questi modi...

- Basta cosí, signora! Ricordatevi soltanto di ciò che vi ho detto, se non volete esporvi a serie conseguenze...

Noemi non batté palpebra, e il Dal Poggio, preso il cappello, senza ripetere sillaba uscí dalla camera.

CAPITOLO UNDECIMO EMILIO COMINCIA A RIVELARSI

Per poco che i miei lettori abbiano tenuto dietro con attenzione al filo del racconto, si saranno avveduti che gli avvenimenti narrati finora non occupano che lo spazio di quarantott'ore, vale a dire dalla mattina del giovedí, giorno 3 febbraio 1853 fino alla sera del 4, in cui avvenne appunto la scena descritta nell'ultimo capitolo, e il convito di Emilio all'albergo del Rebecchino.

Emilio verso le tre ore di notte - dopo aver accompagnata a casa la Gigia, che, chiusa nel suo dolore, non gli avea mossa parola lungo la strada - si fermò un momento sulla soglia della di lei porta, e si guardò intorno con un certo sospetto; poi, come se quel breve esame lo avesse rassicurato, zufolando a sordino il Guerra Guerra della Norma, si avviò.

La contrada, dove abitava la Gigia, che porta il nome della nutrice di Bacco, da un lato mette capo sulla piazzetta della Torre de' Moriggi, dall'altro sul corso di porta Vercellina. Emilio prese da questa; attraversò il corso; tirò via per S. Giovanni sul muro, e sboccò in piazza Castello. Giunto quasi allato del vestibolo della Madonnina, si fermò, e si mise a considerare il bruno edificio del castello quasi perduto nelle tenebre, che gli sorgeva dinanzi a un tiro di fucile.

Era una bella notte, e per gli interminabili spazi del firmamento brillavano rade e lucenti le stelle, che pronosticavano, pel domani, una bella giornata. Tirava una brezza mite e imbalsamata, di quelle che sul cadere dell'inverno pare annuncino l'arrivo d'una primavera, che poi non si vede mai. Nella piazza regnava un silenzio profondo, che lasciava udire distintamente i radi rumori della notte: qualche canto di gallo mattiniero, qualche fioco allarme di scolta, qualche lontano tocco d'orologio che segnava le tre e un quarto. V'era un'oscurità uniforme di notte senza luna, rotta soltanto da certi chiarori lontani e foschi che dinotavano le finestre illuminate di qualche casa sulla corsia di porta Comasina.

Dopo essere stato un po' di tempo immobile a gustar quel silenzio e quella solitudine, Emilio si volse per ripigliar il cammino, quando colla coda dell'occhio vide, o gli parve di vedere, un'ombra d'uomo muoversi rapida fra i pilastri dell'atrio della vicina chiesa.

- L'angelo custode! - sclamò stringendo i pugni di rabbia - Ah voleva ben dir io che stanotte non t'avessi alle spalle!

E dato intorno un rapido sguardo, per assicurarsi di non essere sorvegliato da altri, si slanciò verso il luogo dove aveva intravveduto sparire quell'ombra.

- Eccolo! - gridò scorgendo di nuovo il fantasima scivolar fuori dell'atrio, e darla a gambe giú per la piazza.

Allora, a tutta corsa, si diede a inseguirlo nell'oscurità. Cogli occhi intenti, coi denti stretti, colle dita arrocigliate e pronte a ghermire, ei volava, volava veloce, come segugio sull'orme della volpe. E già gli pareva di raggiunger quell'ombra fuggitiva, quando, accortosi a un tratto che la gli era sfumata dinanzi, si fermò a riprender fiato, a scrutar nel buio se gli venisse fatto di scoprirla di nuovo, e tese l'orecchio.

La contrada che gli si apriva dinanzi, sebbene deserta e silenziosa, era però animata da un certo vago e indistinto brulicar di rumori, che ronzavan, per cosí dire, nell'aere, e che si potrebbero chiamare i bisbigli notturni del carnevale. Erano fioche note di istrumenti musicali, che partivano da qualche casa dove si ballava... portate dalla brezza, e coperte di quando in quando da qualche piú distinto schiamazzo di maschere ebbre ed urlanti.

Perduta ogni traccia dell'inseguito, Emilio imboccò la contrada, e, dati pochi passi, si accorse di uno strepito confuso di voci, di canti e di zufoli, che si avvicinava. Era prodotto da un grosso branco di maschere che spuntato poco dopo da una contrada di fianco si avviava frettoloso verso porta Comasina.

Innanzi a tutti camminavano a lesti passi certi due figuri, camuffati in una maniera cosí eteroclita e strana, che non si avrebbe potuto immaginare di piú.

Al primo cingeva il capo un certo negozio, che si accordava col resto del suo abbigliamento, come un elmo da crociato sulla testa di un notaio, in veste da camera, che stia prendendo la sua cioccolatta coi crostini. Era una specie di sudicio turbante, che scintillava ancora qua e là per un avanzo di orpello e di lustrini, mentre la stoffa, che un giorno doveva essere stata bianca, faceva gara di giallore colla faccia sottoposta. Indosso portava una di quelle giubbone ricamate, che i nostri progenitori usarono un dí colla borsa sulla cuticagna, e l'elsa di un inutile spadino inchiodato nel fodero; sotto a questo un gran panciotto che gli scendeva quasi fino ai ginocchi, e che tanto tanto non faceva a pugni coll'abito; un paio di pantaloni di frustagno; e finalmente due scarpe scalcagnate di marocchino per metà bianche e per metà vermiglie.

L'altro, che camminava a braccio di costui, con una faccia lercia e malvagia come il vizio in persona, vestiva una di quelle maschere che il nostro volgo, con voce di suo conio, chiama la vecchia bacucca. Quel viso maschile con tanto di baffi, raccolto in una enorme cuffiaccia tutta a trine sgualcite faceva un effetto singolare. Brandiva egli un bastone, a cui da cima era attaccata una vescica rigonfia, e con quella, volgendosi indietro, andava percuotendo or l'uno or l'altro de' suoi compagni di sollazzo.

Emilio si tirò in disparte per lasciarli passare senza essere veduto. Ma il primo di quei due popolani, adocchiatolo, si staccò dalla vecchia, e gli si fe' incontro.

- Signor Digliani, mio padrone, la riverisco; - diss'egli con voce arrochita - Finalmente che lo si può allumare, lo si può! Cosa vuol dire?

- Ah sei tu, Lisandro?! - sclamò Emilio dopo averlo sbirciato da tutte le parti - Chi diamine ti avrebbe riconosciuto in questi panni?

- Eh messire che vuole? Si fa come si può. Una volta l'andava un po' migliore d'al presente. È un costume questo che ho inventato io, ho inventato. Il signor Niso, che m'incontrò anche lui prima di entrar in teatro, ne fece una sgangherata.

- E dove andate?

- Andiamo laggiú alla Foppa a soffiare un tantino nella vetriuola prima di tornar in teatro a danzar l'ultimo.

- E i compagni non t'aspettano?

- Eh! li troverò li apostoli; - rispose Lisandro - Ci siam dato il santo laggiú, dove ce n'è del buono.

- E chi sono?

- Chi gli apostoli?

- Sí.

- Eh sa bene, i soliti. C'è lo Spadon dei dodici...

- Paolino?

- Sí; poi c'è il Disma e il Michele colle rispettive smilze; - e s'accarezzò il mento - poi c'è il Gabiola e due altri del Borgo che lei non conosce.

- Se l'avessi saputo... - sclamò Emilio, quasi fra sé, attorcigliandosi i mustacchi colla sinistra.

- Ah! c'è anche il Fanfirla che mi scordavo; - interruppe Lisandro che stava contando i suoi compagni sulle dita - e pago io.

Cosí dicendo aprí le braccia in atto di chi offre, e soggiunse:

- Se posso? da povero figliolo.

- Vestito cosí, no; - rispose Emilio sotto voce - darei troppo nell'occhio; ma giacché mi hai detto che c'è Paolino, ci verrò, perché debbo parlargli.

- A proposito; - sclamò Lisandro con mistero - è già una settimana che egli aspetta vossignoria per aver ordini, e che si meraviglia di non vederla venire.

- Si meravigli pure; io faccio quello che mi par meglio, e non sta da lui il giudicarmi.

- Ma la pensi che siamo sotto sotto...

- Sotto a che cosa?

- Ah! lei vuol farmi l'indiano adesso, caro signore; non va bene.

- Ti prego a credere, - proruppe Emilio aspramente, ma senza alzar la voce - ti prego a credere che io non ho menomamente bisogno di far l'indiano. Ti domando che cos'hai voluto dire?

- Ho voluto dire che per domani sera è fissato il colpo, e che gli altri hanno già ricevuto il denaro e gli stili.

- Come sai tu questo? - sclamò Emilio prendendogli il braccio.

- Me lo ha detto Paolino.

- Dunque volete proprio farvi impiccare?

- Eh impiccare! Ci dobbiamo essere anche noi! Vedremo se saranno loro che impiccheranno noi, o noi che impiccheremo loro.

- Ma, o disgraziati, non capite che è impossibile! - lo interruppe Emilio. E s'arrestò. - Basta! Quello che ti posso dire si è che di stili non ne voglio sapere... sarà un pregiudizio ma è cosí. Da oggi io non c'entro piú per nulla con voi; cercatevi un altro capitano. Morire a me non m'importa nulla, ma quando c'è una probabilità di riuscita... Via, credilo a me; vi farete impiccar tutti... e sarete chiamati assassini...

- Venga a parlar con Paolino. A sentirlo lui la cosa è già bell'e fatta.

- Verrò, ma ti ripeto, non in questi abiti; giacché posso travestirmi sarebbe imprudenza il farsi conoscere da tutta quell'altra gente che ci sarà laggiú...

- Questo è vero; in quanto di dire a dire sono tutti figlioli della legge; ma non si sa mai; è sempre meglio star in campana.

- Bene; in men d'un'ora capiterò anch'io. A rivederci, Lisandro.

E spiccatosi da lui si diede a lestissimi passi giú per la contrada, ché gli era sembrato di vedere nuovamente l'ombra del suo angelo custode passar poco lungi dal luogo dove stava conversando col popolano.

- Sí; bisogna finirla! - sclamò poi fra sé, quando fu lontano di là, rallentando il passo - Bisogna che io esca totalmente da questi infami lacci. Meglio essere tenuto per poltrone che per assassino. Chi mi conosce sa che non sono un vile. Degli altri che m'importa? Infine, dei miei amici non sono rimasto che io fra questi ribaldi!... Volessero almeno capir la ragione...! Ma ormai tutto è impossibile. Povera gente, come s'illudono! Saranno presi tutti e impiccati, come è vero che adesso è notte buia. E d'uopo uscirne; è d'uopo uscirne... Domani sarò libero... Era tempo che avesse fine questa vita! Però non del tutto libero! Quel Paolino mi spaventa sempre... Maledetto chi me lo mise tra i piedi. Da un momento all'altro egli può denunciarmi... Non sarei il primo... In prigione... giudizio statario... la sentenza... condotto fuori... e là dinanzi l'orribile palo...

"Ma che!" sclamò rinvenendo a un tratto dalla truce fantasia "Avrei io paura? Stolido, imbecille che io sono! Che sia il sciampagna del Rebecchino che mi dà di queste debolezze? Gran che, la morte! Non l'ho io già sfidata cento volte a quest'ora? La forca!? È una morte come un'altra. Perché averne ribrezzo piú che di una palla? Una palla ti può tenere inchiodato a letto un anno tra i tormenti... la forca no;... dicono anzi che dia un certo piacere...; ha i suoi vantaggi!... E poi quel poter gridare una volta viva l'Italia sul loro mostaccio... che gioia tremenda deve essere!... piú che impiccarmi non ponno fare!... poter dir loro delle parole sanguinose prima di morire... al cospetto dei miei concittadini che verranno a vedermi salire sul palco... E Noemi?"

Questo nome caro e soave che si gettò a un tratto, e quasi suo malgrado, attraverso alle sue bieche fantasie, questo nome che gli ridestò tutte le splendide e belle emozioni della sua vita d'amore, lo turbò fieramente.

- Maledetta la politica! - sclamò - maledetti i Tedeschi, maledetti i tempi! Cara Noemi! Dire ch'io l'ho già fatta piangere coi miei malumori... Sí! Maledetta la politica! Che cosa mi sarebbe mancato per essere felice, se avessi voluto star lontano da queste orribili faccende? Ormai ho denaro... ho una posizione... ho quella donna che soltanto sei mesi fa mi pareva sacrilegio a pensare di poterla possedere... cosí bella!... cosí invidiata da tanti cuori!... che mi ama... ch'io amo... perché l'amo, perché sento che anche in mezzo a queste angoscie, che mi tocca di dissimulare a tutti..., sento che l'amo come un pazzo... Povera e cara Noemi!... Oh ma fra poco uscirò da queste strette... sarò liberato da queste paure. Paolino con un po' di denaro e un po' di minacce lo si rende quieto come un agnello... Gli dirò che ogni rapporto è troncato fra noi... se potrò, cercherò di distoglierlo anche lui. E allora la mia vita sarà tutta a te dedicata, angelo mio!

Cosí, sbalestrato da una fantasia all'altra, Emilio era giunto innanzi alla porta di casa propria in contrada del Lauro. Schiuso lo sportello, entrò; fece le scale... e dopo aver acceso un lume nell'anticamera del proprio alloggio, passò nella stanza da letto, andò ad un armadio, levò da un cassetto del denaro, se lo cacciò in tasca; ritornato quindi, in anticamera, staccò da un chiodino, che era in un'imposta dell'uscio, una chiave che trascelse fra varie che vi stavano infilate; poi, montato fino al quinto piano, schiuse con quella un usciolo ed entrò in una soffitta dov'ei teneva certe carte, certi libri e certi arnesi, che non si fidava a tenere nella sua camera.

Entrato, si cavò il soprabito, lo gettò su un lettuccio, e fattosi verso l'abbaíno, ne aprí l'imposta, posò i gomiti sul davanzale e stette un momento a mirare la sottoposta scena.

- Ecco Milano! - sclamò. Al chiarore di una luna limpida e piena che si levava in quel punto, gli si offerse dinanzi la multiforme e svariata distesa dei tetti, dei campanili e delle cupole, e gli arrivò all'orecchio, nel solenne silenzio della notte, lo strepito ignobile di gente scorrazzante per le vie.

- Va, divertiti, - continuò egli colla pertinacia ironica di chi ha le lune a rovescio - divertiti, povera città di Belloveso... forse sono gli ultimi strepiti. Fra due giorni chissà come ti hanno già conciata... se quei pazzi non desistono dalle loro idee...

Si tolse dall'apertura dell'abbaíno, andò ad una cassa, ne tirò fuori alcuni abiti da maschera, si travestí; poi, rifatta la strada, uscí nuovamente di casa, e s'avviò all'osteria della Foppa.

La Foppa era - anzi è ancora - una bettolaccia sul corso di Porta Comasina, laddove esso si allarga a formar quel crocicchio, che adesso si chiama il Largo Garibaldi. Chi passando di là, al giorno d'oggi, volgesse lo sguardo in quell'osteria, vedrebbe facilmente seduta al banco presso l'uscio una giovine donna, belloccia anzichenò, l'attuale ostessa... la quale va discretamente orgogliosa del proprio negozio. La Foppa infatti era già fin dal 1848 un'osteria storica, rammentata nelle cronache cittadine come teatro delle sanguinose gesta del 3 gennaio. La notte in cui accadevano i fatti del mio racconto l'ostessa non rallegrava colla sua presenza quell'antro immondo. Invece sedeva al suo posto un uomo di mezza età, che si avrebbe potuto chiamare il fratello carnale del famoso oste dei Promessi Sposi: "occupato in apparenza in certe figure che faceva e disfaceva colle molle... ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui."

Intorno a lui, seduti a desco, se ne stavano, parte in maschera, parte ne' consueti panni, da trentacinque a quaranta persone, tra maschi e femmine, le quali andavano cercando alla loro maniera un po' di quell'ente astratto di cui siamo tutti cosí sitibondi, e che si chiama la felicità.

Dicono certuni che la felicità sia una vana parola, e che non la si possa trovare su questa terra. A parer mio costoro dicono una minchioneria, ed hanno per avventura il torto di confondere l'idea della felicità terrena con quella che ci è promessa nell'altra vita, vale a dire una specie di estasi perenne, beata, ineffabile, della quale non c'è che una gran fede che valga a persuaderci che non ce ne dovremo annoiare mortalmente. Ma la felicità di quaggiú, per essere gustata, ha bisogno di confronti e di contrasti; e chi di sua vita non ha mai versato lagrime di sangue, non potrà dire d'essere stato qualche volta felice.

Io, per me, se, in un bel mattino d'autunno, dal cucuzzolo d'un monte del mio caro lago, m'avvien di mirare sorgere grado a grado il sole dall'opposta catena, e indorarsi all'intorno la vasta contrada, e allegrarsi del suo divino sorriso il vasto piano delle acque, e ascolto elevarsi il misterioso concento di mille armonie all'intorno, quasi un saluto di gioia, provo nell'anima non peranco inaridita un palpito sempre nuovo e spontaneo, che mi parla di felicità e di speranza, di riconoscenza e di amore.

Quella gente là dell'osteria, invece cercava la propria felicità nel fondo d'un bicchiere. E perché no?

Quando io vedo un ubbriaco povero, penso alla infelicità di quello sventurato, che non seppe trovar altro conforto che nel vino, e che, forse per dimenticare la propria miseria, ha perduto bevendo l'uso della memoria, della favella e delle gambe.

A destra dell'uscio d'ingresso cinque popolani stretti in circolo intorno ad un confratello cantavano in coro. Il maestro dilettante - lo Spadon dei dodici - batteva il tempo con una sicurezza ed una prosopopea degne addirittura d'un Paganini o d'uno Strauss, e lanciava fiere occhiate a destra e a sinistra sui meno intonati. La patetica melodia: un coro della Muta di Portici - dei portici, secondo lui - fluiva raucamente da quelle rozze gole, ma con mirabile accordo, tantoché se il maestro fosse stato presente non avrebbe udito falsare una nota sola della sua geniale ispirazione.

Non cosí accadeva, ahimè! del povero libretto, di cui facevano essi pressapoco lo strazio che i letterati francesi fanno de' nostri poeti.

Dice il libretto:

"... amico

"Il piccol legno ascendi,

"È limpido il mattin;

"La preda, ecc...

E il coro cantava:

"Amic, el piccol lume accendi

"È lampito, è lampíto il mattin;

"La frega è del saccaci

"Pria che ci sfugga l'ognor"

Che bisogno poi ci avessero di accender un lume mentre era già sorto il mattino, non ve lo saprei veramente dire.

Poco lungi dal filarmonico cerchio, quattro maschere curvate sul desco giuocavano fragorosamente alla morra.

Il giuoco della morra, per chi non lo conoscesse, consiste nel gridare a due voci piú o meno sgarbatamente uno dei nove numeri che stanno compresi fra l'uno e l'undici, e nel mostrare al tempo istesso un numero qualunque di dita della mano destra, in modo che sommato con quello della mano avversaria, abbia a produrre appunto il numero gridato.

Chi primo arriva a una certa quantità di punti è vincitore.

Dicono volerci a giuocarla molto talento, o almeno molta prontezza; ed io lo credo benissimo, giacché le poche volte che m'avvenne di trovarmi in partita, mi toccò sempre di pagar lo scotto. Figuratevi che ero capace di mandar giú quattro dita, o anche la mano aperta, e di gridare con tutta la forza dei polmoni: tre.

Un quinto che stava daccanto alla partita e sorvegliava i punti era il gentiluomo, quello che in fiorentino si chiama: il Signore.

Era un ragazzaccio di diciott'anni, chiamato da' suoi compagni Fanfirla. Fanfirla in gergo vuol dir tabacchiera, ché, essendo stato l'oggetto del suo primo furto, glien'era restato per gloriosa memoria il soprannome.

- E dodici! - gridò egli ai giuocatori, portando un bicchiere alle labbra e facendo lo scoppietto colla lingua - Accidenti! che bel punto, Lisandro.

- È un pezzo che lo velettava, figliol d'una negra! gridò questi, che aveva vinto la partita.

- Alla bella, alla bella! - grugní l'altro che perdeva - qua, Lisandro, attacchiamo.

Il vincitore gli fe' cenno colla mano di posare un minuto; versò da bere; levò i bicchieri un dopo l'altro dal vassoio di peltro, sporgendoli ai tre compagni; poi, col proprio, invitò Fanfirla a toccare, dicendo:

- Viva noi e crepino i signori. - Ci diè una buona tirata; si forbí colla manica la bocca; quindi la partita ricominciò con nuova lena, e confuse il suo monotono schiamazzo all'armonia del coro ed al vociare degli altri bevitori.

Fanfirla intanto, stufo di star lí a badare i punti, si era voltato a destra verso tre donne vestite da lapoff, che facevano un diavolo a quattro di risa, di grida e di urtoni colla vecchia bacucca, mentre una quarta, seduta malinconica in un cantuccio, teneva fissati gli occhi in viso ad un pompiere, che stava presso il banco aspettando il resto dall'oste.

Il monello, colse a volo un segno di intelligenza fra quella ragazza e il pompiere, e, fattosi in viso arcigno, le si accostò, e le disse a mezza voce:

- Pendolina, figlia di baldracca, sta in campana o che ti scaccio io le mosche come va.

La creatura a cui erano indirizzate queste parole volse al monello un viso di sedici anni non piú, che nella mezza luce d'una lampadaccia appesa al soffitto, si sarebbe detto esser quello d'un angelo, se non fosse stato impudico e turbato come quello di una donna da conio.

- Che cosa c'è? - chiese ella strisciando sull'ultima sillaba, e allungando il collo verso Fanfirla, cogli occhi biechi - Che cosa c'è?

