Povera Giovanna! : edizion ELTeC Bersezio, Vittorio, 1828-1900 editor Ciotti, Fabio 72053

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Bersezio, Vittorio 20461502 Povera Giovanna! 1869 E. Treves Milano 162952787

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I

Il campanile fa risplendere le tegole, brillanti di rossa vernice, del suo comignolo al sole di mezzogiorno. La grossa croce dorata, orgoglio del signor parroco, campeggia superbamente sull'azzurro d'un bellissimo cielo di primavera. Sotto a questa croce, che chiama gli sguardi, in questo momento assorda gli orecchi la campana che va e viene, mostrando di qua e di là la sua bocca sonora e la pera del suo battaglio messo in moto con tutto zelo dal braccio vigoroso di Matteo Fusella, campanaro, sagrestano e tavolaccino del Comune. Cumulatore d'impieghi indiscreto!

I passeri, abitatori lieti e costanti degli olmi della piazza innanzi alla chiesa, come storditi ancor essi da quel prepotente rintuonare, sospendono il loro eterno cicalìo, nascosti in mezzo alla fresca verzura delle prime foglie fatta sbocciare dal maggio. Don Pasquale, il parroco, il doppio mento della sua onesta figura da uomo che, come suol dirsi, ama vivere e lasciar vivere sostenuto dal collarino bianco di bucato, le mani dietro la sua grossa persona, facendo girare nella destra, secondo il solito, la sua tabacchiera dì corno, abbandona la bottega dello speziale all'angolo nord della piazza, e con passo grave si avvia verso il lato sud, a mezzo del quale si apre la porta della canonica, sulla cui soglia, più rotonda e più grossa del padrone, Margherita la fantesca comparisce a fargli cenno che il pranzo è all'ordine.

Dalla porticina della casa comunale, che colla sua recente scialbatura fa bello il lato est della piazza, sbuca fuori sollecito, piccolo, magro, sottile, l'aria naturalmente inquieta e pressata, tutto vivacità negli occhietti, nella parola, nei moti, un fascio di carte sotto il braccio, il signor Giacomo Varada, regio notaio e segretario del Comune.

Il parroco si ferma, saluta famigliarmente colla mano e colla tabacchiera, e colla sua buona grossa voce interpella il signor segretario.

- Eh! buon giorno, messer Giacomo, come state? E la moglie o le figliuole stanno bene? Si va a pranzo eh? Mancano veramente ancora dieci o quindici minuti al mezzogiorno, ma quel Matteo ha sempre tanta premura! Però è meglio anticipare che ritardare, non è vero? A proposito! Voi aspettate un forestiere per quest'oggi, se non isbaglio. Vostro cugino, o vostro zio? che viene da lontano, da lontano: dall'America o dall'Africa o dalle Indie?

Era abitudine del buon prete il far cento interrogazioni in una volta, senz'aspettare pure una risposta; ma da canto suo, per compenso, era sistema del sor segretario, uomo ordinato che faceva camminare tutti gli affari e suoi e del Comune in partita doppia, di rispondere specificamente e con chiarezza ad una ad una a tutte le richieste che gli venissero fatte, per quanto numerose ed aggrovigliate, si fossero.

Laonde, benchè in quel momento la sua pressa naturale sembrasse ancora accresciuta per qualche particolar circostanza, ed egli si agitasse della persona, ora reggendosi sopra un piede ora sopra un altro, come uomo a cui scotta sotto il terreno, tuttavia rispose per ordine con quel filo acuto di voce che gli aveva dato la natura, in tutto un po' troppo parsimoniosa verso di lui.