- C'è che, se non la finisci di ammiccare col guerrier d'acqua io comincio a sonar la solfa, io comincio.

- Sonar la solfa a me? Sonar la solfa a me? Pover'uomo!

- Te lo darò io il pover'uomo se non smetti.

- Ma pròvati un po', se sei da tanto; pròvati un po'...

- Ch'io mi provi, scappata dalle forche? - disse Fanfirla - Volta un po' ancora il luminoso al guerrier d'acqua; vedrai se mi provo.

La ragazza volse lentamente il capo verso il banco dell'oste, e fissò amorosamente il pompiere, che intascato il resto, stava per andarsene.

- Ah! malnata, strega, sgualdrina; - borbottò fra' denti Fanfirla: e di simili improperii ne infilzò un'altra mezza dozzina - vedrai se mi provo... vedrai, - seguitava dimenandosi nei panni aspettando che il pompiere se ne andasse - vedrai se mi provo.

E non appena l'uscio della bettola si fu chiuso dietro a colui, che avventarsi contro la ragazza e scrosciar la tempesta fu un punto solo.

La Pendolina si curvò sotto i pugni senza far atto di difesa o di dolore. Si sarebbe anzi detto che un sorriso di intima soddisfazione le avesse allegrata la faccia al cominciare di quella dirotta. Ma come poi Fanfirla seguitava con una certa insistenza indiscreta, la ragazza pensò di spiegar anch'essa le unghie e, alzate le mani, lo graffiò sul viso.

A quel segno di rivolta il monello perdette il lume degli occhi.

- Ah sí?! - gridò ferocemente - piglia, piglia, piglia, infame, strega, assassina...

E le appoggiò tre pugni cosí sodi nel mezzo del seno, che la poverina con un rantolo soffocato andò a stramazzare in terra a qualche passo da lui.

Mentre Fanfirla picchiava cosí, il coro aveva proseguito a cantare lento, intuonato, come se nulla fosse: i giuocatori non avevano neppure voltato il capo, e le compagne, fatto circolo intorno ai litiganti, si tenevano le costole dal ridere.

Quando però videro cadere la compagna, le furono intorno pietose a soccorrerla, non senza dar sulla voce a Fanfirla. Il quale, colla testa alta, lo sguardo sicuro, come se avesse fatto una prodezza, tornò a sedersi presso i giuocatori di morra.

Lisandro, che in quel punto era muto, voltosi a lui:

- Mi pare, - disse - che tu abbia fatto giú le mosche a qualcheduno, laggiú, ehn?

- Alla Pendolina.

- Che cosa ti ha fatto?

- Ammiccava col Moretto!

- Il capo d'oro?

- Sí.

- Hai picchiato sodo?

- Eh? credo che non la si potrà lamentare.

- Cosí va fatto. Bravo Fanfirla! E, dico? sono le prime che le affibbii?

- Sí, sono le prime.

- E la ti vuol bene?

- Credo, ma non lo so di sicuro.

- Eh di sicuro chi può mai saperlo? Però seguita cosí, che in poco tempo ti vorrà bene. L'amore, vedi cittolo, viene cogli sgrugni. L'amorosa è come un can barbone; quante piú gliene dai, tanto piú ti lecca le mani. Picchia forte, e vedrai come la ti verrà dietro... Adesso nota sette e cinque e sta attento che attacco io.

CAPITOLO DODICESIMO LA SITUAZIONE DEL GIORNO

Emilio intanto travestito e solo, veniva giú pel corso democratico verso l'osteria, dove si ricordava d'essere già stato altra volta in circostanze consimili a quelle da cui era chiamato quella notte.

Sulle quali circostanze, vale a dire sulla causa e sullo scopo della sua venuta in quel luogo, bisogna, voglia o non voglia, ch'io dica qualche cosa. E siccome questo qualche cosa deve essere essenzialmente politico e storico, cosí sarà bene ch'io ne discorra con parole di qualche autore conosciuto, che ne abbia già parlato con autorità. Le sue parole, messe qui come altrettante citazioni, avranno molto piú peso che non se fossero mie.

È da sapersi dunque che "nel giro degli anni 1850, 51, 52 e 53 le nuove società segrete si erano andate organizzando, diffuse in ogni parte, ma aventi il maggior centro d'azione in Milano".

"Le condizioni della politica in quell'epoca - e chi non se ne ricorda? - non potevano essere piú miserande... Nessuna probabilità di salute dall'Italia. Il Piemonte, appena uscito dalla lotta disuguale, sbattuto di forze, aveva bensí con Azeglio - giova ricordarlo! - proclamato l'indirizzo italiano della sua politica, ma, al momento, trovavasi estenuato, pieno di magagne interne da riparare, impotente ad alcuna iniziativa popolare. L'impazienza di taluni era d'altronde illogica; se l'Italia aveva dovuto cadere nel 48 e 49, quando la rivoluzione e la libertà infiammavano il suo petto e le armi non mancavano alle sue braccia, come mai, appena vinta e prostrata, poteva ricuperare tosto le forze per tentare un altro movimento?"

A Milano dunque "erano in fase di formazione due partiti; quello dei liberali, che per distinguerli dai mazziniani chiamerò indipendenti, che aveva per iscopo l'azione preparatoria, ma senza programma politico determinato; e il partito dei mazziniani, cioè di quelli ciecamente devoti all'ex-tribuno e pronti a rispondere ad ogni sua chiamata. Questo partito aveva un programma: l'azione a qualunque costo". La compagnia brusca, era appunto un nucleo di capi "del partito indipendente, se pure poteva chiamarsi partito, perché nacque naturalmente senza un capo supremo, senza proclami, senza agenti. Era l'opinione piú avanzata del paese, la gioventú studiosa, ricca d'intelligenza e di virtú civili, che sentí spontaneamente il bisogno di associarsi, di conoscersi, di prepararsi, di fare qualche cosa per la patria redenzione"... "cioè mettere in contatto fra di loro i liberali, diffonder libri, giornali, fare acquisto anche d'armi, reagire con atti energici contro le esorbitanze del governo, star pronta a dar di piglio al moschetto alla prima occasione che si presentasse e che avesse qualche apparenza probabile di successo".

Infatti "finché sussistettero le speranze di un moto liberale di Francia gli indipendenti stavano pronti anch'essi all'azione, e allora, soltanto allora, per determinazione loro propria, s'eran messi d'accordo coi mazziniani, senza però schierarsi nel loro partito".

Cosí "durante il 1850 e 1851, tanto gli uni che gli altri, allargarono di comune accordo le fila dell'associazione, che aveva per motto d'ordine: voce, acquistando ogni giorno proseliti nuovi; ma con questa differenza: che gli indipendenti agivano con molta precauzione, si rivolgevano alla gioventú colta, miravano specialmente a riunire tutti gli avanzi del 48 e del 49, che avevano una certa esperienza di cose militari; mentre gli agenti di Mazzini reclutavano all'ingrosso, per reclutare, fra gli operai e i popolani, ma con una facilità che metteva spavento. Il governo dell'associazione tenevano promiscuamente mazziniani e indipendenti; ma finché stettero questi ultimi, prevalsero; e il partito popolano subordinato e tranquillo ne accettava la superiorità che l'intelligenza sempre sa imporre".

Uno di questi capi era Emilio Digliani "e perciò erasi trovato spesso a contatto con alcuni popolani, dei quali frenava l'impeto immoderato, e l'imprudente, e forse poco onesta smania di agire".

"Non sempre però fin d'allora l'influenza dei capi valse a contenere l'arroganza e la balordaggine dei subordinati; un episodio sanguinoso di questa frenesia sciagurata di fare fu la morte dell'infelice Sciesa, di professione tappezziere, carico di famiglia, uomo di nessuna apparenza, ma di una virtú spartana. Per uno stolido e inconcludente proclama che si volle assolutamente affiggere di notte contro l'assoluto divieto dei capi, quel meschino fu preso nell'atto istesso che stava appiccandolo alla muraglia, e il giorno appresso fu fucilato. Condotto sul luogo del supplizio, fatto inginocchiare davanti alla fossa scavata, bendati gli occhi, il maggiore tedesco gli si accostò e gli offrí la salvezza della vita e la libertà se rivelava i complici. Negò fieramente. Tentò allora l'austriaco di toccarlo dal lato piú vulnerabile; gli rammentò la moglie e i figli che ei lasciava nella miseria "Provvederà ad essi la patria" rispose; e morí senza dir parola.

"V'erano per soprammercato i capi mazziniani che sin dal 51 meditavano un colpo di mano in grandi proporzioni..." Quel piano pazzo fu attraversato dall'insistente opposizione del partito indipendente "che non cessava di far rimostranze su quella dissennata smania di venir al sangue a condizioni immature di eventi europei.

"Mazzini invece persisteva nel suo proposito... Volle quindi affidarsi all'azione popolare, che, agenti, o esaltati, o di malafede, o ignoranti, gli magnificavano in proporzioni smisurate e impazienti di ritegno.

"Questo elemento infatti, piú che in ogni altra città d'Italia, esisteva in Milano, svegliato, ardito, capace di eroiche virtú; ma non andava scompagnato da quella inettitudine in cose di politica e insieme da quella presunzione, che sono le compagne inseparabili dell'uomo incolto. Adoperati con prudenza e tatto, e guidati dall'intelligenza, potevano quei buoni popolani render grandi servigi. Ma le favolose enormezze di certi capi-popolo, per smania di far numero e rendersi accetti a Mazzini, avendo sollevato dal fango della società tutto quanto di piú abbietto, di piú lurido, di piú infame esiste nel trivio, trasformarono quella congrega popolana in una masnada di uomini perduti, sitibondi di oro e di disordine, e non d'altro impazienti che della strage e del bottino.

"Tutte le piú orribili passioni vennero alla luce senza maschera e senza ritegno. A poco a poco i capi trovaronsi, con indicibile sgomento, posti per forza in contatto con uomini coperti di delitti, avanzi di galera, o astuti colpevoli sottrattisi alla ricerca della giustizia. In possesso dei segreti dell'associazione, questi ribaldi si cacciavano per ogni dove, inseguivano pertinacemente, cercavano scoprire i nomi di tutti i cospiratori di civil condizione, per aver nelle mani vasta materia alla delazione; poi sfrontatamente gettavano in faccia il dilemma: oro a noi o forca a voi.

"E conveniva cedere e comprare la propria salvezza col denaro, o scampare colla fuga.

"Furono queste enormità senza nome che avevano cagionato i numerosi arresti ed esilii del 1851 e 1852; e si dovette ancora alla vigorosa energia di alcuni capi che affrontarono audacemente il pericolo, ed anche alla risolutezza di alcuni popolani onesti se il male non dilatossi, traendo in una comune sciagura migliaia di famiglie."

Non è a dirsi come tutto ciò portasse danno all'associazione "privandola dei migliori affigliati: una quantità dei quali erano in carcere, o condannati nel capo, o all'ergastolo; molti fuggiti; gli altri si dispersero e si isolarono"... Mazzini quando "vide allontanarsi da lui molti patriotti della classe media ed intelligente, ritenne fuga ciò che era soltanto prudente ritirata; scambiò il buon senso collo spirito dottrinario; giudicò timidi, languidi, sfiduciati dei giovani che erano piú che mai saldi e irremovibili, e trascinato in questa falsa credenza da fallaci rapporti perdette cosí l'elemento piú virtuoso, piú elevato, piú colto, piú realmente attivo, che ei poco conosceva soggiornando a Londra".

Cosí "liberatosi dall'impaccio degli indipendenti che frapponevano indugi al suo piano di un moto insurrezionale; proseguí con sempre maggiore attività, continuando i reclutamenti nella classe operaia; tanto che gli affigliati per la gran parte nuovi giunsero" all'epoca in cui accadono i fatti del mio racconto "nella sola Milano, a circa tremila, divisi in compagnie con capitani, segni convenzionali, e una certa quale disciplina e organizzazione militare, in modo che i congiurati non conoscevansi fra loro che a piccoli gruppi, e i capi supremi non comunicavano che con certuni dei capi secondari".

Queste nozioni storico-politiche, ch'io trassi dal bel libro di Guttièrez intitolato: Il Capitano Decristoforis, erano assolutamente necessarie a spiegare la condotta di Emilio, ed a lumeggiare il dialogo ch'egli sta per avere collo Spadon dei dodici. A chi poi mi rimproverasse di aver voluto far entrar la politica, dove si avrebbe potuto farne senza, sono lieto di rispondere essere questa ormai divenuta, secondo me, un elemento cosí inevitabile di qualunque romanzo italiano, contemporaneo, che il passarvi sopra, sarebbe come se in un paesaggio un pittore dimenticasse il cielo, o in un ritratto lo sfondo.

Chi nel quarantotto aveva vent'anni, fu un gran codardo o un gran filosofo se nei dieci anni successivi non pensò proprio ad altro che a mangiare, a bere e a far l'amore.

Ed ora che ho rischiarato questo importantissimo punto, riannodiamo il filo del racconto.

Giunto all'osteria della Foppa, Emilio diè intorno la solita occhiata scrutatrice, ed entrò poco dopo che Lisandro era andato insegnando a Fanfirla il modo di farsi voler bene dalla Pendolina.

Mascherato com'era, nessuno lo avrebbe riconosciuto; fattosi perciò daccanto a Lisandro, e datogli del gomito nel braccio, gli chiese sottovoce dove fosse lo Spadon dei dodici.

Lisandro, dopo aver ravvisato Emilio, gli mostrò coll'indice il popolano che dirigeva il coro. E, come in quel punto la melodia era in pieno corso, cosí il Digliani per aspettare che terminasse, comandò del vino, e stette a riguardare la partita di morra.

Cessato il canto, Emilio si levò; lasciò che Paolino volgesse gli occhi nei suoi; gli fe' un quasi impercettibile segno di testa, e s'avviò fuori dell'osteria. Lo Spadon dei dodici - bizzarra metafora di S. Paolo - gli andò dietro.

Costui, giovine nei ventiquattr'anni, piccolo, tarchiato, macilento, era appunto uno di quegli astuti furfanti che usufruttuavano la cospirazione pei loro fini tutt'altro che onesti. Che mestiere facesse egli, sarebbe difficile il dirlo. A chi gli aveva mosso questa domanda coll'autorità di un giudice criminale, aveva risposto: venditore girovago. Il suo commercio variava colle stagioni: d'estate vendeva sorbettini e cocomeri a taglio; d'inverno selvaggina e tartufi, col qual pretesto aveva campo di mettersi in contatto col bel mondo negli alberghi e nei caffè.

- Era tempo di lasciarsi vedere; - disse egli ad Emilio appena furono in luogo da non essere intesi - non è questo il modo di agire, sai tu?

Emilio, come quegli che non aveva mai sofferto che altri gli parlasse arrogante, quantunque sapesse a che rischio s'esponeva con quell'uomo a non pigliarlo colle buone, si fermò sui due piedi, incrociò le braccia sul petto e squadratolo dal capo alle piante:

- Che cos'è quest'aria? - sclamò severamente - Credi tu forse d'impormi? Parla come si deve od io ti pianto qui sui due piedi e vado pei fatti miei.

- No signore! - disse Paolino sogghignando - lei non andrà pei fatti suoi prima di aver aggiustato i conti con me... se no...

Il tuono era mutato. Al tu confidenziale era già successo il lei.

Emilio gli si rimise allato.

- Se no che cosa? - chiese egli fingendo di non capire l'allusione minacciosa di quella frase interrotta.

- Se no... bruttura! - rispose Paolino con una parola furbesca, che vuol dir tutto, e non vuol dir nulla.

- Ah caro mio! - sclamò Emilio crollando il capo in aria di disprezzo e di compatimento - Ascolta, Paolino, e sta bene attento a ciò che sto per dirti, perché ti assicuro che il dimenticarlo ti potrebbe costare molto caro, un giorno o l'altro. Io so benissimo che la mia vita è in tue mani, e che volendo, potresti stanotte istessa farmi tradurre dritto in castello.

- Ed io, dunque, non sono anch'io in questa circostanza?

- Sí; colla differenza che tu stai sicuro di me, mentre io non sono sicuro di te.

Paolino non fiatò.

- Non mi rispondi? Sai che il proverbio dice: chi tace conferma. Dunque, se è cosí, vedi che tu sei un birbante - continuò Emilio fra i denti.

- Ohe! - fece Paolino.

- Sei un ribaldo!... Làsciatelo dire; sei un ribaldo... Tanto per farti vedere che non ho paura di te. Ascolta bene, Paolino: se tu hai nelle mani questo infame mezzo, io ne ho un altro molto piú segreto e piú terribile, che fa giustizia quando il colpevole meno sel pensa, e che fino adesso non ha né fallata una vittima né scoperto un punitore... Ricordati dell'arcangelo Gabriele.

Per comprendere quest'ultima frase di Emilio bisogna sapere ciò che segue:

Qualche mese prima "di pieno giorno, in una delle contrade piú centrali della città" - la contrada del Durino - "il protomedico Vandoni, ritornando dal palazzo civico alla sua casa, era stato pulitamente soffermato da un giovine di bell'aspetto e in buon arnese, che cavato il cappello gli si accostò per parlargli vicinissimo...; s'udí un grido acuto, e nello stesso tempo fu visto il protomedico stramazzare a terra... Era morto.

"Interrogata dal giudice una mendica che aveva stazione fissa alla porta della chiesa, in faccia alla quale era accaduto il fatto, rispose che l'arcangelo Gabriello era sceso dal cielo a punire quel malvagio di dottore. Non è improbabile che, a quella poveretta, il viso bellissimo dell'uccisore avesse dato argomento a quell'esaltazione religiosa. Quel malvagio dottore, uomo d'età matura, nell'agiatezza, aveva denunciato un suo confratello d'ufficio, come possessore di cedole mazziniane, e, in seguito a quella denuncia, l'imputato aveva toccato condanna di venti anni di reclusione. Il fatto turpissimo aveva indegnato la popolazione, e lo spirito pubblico era cosí esacerbato, che, quando corse voce di quella giustizia sopranaturale, tutta la città ne tripudiò, e la morte di quell'infame fu un avvenimento festivo: l'opinione pubblica confermò la sentenza e l'esecuzione dell'arcangelo Gabriello. Chi però non volle dar fede alla versione dell'arcangelo ritenne che il colpo partisse da Londra, e fosse opera di tremende società segrete, che con enormi mezzi e fidati emissari, sfidasse i governi tirannici, incutendo quel terrore dell'incognito, che per non aver misura né proporzione esagera la forza, e minaccia da ogni parte impensatamente, senza lasciar tempo di premunirsi. Il governo austriaco infatti ne fu terribilmente colpito.

"Dopo quel fatto i capi della associazione furono assediati da profferte di popolani, ognuno dei quali voleva diventare arcangelo a sua volta, e chi proponeva di far il passaporto ad una spia, chi ad un commissario, chi ad un generale, un altro ad un banchiere, un ultimo a un gesuita: ognuno aveva il suo, e tutto ciò per aver pretesto a chieder denaro, e ad oziare per mandato della patria.

"I capi energicamente respinsero quelle sanguinose profferte, dichiarando che tali fatti poteansi appena accettare compiuti, frutto di ispirazione o di ineluttabile necessità, non mai meditarli, e tanto meno dar loro carattere pseudo-legale di mandato.

"Tal repressione sconcertò i piani degli arcangeli infernali, e fu la prima origine di quella cupa ostilità cui furono fatte segno le persone oneste dell'associazione, dai malvagi penetrati in essa; le cose vennero a tale estremità che le prime trovaronsi impensatamente tra due fuochi, gli oppressori stranieri e i salvatori: e spesso questi ultimi facevano piú terrore che i primi.

"Qualche tempo dopo la morte del Vandoni - sull'imbrunire di una giornata del 1852 - uno di quegli scellerati popolani che s'erano introdotti nella cospirazione per conoscerne le fila, veniva raccolto in una strada e trasportato morente all'ospedale maggiore. Accorrevano premurosamente al suo letto il direttore di polizia e le autorità militari; ma per quanto dicessero e facessero non poterono strappargli una parola: lo spavento e fors'anche il rimorso lo avevano annichilito. Coperto di ogni sorta di delitti, assassino, complice di furti famosi rimasti impuniti, quella giustizia sommaria fulminea che lo coglieva in luogo della giustizia legale, gli aveva percosso l'animo di tale sgomento, che morí senza rivelare alcuno. Quel fatto restò cosí avvolto nel mistero al guardo degli uomini".

Alle parole di Emilio, il popolano aveva curvata la testa sul petto senza dir parola.

Emilio seguitò:

- Ficcatelo, dunque, bene in mente. C'è a Milano sei persone, che tu non conosci, che non hai mai vedute, ma che sanno chi sei tu, e come operi, e come pensi. Al primo tentativo che la polizia facesse per mettermi addosso le mani, ricordati bene che i sospetti cadrebbero sopra di te... e allora non ti garantisco che ti potesse capitare un brutto scherzo. Hai capito? Uomo avvisato, mezzo salvato.

- Questa però è un'ingiustizia! - sclamò Paolino, con voce da vigliacco - Perché dovrò essere io solo responsabile di ciò che potrebbe venir in mente alla polizia?

- Perché non c'è altri che tu, che possa soffiare.

- Non è vero... le cose le sa anche Lisandro.

- Lisandro è stato messo in guardia a suo tempo, da chi si deve; del resto egli non ha mai fatto il tuo infame mestiere di mettere a prezzo il segreto, e di farsi pagare a peso d'oro il silenzio, come usavi con chi mi precedette, e come hai tentato di fare anche con me.

- Io non ho messo a prezzo nulla; - disse Paolino sempre piú dominato dal fiero contegno di Emilio - dico soltanto che per far le cose a questo mondo ci vuol denaro, perché nessuno lavora per nulla, ed io non li trovo per la strada come i ciottoli i marenghini.

- Ma che? credi tu di parlar con un imbecille? In soli sei mesi ch'io ti conosco non sono forse passate dalle mie nelle tue mani piú di duecento svanziche, oltre la paga per te e i tuoi compagni?

- Ebbene? - rimbeccò Paolino - Era forse roba sua? Lei non ne piglierà forse del denaro dai signori di Londra?

- Io! - sclamò Emilio fermandosi - Miserabile! Ah tu credi dunque che ci sia al mondo denaro bastante per mettere un uomo al rischio continuo della forca, come lo sono io, dacché ti ho conosciuto?

- Ed io dunque non sono forse a questo rischio?

- Basta cosí! - sclamò Emilio vedendo di non poter uscire altrimenti dal circolo vizioso di quell'infame diverbio. - Ne ho abbastanza d'averti fatto vedere che le tue arie di spavaldo a me non mi vanno. Ora veniamo a noi.

Cosí detto mise una mano in tasca, ne cavò del denaro, e lo diede a Paolino, soggiungendo:

- Ecco la paga del febbraio... anticipata come il solito. Ora, ricordati, che questa è l'ultima volta che esce denaro dalle mie mani per cadere nelle tue. Io mi ritiro definitivamente, e non voglio piú saperne di nulla. Domani o dopodomani riceverai gli ordini da un altro.

- Come! - sclamò Paolino tutto raddolcito al palpar delle monete - Adesso che è proprio venuto il tempo di raccogliere, lei vuole staccarsi?

- Di raccogliere! Raccogliere che cosa?

- Ma il frutto. A me m'han detto di star pronto per sabbato sull'imbrunire.

- Lo so; ma io non voglio saperne.

- Perché?

- Perché è una pazzia; perché non potremmo che farci impiccar tutti senza ottenere un filo; perché il paese non ne sa nulla, e non è ancora preparato abbastanza, e ci lascerà scannare come tanti agnelli... Capisci il perché?

- La vuol dire? Com'è dunque che fu combinata la cosa?

- La cosa fu combinata da chi non sa nulla di nulla, e crede di veder domani insorgere tutta la Lombardia, come un barile di polvere in cui cada una scintilla. Ma invece la scintilla questa volta sarà spenta prima di giungere neppure al coperchio. Del resto è inutile ch'io getti il mio fiato ora con te. Da questo punto io rinuncio a qualunque grado, a qualunque incarico di questo genere. Mettitelo bene nella memoria. I denari te li ho dati... ho fatto il mio dovere finora. Fa conto di non avermi mai visto, né conosciuto di tua vita. Hai inteso?

- Ho inteso.

- Bravo. Adesso tu ritorna alla Foppa per di là; io me ne vado per di qua, e che Dio ve la mandi buona.

Cosí dicendo Emilio volse le spalle al popolano, e s'incamminò verso casa.

CAPITOLO TREDICESIMO FISONOMIA CONOSCIUTA

I primi albòri del sabbato cominciavano a mostrarsi in cielo, quando Emilio si mise a letto. Quante emozioni diverse! Che folla di sensazioni e di pensieri opposti in quel breve periodo di otto ore! Cominciato a tavola, tra due belle ragazze, nella piú spensierata allegria, e finito fra le torbide emozioni del cospiratore, con parole di minaccia e di sangue.

Ma, cosí è la vita del nostro tempo! Gli uomini tutti d'un pezzo non si trovano piú. Una volta gli eroi nascevano, vivevano e morivano eroi. Nel nostro secolo un eroe d'ieri può sembrar oggi un uomo da nulla; un uomo da nulla dell'oggi può diventare domani un eroe.

Verso le undici del mattino seguente Emilio, svegliandosi, balzò a sedere sul letto, col volto illuminato dalla gioia di chi si desta da un bel sogno d'amore. Infatti egli aveva sognato di Noemi, e a Noemi volava il primissimo pensiero del mattino; a Noemi che doveva venir a trovarlo quel giorno, come erano rimasti intesi l'ultima volta che s'erano veduti.

Ora, pensando alla felicità che lo aspettava fra poche ore, si sentí inondato il cuore di una gioia cosí viva e cosí fresca, che gli parve di non averne mai provata la simile, neppure la prima volta. Le sensazioni sgradevoli e fosche della notte - che quantunque un po' ammorzate dal sonno dormito e dal sogno d'amore, pur gli erano ricorse tosto alla memoria - davano risalto col loro contrasto all'inebbriante pensiero che gli scaldava il cuore e le fibre. Si sentiva piú leggiero, piú padrone di sé, piú innamorato che mai; e, come invaso da folle gioia, si stropicciava velocissimamente l'una contro l'altra le palme delle mani, con quella specie di contrazione muscolare e convulsa, che ognuno de' miei lettori avrà provato in circostanze consimili. Una lieve febbre gli accelerava il corso del sangue nelle arterie; gli pareva, insomma, di non essere mai stato tanto felice.

A poco a poco la sua fisonomia s'impensieriva; il suo sguardo diventava fisso... Riandava colla memoria gli ultimi mesi della sua relazione; contava le lagrime che Noemi aveva sparse per lui; rammentava le freddezze, le scene di malumore, i dispetti; e si sentiva preso da un gran rimorso e da una grande meraviglia d'aver potuto far soffrire cosí la donna che si sentiva di amar tanto ancora.

La cosa del resto è piú che naturale. Libero ormai dai terribili lacci, fra cui da tanto tempo si sentiva costretto; uscito dai frangenti, che gli avevano resa fino allora cosí piena di angoscie e di sospetti la vita; tranquillo nell'idea di aver fatto né piú né meno che il proprio dovere di patriota, Emilio si abbandonava di nuovo a tutte le dolcezze del proprio amore... e Noemi tornava ad un tratto, qual era stata nei primi tempi, la regina dei suoi affetti e de' suoi pensieri.

- Oggi, - diceva, per far tacere quel rimorso - oggi le chiederò perdono in ginocchio, povera Noemi...; cara Noemi!

Nel dir questo nome, stupiva di non aver mai pensato alla sua maravigliosa dolcezza, e trovava un ineffabile piacere a pronunciarlo di nuovo: Noemi, Noemi, Noemi - e lo andava ripetendo a lungo, come se l'avesse udito allora per la prima volta, come se avesse voluto scolpirselo nel cuore.

Al convegno mancavano tre ore. Tre ore! Non gli era accaduto mai di trovar tanto lungo e difficile a passarsi quel breve spazio di tempo. Balzò dal letto, e cominciò a vestirsi adagio, mettendo da parte per quel giorno il pensiero di andar alla banca... e stava ravviandosi i capelli dinanzi allo specchio, quando una scampanellata gli troncò i pensieri amorosi nel capo, e gli fece in piccolo quell'effetto, che - dicono - dovranno far le trombe del giudizio universale sulle anime dei morti peccatori.

- Chi può essere?! - sclamò egli col solito sospetto. Deposto il pettine, e infilata la veste da camera, andò ad aprire; ma non appena ebbe veduta la persona che cercava di lui, la sua fronte si spianò, il sorriso gli rifiorí sul labbro, e con un lungo oh! di meraviglia:

- Caro il mio buon tutore, - disse - come ho piacere di vedervi!

E si ritirò dall'apertura per dar adito al sopraggiunto.

Il quale era un uomo, che, a giudicarlo dall'aspetto, gli si avrebbe dato non piú di sessantacinque o sessantasette anni. Mesto il viso e l'occhio come chi ha sofferto moralmente assai. La statura alta; l'andare, per la sua età, agile ancora; la barba e i capelli bianchissimi.

Una di quelle teste che vedute una volta non si dimenticano facilmente.

Dopo aver data al giovane una stretta di mano e d'avergli detto:

- Buon giorno, Emilio; - s'avviò verso la stanza da letto, e, senza togliersi il cappello di testa, si sedette nella sedia preparata per Noemi.

- Quanto tempo che non vi vedo, caro tutore; - disse Emilio sedendosi in proda al letto a lui dicontro.

- Io t'ho aspettato a Natale laggiú, ma invano.

- È vero; - sclamò Emilio - ma se sapeste quante cose avevo pel capo!

- So; - disse il vecchio con un fine sorriso - Quello che forse tu non sai è che io fui a Milano anche lunedí scorso, e che t'ho visitato a letto, dopo quel colpo di bastone che ti levò i sensi.

- Oh sí; - rispose Emilio - l'ho saputo da Gastoni che vi aveva trovato in istrada, poco prima, e che è corso a cercarvi; non è vero?

- Appunto. Il giorno dopo poi, sono ripassato di qua per vedere come stavi, ma tu eri già uscito di casa...

- Ero precisamente venuto all'albergo per farmi vedere e per salutarvi. Non ve l'hanno detto?

- No; se ne saranno dimenticati; ho dovuto partir subito per un affare pressante, che avevo laggiú. E... dimmi un po', quel tuo amico Gastoni ti ha detto anche la ragione per cui ci toccò di andarcene dal tuo letto, prima che tu ti destassi dal sopore?

Emilio arrossí leggermente, e con un sorriso, rispose:

- Mi disse anche questo.

- Cioè?

- Ma, - sclamò Emilio - perché vorreste che io ve lo ripetessi, se l'avete veduta voi stesso... la ragione.

Il vecchio non rispose; pareva che andasse cercando il modo di aprire un discorso difficile. Tenne gli occhi fissi in quelli di Emilio, come se avesse voluto scrutare nel di lui volto il piú intimo e segreto senso delle sue risposte. Ora, avendo veduto quel pudico imbarazzo da innamorato, si sarebbe detto che sul suo viso si facesse piú intensa e piú viva la mestizia e la pietà che già vi trasparivano al suo primo presentarsi.

- Fu una grave imprudenza da parte di quella signora; - diss'egli - una gravissima imprudenza!

Emilio, che si era accorto di quel contegno insolito, preso da una vaga inquietudine, quasi presentimento di sventura, ripassava velocemente nella memoria le ragioni probabili di quella visita inaspettata e non trovava parole.

All'osservazione del tutore consentí con un moto di testa senza aprir bocca. Il vecchio stette un po' ancora in silenzio, poi ripigliò:

- Sono venuto dunque per parlarti di cose molto serie, caro Emilio... Sí; capisco che cosa vuoi dire; - proseguí alzando una mano al vedere che il giovane si animava in volto e stava per interrogarlo - Un po' di pazienza e saprai tutto... tranne ben inteso ciò che non posso dirti; il nome de' tuoi genitori è ancora e deve essere un segreto per tutti... Ma, prima che del tuo passato, io vorrei parlarti oggi del tuo avvenire; il quale, credilo a me che ti amo, vale assai piú che quello.

- Sia come volete, padre mio! - disse Emilio assai calmo e come rassegnato - Dite; io sono tutt'orecchi.

- Tu dunque sai che da circa un mese hai compiti i ventiquattro anni...

- Certo!... Vedete che mi ricordo della vostra promessa di svelarmi il mistero della mia nascita appena che fossi diventato maggiore, e padrone del mio.

- Benissimo. Oltre a ciò vengo a dirti che avrei trovato per te una posizione assai vantaggiosa e per la quale è appunto indispensabile la maggiore età.

- Una posizione di che sorta?

- Si tratterebbe della fondazione d'una casa bancaria di cui tu saresti chiamato ad essere socio gerente, con un vistoso stipendio.

- Mi si crede dunque buono a tanto?

- Saresti in compagnia d'un uomo consumato nella banca, che dirigerebbe gli affari, mentre tu ne saresti, come si dice, il braccio destro.

- E questa casa sarebbe da erigersi in Milano?

- No, a Lione.

- Allora mi rincresce di dovervi dire, caro tutore, che non posso accettare.

- Anche prima di aver inteso le condizioni, e il resto?

- Sí; anche prima di aver inteso le condizioni e il resto.

- Potresti dirmene il perché?

- Perché io non posso lasciar Milano.

- Non puoi, o non vuoi?

- L'uno e l'altro.

- Caro Emilio, tu mi parli con un tuono cosí risoluto che mi dà poca speranza di riuscire... Nondimeno lasciami andar in fine del progetto che ho sognato per te, e poi tu sarai sempre padrone di fare ciò che piú ti conviene. Sappi dunque che colla maggiore età hai acquistato il diritto di disporre del capitale che ti fu costituito alla nascita, e di cui ti ho fatto tenere finora gli interessi regolarmente... Lasciami continuare... le domande me le farai dopo, e ti prometto di rispondere in tutto quello che... potrò. Quel capitale è, come sai, di cinquantamila lire, vale a dire di quarantamila svanziche, che tu metteresti nel fondo sociale accanto ad altre molte del tuo socio, e che ti potrebbero fruttare, come sai, il trenta per cento. Oltre a ciò, siccome il tuo socio ha una figlia unica, bella, di sedici anni, io non avrei che a dire una parola, e tanto lei che la sua dote di centocinquantamila lire diventerebbero tue... Che ne dici?

- Cosa volete che vi dica, caro tutore? - sclamò Emilio ridendo - Voi mi recitate uno squarcio delle Mille e una notti. Mi concederete che se dovessi accettare questo matrimonio cosí sui due piedi...

- Non dico che tu debba ora accettarlo, - interruppe il vecchio - e tanto meno sui due piedi. Io non ho neppure la facoltà di proportelo finora... Ti chiedo soltanto se, nel caso che giungessi a persuadere l'amico di fondar la banca a Milano invece che a Lione..., tu saresti cosí lontano dal prender moglie?

- Ah! ne sono tanto lontano, che non ci ho assolutamente mai pensato.

- Lo credo perfettamente; la tua posizione, finora, fu tale che non avresti potuto pensare ad ammogliarti. Ma ora la cosa è mutata, e se tu accettassi le mie offerte avrei la soddisfazione, prima di morire, di vederti ricco... e felice. La fanciulla è un angelo fisicamente e moralmente;... e se vuoi, te la faccio conoscere.

- No, caro tutore; io non so come esprimervi la mia riconoscenza per tante prove di affetto che mi date, ma io non posso accettare che la prima parte del vostro magnifico programma;... ben inteso a condizione di restarmene a Milano.

- Vorresti dirmi almeno perché tu rifiuti cosí energicamente le proposte che farebbero saltar dalla gioia chiunque altri?

- Perché? - sclamò Emilio animandosi tutto, come un uomo ispirato da un nembo di pensieri - Perché? Oh se sapeste quanti perché ho qui nel cuore! Non potrei dirveli tutti in una volta. La posizione che voi mi offrite non fa per me in nessun modo... Essa è quella d'un uomo contento, ed io non sono contento; essa è quella d'un uomo che non ha nulla nel cuore, ed io l'ho occupato il cuore. E poi, avete voi pensato che un padre non vorrà dare sua figlia a un uomo che non ha mai conosciuto i suoi genitori?... che viene non si sa d'onde? a un figlio di nessuno? E i miei compagni? Che direbbero i miei compagni? Voi sapete bene che io non sono solo a trascinare questa vita! Che direbbero se disertassi cosí il campo dove, poco o tanto, si combatte e si spera, per ritirarmi a vegetare egoisticamente... e a far denari? Qual è il giovane di cuore che vorrebbe mettersi a posto finché dura questo orribile stato di cose? Non è vero che fra un anno, fra due mesi, domani forse, mi toccherebbe di piantar là moglie e banca e interessi e ogni cosa, per correre alla chiamata di Garibaldi, o di chiunque altri promettesse di mandar via questa maledetta canaglia di Tedeschi...?

- Ah povero Emilio! Tu speri dunque ancora?

- Ancora? Se spero? Dio santo!! Pensate che ho ventiquattro anni, e che se non sperassi... morirei.

- Tu sei un bravo giovine, Emilio! - disse il vecchio appoggiando la fronte sulle mani raccolte sul pomo della sua canna - Dio tolga ch'io non riconosca la nobiltà delle tue idee. Contuttociò senza credere di essere tacciato di vecchio egoista, ti dirò che a questo mondo colle tue idee si va a rischio di essere infelice per tutta la vita, e che certe speranze senza fondamento non giovano né a sé, né agli altri, né al paese. Non è, secondo me, colla sdegnosa inazione che potrete raggiungere piú presto ciò che andate sperando; la forza sta nell'azione e nella ricchezza; se userete di tutte le vostre forze vive a far ricco il paese, sarete piú vicini allo scopo che non stando colle mani alla cintola.

- Io non sto colle mani alla cintola...

- Lo so; nondimeno rifiuti di migliorare la tua condizione di cittadino; e in questo, a mio parere, hai torto.

- Ma; è inutile che vi dica aver io altre ragioni mie proprie per rifiutare di ammogliarmi e di partir da Milano.

- Tu l'ami molto dunque quella donna?

- Sí, padre mio.

Il vecchio mise un sospiro, e stette un momento silenzioso cogli occhi pietosamente fissati in quelli di Emilio.

- E se ti toccasse di lasciarla?

- Lasciarla! Perché? Chi mi potrebbe obbligare?

- Chi? Ma suo marito, per esempio.

- Chi vi ha detto ch'ella sia maritata?

- Nessuno. Io l'ho riconosciuta.

- Voi! - sclamò Emilio - Conoscete anche suo marito forse?

- Anche suo marito.

- Siete dunque venuto per parlarmi di lei?

- No; ma capisci che ella ci doveva entrare necessariamente nel mio discorso...

- E voi vorreste che io la lasciassi?

- Io lo desidero tanto, che per dartene il mezzo ti ho fatto quelle proposte.

- Ma vedete bene che io non potrei.

- Dunque non se ne parli piú; - disse il tutore crollando il capo. - E adesso, - soggiunse dopo un breve silenzio - tu puoi interrogarmi. Io sono pronto a narrarti ciò che desideri.

- Dite, padre mio, v'ascolto.

- Il giorno 16 dicembre 1829, - cominciò il vecchio - io me ne stavo a letto leggendo un trattato sulla flogosi,... mi ricordo,... poco dopo la mezzanotte,... quando la mia serva Caterina, che è morta nove anni fa, e che tu non hai conosciuta, venne a svegliarmi dicendomi che era stato suonato il campanello, e che ci era qualcheduno in istrada che aveva bisogno di me e dei soccorsi della mia scienza. Stavo per levarmi, quando vidi entrare un giovine della tua età, circa, il quale dopo avermi detto che aveva bisogno ch'io lo seguissi fuori di Milano ad assistere una donna di sua conoscenza, mi fe' capire che ella aveva interesse di non lasciarsi conoscere, in modo che dovetti promettergli di lasciarmi bendare gli occhi, perfino lungo la strada. Infatti, quando fui nella carrozza, che quel signore aveva fatto avvicinare alla porta, nel frattempo ch'io terminavo di vestirmi, mi cavai di tasca il mio bravo fazzoletto, me lo misi sugli occhi, e cosí feci tutta la strada, al buio. Giunti nella casa dove era tua madre, smontammo, e quando fummo giunti in una certa sala, che mi par ancora di vedere dopo ventiquattr'anni, il giovine che mi accompagnava, e che era tuo padre, mi sbendò, e mi lasciò solo un momento. Guardatomi intorno, vidi che le pareti di quella sala erano piene di quadri; allora, preso un lume, mi diedi ad esaminarli, e non appena ebbi gettati gli occhi sul primo, che mi accorsi d'essere, come si dice, in paese conosciuto. Infatti io ravvisava perfettamente quell'autore per averlo veduto molto tempo nella bottega di mio padre, che, come sai, era stato antiquario e mercante di oggetti di belle arti. Sul momento non seppi raccapezzare a chi fosse stato venduto; ma come conservavo ancora i libri del negozio, m'era facile di andarlo a cercare. In questo, tuo padre venne a chiamarmi, e fattomi entrare nella camera vicina mi condusse al letto dove giaceva appunto tua madre mascherata... Tu nascesti in mezzo alla ricchezza ed io fui il primo a riceverti su queste braccia. Dopo aver assicurato tuo padre che la puerpera non correva pericolo di sorta, stavo per pregarlo di farmi ricondurre a Milano, non avendo piú nulla a fare in quel luogo, quando egli mi pregò di passare un momento in un'altra camera, che aveva sommo bisogno di parlarmi. Gli andai dietro, e quando fummo soli:

""Caro professore," mi disse "bisogna che le confidi una cosa dolorosa, e che interessi la di lei bontà a mio riguardo."

""L'ascolto;" risposi io.

""Deve sapere che la mia posizione non mi permette di riconoscere né di allevare per ora mio figlio... È inutile ch'io gliene esponga i motivi, che sarebbero troppo lunghi e noiosi. Nondimeno siccome tanto io che sua madre siamo ricchi, cosí possiamo pensare al di lui avvenire, e fare in modo che in nessuna occasione egli debba mancare del necessario."

E qui, aperto un cassetto dello scrittoio che gli stava dinanzi, ne cavò un fascio di biglietti di banca, e contate trentamila svanziche, riprese:

""Questa è la somma che noi abbiamo destinata a nostro figlio. Potrebbe ella, professore, accettare l'incarico e pensare al di lui collocamento?"

""Ma;" rispos'io un po' meravigliato, per la indifferenza e la sicurezza dirò quasi senile, con cui mi parlava quel giovine singolare "non saprei come io debba adempire tale incarico...! Che intenzioni ha vostra signoria riguardo a quel bambino?"

""L'intenzione di qualunque padre," mi rispose egli senza dubitare "di qualunque padre che non può riconoscere, né tenere presso di sé un proprio figlio."

"Ella vorrebbe dunque farne un trovatello?"

""Per forza!" mi rispose. "Però, come ella vede, sono disposto a far sí che il trovatello non abbia a trovarsi privo totalmente di mezzi."

""Mancomale!" diss'io "Dunque non c'è altro mezzo che mettere a frutto il capitale, e investir di questa rendita il fanciullo."

""È precisamente di ciò, che le chiedeva se poteva incaricarsi. Siccome poi io sono dell'avviso che a qualunque servigio debba andar unita la ricompensa, cosí la prego di accettar questo piccolo attestato della mia gratitudine."

"E mi sciorinò dinanzi un altro biglietto di mille franchi. Come vedrai Emilio, tuo padre era un uomo senza cuore. Io respinsi il dono dicendogli che, per far un'opera buona, a me era spinta e ricompensa sufficiente l'opera stessa.

""Dunque ella accetta?" chiese egli.

""E se non potessi accettare che cosa accadrebbe del fanciullo?"

""Siccome bisogna assolutamente che io parta fra pochi giorni, cosí non so se potrei ottenere di dotarlo come vorrei e di trovargli un protettore che come lei possa levarlo dagli esposti e sorvegliarlo. Forse non mi resterebbe che di abbandonarlo alla propria sorte."

""Ebbene," diss'io "s'ella ha fede in me sono pronto a fare ciò ch'ella desidera."

"Allora mi ringraziò vivamente. Io cercai di lasciargli una ricevuta della somma; egli si rifiutò di accettarla, e postimi in mano i biglietti di banca soggiunse:

""Ora possiamo tornar a Milano; giungeremo a tempo di non essere veduti da alcuno."

"Io misi nel portafoglio le trentamila lire che oggi, come sai, sono diventate quarantamila coi risparmi. Tuo padre andò a prenderti, e dopo avermi ribendati gli occhi rifacemmo la strada in carrozza ed entrammo in Milano che spuntava l'alba. Ti deponemmo dove sai, poi egli andò da una parte, io dall'altra verso casa.

"Lo stesso giorno io sapevo chi era tuo padre; il suo nome mi fu rivelato dal libro di negozio, sul quale stava registrata la vendita del quadro di cui ti parlai, fatta diciott'anni prima dal mio al padre di lui. Ne chiesi novella intorno, trovai chi lo conosceva, e ai connotati capii che era veramente lui. Stetti circa dodici anni senza rivederlo, né sentirne a parlare. Allora tu eri in collegio, e non mi conoscevi ancora. Finalmente un dí leggendo il giornale mi cadde sott'occhio il di lui nome fra gli arrivati a Milano di quella giornata. Veniva da Genova.

"Mi prese curiosità di rivederlo, e infatti trovai modo di incontrarlo in istrada e di fissarlo. Era lui; invecchiato di dodici anni, ma era lui. Mi guardò, ma o fece mostra di non conoscermi, o non mi ravvisò davvero, e passò oltre. Il giorno dopo ripartiva per chissà dove. Passarono cosí altri sette anni, e venne il quarantotto. Tu partisti colla legione Manara, ed io, dopo la battaglia di Novara, andai, come sai, a star in campagna. Un giorno, venuto a Milano nel giugno del 50, mi pare, passeggiando sui bastioni, vidi una carrozza molto elegante, fermata dinanzi ai cancelli della scalinata che mette nei giardini pubblici, da cui smontarono una bellissima giovine, e tuo padre, a cui ella diede il braccio in modo, che capii subito che la doveva essere sua moglie. Ne chiesi conto alla sera, e mi fu detto infatti che egli si era ammogliato da qualche mese. E fu allora che finii di perdere la speranza ch'ei potesse pensare ancora a riconoscerti".

- E non mi direte chi sia quest'uomo? - chiese Emilio che aveva ascoltato quel racconto in religioso silenzio.

- È impossibile! E che t'importa del resto di saperlo? Dio voglia tener lontano il momento in cui... Sí... Che t'importa di saperlo? - ripigliò tosto per sviare l'attenzione di Emilio da quella frase che aveva interrotta - Ei non merita il tuo amore. Tu porti un nome diverso dal suo, un nome che non devi né puoi cangiare in qualunque caso. Ti sei fatta una posizione indipendente, non hai piú bisogno né di lui, né di me...

Poi con un sospiro:

- Solo che tu volessi accettare quelle proposte...!

- Caro tutore; - disse Emilio mestamente - voi siete persuaso che non è un'idea di interesse che mi spinge a conoscere mio padre. Ma voi avete ragione! Che mi deve importare di lui? È una curiosità la mia e nulla piú? Voi non siete forse il mio solo, il mio vero padre? Oh vi ringrazio, mio buon tutore, vi ringrazio di tutto quello che avete fatto e che fate per me.

E presagli la mano gliela baciò con riverenza.

- Dunque, per conchiudere, - disse il professor Bartelloni, alzandosi e accennando di partire - sappi che io mi fermo a Milano un mese, e sono d'alloggio al Marino.

- Non nel vostro solito albergo?

- No; non c'erano piú camere. Ti aspetto a pranzar con me verso le cinque. Riparleremo. A rivederci.

- A rivederci, caro tutore. Alle cinque sarò da voi.

E dopo averlo accompagnato fino all'uscio, ritornò a finire di vestirsi.

Un'ora dopo Noemi Dal Poggio entrava, tacita, commossa, quasi furtiva, scivolando fra le due imposte socchiuse dell'uscio; attraversava l'anticamera in fretta, come se cercasse di nascondersi o di salvarsi, e andava a cadere affranta nella sua solita poltrona.

Al primo sguardo Emilio s'era accorto che le era accaduto qualche cosa. Ella ansava affannosamente come se avesse fatto una corsa precipitosa, e, colle due mani raccolte e strette sul cuore, cercava di comprimerne i battiti violenti.

Chiuso l'uscio a doppio giro, Emilio le tenne dietro, e le si mise in ginocchio dinanzi; le staccò dal seno le mani, e stette a mirarla un momento in atto di tacita e profonda adorazione.

Come era bella Noemi in quella posa, colla trepida emozione che le stava dipinta nella pallidezza delle guancie, e nella espressione degli occhi semichiusi. Con che trasporto il suo amante riscaldava nelle proprie quelle care manine intirizzite un po' dal freddo e un po' pel sangue che le era rifluito tutto al cuore!

- Noemi, cara Noemi, - disse il giovine poco dopo che cos'hai? che cosa t'è accaduto?

- Ah Emilio! - rispose ella con un filo di voce - se tu sapessi quanto coraggio m'è abbisognato oggi per ven qui!

- Povero angelo adorato! - sclamò il giovine, con uno di quegli slanci di gratitudine e di tenerezza, che nessuna penna può rendere meglio dell'imaginazione. E le baciava le mani con infinita passione. Poi come portato dal proprio entusiasmo proseguí a parlarle sotto voce con quel linguaggio ispirato, in cui l'anima si versa tutta, sincera, e ardente, colle voluttà del presente, coi pentimenti del passato, coi sogni dell'avvenire... Linguaggio assurdo, incoerente, ma pieno di poesia e di verità, perché sgorga dal cuore, e va dritto a un altro cuore, che lo ascolta palpitando.

Noemi con un divino sorriso di felicità negli occhi e sulle labbra stava infatti ascoltando il suo amante, maravigliata di quella nuova adorazione, e di quel getto di vera e sentita tenerezza che l'avviluppava per cosí dire in un'atmosfera inebbriante di voluttà e di amore.

- Oh parla, Emilio, parla ancora; - disse ella quando il giovine tacque - Tu mi fai tanto bene... Parla ancora. Era tanto tempo che non mi dicevi queste parole. Se tu sapessi, Emilio, come ho bisogno di essere persuasa che mi ami.

Emilio a mani giunte, ripigliava:

- Vedi se ti amo!... non senti che la tua vita è la mia. Cara Noemi! Come potei farti soffrire pel passato? Ma non era io... Fui un infame... Vedrai d'ora innanzi come ti adorerò, come non penserò che a te sola... Noemi, Noemi, dimmi ancora che mi hai perdonato, dimmi che mi ami sempre.

La cara donna strinse fra le palme la bruna testa del suo amante e si curvò a baciarla sui capelli, con trasporto. Ma poi, come se un pensiero subitaneo le attraversasse la mente, corrugò la fronte, e fece per alzarsi in piedi.

- Che hai, Noemi?... A che pensi? T'è accaduto qualche cosa?... Tu mi nascondi un segreto...

- No... Emilio che segreto vuoi che io abbia per te? Ma ora che t'ho veduto, ora che so che mi ami, che mi hai dato coraggio, lasciami partire,... bisogna che io parta...

- Partire!? Cosí subito? Lo puoi? Tu mi dici questo...?

- Ho paura, Emilio, ho paura.

- Ma di chi? ma perché?

- Mio marito ha dei sospetti...

- Sospetti sul nostro amore?

- Sí.

- Ebbene?

- M'è impossibile fermarmi come gli altri giorni... come vorrei... bisogna che io torni subito a casa.

- Ma ciò è impossibile... Noemi. Credevi tu che io avrei potuto lasciarti partire cosí?

- Oh qualche volta mi hai lasciata partire peggio di cosí; - rispos'ella con un mesto sorriso.

- È vero... ma allora se tu sapessi! Oggi ti amo, ti adoro... Che importa se tuo marito ha dei sospetti?

- Ah tu non lo conosci... Mio Dio! mio Dio! Ora che cominciavo ad essere tanto felice! Lasciami, Emilio. Tu non vorrai perdermi. Non avrei dovuto venir oggi... Mi par già di trovarlo qui sotto ad aspettarmi, a vedermi uscire...

- Ma dunque egli sa tutto?... racconta... che avvenne?

Allora Noemi con parole rotte, affrettate, raccontò la scena di gelosia della sera antecedente, poi chinò la testa sul seno con rassegnato dolore.

- Ah! Emilio, - sclamò - io temo che incominci per noi una vita ben dolorosa.

- No, è impossibile; noi ci amiamo troppo. Abbi coraggio, Noemi... Io sarei capace di tutto pel tuo amore... Cosí sia di te.

Essa lo abbracciò con muta effusione di tenerezza.

Emilio era rimasto sopra pensiero. Infine:

- Questo è però uno strano caso! - sclamò quasi parlando con sé stesso.

E rivoltosi a Noemi:

- Ascolta... Ti ricordi l'ultima volta che venisti qui a trovarmi?

- Sí; lunedí scorso, quand'eri in letto svenuto.

- Ti ricordi di aver veduto qui al mio capezzale un vecchio?

- Un vecchio ed un giovine.

- E quel vecchio lo conosci tu?

- Io no...

- Non sai che egli conosca tuo marito?

- Non lo so.

- Non hai sentito mai nominare da lui il professore Bartelloni?

- Mai. Mi è un nome affatto nuovo.

- Ma come credi che siano venuti i sospetti a tuo marito?

- Come saperlo? Temo di essermi tradita da me stessa. Ero cosí malinconica nei passati giorni...

Emilio le ribaciava le mani con passione quasi a chiederle nuovamente perdono.

- Io temo anche per te, Emilio... Mio Dio!... Egli è capace di ucciderci tutti e due.

- Oh Noemi, ti pare? - disse Emilio ridendo - Venga quest'uomo... Maledetto il caso che ti gettò nelle sue braccia!

- Tu non puoi sapere; - proseguiva Noemi al vedere che Emilio aveva sorriso delle sue lugubri fantasie - Tu non pensi... non conosci mio marito. Povera me! Come vederci d'ora innanzi? Egli mi ha proibito perfino di andar da Cristina... e chissà come mi sorveglierà... chissà cos'accadrà di me!...

E nascose la faccia nelle mani.

- Cara Noemi, non affliggerti cosí...

- Tu finirai col dimenticarmi;... non mi potrai veder piú che di rado; ti innamorerai di un'altra donna...

- Taci, Noemi, non dir cosí...

- Emilio, - sclamò essa a un tratto - hai tu la forza di lasciarmi? Lasciamoci... Io non posso farti felice... Io ti farò soffrire.

- Possibile! - sclamò il giovine sempre piú sorpreso - Perché mi parli cosí adesso? Sei tu che mi dai questi consigli?

Noemi aveva gli occhi pieni di lagrime.

- Che vuoi tu ch'io faccia? Tu non pensi alla mia posizione. Tu non conosci mio marito. Egli è capace di tenermi chiusa nella mia camera un anno intero se venisse a scoprir qualche cosa... È capace di battersi con te a morte... E oggi? che cosa gli risponderò se mi chiede... se sa che sono uscita?... Dio santo! che imprudenza fu la mia!

E su questa frase stettero muti entrambi, per qualche tempo, cogli occhi a terra confusi dal dolore...

- Ma non importa! - sclamò Noemi - Mi uccida... tanto meglio!... finirò di soffrire... finirò di trascinar questa vita odiosa.

- Ma che parole!... C'è un mistero dunque? Che cosa mi nascondi? Perché parli di vita odiosa?

- Ah tu non puoi farti un'idea della mia vita. Sempre fingere, sempre mentire, sempre tremare. Non puoi immaginarti lo spavento che mi assale mille volte al giorno quando sono in casa, quando sento la voce di mio marito... quando lo vedo... al pensiero d'essere scoperta... e la vergogna che provo in me stessa di non poter essere sincera...

- Povera e cara Noemi! - sclamò Emilio pieno di pietà e di ammirazione - Ed io sciagurato che ti feci patire anch'io!... Ma perché non mi hai fatto mai parola di queste tue pene?

- Per non darti un dolore inutile. Che vuoi tu? Vicino a te io scordavo ogni cosa. Era cosí breve il tempo di star insieme... Ed ora, ed ora? Oh Emilio!

E si mise a lagrimare tacitamente.

Il giovane la ricinse colle braccia, la strinse con ebbrezza sul cuore, e si pose a baciarla sulla fronte, sulle guancie, sulla bocca, articolando indistinte parole di consolazione, e bevendo con voluttà le lagrime che cadevano dagli occhi di lei...

Quando la ragione tornò a quelle anime addolorate, e pur tanto felici, e la riflessione riprese il suo corso, l'idea dell'avvenire si riaffacciò loro dinanzi piú buia di prima.

- Ascolta, mia Noemi; - disse Emilio a un tratto - credi tu che io ti ami sopra ogni cosa a questo mondo, e che sarei prontissimo a farmi uccidere per renderti contenta?

- Mio Dio! farti uccidere per rendermi contenta?

- Per risparmiarti un affanno?...

Ella gli strinse con forza febbrile la mano che teneva nella sua.

- Ebbene... se tu abbandonassi tuo marito? Se fuggissimo insieme? Tu sei libera; non hai figli... Io penserei bene a difenderti, e ad adorarti... Pensa che giorni!... Andremmo a Lione dove io potrei trovare una splendida posizione... Nessuno piú potrebbe staccarti dalle mie braccia... potremmo amarci per tutta la vita...

Noemi, un po' meravigliata, guardava in viso a Emilio, come se andasse cercandovi la vera intenzione delle sue parole. Poi crollò mestamente il capo e con un soave sorriso, rispose:

- No, Emilio. Tu stesso forse non credi... a questo progetto. Se io accettassi, saresti tu veramente pronto a fuggir con me?

- Tu dunque dubiti del mio amore?... dubiti di me?

- No, mio Emilio;... ma credi tu che io non abbia indovinato i misteri della tua vita? Credi tu che questo amore fortissimo che io nutro per te, che mi fece dimenticare tutti i miei doveri, e rinunciare alla mia quiete, sia nato nel mio cuore soltanto perché tu sei bello, perché hai talento... e perché mi ami? Oh c'è qualche cosa di piú. Io sapeva che tu soffri per qualche cosa di segreto... per qualche cosa di grande... per qualche cosa di cui io non posso essere gelosa... Ho capito tutto! Tu congiuri!

- Oh Noemi, mia Noemi adorata! - sclamò Emilio felice d'essere stato indovinato.

- Perciò dubitavo che tu fossi pronto a dar volentieri la tua vita per me... Né io lo vorrei. Non è vero che se io accettassi di fuggire con te, tu faresti un sacrificio?...

- No, te lo giuro, te lo giuro; - sclamò il giovine con una esaltazione sincera - ormai sono stufo, sono disgustato di questa vita sospesa e senza scopo, senza speranze... Se tu ti decidessi io sarei tutto tuo, per sempre...

- Ebbene ti credo. Ah sarebbe un gran passo! Sento, che non ne avrei il coraggio... Mio Dio! come sono infelice!

E qui, come se fosse spinta a levarsi in piedi da una molla potente, si sciolse dalle braccia del suo amante, guardò un'altra volta l'orologio che le pendeva sul grembo e disse:

- Addio, Emilio, addio; è tardi... oh è troppo tardi...

- Noemi... non partire cosí... quando ci rivedremo?

Ella s'arrestò colpita da quella frase.

- Quando? Come saperlo? Chissà che cosa mi accade oggi...! Ho un presentimento funesto... Lasciami andare, Emilio... se appena potrò sarò qui... lasciami andare... dammi tu il coraggio di partire.

- Sí... è vero... va... ascolta... io ti aspetterò tutti i giorni dalle due alle cinque... se non puoi venire scrivimi... o scrivi alla Firmiani che ormai sa tutto. Io andrò tutte le sere da tua cugina;... fa in modo insomma di farmi sapere quando ti potrò rivedere;... non lasciarmi in quest'ansia... e pensa a ciò che ti dissi; pensa che io ti amo, ti amo come un pazzo, sono pronto a metter la mia vita per farti felice.

E strettala un'ultima volta al petto... con un lungo, ineffabile... e quasi doloroso bacio... si lasciarono.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO RIVELAZIONE

Ecco che cosa accadeva intanto in casa di Cristina Firmiani.

Il Dal Poggio, uscito la sera prima dalla camera di Noemi, colle furie della gelosia e dell'orgoglio offeso nel petto, era andato meditando strani progetti per giungere a scoprire fino a che punto sua moglie fosse colpevole. Dopo averne accettati e rifiutati parecchi, uno piú assurdo dell'altro, aveva stabilito di ritornare all'indomani da Cristina, la quale nel congedarlo poco prima gli aveva lasciato accortamente travedere la possibilità di aver dalla Gigia informazioni in proposito. Cristina infatti aspettava verso mezzogiorno sí l'uno che l'altra; da quell'incontro, che doveva parere fortuito ad entrambi, ella si aspettava lo scioglimento della trama infernale che aveva con tanta cura ordita a danno di Noemi; e per trovarsi sola con essi, aveva mandato fuori di casa suo marito Girolamino, con un pretesto.

Quando le fu annunciato il Dal Poggio, finse di ricordarsi allora allora che egli veniva per parlare d'affari con Girolamino, e volgendosi a lui che entrava, colla mano aperta sulla fronte:

- Ah la stordita ch'io sono! - sclamò - Mi sono scordata che tu dovevi tornar oggi per quella faccenda con mio marito, e l'ho mandato fuori di casa. Questa volta sono proprio imperdonabile;... la colpa è tutta mia.

- Non monta; - rispose il Dal Poggio - l'affare non è poi cosí pressante che non si possa rimetterlo a piú tardi.

- Se è cosí tanto meglio! Temevo d'aver fatto un danno; del resto se hai tempo di aspettar qui un pochino, egli non deve star molto a ritornare.

- Bene, allora lo aspetterò; - rispose volentieri il Dal Poggio, sedendosi accanto alla toeletta dell'attempata elegante.

- E Noemi come sta?

- Sta bene; anzi ti dirò francamente, giacché sono qui, che ho bisogno di continuare il discorso di ieri, giacché sarebbe inutile dissimularti che è per me d'una certa importanza. Ieri sera io ho parlato a Noemi, e sfortunatamente ho dovuto convincermi che i miei sospetti non sono infondati! Eh già tu ridi, come il solito, ma io son d'avviso che non ci sia nulla da ridere.

- Scusami; non rido né di te, né di lei... Mi pare soltanto che tu voglia dare alle cose maggior importanza di quello che meritano realmente...

- Lasciami continuare. Siccome ella è incapace di mentire, cosí non volle rispondere categoricamente alle mie domande, e mi lasciò come puoi immaginarti, molto inquieto. Allora io credetti di mio dovere il proporle un mezzo assai giovevole alla sua guarigione morale, e le suggerii di sospendere per qualche tempo le sue visite in casa tua. Ho voluto perciò venire ad avvisartene, perché tu, non dubito, come parente, e come donna di una certa esperienza, vorrai approvare la nostra risoluzione.

- So bene che tu mi burli, caro Emanuele! - sclamò Cristina un po' piccata della "certa esperienza" - Come parente, forse, potrei trovare molto prudente questa risoluzione, ma come donna è un po' difficile. Sarebbe bella, - soggiunse ridendo - che una donna trovasse giusta e lodevole la tirannia di un marito!

- Non si tratta di tirannia; - rispose il Dal Poggio un po' sconcertato - Ma già tu scherzi e non c'è modo di ragionare...

- Ebbene, scherzi a parte; lodo se vuoi la tua franchezza nel dirmi sul viso che trovi pericolosa per Noemi la mia casa; ma capirai che sarebbe strano che io l'applaudissi anche.

- Non pretendo che tu l'applaudisca; mi basta che tu la trovi giusta e necessaria.

- Non so... potrà essere... ma io non la trovo neppur necessaria.

- Ma insomma, è vero o non è vero che il pericolo di cui parliamo esiste per Noemi in casa tua?

- Caro Emanuele, io non capisco in verità... Il male c'è o non c'è? Se c'è, in casa mia o non in casa mia, fa lo stesso; se non c'è... la cosa è inutile. E ti dirò anzi che io, come donna di esperienza, temerei, che... se Noemi non fosse la brava donna che conosciamo... temerei, dico, che questo ostacolo l'avesse ad invogliare ad affrontare il pericolo... altrove;... non so... fuori di casa...

L'infame insinuazione non portò il colpo desiderato...

- Oh questo poi! - sclamò il Dal Poggio come uomo troppo sicuro di sua moglie - Questo poi, no!

- In istrada per esempio; - continuò Cristina - all'uscir di chiesa... al passeggio... che so io! Fortunatamente, ripeto, tua moglie è troppo ragionevole... è troppo virtuosa per lasciarsi andare a certe tentazioni... e del resto il giovine che potrebbe darti un po' di ombra è troppo impegnato con un'altra donna per pensare a lei.

- Vuoi dire quella crestaia di cui mi parlasti ieri? - chiese il Dal Poggio un po' ingenuamente.

- Sí, quella che doveva venire ieri a portarmi un cappello, e che aspetto oggi fra poco.

Allora, per dar sempre piú colore alla cosa, cominciò a parlar di tutt'altro, come se fosse stanca di star su un argomento che avesse per lei poco interesse.

Il Dal Poggio, preoccupato invece, rispondeva secco, svogliato, a frasi tronche. Cristina, senza mostrare di andarsene, continuava con una vivacità ed una parlantina, che avrebbero fatto onore a qualunque deputato, finché il servo, aperto l'uscio, annunciò la modista.

- Dille di entrare; - rispose la Firmiani; e voltasi al Dal Poggio ridendo - Vedrai che bella ragazza è la rivale di tua moglie...

- Cristina!

- Oh sta a vedere che non si possa proprio dir una sola parola in ischerzo con te!... Adesso poi, Emanuele, mi scuserai se le gravi cure della mia acconciatura mi chiamano a tutt'altro ordine d'idee.

La Gigia entrò.

Si vedeva ch'ella aveva pianto di recente; i suoi occhi erano gonfi e rossi di lagrime; le occhiaie profonde; la guancia piú pallida del consueto. Un grande accoramento le stava dipinto ne' tratti. Salutò Cristina con un mestissimo "riverisco" e fe' un cenno di capo al Dal Poggio che la stava osservando con molta curiosità.

Il cappello che essa recava alla Firmiani fu provato, riprovato ed approvato. Cristina fece molti elogi lusinghieri al buon gusto della Gigia, poi mentre questa si disponeva ad andarsene:

- Dunque fanciulla, - le disse facendo l'occhiolino d'intelligenza al Dal Poggio - questo tuo Emilio Digliani ti vuol bene o non ti vuol bene?

All'udirsi ripetere quel nome, la Gigia fu scossa come da una scarica elettrica e il pianto le ricorse negli occhi.

- Mio? - sclamò dolorosamente abbassando la testa sul seno - Non è piú mio.

- Eh via! - sclamò Cristina facendo atto di meraviglia - Ma che hai tu, povera ragazza? tu piangi.

La Gigia non rispondeva, e le lagrime le gocciavano grosse dagli occhi sul tappeto del pavimento.

- T'avrebbe egli lasciata? È forse partito da Milano?

- No;... mi tradisce;... ne ha un'altra.

- Oh non sarà poi vero!... mi rincresce povera fanciulla... ma non sarà vero;... consòlati.

- So tutto... Ho veduto io stessa pocanzi, con questi occhi;... ora non potrà piú negarmelo... Era lei.

- Che cos'hai veduto? - chiese la Firmiani gettandole quella domanda colla solita noncuranza, mentre fingeva d'essere intenta a ravviarsi i bandeaux dinanzi allo specchio.

- Ho veduto la signora che è adesso la sua amante; - rispose la Gigia - l'ho veduta entrare in casa sua... Ora non ho piú dubbio.

Cristina guardò in viso al Dal Poggio e stette muta come donna che teme di proseguire un discorso pericoloso.

Il Dal Poggio divorava la Gigia collo sguardo; era pallido; ma non mostrava altra emozione.

- Chi sarà mai questa signora? - chiese egli, con voce insinuante, alla fanciulla.

La Gigia non rispose.

- Basta! - disse Cristina andando verso di lei, mostrando al Dal Poggio di voler scongiurare la tempesta col troncar quel dialogo. - Dirai dunque alla madame che il cappello mi piace, e che domani passerò di là per una acconciatura da festa da ballo.

Il Dal Poggio intanto si era levato, e s'era accostato a loro.

- Io conosco, - diss'egli alla Gigia - un mezzo facilissimo e potente per riacquistare l'amore d'un amante che comincia a diventar infedele.

La fanciulla levò gli occhi in viso a quell'uomo che le faceva balenar dinanzi una sí bella speranza e lo interrogò collo sguardo senza dir parola.

- Va, ragazza mia, non dargli ascolto; - sclamò la Firmiani, sicura ormai del fatto suo.

La Gigia la salutò, e uscí dalla camera.

- Resta, Emanuele... ascolta; - disse la Firmiani fingendo di tentare un ultimo sforzo per distoglierlo dal seguire la modista. Ma il Dal Poggio salutatala con un cenno di mano, si avviò frettoloso a raggiungere la Gigia.

Quando fu sulla scala le si portò al fianco e le disse con voce ferma:

- Dunque vuol ella che io m'interessi a farle riavere il suo Emilio?

La Gigia si arrestò con un piede su un gradino e l'altro su quel di sotto, e guardò il Dal Poggio con un po' di diffidenza.

- Ella vuol scherzare, - disse - non ho tempo né voglia di scherzare.

- Le pare che io scherzi?... Io le giuro che ne ho il mezzo.

- Perché si prende questo interesse per me?

- Perché mi dispiace di vederla addolorata, e ripeto, io ho il mezzo di far ciò che ella desidera, mentre forse altri non l'hanno.

- E qual è questo mezzo? - chiese finalmente la Gigia, persuasa dall'accento di profonda serietà con cui il Dal Poggio le parlava.

- Conosce lei, - chiese Emanuele - il marito della signora che è l'amante di Emilio, da lei veduta poco fa entrare in casa sua?

- Io no.

- Neppure di nome?

- Di nome sí:... è un certo signor Dal Poggio, - rispose la Gigia presa al laccio.

Lo sventurato protese le mani, e si attaccò alla sbarra della scala per non cadere.

Seguí un momento di silenzio.

- Ebbene io lo conosco; - disse facendo uno sforzo sovrumano per parlare senza tradirsi - Se volete gli parlerò io stesso.

- È questo il mezzo ch'ella mi offre?

- Sí.

- Allora la ringrazio. Se volessi potrei conoscerlo e parlargli anch'io. Non voglio nessuno per forza io. La riverisco.

Cosí detto si volse, seguitò a scendere i gradini della scala e se ne andò.

Frettolosa, col velo abbassato sugli occhi, la Dal Poggio era corsa a casa per contrade poco frequentate, e vi era giunta nel tempo che suo marito riceveva dalla Gigia la rivelazione del proprio disonore.

- È tornato a casa? - chiese ella alla cameriera, entrando nel suo gabinetto.

- No signora, non ancora.

- E il nonno?

- È uscito poco fa dal suo appartamento e sta in sala a leggere.

- Ha chiesto di me?

- Sí signora.

- Che cosa gli hai detto?

- Che la era uscita un momento per fare una piccola spesa.

- Ed egli?

- Non aggiunse nulla.

Noemi dopo aver deposto nella camera da letto il cappello e il soprabito, stava per avviarsi verso la sala a far la solita lettura di prima di pranzo al buon vecchio che la aspettava;... ma ristette, e provò il bisogno di raccogliere un po' le proprie idee e di prepararsi l'animo prima di presentarsi a lui, che avrebbe potuto farle a bruciapelo una funesta domanda.

Si sedette dinanzi al camino nel suo gabinetto, posò il mento sulla palma, e si mise a meditare alla propria situazione.

Era detto che Noemi dovesse soffrir piú dell'amore di Emilio, che delle sue freddezze. Finché si era trattato di nascondere le lagrime e la tristezza, le era parso facile cosa; ma ora che si sentiva riamata da lui, ora che avrebbe potuto essere la piú felice delle donne, e si vedeva sorgere dinanzi un nuovo e terribile ostacolo nella gelosia di suo marito, provava nell'anima certe fosche tentazioni, che le facevano ribrezzo, e che si sviluppavano, per cosí dire, dal suo cuore tormentato, come gli acri vapori si elevano dalla velenosa miscela d'un alchimista.

Ormai, pensando a suo marito, la sventurata non sentiva piú che ripugnanza e spavento. Queste due sensazioni le si erano accresciute nella misura opposta all'amore che ella portava al suo passionato amante. L'idea che fra poco avrebbe dovuto rivedere quell'uomo grave, orgoglioso, pedante; riudir quella sua voce monotona; ascoltar le sue massime, la sua politica; incontrar il suo sguardo severo e scrutatore... le metteva i brividi, le faceva perdere la testa. Allora tutti i peggiori istinti di quell'anima buona e schietta pareva si dessero la mano per perderla; e le parole di fuga susurratele poco prima all'orecchio da Emilio, le ripicchiavano la memoria con una insistenza fatale. La fantasia, ancora tutta impressionata dalle sue carezze, le porgeva il lato bello e facile di quei progetti, e la ragione istessa trascinata dalla passione le mostrava giusto, e quasi necessario ciò che poco tempo prima le sarebbe parso un delitto, un obbrobrio.

La logica della passione è tremenda. Non si può imaginare che spaventevole viaggio può fare in una testa appassionata un'idea, che cerca un esito, e rovescia gli ostacoli, e frange tutto ciò che le si presenta dinanzi. Insensibilmente essa può condurre a considerare con indifferenza, o a desiderare delle cose che a mente fredda farebbero ribrezzo a qualunque coscienza meno timorata.

Ma poi, come ribalzando indietro con ispavento dalle ultime conseguenze della sua fantasticheria, ritornava per poco sui propri doveri, sul pensiero della propria riputazione, al dolore del suo buon nonno che l'amava tanto, a tutte infine le caste e tranquille idee della famiglia e della casa... Povera donna! Era un lampo in notte buia, che rischiara un momento la scena e sparisce. L'amore di Emilio la possedeva intera; la sua anima non era piena che di lui, della sua immagine, del suono della sua voce, delle sue espressioni inebbrianti, e l'avvenire le si presentava nuovamente dinanzi come un inesplicabile problema.

L'avvenire? Che sarà di lei? Essere staccata da Emilio? Impossibile! Meglio morire! Ma quando lo vedrà ancora? Dove? In che modo?... E suo marito?

Le minacciose parole della sera prima le arrestavano il sangue nelle vene.

- Farà seguire i miei passi... se pure non li ha già spiati oggi stesso... Quasi lo desidero. Almeno andrei fuori da questo tormento. Ma e il nonno? Oh! mio Dio, dammi tu aiuto e consiglio.

Allora ripigliava forza l'idea di staccarsi da Emilio e di sagrificarsi. Ma non l'aveva formata del tutto che la rigettava lungi da sé come impossibile... Avanti dunque, povera mente, a cercar un mezzo di salvezza e di calma. Come cavallo sfrenato che galoppa galoppa attraverso campi e foreste per la notte buia nelle leggende di Germania, la fantasia della sventurata correva, inseguita dai cento fantasmi che non dovevano piú lasciarle né tregua né pace.

Quando Dio permise ella si ricordò che il nonno aveva chiesto poco prima di lei, e si levò per andar nella sala a tenergli compagnia. Si guardò nello specchio; ravviò colle palme i capelli un po' incomposti e che portavano ancora qua e là qualche traccia delle carezze di Emilio, e si volgeva per avviarsi... quando l'uscio del gabinetto si aperse ventilando, ed ella vide entrar suo marito... e dovette retrocedere un passo e appoggiarsi al bracciuolo della sedia per non cadere di spavento.

- Fermatevi; - aveva detto il Dal Poggio con voce sorda, lanciandole uno sguardo di inenarrabile disprezzo. I suoi occhi avevano dei bagliori d'una luce cosí sinistra e feroce, che la sventurata donna, non potendo reggerne la vista, dovette chinar a terra i suoi.

- Sedetevi in quella scranna; - riprese il marito incrociando, come usava, le braccia sul petto...

- Avete capito? - replicò fra i denti vedendo che Noemi non si moveva.

Ella si lasciò cadere nella sua sedia, piú pallida d'un morto, e cosí stettero un momento, in uno spaventoso silenzio.

- Jeri sera, - ripigliò il marito - uscendo di qua, vi ho detto che sapevo che cosa mi restasse a fare per iscoprire ciò che vi chiedevo e a cui voi avete risposto con uno scoppio di riso... Non fa bisogno di dirvi che non mi abbisognarono molte ricerche per persuadermi che voi siete... la piú impudente e la piú infame...

S'arrestò. La vilissima parola che stava per pronunciare e che ognuno avrebbe indovinato dall'indicibile disprezzo ond'era atteggiata la fisonomia di quell'uomo, non fu pronunciata che mentalmente.

Noemi sentí l'atroce insulto e alzati vivamente gli occhi in viso a suo marito, disse con fierezza:

- Emanuele!

Il Dal Poggio, in apparenza calmo, pareva stesse aspettando quella parola.

- È vero; - continuò con crescente disprezzo - voi non siete ormai neppur degna dei miei insulti; vi assicuro, se non si trattasse che della vostra persona, poco o nulla mi importerebbe, perché ormai io non so nemmeno piú che voi esistiate;... ma siccome le leggi non mi permettono di uccidervi, come meritereste, e siccome voi portate sempre il mio nome, cosí è bene che sappiate che un Emanuele Dal Poggio non può permettere che una donna che porta il suo nome sia una donna perduta. Questa è la sola ragione che mi obbliga a volgervi ancora la parola, e che mi trattiene perfino dallo sconciarvi il viso colle mie mani...

A questo nuovo e strano insulto Noemi si sentí ritornare nell'animo tutto il suo coraggio e la sua avversione. Si alzò indegnata e fremente, come avrebbe potuto fare una donna incolpevole, e invece di cercare di scolparsi o di placare quel terribile sdegno, fe' cenno di ritirarsi.

- V'ho detto di star seduta; - disse il marito snodando le braccia dal petto, senz'alzar la voce, e facendo un gesto a cui era impossibile di non ubbidire - Ah credete forse d'impormi, - continuò egli, cogli occhi sempre socchiusi e con un sorriso di fredda e feroce ironia - credete forse d'impormi con quelle vostre arie da regina oltraggiata?

- Emanuele! - balbettò Noemi, perduta nel suo dolore e nella sua confusione.

- Farete i vostri bauli, - continuò il marito - e starete pronta a partire fra poco da Milano con me. Non fatevelo dire due volte.

Noemi era come istupidita; le sue pupille si dilatavano spaventosamente, e le sue belle labbra secche e pallide fremevano come per febbre.

- M'avete compreso? Rispondete.

- Ebbene; - diss'ella freddamente, col coraggio che dà la disperazione - io non partirò. Uccidetemi piuttosto... ma io non voglio partire.

Il Dal Poggio strinse i pugni e mandò un ah! come ruggito di pantera, che sta per slanciarsi sul cacciatore che l'ha ferita. Ma si trattenne, e continuò coll'ironia di prima:

- V'ho detto di tenervi per voi le vostre frasi da romanzo, miserabile donna. Io non sono un personaggio da romanzo, io! Se volessi esser tale potrei, come usano certi stolidi mariti del giorno d'oggi, potrei uccidere o farmi uccidere dal vostro signor Digliani che avete veduto poc'anzi. Ma siccome vi ripeto che io tengo sopratutto a salvar le apparenze, cosí non penso neppure a castigarvi come meritereste. E badate di non obbligarmi a usar la violenza. La carrozza di posta sarà nella corte domani. Sappiatevi regolare.

Cosí detto uscí dalla camera.

Appena ebbe volte le spalle a sua moglie, con cui si era sforzato di non mostrare che disprezzo e abbonimento, il Dal Poggio si sentí avvampare nell'anima tale un furore contro la colpevole donna, che si pentí amaramente d'essere stato cosí calmo. Tanto piú che il di lei rifiuto di partir da Milano, al quale poco prima non s'era degnato di dare importanza, gli risuonava nell'orecchio come una ribellione, come una minaccia, e gli inviperiva nel petto lo sdegno e la gelosia.

La qual passione, piú che ogni altra, si modifica nelle sue manifestazioni a seconda del carattere di chi la risente; ond'è ch'essa può apparire la piú nobile come la piú abbietta delle tempeste dell'anima. Nel soffio infuocato di gelosia, che passa sul cuore di un generoso e fervido amante, c'è sempre qualche cosa di bello e di grande. Le furie di Otello sono sublimi. Ma per certe anime, invece, impastate soltanto di egoismo e di orgoglio, la gelosia non produrrà che odio e desiderio di vendetta, che sono le piú vili fra le umane passioni.

Mentre s'avviava lentamente con questo inferno nel petto verso la sala della conversazione - dove sapeva di trovare il nonno, a cui contava far parte della sua sventura - passando dal salotto da pranzo, vide che si stava preparando la tavola per parecchi invitati. Ne chiese a un servo, che gli rispose aver ricevuto ordine dal signor conte di apparecchiare per sette, invece che per tre, e di non saperne di piú. Allora, non senza provare una viva gioia di aver trovato un pretesto per ritornare dinanzi a quella donna, per cui provava un senso inesplicabile di attrazione e di ripulsione, ritornò sopra i suoi passi.

Lo sventurato - come un fantoccio a cui i fili nelle mani del burattinaio fanno muovere le braccia e le gambe - obbediva, senza saperne né il perché né il come, alle voci contraddittorie delle diverse passioni che gli straziavano l'anima.

Dico il vero - se le dimensioni del mio racconto non mi vietassero di dilungarmi troppo nello studio di questi particolari - sarebbe prezzo dell'opera lo scrutare a fondo questo cuore di marito moderno, vero tipo di certi uomini arcigni e innamorati di sé stessi, superbi e deboli a un tempo, che appartengono esclusivamente alla nostra epoca, come il telegrafo elettrico e i romanzi illustrati a 50 centesimi.

Ma quando ebbe aperto l'uscio, e si fu trovato dinanzi ancora a quella donna che avrebbe ucciso volentieri colle proprie mani, se la legge non glielo avesse vietato, egli si sentí nuovamente calare le braccia. Un sentimento piú forte dello sdegno e dell'odio vegliava a salvar Noemi da' suoi colpi... la paura dello scandalo e del ridicolo che ne sarebbe derivato. Fermatosi perciò sulla soglia dell'uscio e ripigliato il tuono acerbo e sprezzante di poco prima, le rivolse la parola colla precipitazione di chi non vuol lasciare supporre d'esser tornato con delle idee meno ostili:

- Vi avverto, signora, che, siccome c'è della gente a pranzo, cosí dovete far mostra di essere ammalata; perché non voglio che alcuno vi parli o vi veda. Anzi farete molto bene a mettervi a letto e a starci fino al momento della partenza. Ricordatevi inoltre che il medico deve avervi detto che vi gioverebbe di mutar aria e di viaggiare, nel caso che il nonno volesse assolutamente vedervi... Avete capito?

Noemi col capo appoggiato su una palma, non aveva dato segno di vita se togli un leggerissimo volger d'occhi all'aprirsi dell'uscio.

Era calma nel suo dolore come persona preparata a sopportare qualunque oltraggio.

- Ricordatevi bene, - continuò il Dal Poggio - se non volete poi che io vi faccia scontare amaramente il vostro... obbrobrio, come ne avrei tutto il diritto, che io voglio che nessuno abbia ad accorgersi di nulla... cominciando dalla vostra cameriera che lasceremo a Milano... Vi ripeto dunque che esigo che vi mettiate a letto, e che diate ordine voi stessa di non lasciar entrare qua dentro anima viva fino a mio avviso... E guai a voi se pensaste di disobbedirmi... signora... E cominciate a starvene in posizione meno tragica... e ad asciugarvi quelle lagrime di cocodrillo... Avete capito?

Noemi non si mosse, né fe' cenno di voler rispondere.

- Avete capito? - ripeté il Dal Poggio digrignando i denti, movendo due passi verso di lei, coi pugni serrati e gli occhi fuori dell'orbita - Volete voi parlare una volta?

- Vedete bene, signore, che io non parlerò; - rispose Noemi - Agli insulti io non posso né debbo rispondere.

- Vilissima creatura!... Voi sapreste ben trovare qualche parola per difendervi, per giustificarvi, se non foste la piú infame delle donne...

- Vi faccio osservare, signore, che tali parole me le avete già dette poc'anzi, e che ora voi non fate che ripetervi...

Questa risposta, in apparenza cosí semplice, fu pel misero marito il colpo di grazia. Ne fu come atterrato. Da due giorni quell'uomo passava di sorpresa in sorpresa; ei cominciava allora a conoscere sé stesso e sua moglie... Quella benedetta paura del ridicolo lo riafferrò alla gola, e non gli lasciò trovar un appiglio per continuare il malaugurato dialogo. Allora, accontentandosi di lanciare un ultimo, e piú sanguinoso, e piú infame improperio all'addolorata, si volse indietro, ed uscí piú sdegnato con sé stesso e piú confuso di prima.

E qui - dirò col maestro - non posso lasciare di fermarmi un momento a fare una riflessione; ed è: che il cosí detto spirito non vale soltanto a tener lieta, a render brillante una società, e a suggerire della barzellette e dei calembour... ma può giovare assai anche nelle critiche circostanze della vita. Il pover'uomo - che si vantava di non averne e di non volerne avere, come cosa frivola e inutile - era stato scombussolato due volte dalle risposte di sua moglie.

Uscito di là, dovette chiudere tosto le furie in petto e ricomporre la faccia alla solita gravità. Bisognava farsi vedere dagli invitati e in maniera da non destar neppure la piú piccola congettura. Fe' il suo piano in fretta; spianò la fronte, ed entrò nella sala di ricevimento.

I convitati del nonno, raccolti in circolo dinanzi al camino, erano dei soliti dei giorni festivi. Il buon vecchio li aveva raccolti per via, coll'idea di dar un po' di svago alla sua Noemi. Erano un consigliere di governo giubilato, volpe sopraffina; un antico cavalier servente della defunta contessa Armanda; un avvocato giovine, che trattava dinanzi ai tribunali una lite del conte; e una zitellona, parente della madre di Noemi, caduta in basso stato, che veniva di quando in quando a chiedere da pranzo al Firmiani.

La conversazione era sulle rimembranze di amore. L'amore è il discorso prediletto della prima e dell'ultima età. Il vecchio cavaliere servente raccontava al nonagenario conte un'avventura del secolo scorso, nella quale si sentiva un profumo di cipria di nèi e di galanteria, di cui noi abbiamo perduto totalmente il segreto. Il Firmiani stava ascoltando la storiella con un certo risolino di approvazione, che diceva un'infinità di cose. In quel risolino sfumato si scorgeva chiaramente che il vegliardo si ricordava d'essere stato a' suoi tempi un famoso libertino... Forse, una corda quieta da un pezzo nel suo cuore, era rivibrata repente; forse, in quella testa freddata dagli anni e dall'esperienza, era frizzata in quel punto una rimembranza perduta dei tempi spensierati e brillanti dell'arciduca Ferdinando o della repubblica Cisalpina!

- Dov'è Noemi? - chiese egli, quando furono cessati i convenevoli che avevano interrotto il racconto dell'ex-cavalier servente.

- Vengo appunto da lei; - rispose Emanuele - Ella si trova indisposta e non può venir a pranzo.

Un oh! di rammarico unanime seguí quella notizia. E non fu una mentita sembianza di afflizione quell'oh! dei convitati, giacché Noemi era tanto bella che la sola sua vista rallegrava ogni cuore.

- Spero bene, Emanuele, che non vorrà essere cosa grave; - sclamò il conte con un po' di turbamento, frugando in viso al Dal Poggio.

- Non è cosa grave, - rispose questi - ma desidera però di essere lasciata tranquilla. È la sua solita emicrania nervosa;... e mi ha pregato vivamente di far le sue scuse a lor signori...

Un secondo oh! non meno sincero del primo, troncò quelle scuse. La zitellona avrebbe voluto andar subito a trovarla;... ma ne fu dissuasa da Emanuele, che le ripetè come Noemi bramasse di essere lasciata tranquilla.

- Poverina! - osservò il consigliere - È già da qualche tempo, mi pare, che ella non si sente cosí bene come pel passato.

Il Dal Poggio corrugò la fronte e rispose subito:

- Tutt'altro, caro il mio consigliere...! È sempre stata egregiamente.

Ma tosto, coll'idea che il lasciar credere a una lontana minaccia di malattia gli avrebbe giovato per l'altro fine, quasi ravvisandosi, continuò:

- È però vero che il medico qualche tempo fa le disse che non le farebbe male a tentare qualche cosa di insolito, acciocché questa benedetta emicrania non torni troppo spesso a tormentarla.

- L'ha già veduta il medico? - chiese il nonno.

- Oggi no: ma l'ultima volta le suggerí di far del moto, di provare a mutar aria... e tra le altre cose le consigliò di andar a Parigi a passare gli ultimi giorni di carnevale... Dico la verità non sarei lontano dal provare.

Su questo il conte si volse di nuovo all'antico cavalier servente, invitandolo a ripigliare la galante storiella... e di Noemi non se ne parlò piú che per incidenza.

Nella conversazione che seguí, il Dal Poggio fu sublime di dissimulazione. A tavola si sforzò di mangiare come il solito, e ci riuscí; e dopo pranzo all'ora consueta, lasciando l'avvocato in stretto colloquio legale col nonno, se ne andò al club a spargere la notizia che sua moglie gli aveva dimostrato vivissimo desiderio di vedere gli ultimi giorni del carnevale di Parigi, e che egli aveva dovuto far il sagrificio di prometterle che ve l'avrebbe condotta.

Quella notte il Dal Poggio non potè chiuder occhio un solo istante. Buon per lui che aveva a pensare alle faccende da sbrigare il dí vegnente prima di lasciar Milano.

Levatosi di buon mattino, dopo aver annunciato alla servitú la sua partenza pel giorno dopo, e di aver date le disposizioni necessarie, uscí per metter ordine a certe sue pendenze col ragioniere, coll'agente di cambio, coll'avvocato, e poco dopo il mezzogiorno, rientrato in casa, andò difilato nell'appartamento del nonno per comunicargli la presa risoluzione.

Il conte nonno da poco tempo alzato dal letto, aveva appena terminato di farsi radere la barba dal suo fido cameriere, che gli aveva raccontato appunto come il signor Emanuele avesse dato ordine di far le valigie, per mettersi in viaggio colla signora.

Il buon vecchio che credeva d'aver diritto di saperne qualche cosa, e non ne sapeva nulla, diede del pazzo al suo cameriere; ma, insistendo costui, stava per andar da Noemi a sentire che cosa fosse questa novità, quando vide entrar il nipote, che tra per la veglia della notte, tra per non aver piú bisogno di nascondere l'angoscia che l'opprimeva, era sbattuto in viso come ognuno si può imaginare.

- Va pure, - disse il conte al suo Figaro; e sedutosi nel seggiolone, disse al Dal Poggio:

- Che cosa diamine mi diceva quello là, che voi state facendo dei preparativi di partenza?

- Non avete ancora veduto mia moglie? - chiese il nipote invece di rispondere.

- No; stavo per andar da lei quando tu sei entrato. Jeri sera non ho voluto destarla. Stamattina ho mandato Luigi a chiedere di sue nuove, e la cameriera gli rispose che si sentiva bene, come il solito, e che stava per alzarsi... Ora poi sento che tu hai dato gli ordini per partire domani... Naturalmente ho detto fra me che doveva essere una malintelligenza... a meno che...

- Sono venuto appunto per parlarvi di ciò; - disse il Dal Poggio, lasciandosi andare su una sedia rimpetto al nonno.

Se questi avesse potuto veder in volto suo nipote non avrebbe avuto bisogno di udirne la voce per accorgersi che gli era accaduto qualche cosa di grosso. Ma siccome il Dal Poggio, entrando, si era avanzato verso di lui a ridosso della finestra, e aveva la figura in ombra, cosí il vecchio non s'accorse della di lui emozione se non dopo averlo udito parlare in doloroso accento.

- Che cos'è accaduto, Emanuele? - chiese egli con interesse vivissimo.

- Debbo confidarvi una grande sciagura di famiglia e una mia risoluzione; - rispose questi - L'onor mio esige assolutamente che io conduca via da Milano... lei... il piú presto possibile...

- Lei! Il tuo onore!... Ma si potrebbe saper chiaramente che cosa significa ciò?

- Significa una cosa che voi siete ben lontano dal sospettare e che io stesso... vedete, che ormai ne ho in mano pur troppo le prove, non arrivo ancora a persuadermi che sia vera.

- E che riguarda Noemi? - richiese il vecchio sentendosi venir le fiamme al viso, e puntando le due mani sui bracciuoli del seggiolone come se volesse balzar in piedi.

Il Dal Poggio fe' cenno di sí con un movimento di capo continuo che pareva dire: Pur troppo! Stettero un momento in silenzio.

Il nonno aveva capito tutto.

- Parla, Emanuele; - diss'egli - Ho diritto di sapere ogni cosa;... non nascondermi nulla...

- Che volete che io vi dica? Non vogliate farmi ripetere una cosa che mi abbrucia le labbra solo al pensarvi... Vostra nipote è una donna senza cuore, senza principii... Una donna perduta.

- Emanuele! - gridò il vecchio quasi fuori di sé - Possibile che io debba ascoltar da te queste parole di Noemi?... di mia figlia?

- Voi sapete che io non so fare dei giri di parole. Avrei desiderato non parlarvi di ciò, e tenervi nascosta questa mia sciagura;... ma non sapevo in qual modo avrei potuto farvi persuaso che è indispensabile ch'io parta da Milano in questa stagione.

Il nonno, col gomito appoggiato sul ginocchio e il mento nella destra, stava meditando con muto dolore.

- E averlo preveduto! - sclamò poi - Ma forse non si era già piú in tempo... Povera Noemi!

- Non è lei che dovete compiangere, caro nonno; -: disse il Dal Poggio levandosi con dispetto e mettendosi a passeggiare per la stanza - no, non è lei, che ci ha ingannati ambedue ignominiosamente, vituperevolmente...

- Là, là;... - sclamò il vecchio facendo cenno colla mano al nipote di calmarsi - Oggi sono io che ti prego di non dire delle frasi inutili. Ormai, ciò che è, è; gli omèi sono superflui. È dunque meglio che pensiamo al modo migliore di guarirla... E prima di tutto ti prego di raccontarmi chiaramente le cose come stanno, giacché le tue parole vaghe e senza conclusione potrebbero lasciarmi credere piú di quello che è realmente.

Allora il Dal Poggio si mise a raccontargli in pochi tratti la dolorosa istoria: le due visite a Cristina, la rivelazione della Gigia, e sopratutto la tacita confessione di Noemi.

Quel dialogo continuò cosí un'ora buona. Io però ne farò grazia ai lettori per due grandi ragioni: la prima è che in esso furono ripetute le idee già espresse e accennate indietro, la qual cosa lo renderebbe necessariamente un po' monotono; la seconda è che ormai la storia ha bisogno d'esser condotta al suo fine con assai rapido corso.

Il fatto è che, dopo aver discusso a lungo, quei due uomini trovarono di essere precisamente ai due poli contrarii; capirono di non poter intendersi su nessun punto, neppur discutendo un altro paio d'ore.

Il nonno, vero uomo di mondo, antico libertino, ed intinto di quella specie di scetticismo e di indulgenza amorosa, che caratterizza gli uomini del secolo scorso, non voleva dare all'errore di Noemi quel peso e quell'importanza che gli attribuiva l'offeso marito.

Cosí di parola in parola il dialogo s'era mutato in vero diverbio, e il buon vecchio senz'accorgersi aveva prese le parti di Noemi, con quanto sdegno dell'altro, il lettore se lo può figurare. Non la difendeva per ciò che avesse fatto; ma del di lei errore gettava la maggior colpa addosso al marito, che sbuffava di rabbia compressa.

La conclusione del nonno fu poi che il partire da Milano era il rimedio piú inutile del mondo, quando non fosse dannoso. Il solo vero rimedio, secondo lui, stava nel cuore istesso di Noemi, stava nella persuasione e nell'amore...

Alle quali idee il Dal Poggio si permise di alzar le spalle con disprezzo.

- Era inutile che tu venissi a consultarmi se poi assolutamente vuoi fare come ti sembra; - osservò il conte alzandosi.

- Io non sono venuto menomamente a consultarvi; - disse il Dal Poggio - ma ad avvisarvi di quello che contavo di fare.

Il nonno crollò il capo, e s'incamminò fuori della stanza.

- Spero almeno, - diss'egli con un po' di ironia, figura rettorica sconosciuta al Dal Poggio - spero almeno che mi permetterai di parlarle prima di lasciarmi qui solo a Milano come un uomo di paglia...

E a passi lesti per la sua età si avviò verso l'appartamento di Noemi seguito dal nipote.

- Vi prego, nonno, di non dirle cosa che la confermi nella sua idea di non voler partire da Milano, perché io ho fermamente stabilito di condurla via, e non voglio essere obbligato di usare la forza, cosa che comprometterebbe.

Il nonno strinse le labbra, e tacque perché qualche orecchio indiscreto non cogliesse lungo la strada il senso del loro dialogo.

Arrivato dinanzi all'uscio della camera di Noemi batté sull'imposta un piccolo colpo colla nocca dell'indice e tese l'orecchio; ma non gli fu risposto. Allora apri l'uscio ed entrò. Il Dal Poggio dietro di lui.

Girati gli occhi intorno s'avvidero che la camera era deserta. Il marito andò verso l'alcova, rimosse i cortinaggi, guardò nel letto; era vuoto... Un'idea funesta gli traversò la mente. Si slanciò verso l'uscio che metteva nel di lei gabinetto di toeletta, vi mise dentro il capo e lo ritrasse dicendo con voce alterata: - Nessuno!

Corse a guardar nello stanzino del bagno: - Nessuno ancora!

Allora come furibondo uscí di là e andò a cercar della cameriera che stava nella guardaroba allestendo i bauli. Egli era cosí stravolto che questa vedendolo entrare ne fu spaventata.

In un punto tutta la sua circospezione se ne era ita in fumo.

- Dov'è mia moglie? - chiese alla fanciulla con un tuono di voce che non permetteva una risposta equivoca.

- È uscita di casa.

- Quando?

- Poco prima di mezzogiorno.

- E ha lasciato detto?

- Credo che sia andata a far delle spese pel viaggio.

Calmato da questa spiegazione il Dal Poggio potè rispondere un: Va bene, che non distrusse però la prima impressione.

E ritornò nella stanza da letto, dove il nonno lo stava aspettando coll'ansia d'un uomo che ha il presentimento di una sciagura.

Infatti, appena il Dal Poggio fu uscito di là, egli aveva girato gli occhi intorno, cercando un segnale che lo confermasse in un suo sospetto; e non ebbe molto a cercarlo. Sullo scrittoio egli vide una lettera, che aveva l'aria d'essere stata scritta da poco tempo. Cavò gli occhiali di tasca, la prese in mano, vi gettò sopra gli occhi e lesse sulla soprascritta il proprio nome e cognome del carattere di Noemi.

- Sventura! sventura! - sclamò il povero vecchio impallidendo - Ah che cosa feci io a darla a quest'uomo!

E sedutosi sulla sedia che stava dinanzi allo scrittoio, aperse la lettera e piangendo a calde lagrime, lesse ciò che gli scriveva la povera Noemi.

CAPITOLO QUINDICESIMO DETERMINAZIONE

La logica della passione - lo ripeto - è inesorabile. Rinvenuta dallo stupore e - diciamolo pure - dalla vergogna di trovarsi scoperta, sotto l'impressione delle sozze ingiurie di suo marito, di fronte alla minaccia di una partenza che la strappava forse per sempre da Emilio, Noemi non aveva molto esitato a prendere un'estrema risoluzione.

Se Emilio non le avesse mai parlato di fuga, se ella avesse sospettato soltanto di recargli un imbarazzo, o un disturbo, avrebbe sopportato con rassegnazione la propria sorte, o sarebbe corsa a mettersi sotto la protezione del nonno. Ma le parole del suo amante e quella tentazione, contro cui aveva lottato a stento anche poco prima, finirono di vincerla...

Risolse di fuggire.

Fatta questa determinazione, la povera donna si sentí animata da un coraggio di cui non si sarebbe mai creduta capace. Gli è che in ogni periodo di patimenti morali c'è un punto in cui, quando la sventura è giunta al colmo, l'anima quasi stanca di soffrire, si ribella al dolore, e si adagia in una specie di tranquilla sicurezza.

Chi oserebbe credere che Noemi - dopo che ebbe sofferto l'ultimo e piú atroce improperio di suo marito - chi oserebbe credere che provasse, non dico una schietta, ma una viva contentezza?

Inestricabile laberinto del cuore, irto di contraddizioni e di stranezze, come sono misteriose le sorgenti donde ti viene la felicità od il dolore!

Eppure, pensandoci, non poteva essere altrimenti. L'anima nostra, piú che di ogni altro tormento, soffre di una penosa incertezza. Di questa ormai Noemi era liberata. Suo marito sapeva tutto; aveva sfogata la sua collera; non l'aveva uccisa... Il dubbio, il rimorso, lo spavento che da tanto tempo le stringevano il cuore, erano cessati a un tratto. E quasi a render piú completa e piú forte la sua sicurezza, e a confermarla nella sua fatale risoluzione, ella aveva dovuto ascoltare da quell'uomo tali parole che rendono impossibile qualunque riavvicinamento, qualunque perdono

Da quel punto l'antipatia, che aveva sempre risentita per lui, si era mutata in vero odio, in abborrimento spiegato e profondo. E, ciò che piú conta, ciò che può dar la misura per giudicar rettamente di certi umani errori, si è: che, nel risolversi a fuggir di casa, a calpestare ogni suo dovere, a perdersi per sempre, la sventurata si credeva per cosí dire nel suo diritto... o per lo meno se ne scusava in cuor suo col pretesto di una ineluttabile necessità.

Questa illusione, e ciò che ella aveva sofferto fino allora e l'amore invincibile pel suo Emilio, siano la sua scusa, il suo perdono. La donna che non si trovò mai nel suo caso, non sorga, per Dio, a condannarla!

Da una parte le inebbrianti parole dell'uomo ch'ella adorava sopra ogni cosa al mondo, le sue appassionate promesse di proteggerla, di salvarla, di farla felice...

Dall'altra un viaggio con un uomo odiato, che l'aveva oltraggiata a sangue... da cui non poteva aspettarsi che nuovo disprezzo e nuovi patimenti.

La risoluzione però non fu senza lagrime. Un pensiero, che non aveva avuto tempo di sorgere sulle prime, venne a darle un terribile crollo.

- Povero nonno! - sclamò Noemi nascondendo il volto nelle palme.

Ma quel dolore fu breve, né valse a distoglierla dal suo proposito. Un affetto non può che abbassare le armi dinanzi a una passione, che ha già fatto tacere altre voci piú imperiose e piú sacre.

Per non essere costretta a mentire un'ultima volta col buon vecchio, fin dalla sera prima ella aveva comandato alla cameriera di mettersi nel gabinetto attiguo alla sua camera da letto a far la guardia che nessuno entrasse, e di rispondere a chiunque venisse a chiedere notizie della sua salute, che si sentiva meglio, ma che desiderava d'essere lasciata tranquilla. Poi chiuse l'uscio a chiave, e si pose, non senza versar nuove lagrime, a scrivere una lunga e appassionata lettera al nonno, che lasciò suggellata, dove fu appunto trovata il giorno dopo dal buon vecchio. Dopo ciò, si era messa a letto.

La mattina seguente, vestita che fu, aveva chiesto di suo marito, e inteso ch'era fuori di casa, non aveva posto indugio... Raccolto il denaro e le gioie che trovò sottomano, era uscita.

Battevano le undici. Venne sulla piazzetta vicina alla sua casa dove stanziavano le carrozze a nolo; si gettò in una di esse dopo aver detto al cocchiere il nome della contrada di Emilio; poi calate le cortine da ambe le parti s'incantucciò a lagrimare, pensando al povero vecchio ch'ella lasciava forse per sempre.

Giunta sotto la casa di Emilio, alzò lo sguardo alle di lui finestre e non vide il segnale che le indicasse esser egli in casa. Si ricordò allora ch'ei le aveva detto, il giorno prima, che l'avrebbe aspettata dalle due alle cinque.

Non volendo però attendere tanto tempo, si fe' condurre al suo studio. Disse al vetturino di scendere da cassetta e di entrar a chiedere al portinaio del signor Digliani... e, se c'era, di farlo chiamar fuori.

Quegli tornò poco dopo dicendo che il signor Digliani da due giorni non s'era veduto alla banca. Noemi restò interdetta, e l'altro:

- Adesso, signora, dove la conduciamo?

- Dove volete voi; - rispose Noemi.

Il cocchiere rimontò in serpe con un sorriso che voleva dire: Ho capito. Gatta ci cova; e sferzò le sue rozze zufolando a sordino il: Di tanti palpiti, Di tante pene.

Poco prima delle due, Noemi mandò fuori una mano dalla finestruola anteriore della vettura, e a colui, che si volse indietro, disse di tornare dov'era stato la prima volta. Alla finestra c'era il segnale. Lasciò la carrozza alla porta; entrò sicura come donna che non ha piú nulla da temere; montò le scale; trovò aperto l'uscio di Emilio, e attraversata l'anticamera, si presentò sulla soglia della sua stanza da letto.

Al fruscio della veste di Noemi, al calpestío ben noto e affrettato dei suoi piedini sul pavimento, Emilio s'era levato precipitosamente e le si era slanciato incontro; non cosí presto però che ella non si lasciasse vedere da un'altra persona, che stava in quella camera con lui, e che al di lei presentarsi sull'uscio si era anch'essa levata da sedere.

Noemi, al veder quello sconosciuto, s'era arrestata con una leggera esclamazione di sorpresa, e tornando a calarsi in fretta il velo sugli occhi, si era ritratta indietro.

Emilio la prese per mano, e conducendola verso l'uscio di un piccolo gabinetto di contro alla stanza d'onde era uscito:

- Cara, - le disse - tu qui oggi? Io ero ben lungi dall'aspettarti... Ma tu sei troppo imprudente, mia Noemi.

- Che importa? Ormai la prudenza è vana. Chi è quel vecchio di là?

- È il professor Bartelloni, mio tutore:... quello di cui ti parlai appunto ieri... Egli stava ancora parlandomi di te.

- Perché sei mesto? Che ti diss'egli?

- Vorrebbe a ogni costo ch'io ti lasciassi.

- Il disgraziato! E tu?

- No, io non ti lascerò finché avrò un fiato di vita... Piuttosto morirei fra gli spasimi... Tu sei certa, Noemi, non è vero, che io non voglio lasciarti?

- Sí; - disse Noemi gettandosi nelle sue braccia - Se non fossi certa, oggi sarebbe, te lo giuro, l'ultimo giorno di mia vita. Ormai io non ho piú nessuno al mondo altri che te. Non c'è che la morte che ci possa disgiungere... Emilio, Emilio; - continuò ella prendendogli la destra colla propria agghiacciata - Sai tu perché sono qui oggi? sai tu perché sono venuta?

- Perché? - chiese Emilio sorpreso dell'esaltazione con cui parlava Noemi.

- Mio marito ha scoperto tutto. Mi ha insultata come si insulta la piú infame, la piú bassa delle donne vendute... Io sono libera.

- Miserabile ribaldo! - sclamò il giovine stringendo i pugni.

- Poi mi comandò di tenermi pronta a partire domani all'alba con lui.

- Possibile!

- Allora io mi sono ricordata delle tue parole di ieri...e sono venuta. Io non posso partire con lui. Sei tu pronto a difendermi? Tu solo mi puoi salvare. Rispondimi, Emilio, ch'io sappia se debbo vivere o pensar a morire.

Emilio guardava la cara donna senza proferir parola.

- Tu dubiti? - disse Noemi interpretando alla peggio quel silenzio.

- No, - rispose Emilio vivamente - non dubito. Puoi tu crederlo, Noemi?... Io ti ascoltavo;... ero sorpreso; ma vado superbo di poterti dimostrare che ti amo, che ti idolatro... Sí, Noemi, tu sei mia; sarai mia per sempre.

Il volto di lei si rischiarò tutto di gioia.

- Ora mettimi in salvo;... non c'è tempo da perdere. Bisogna che egli non ci trovi qui. Quando s'accorgerà ch'io sono fuggita di casa è capace di venir qui a cercarmi.

- È vero; - disse Emilio levandosi - So dove condurti nel frattempo. Attendimi qui un istante; congedo il tutore e sono con te.

- Emilio! - sclamò Noemi trattenendolo ancora - dimmi francamente, non è un sacrificio il tuo? Comprendi tu che io non ho altri che te a questo mondo? Che se tu mi abbandonassi io andrei a finir questa vita, che non mi è cara, se non perché posso consacrarla a te, al tuo amore? Dimmi, giurami sopratutto che non mi disprezzerai un qualche giorno per quello che avrò fatto...

Emilio per tutta risposta la strinse fra le braccia.

- Oh se Dio mi avesse dato soltanto un figlio! - sclamò essa piangendo.

Il giovine uscí di là, e tornò in fretta nella camera dove il tutore lo stava aspettando con una agitazione incredibile.

- Emilio, povero Emilio! - diss'egli andandogli incontro colle braccia aperte - L'hai tu rimandata?... dov'è dessa?

- È là; - rispose Emilio - Sappiate, padre mio, giacché a voi non debbo nascondere nulla, che questa sera io parto da Milano.

- Con lei?

- Sí.

- È venuta per questo?

- Sí.

- Dio di misericordia! - sclamò il vecchio portando le mani alla testa - dunque è fuggita di casa?... da suo marito?

Emilio, per la terza volta, rispose di sí.

- Figlio mio, Emilio, te ne scongiuro, persuadila a tornare a casa,... a rinunciare a questo orribile progetto;... persuadila per ciò che hai di piú caro a questo mondo.

- Ciò che io ho di piú caro a questo mondo è dessa; - rispose Emilio - Voi non sapete... Io l'amo questa donna come non ho mai amato, come non amerò mai piú di mia vita. È impossibile ch'io l'abbandoni...

- Impossibile! - sclamò il vecchio alzando gli occhi e le mani in alto.

- Ah voi siete troppo rigoroso, padre mio...! Mettetevi ne' miei panni. Potrei io abbandonarla? Voi al mio posto fareste lo stesso, giacché anche voi avete cuore. Ella mi parlò di uccidersi s'io avessi rifiutato di salvarla da suo marito.

- Dio mio! Dio mio! - sclamava il dottore storcendosi le mani.

- Dunque, ora si tratta di partir da Milano quanto prima. Io non so dove andrò; ma vedete che avrò bisogno di denaro e di consiglio. Per ora di denaro ne ho abbastanza... Ma in seguito vi scriverò... voi mi risponderete... non è vero?

Il professore ascoltava quelle parole assorto in un pensiero fisso e doloroso.

- Lascia almeno che le parli io; - disse a un tratto, invece di rispondere alle domande di Emilio - Forse le parole di un vecchio la persuaderanno.

- Ma voi siete dunque irremovibile nella vostra idea? Di che vorreste persuaderla? È impossibile!... Suo marito è un miserabile... un brutale... Ella non può piú vivere con lui... Ritornare a casa sarebbe per lei come andar a gettarsi nel naviglio... Voi esagerate le cose. Ormai è quasi un dovere il mio di proteggerla, di sottrarla a' suoi maltrattamenti... Pensate dunque che uomo sarei io se dovessi dirle di tornarsene dond'è venuta...?

- Ebbene, sarò io che glielo dirò... Io penserò a proteggerla. La condurrò presso una signora nel frattempo, e la sua riputazione sarà salva. Intanto andrò io a parlare a suo marito, e posso prometterti, Emilio, posso giurarti che egli si cangerà interamente, quando gli avrò parlato io... Non posso dirti di piú... ma in nome di Dio, se hai per me un resto solo di riconoscenza e di amore... dammi ascolto, dammi ascolto.

Il tutore parlava con un'enfasi cosí sincera, con un'ansia cosí persuasiva, che Emilio ne fu scosso nel profondo. E quel non so che di misterioso che si nascondeva nelle sue parole, gli accresceva a mille doppi nel cuore l'emozione...

Un orribile sospetto gli aveva già attraversata la mente... ma lo aveva ricacciato tosto da sé come una cosa impossibile, come una tentazione di delitto.

In questo punto una voce senile e sconosciuta che chiedeva il permesso di entrare, gli giunse all'orecchio dall'anticamera, e interruppe il corso dei suoi pensieri...

Emilio si levò, mise fuori la testa e vide nel vano dell'uscio d'ingresso rimasto aperto, due sconosciuti nell'attitudine di chi sta per venir innanzi.

- Di chi cercano? - chiese il giovine andando loro incontro e aguzzando su di essi le ciglia.

- Del signor Emilio Digliani; - rispose quello che si presentava primo, togliendosi il cappello.

E nello stesso tempo, dato due passi innanzi, avea scoperto il compagno che gli stava a tergo.

Allora Emilio potè veder bene in volto quei suoi visitatori, e li riconobbe, e capí che un supremo momento si avvicinava.

Quei due uomini erano il conte Lorenzo Firmiani e il signor Emanuele Dal Poggio, marito di Noemi.

CAPITOLO SEDICESIMO TRE RIMORSI

A dispetto di una certa letteratura malsana che fece ogni sforzo per demolire la maestà maritale, e per far dell'uomo ammogliato un tipo di ridicole sciagure, gli è certo che un amante in faccia al marito offeso proverà sempre la confusione e la inferiorità di chi si sente dalla parte del torto.

Se non che in Emilio era cosí fresca la impressione delle parole di Noemi, era cosí vivo lo sdegno contro il Dal Poggio pel modo turpe con cui l'aveva oltraggiata, che vedendoselo dinanzi, non che provar confusione, si sentí riavvampar tutta l'ira nel cuore.

- Sono io; - rispose egli piantandosi risolutamente dinanzi all'uscio del gabinetto in cui stava nascosta Noemi. E pronunciò quel: sono io, con un tuono di voce che voleva significare chiaramente: Eccomi pronto a tutto, fuorché a cedere quella donna.

A questa tacita provocazione il Dal Poggio fe' un movimento come per lanciarglisi contro. Ma il vecchio che gli stava al fianco, afferratolo energicamente per un braccio, lo trattenne susurrandogli all'orecchio:

- Ricordati Emanuele... - quindi rivoltosi a Emilio, a bassa voce e commossa, ripigliò:

- Signore, è inutile che io le esponga la ragione della nostra venuta in casa sua. Ella ci ha già conosciuti ed è troppo uomo d'onore per mentire... Io spero ch'ella vorrà evitare ogni scandalo in cosí delicata circostanza...

Emilio determinato a non dar ragione di Noemi, superbamente rispose:

- Io non so che cosa voglia dire vostra signoria; non ho il bene di conoscerla... e mi meraviglio che la s'introduca cosí nella casa altrui...

- Dunque ella vuole che parli io? - lo interruppe il Dal Poggio livido di sdegno represso - Che può ella rispondere a me? Ho il diritto di entrare qua dentro? Fra noi c'è o non c'è una partita da aggiustare? Che pretende ella di fare...? Io sí, pretendo da lei che mi abbia a dire dov'è quella donna che è venuta poc'anzi a mettersi sotto la sua protezione... M'intende ella, m'intende?

Queste frasi febbrili, sconnesse, uscivano come sibilando dalle labbra dello sventurato, che quantunque trattenuto indietro dal conte, si curvava innanzi colla persona verso Emilio, e gli tendeva minaccioso il braccio che gli restava libero.

- Io non ho mai dato a nessuno il diritto di chiedermi conto delle mie azioni, signore; - rispose Emilio freddo e sprezzante - La prego di uscire.

Il Dal Poggio a quest'intimazione si sentí montar il sangue alla testa, e alzando terribilmente la voce, corse all'insulto:

- Siete un miserabile furfante, - gridò - Questo vi valga come uno schiaffo sul viso.

Un grido soffocato si udí nel gabinetto dove era nascosta Noemi e il rumore di un corpo che cade...

Ma prima che Emilio pensasse a vendicare in qualche modo l'oltraggio, si sentí recinta la persona da due braccia robuste che lo trattennero, e udí dietro l'orecchio la voce del tutore che cercava di calmarlo.

- Non temete, - diss'egli a Bartelloni - non sono un facchino io.

E, voltosi freddamente al Dal Poggio, riprese:

- Questa sera i miei padrini saranno da lei; ella mi dovrà dare strettissima ragione di quelle parole.

- Oh sí! - sclamò il marito cogli occhi infiammati - Uno di noi è assolutamente di troppo a questo mondo.

E que' due uomini che non s'erano mai parlato fino allora, che non si conoscevano che per essersi veduti qualche volta alla sfuggita, si lanciarono uno sguardo di cosí profondo accanimento, come non ne sarebbero stati capaci due antichi e mortali nemici.

Questa scena, che qui distesa sulla carta occupa discreto spazio, in realtà era accaduta nel tempo che un lettore - che sa leggere - impiega a scorrere tre linee.

Il conte Firmiani e il dottor Bartelloni non avevano avuto tempo che di trattenere quei due furiosi, e di pronunciare al loro orecchio qualche inascoltata parola di pace.

Ma poiché il Dal Poggio ebbe accettata la sfida, il vecchio Firmiani, rivolto a Emilio rispose:

- Io non entrerò in quello che l'onore di entrambi esigerà in seguito da loro... Io sono venuto a reclamare da lei un atto di giustizia e di ragione. Ella capirà che, quella donna che sta là dentro, deve essere restituita alla sua famiglia, a suo marito,... e non posso credere che ella non voglia unirsi a noi per persuaderla a rimettersi nella via del dovere, e ad evitare uno scandalo enorme... Essa non avrà nulla a temere da suo marito;... da nessuno... Come suo nonno, come uomo d'onore, posso giurare ch'ella sarà trattata con riguardo,... con amore,... come una figlia.

La voce del povero vecchio si fe' piena di lagrime. L'emozione non gli permise di continuare.

- Orsú; - sclamò il Dal Poggio movendo un passo verso l'uscio del gabinetto d'onde era uscito poco prima il grido di Noemi - È d'uopo finirla.

- Indietro! - disse Emilio preparandosi a contendergli il passo.

E una lotta pareva inevitabile.

Allora il professor Bartelloni, alzate le braccia, come per metter pace, si pose in mezzo a loro e prendendo ad entrambi la mano, con voce commossa, e con dire infiammato:

- Sí, bisogna finirla; - replicò - È orribile ma è necessario! La è una grande sciagura questa a cui mi tocca di assistere; ma la è anche una grande lezione per tutti... Dio non voglia, - continuò alzando al cielo gli sguardi colla maestosa semplicità d'un filosofo - Dio non voglia che questa sciagura abbia a colpir troppo chi ne ha minor colpa.

E qui abbandonata la mano del Dal Poggio, e stringendo, in entrambe le sue, quella di Emilio, ripigliò:

- Povero giovine;... tu sai se io avrei voluto nasconderti questa orribile verità... tu lo sai. Ma ormai è impossibile... Guarda quest'uomo che tu hai offeso - e accennava il Dal Poggio - quest'uomo che ti ha offeso... Tu non puoi batterti con lui... tu devi obbedirgli... devi cedere... Mi capisci? Egli è quel desso!... Mi hai tu inteso, mi hai tu inteso, povero Emilio...?

Il misero giovine aveva ascoltato quelle parole, cogli occhi spalancati, le labbra tremanti, le braccia protese.

- Giustizia di Dio! - sclamò come pazzo di dolore - Possibile! No, non è vero... non può essere, non deve essere. Ditemi che non è vero, oh ditemelo per carità!

Bartelloni chinò il capo sul petto e non rispose.

- Dunque è lui?! - ripigliò Emilio additando il Dal Poggio - Lui!!... E Noemi? Oh pietà di me, pietà di me...

E nascondendo con orrore la faccia nelle palme, cadde su una sedia vinto dall'immensa angoscia.

Il conte e il Dal Poggio, sebbene non sapessero rendersi ragione di ciò che accadeva sotto i loro occhi, erano rimasti muti e compresi... prima dalle severe parole di quel vecchio sconosciuto, quindi dallo smisurato dolore di Emilio.

Allora Bartelloni si volse di nuovo a loro e additando al conte Firmiani l'uscio del gabinetto dove stava Noemi svenuta, disse:

- Ora è tempo di prestar aiuto anche a lei.

Poi dato un passo verso il Dal Poggio e fissatolo risolutamente in viso:

- Non mi riconosce ella, signore? - gli chiese con voce severa.

- Io no; - rispose il Dal Poggio quasi macchinalmente.

- Non si ricorda ella piú della notte del 16 dicembre 1829?

- Sedici dicembre! milleottocento ventinove! - ripeté il Dal Poggio frugando nella memoria.

- Non si ricorda ella del dottor Bartelloni? - ripigliò il vecchio.

- Bartelloni? Sí, mi ricordo... Ah mio Dio! Siete voi?

- Mi guardi bene;... sono io tanto cangiato?

- Voi! Sarebbe vero!!... Dunque, egli forse??... - gridò il Dal Poggio mostrando a dito Emilio.

- Egli è la creaturina che lei ha abbandonata quella notte e che senza volerlo si è vendicata di quell'abbandono.

Il Dal Poggio non mise un fiato, non mandò un lamento. I capegli gli si rizzarono sul capo; portò le mani alla testa come Caino dopo il primo delitto, e uscí fuggendo a corsa da quella casa, come un uomo cacciato dalla maledizione.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO IL SEI FEBBRAJO

Gli antichi, maestri egregi nell'arte di dare una forma sensibile alle passioni e al dolore, raffigurarono cangiata in sasso la misera Niobe, a cui la vindice Dea aveva trucidata la prole.

I moderni romanzieri, per togliersi dall'imbarazzo, e per chiudere degnamente il capitolo, fanno svenire molto volentieri i loro protagonisti, e cominciano poi il susseguente colla solita formola:

"Quando Arturo - o Armando - o Alfredo - fu tornato in sé, volse gli occhi intorno, ecc. ecc."

Nella Fanny - il romanzo dalle 28 edizioni, che da' critici diversi fu chiamato, a vicenda, poema ed obbrobrio, capolavoro ed aborto - il protagonista, un certo Roger, ha la bontà di svenir quattro volte in sei o sette pagine...

Poverino! Una pagina e mezza per svenimento!

Cosí pressapoco degli altri.

Ora, dico il vero, pensando a questa morbosa sensibilità di fibre, ho paura che, a' miei lettori assuefatti a leggere romanzi francesi, non faccia brutto effetto quello di vedere che Emilio, dopo l'orrenda scoperta, si sia accontentato di cadere come attonito sopra una sedia, senza perdere i sensi; nondimeno, la verità innanzi tutto, anche a costo di far sembrar troppo freddo e ragionevole il mio protagonista.

Il professore Bartelloni - mentre il vecchio Firmiani porgeva aiuto a Noemi nell'attiguo stanzino - tornò sollecito verso il misero giovine... e sollevatolo di là, lo condusse nella sua camera per toglierlo dalla vista della partenza di colei che egli doveva perdere per sempre.

Inerte, colla testa chinata sul petto, colle braccia cadenti lungo il corpo, Emilio si lasciò condurre dal buon vecchio, senza opporsi, né prestarsi in alcun modo, senza dir una sillaba in risposta alle parole di conforto ch'ei gli dirigeva, senza spargere una lagrima sola. E il professore, spaventato da quella profonda atonia, mormorava di quando in quando:

- Eppure era necessario; era necessario!

Emilio seduto nella sedia a bracciuoli che conservava ancora, per cosí dire, il calore e il profumo della sua amante, stette piú di due ore in quello stato di assoluta prostrazione, nel quale si sarebbe detto che non avesse neppure la coscienza del proprio dolore.

Ma poi, tornando la mente a poco a poco all'usato ufficio, l'orribile gruppo di idee, che gli formicolavano confuse nel cervello, si sciolse, ed il misero giovine, gettatosi nelle braccia del suo tutore, scoppiò in un dirotto e disperato pianto.

Allora cominciò la passione.

La sua sciagura gli si spiegò dinanzi in tutta la sua fatale verità, e gli straziò l'anima con un misto di rimorso, di orrore e di disperazione...

V'hanno dei dolori cosí sterminati che basta annunciarne la causa per averli descritti. Trovare il padre... per sapere d'averlo disonorato! Amare passionatamente una donna, e perderla per sempre... irremissibilmente, senza averne colpa... e, piú ancora che perderla, sentir ribrezzo del proprio amore come d'un delitto, come d'un incesto! Se Noemi fosse morta il suo strazio non sarebbe stato cosí fiero; ... ma saperla viva, chissà come soffrente, e non doverla mai piú rivedere; e sentirsi distaccato da lei da una fatalità ineluttabile; e dover quasi rinnegare anche il passato amore!

Una parola sola aveva spalancato un abisso fra lui e Noemi: ... ella, ch'egli amava ancora disperatamente... era divenuta a un tratto la moglie di suo padre.

Cosí in un colpo lo sventurato s'era veduto troncare tutte le speranze e le illusioni della sua vita desolata. Una fredda disperazione gli invadeva il cuore e vi faceva un vuoto tremendo. Che cosa gli restava al mondo? Un amore impossibile, un'intollerabile rimembranza, un supplizio senza fine...

- Meglio è morire! - diss'egli; e già stava per cercarne il mezzo, quando a un tratto un colpo di fucile, e un frastuono di armi, di grida, di evviva e di bestemmie, che gli giunse all'orecchio dalla via, gli fe' alzar vivamente il capo e tender l'orecchio. Alla prima fucilata ne tien dietro una seconda, e una terza... Emilio balza in piedi; corre alla finestra; ne spalanca le imposte, guata verso la parte donde ascolta venire quel rumore di guerra, e vede passare, giú lungo il corso, attraverso lo sbocco della sua deserta contrada, una frotta di soldati austriaci cacciati a furia da un drappello di popolani armati di stili e di sciabole.

In questa, ecco il primo squillo d'una campana vicina, seguito da una tempesta di rintocchi affrettati, che si spandono nell'aria tranquilla, come un suono di minaccia e di pericolo.

- Campana a martello! - sclama Bartelloni che s'era levato anch'egli, e s'era messo alla finestra a fianco di Emilio - Che vorrà mai dir ciò?

Il giovane, che, immerso nel dolore della sua privata sciagura, aveva tutto dimenticato, si ricorda ad un tratto d'ogni cosa... e volgendosi al suo tutore colla fronte raggiante e gli occhi infiammati:

- È l'ora! - sclama - Benedetto chi ne ebbe l'idea! Là... si combatte e si muore... Addio, mio buon tutore... Se vinceremo, forse mi rivedrete; ... se no, pregate pel vostro povero amico... pel figlio vostro; ... questo sarà l'ultimo suo bacio.

Cosí detto, piangendo strinse fra le palme la testa del buon vecchio, e impresse un caldo, amorosissimo bacio su quella veneranda canizie; ... poi fe' per spiccarsi da lui.

Il tutore, all'udir quelle parole disperate cercava di trattenerlo cingendogli la vita colle braccia:

- No, lasciatemi, lasciatemi! - gridò Emilio. E svincolandosi energicamente uscí a forza da quell'abbraccio, e ributtato contro il letto il buon vecchio, aperse a precipizio l'uscio, attraversò come un lampo l'anticamera e mosse a salti giú per la scala.

Il professore, quantunque per la sua età agile ancora, perdé la speranza di tenergli dietro fin dal primo gradino. Pure risoluto a non lasciarlo solo e sperando di raggiungerlo piú lungi, uscí anch'egli in istrada, e mosse frettoloso verso il luogo donde gli giungeva un rumore di battaglia.

Veloce come turbine Emilio si era slanciato a corsa nella via deserta, finché, sboccato sul corso di Porta Comasina, vide quattro popolani che stavano ergendo una barricata. Un omnibus, che era giunto in quel luogo al trotto lento de' suoi due ronzini, trovato l'ostacolo, aveva dovuto arrestarsi; uno di quei quattro animosi, che teneva in mano un coltellaccio, aveva tagliate le tirelle dei cavalli, e fatto smontar il cocchiere gli comandava di allontanarsi. I viaggiatori che si trovavano nel carrozzone ne erano già discesi spaventati, e si sparpagliavano fuggendo nelle vicine contrade.

- Un'arma! datemi un'arma! - grida Emilio ad uno dei quattro insorti, tendendo le mani vuote.

- Viva il signor Digliani! - gridò uno di essi mentre rovesciava l'omnibus attraverso la strada.

- Ecco l'arma; - disse un altro porgendogli una sciabola - Noi lo aspettavamo. Laggiú avranno bisogno di lei; non sono che in venti.

- Grazie, Lisandro! - rispose Emilio che aveva riconosciuto, nel popolano che gli parlava, il compagno dello Spadon dei dodici.

E senz'altro aggiungere scavalcò la barricata e ripigliò la corsa verso il Ponte Vetro.

Quando egli giunse sulla piazza, la lotta corpo a corpo era già impegnata fra una cinquantina di soldati e non piú di venti cittadini che si battevano disperatamente colle poche e deboli armi di cui erano muniti. Parecchi cadaveri stavano già distesi al suolo. Emilio colla sciabola stretta nel pugno, come pantera che si fa piú feroce all'odore del sangue, si gettò sul primo Austriaco che gli si parò dinanzi, il quale alzato in alto il fucile a guisa di mazza, stava per calarlo sulla testa d'un patriota che gli volgeva le spalle; e menatogli un terribile fendente gli tagliò netto un braccio.

Udendo il grido che mandò il ferito dietro di sé, il minacciato volse il capo, e presso il Croato che cadeva a terra, vide Emilio da cui era stato salvato e riconoscendolo:

- Ah tu pure! - grida - Viva i sette! Io ti aspettava. Viva Emilio!

E con un sublime sorriso si volse nuovamente a combattere.

Era Niso Piertini.

I Tedeschi, quantunque tre volte piú numerosi, non vedendo arrivar alcun soccorso, cominciarono a gettare le armi e a fuggire.

Emilio e Niso animando i combattenti compagni si diedero a inseguirli; parecchi ancora ne trucidarono alle spalle; a quelli che si volgevano, cadendo in ginocchio e chiedendo grazia, toglievano l'arma, poi li scannavano miseramente sul posto. Era in essi un delirio di strage...

Cosí inseguendo i fuggiaschi arrivarono sulla piazza del Castello. Appena che i Tedeschi videro quelle mura di salvezza levarono alte grida unanimi per chiedere soccorso; ...ma non avevano dato dieci passi sulla spianata che un altro drappello d'insorti uscí correndo da una contrada laterale, e gettandosi fra essi e la porta del forte, precluse loro lo scampo. Alcuni s'arrestarono, e sopraggiunti da quelli che li inseguivano colla punta delle armi ne' fianchi, lasciarono sul luogo la vita; gli altri si sbandarono nella vasta piazza.

Intanto quel secondo nucleo di insorti, comparso improvvisamente sul fianco del castello, si dirigeva a corsa verso la porta di esso coll'audacissimo pensiero di assaltare il presidio che, ancora ignaro di tutto, non si guardava menomamente. Erano una trentina a dir molto, e fra tutti avevan tre fucili; gli altri, stili e stocchi.

Emilio e Niso, lasciando di dar la caccia agli sparpagliati nemici, si diressero tosto verso coloro, seguiti da una diecina di compagni, e non appena le due schiere, avvicinandosi velocissimamente ad angolo retto, furono in grado di potersi ravvisare, Emilio, nei due animosi che conducevan quei pochi all'assalto, riconobbe altri due dei sette, e volgendosi a Niso, sclamò con sorpresa:

- Guarda Gustavo e Teodoro! Viva i sette; morte ai Tedeschi!

Niso ed Emilio precipitarono la corsa e raggiunsero i due amici sulla soglia del castello, mentre Gustavo che era entrato il primo di tutti, sorprendeva la sentinella e le inchiodava nella gola l'allarme con una pugnalata.

Allora fu una scena da non dirsi. Que' trenta eroi si avventarono ciascuno contro un Austriaco senza dar un grido, muti e terribili come ombre furenti, e sterminarono la schiera che stava di guardia sotto l'androne. Coi conquistati fucili si slanciarono a baionetta in canna nel primo cortile... e si udí per qualche tempo un orribile scrosciar colpi, e grida di cadenti, e lamenti di feriti, e lunghi allarmi risuonanti dovunque nell'immenso fabbricato.

Ma rinvenuti dallo sbalordimento, i soldati correvano alle armi, e cominciavano ad attorniar da ogni parte quei pochi rivoltosi...

La battaglia disuguale, e ormai disperata, durò ancora qualche poco; poi le imposte della porta del forte si chiusero;... il rumore andò cessando e dieci minuti dopo vi regnava un silenzio di morte.

Da quel punto non si seppe piú nulla di quegli sventurati. Ciò che seguí nella scellerata corte è ancora un mistero di sangue; ma se la storia non fosse pronta ad attestarlo, nessuno crederebbe che venti o trenta giovani quasi inermi abbiano tentato quel colpo.

Cosí morirono quattro dei sette: Emilio, Niso, Gustavo e Teodoro. La compagnia brusca si sciolse, giacché gli altri tre, quantunque non avessero preso parte al moto, dovettero mettersi in salvo esulando.

In tal modo quelli stessi che prima del pericolo avevano avversato a tutto potere l'insano progetto; quelli stessi che a mente fredda avevano rigettato energicamente ogni complicità in una rivolta a pugnali, senza probabilità di riuscita: ...al primo grido di libertà, al primo squillo d'allarme erano discesi nella strada, e s'erano gettati nella mischia colla disperazione del suicida.

Diverse cause avevano prodotto in ciascuno di quei quattro sventurati lo stesso effetto. Insofferenza del giogo - smania di lotta e di sangue austriaco - miseria - speranze perdute - disperazione della vita.

Nel momento supremo, ciascuno, credendo forse di essere solo, s'era determinato a far ciò da cui poco prima aveva cercato di dissuadere gli altri; tutti e quattro, senza volerlo, senza saperlo, si erano ingannati a vicenda.

Erano vissuti da scapigliati; erano morti da eroi. Da certi uomini gravi furono chiamati assassini.

Due giorni dopo sette forche stavano piantate dinanzi alla porta del castello.

Da una di esse spenzolava Lisandro, fatto prigioniero mentre stava ergendo la barricata; e quantunque non avesse ucciso nessuno, quantunque non avesse sparso neppur una stilla di sangue - strana cosa! - anch'egli fu chiamato assassino.

Assolutamente a questo mondo non si adora che il successo!

EPILOGO

Dal 6 febbraio 1853 sono passati piú di due anni.

Siamo in estate del 1855; l'anno del cholera, e della guerra di Crimea.

È un magnifico mattino di agosto. Il sole da qualche ora uscito di dietro alle vette dei monti di Val-Travaglia, che sovrastano a Porto ed a Luino, diffuso con luce spanta e vaporosa sulla vasta superficie del Verbano, va suscitando innumerevoli punti luminosi sul tremulo cristallo delle acque, che sembrano palpitare innamorate sotto il suo raggio. I primi soffi d'un leggero tramontano lo increspano minutamente e fanno alzar qua e là le vele ai naviganti. Sul battello a vapore il S. Carlo, che salpato poco prima da Magadino, solca il lago nelle acque di Cannobbio, un giovine viaggiatore, seduto sull'estremità di prua a cavalcioni del bompresso, se ne sta con un sigaro in bocca, filosoficamente contemplando il magnifico spettacolo che gli si spiega dinanzi.

Il S. Carlo infatti metteva fuori la prora dalla punta di Cannero, e la scena imponente del maggior bacino appariva allo sguardo estasiato del giovine viaggiatore in tutta la sua magnificenza. E davvero essa è tale da suscitar l'ammirazione perfino nell'anima del piú prosaico agente di cambio, o del piú abbietto usuraio. Gli adoratori del lago di Como mi fanno ridere: dinanzi alla maestà del Verbano il povero Lario può andare a riporsi.

Il giovine stette in quella contemplazione piú di un'ora, senza curarsi dello sbarco e dell'imbarco de' passaggieri, che è il solito svago di chi percorre i laghi sul battello a vapore e non sappia che farne della bella vista.

Il quale svago, del resto, ha anch'esso il suo merito. Chi non sa come sia gradita la bellezza viaggiatrice? Chi non sa quanto sia potente l'effetto d'un bel viso di donna sul cassero d'un battello a vapore? Chi non sa quanti piccoli romanzi d'amore si tessano e si sciolgano in un tragitto sul lago?

Nel frattempo, infatti, se il giovine entusiasta del paesaggio, che se ne stava là fantasticando sulla punta di prora, si fosse voltato indietro a dar un'occhiata ai viaggiatori che erano saliti sul battello alla stazione di Cannero, avrebbe veduta una bellissima signora, accompagnata da un uomo di mezza età, che era andata a sedersi con lui sotto il tendale dei primi posti, a poppa.

Ella era cosí bella, e aveva qualche cosa di cosí attraente nella persona, che tutti gli sguardi stavano rivolti su di lei, come affascinati. Era impossibile guardandola di non sentir nell'anima un misto di ammirazione e di pietà: ammirazione per la sua bellezza; pietà pel misterioso e profondo dolore che si rivelava, forse suo malgrado, negli occhi divini e nell'estrema pallidezza delle guancie. Vestiva a lutto, che le stava a meraviglia, ed era stupendamente intonato coll'aria della sua fisonomia. Si sarebbe detto ch'ella spandesse intorno a sé un misterioso profumo di grazia e di malinconia.

L'uomo che le sedeva accanto e la sogguardava di quando in quando con tenera sollecitudine, pareva, a tutti i segnali, suo marito. Portava anch'egli il lutto sul cappello. Di quando in quando le rivolgeva la parola sottovoce con una specie di riguardo,... di discrezione delicata,... come se temesse di disturbarla. Le sue domande erano sempre brevi, e quando ella gli aveva risposto, o con un monosillabo, o con un leggero moto del capo, o con un mesto sorriso, egli taceva di nuovo per qualche tempo, e stava a riguardarla con affetto.

Quanto a lei, sarebbe stato difficile il dire se fosse ritrosa, o annoiata, o soltanto indifferente per quella discreta sollecitudine del suo compagno. In tutta la sua persona c'era un indefinibile languore; quel languore - come dice Byron - che non è riposo, e che negli infelici dissimula a stento la stanchezza d'un'anima che non ha piú speranza, e che sta rassegnata sotto una sventura senza rimedio. Vi fu un momento, dopo un lungo silenzio, in cui suo marito le mostrò un elegante canotto a tre vele che orzava velocissimo a poca distanza. Ella staccò lo sguardo dall'orizzonte lombardo, guardò un momento quell'oggetto che attirava la curiosità di tutti gli altri passeggieri, e tornò subito a rimirar l'orizzonte come se là, in cielo, andasse cercando un'immagine, o una rimembranza. La sua anima non era quaggiú; una contemplazione piú sublime non le lasciava volgere l'attenzione a ciò che le stava intorno. Indifferente perfino alle bellezze della natura, la mesta andava forse ascoltando nell'aura che scherzava nei suoi capelli una piú celeste armonia.

Quando si fu quasi a Intra - la Manchester del Piemonte - ella si levò, e s'avvicinò alla sponda destra del battello per osservare i passeggieri che dovevano montare. Allora il suo volto si animò, e i suoi occhi vagarono a cercare nella folla una fisonomia conosciuta. Infatti quand'ella scòrse venir da lontano un vecchio e una giovine donna con un bambino in braccio, sul labbro della bella malinconica fiorí un ineffabile sorriso di gioia.

- Eccoli; - disse, stringendo il braccio di suo marito che l'aveva seguita, e additando gli aspettati che venivan giú frettolosi per la china dell'imbarcadero.

I sopraggiunti erano un vecchio nei settantacinque anni, una giovine nei venti e un ragazzino di due anni a dirne molti. La fanciulla vestiva modestamente alla cittadina; volendo indovinare s'avrebbe detto ch'era la cameriera, o la dama di compagnia della signora in lutto.

I saluti furono come di gente che sapesse di ritrovarsi, e che si fosse lasciata da poco tempo. La signora levò subito il bimbo dalle braccia della fanciulla, e se lo recò in grembo, dopo averlo baciato passionatamente. Ma poi, nel riguardarlo, un arcano pensiero passò repente in quell'anima; i di lei occhi mandarono un lampo di spasimo, e come se il contatto di quella creaturina le facesse male, la posò sulle ginocchia di suo marito, che l'accolse sorridendo. Ella si volse a parlare col vecchio e colla fanciulla.

Intanto il nostro giovine viaggiatore, sempre seduto là dinanzi, a cavalcione del bompresso, vedeva come per incanto spiegarsi dinanzi allo sguardo nuovi punti di vista e nuove bellezze. Il battello, girata la punta, cosí detta di Casniola, entrava a tutto vapore nel delizioso bacino delle isole Borromee, e il gigante delle Alpi gli sorgeva dicontro.

Di lí a poco però la sua contemplazione fu interrotta dalla voce rozza d'un inserviente - marinaio d'acqua dolce - che lo pregava di levarsi di là, avendo bisogno di fare in quel posto una manovra.

Il giovine, spiccato un salto, scese sul cassero e s'allontanò. Dati due passi, i suoi occhi s'incontrarono in quelli del vecchio montato a Intra poco prima, che usciva dal camerino dell'economo, dove era stato a levare i biglietti. Vederlo, stender le braccia con un'esclamazione di gioia, e muovergli incontro frettoloso fu la stessa cosa.

- Voi qui, professore? Caro Bartelloni! Chi mi avrebbe detto?... dopo tanto tempo...!

- Alfredo Gastoni! - sclamò alla sua volta il vecchio dopo averlo riconosciuto.

E si abbracciarono affettuosamente.

- Donde venite? - fu la prima domanda del professore.

- Da Lugano; vale a dire da Parigi dove sono stato due anni; e ora vado dritto in Crimea ad uccidere un po' di Russi, od a farmi uccidere da essi... Oh ma, - ripigliò tosto con un sorriso - sapete, professore, che io comincio a credere al magnetismo?... Sediamoci qui, caro Bartelloni... Crederete, professore, che poc'anzi, rivedendo dopo due anni quel caro paese là - e additava la sponda lombarda - mi siete venuto in mente anche voi?... Proprio, un'ora fa, a dir molto. Ho pensato a voi, al nostro povero Emilio, a Niso, a Gustavo... a tutti quei poveri miei amici d'un giorno... E la Gigia? Povera ragazza!... cosí buona! Ma voi forse non l'avete conosciuta la Gigia! E quell'angelo d'una signora che voleva tanto bene al povero Emilio... che venne a trovarlo quel giorno che ci toccò di partire dal suo letto...? ve ne ricordate...? chissà!...

- Zitto, - disse Bartelloni, mettendo l'indice attraverso le labbra - zitto, perché essa è qui...

- Qui, dove?

- Sul battello a vapore.

- L'amante di Emilio?

- Precisamente.

- La signora Dal Poggio?

- È qui con suo marito.

- Con suo marito!? - sclamò Gastoni - Ma non s'era ella divisa da suo marito?

- Tutt'altro.

- Non era ella fuggita di casa? Io mi ero messo in mente che fosse accaduto uno scompiglio in quella casa.

- Era fuggita infatti, ma ora è di nuovo con lui, e possono servir di modello...

- Oh prosa delle prose! - sclamò Gastoni ridendo - Se sapeste, professore, che cosa diamine ero andato fantasticando io su quella signora!

- Che cosa eravate andato fantasticando?

- Un romanzo o poco meno. Nel ripensare ad Emilio, ed all'amore ch'essa gli portava, io, di fantasia in fantasia, mi ero andato imaginando che la poverina, disperata per la sua morte, fosse andata a ricoverarsi in qualche convento, e mi figurava già di trovarla sotto le spoglie di suora di carità ad assistermi forse in qualche ospedale di Crimea... che so io...? Non avrei però mai imaginato di ritrovarla con suo marito. È proprio vero che la realtà è al disotto della immaginazione.

- Molto meno di quello che credete, caro Gastoni; - disse il filosofo con un sorriso espressivo - Si vede che voi siete stato due anni a Parigi. Mi concederete che il vostro romanzo colla vostra suora di carità avrebbe avuto uno scioglimento molto ordinario. Venite; - continuò egli levandosi - studiate il contegno di quella donna e di quel marito e me ne saprete dire qualche cosa. Troverete con loro un'altra persona che non vi aspettate certo di trovar qui sul lago, e tanto meno coi Dal Poggio.

- Chi è mai?

- La Gigia col suo bambino; il figliuolo del povero Emilio.

- Ah bah! - sclamò Gastoni - Vedo che la cosa si fa sempre piú interessante. La Gigia viaggia insieme alla signora Dal Poggio?

- Non solo, ma il marito ha adottato l'Emilietto; Noemi le fa, si può dire, da madre; e la Gigia se la tengono come una sorella.

- Comincio a credere anch'io che talvolta nella realtà ci possa essere piú romanzo che nel romanzo. A meno che voi non vi burliate di me.

- Non sono cose su cui si possa burlare codeste, caro Gastoni. Vedo sempre piú che voi siete stato due anni a Parigi. Vi dirò poi il motto dell'enigma.

Bartelloni condusse il giovine dinanzi ai suoi amici a poppa, e disse:

- Vi presento il conte Alfredo Gastoni, mio buon amico, che va un tratto in Crimea a battersi contro i Russi.

Gastoni, che nella mesta riconobbe subito Noemi, al vederla cosí pallida, cosí rassegnata, cosí mutata, sentí stringersi il cuore di pietà, e dovette confessare a sé stesso che la sua fantastica suora di carità non gli sarebbe apparsa né cosí poetica, né cosí interessante.

Dopo averle detto, non so che parole, Alfredo si volse a salutare cordialmente la Gigia, che, tutta commossa di rivederlo in quel luogo e dopo tanto tempo, non bramava che di stringergli la mano.

Si parlò di cose estranee al passato: di guerra, di cholera, di Parigi, di Crimea...

Finalmente si giunse ad Arona.

- Non c'è dunque speranza di stogliervi dal vostro proposito? - chiese Noemi al professore mentre stavano per distaccarsi.

- No; figlia mia; - rispose il buon vecchio - Io sono un soldato della salute pubblica né piú né meno di questo giovinotto che lo è della civiltà e dell'indipendenza. Il cholera è la mia Sebastopoli. Che diresti d'un soldato che il giorno dell'assalto non corresse sotto la bandiera? Il mio posto è dove si muore; è a Milano. Se scamperò ci rivedremo qui sul lago o a Torino. Addio, Noemi;... addio, Emanuele;... addio, Gigia... State sani e amatemi, come vi amo io tutti e tre.

Anche Gastoni strinse affettuosamente la mano alla Gigia, salutò con garbo parigino la Dal Poggio e suo marito e s'allontanò col professore in cerca di una carrozza che li trasportasse a Novara: di là Bartelloni volgeva a Milano; Gastoni a Genova.

- Dunque che ne dici, Alfredo? - chiese il vecchio al giovine quando furono soli.

- Io non so che pensare. Aspetto da voi il motto dell'enigma. Quel marito, tra le altre cose, ha fatta una trasformazione incredibile.

- Non hai mai sentito un proverbio che dice che l'uomo ogni sette anni cambia la pelle e il carattere?

- Io non ci credo, ma so che c'è.

- Hai torto di non crederci. In tutti i proverbi c'è il suo lato di vero; - rispose il filosofo - Quell'uomo che non aveva mai amato sua moglie, che non sapeva che cosa volesse dir vero amore... fu trasformato in un giorno solo, che dico!... in un minuto, come per effetto d'incantesimo... come per miracolo. In fisiologia questi esempi non sono cosí rari come si crede. Basta una forte scossa morale... od anche soltanto fisica. C'è stato il caso d'un mezzo scemo, che avendo ricevuto una potente bastonata sulla profondità metafisica diventò poi un profondo metafisico. Il Dal Poggio ebbe una vera metamorfosi di cuore. Egli ha finalmente compreso che l'amore non s'acquista che colla dolcezza e coll'amore:

Amor che a nullo amato amar perdona.

Quando Noemi seppe che Emilio era stato ucciso, come si crede, nel 6 febbrajo, sai bene, cadde ammalatissima e fu in fil di morte. Suo marito ebbe la forza e il coraggio di star ventisei giorni e ventisei notti ad assisterla al letto, dormendo su una scranna qualche ora, prestandole i piú umili, i piú vili servigi, senza volere che nessuno vi mettesse mano, senza lasciare che entrasse nella sua camera anima viva, tranne me, il medico e il nonno, che adesso è morto, e del quale essi portano il lutto. Quando la fu guarita egli non le disse una sola parola sul passato, se non per chiederle perdono... egli cosí orgoglioso un giorno! Poi le domandò il permesso di adottare come figlio il bambino della Gigia, ed ora vivono insieme a Cannero, dove il Dal Poggio ha una villa sul monte. Io ero là con loro già da tre mesi. Ieri sono venuto a Intra colla Gigia per far visitare l'Emilietto, e come hai veduto, oggi tornano indietro dopo essere venuti fino ad Arona ad accompagnarmi. Essi vivono felici come si può essere felici dopo aver sofferto tanto. Il nonno, contro ogni credenza, ha lasciato tutto il suo all'altro nipote Firmiani, marito di donna Cristina Firmiani, che è diventata milionaria, e che per la gioia e per la boria è come una botte che non tiene piú né vino né acqua.

- Ed io giurerei che fu quella donna che fece tutto il male...

- Anch'io lo credo... e questo è un altro caso in cui si deve ammirare la giustizia umana. Fortunatamente che il Dal Poggio è abbastanza ricco del suo per aver bisogno dell'eredità del nonno. Fanno bene però gli uomini a credere all'inferno ed al paradiso... altrimenti sarebbe troppa la sproporzione e l'ingiustizia di quaggiú.

Alla sera di quel giorno i Dal Poggio e la Gigia stavano raccolti nel salotto della villa fra Cannero e Cannobbio a leggere - chi lo avrebbe detto! - un romanzo.

Non si parlò della questione d'Oriente.

Gastoni s'imbarcava a Genova per la Crimea, e Bartelloni giungeva a Milano in tempo per assistere all'agonia di Cristina Firmiani, che era stata colpita dal cholera fulminante la stessa mattina.

LA SCAPIGLIATURA

E

IL 6 FEBBRAJO

Introduzione

Prologo

I - La compagnia brusca

II - Emilio

III - Tre generazioni

IV - Il segreto di Noemi.

V - L'amore d'uno scapigliato.

VI - Da galeotto a marinaro

VII - Pandemonio.

VIII - La rivale di Noemi.

IX - Doppia manovra

X - Grilli maritali

XI - Emilio comincia a rivelarsi .

XII - La situazione del giorno

XIII - Fisonomia conosciuta

XIV - Rivelazione.

XV - Determinazione

XVI - Tre rimorsi.

XVII - Il sei Febbrajo

Epilogo.

NOTA:

(*) Vedi tutti i Vocabolari.