- Vi ringrazio, don Pasquale, io sto bene. Mia moglie e le mie figliuole stanno benissimo. Vado a casa, ma non per pranzar subito, quantunque in fatto questa sia pure la nostra ora solita. È costante (era questo un suo modo abituale di dire) che Fusella anticipa sempre nel suonare il mezzogiorno, ma non glie ne faccio neppur io una colpa; e se non avesse altre mende che questa!... A casa mia non so a che ora si pranzerà oggi, perchè aspettiamo, come voi avete detto benissimo, un forestiere, il quale può giungere adess'adesso, e può anche tardare delle ore, secondo che il mulo di Barbetta avrà voglia. Vado a prendere mia moglie e mia figlia per muovergli all'incontro fino alla cappella di San Rocco presso la salita. Questo forestiere non è mio cugino, ma mio zio, fratello del padre buon anima di mia moglie, figliuolo ancor esso di quel fattore del marchese di Roccavecchia, il quale, nel tempo dei francesi, rese tanti servizi a quella illustre famiglia, e quindi ne acquistò la potente protezione per sè e pei suoi, protezione che ora si stende anche sulla mia casa, il signor marchese essendosi degnato, come voi sapete, di tenere a battesimo la mia figliuola secondogenita Enrichetta. Questo mio zio non viena nè dall'America, nè dall'Africa, nè dalle Indie, ma soltanto di Francia e di Germania, dov'è stato finora, e son più di vent'anni, facendo non so che e non mandando sue notizie più che per dirci sarebbe arrivato quest'oggi e non avrebbe abbandonato più il paese, avendo intenzione di stabilirvisi.

Dopo questa lunga cicalata, il signor Giacomo Varada tirò il fiato; il parroco tirò una presa di tabacco.

- Va bene, va benissimo; me ne rallegro tanto. Probabilmente vostro zio avrà raccolto insieme un Po' di ben di Dio, non è vero? E quantunque non venga dall'America, vi recherà tutti i vantaggi d'uno zio d'America, neh? Fisserà egli la sua dimora nella vostra casa! Troverebbe intorno a sè una famiglia bella e fatta, quella vostra vispa e briosa Enrichetta, un bottoncino di rosa, e quella santa creatura che è la Giovanna....

Chi avesse osservato la faccia del signor Giacomo, mentre il parroco pronunziava queste parole, avrebbe visto al nome di Enrichetta trapelare sui lineamenti del brav'uomo un sorriso di intima compiacenza, e al nome invece di Giovanna, la primonata delle sue figliuole, mostrarvisi una specie di malavoglia e quasi di vergogna.

Il parroco seguitava il corso delle sue interrogazioni:

- O forse la vostra casa non è neppure tanto grande quanto occorre? Credete che lo zio preferirà aver una casa da sè? Perchè non comprerebbe egli la bella palazzina di vostro cugino Antonio Maria, il quale, poveretto, è morto lasciando un subbisso di debiti? È la più bella casa del paese, con un bel giardino, ed allato precisamente alla vostra.... A proposito, avete novelle di Pierino, il figliuolo d'Antonio Maria? Come ha egli accolto quella tremenda sventura della morte di suo padre e della rovina d'ogni sua sostanza? Egli è in viaggio lontano lontano, non è vero? Dove mai? Perchè non è venuto ancora in paese? Che cosa fa egli colaggiù? Poveretto! Che sarà mai di lui? Egli s'era avvezzo a vivere da ricco. È egli vero che anche a Parigi e Londra ei teneva cavalli e carrozza, e contava fra i giovani più spendiosi? Difatti, le ricchezze di suo padre parevano tante e sì solidamente fondate! Chi avrebbe pensato mai che da un momento all'altro, patatrach?.... Avreste preveduto una sventura simile, voi?... Proprio che le sostanze impiegate nel commercio sono sempre nel rischio di venire abbattute e disperse da un buffo di vento. In fin de' conti, ed in realtà, che cosa resta poi a Pierino delle sostanze paterne?

Il segretario comunale si apprestava a rispondere col suo metodico ordine, ed aveva già tirato lungo il fiato per far una provvista di voce, quando Margherita, la serva del parroco, che, stando sulla soglia della canonica, vedeva con impazienza prolungarsi il colloquio dei nostri due personaggi, in danno della bontà del suo pranzo, ravvolse sopra un fianco il suo grembiule da cucina con aria fastidiata, e scesa giù dello scalino della porticina, fece un passo verso i dialoganti.

- Olà, signor prevosto! Il riso vien lungo come la quaresima, e il fritto mi brucia nella padella.

Don Pasquale fu tutto conturbato a questo grave annunzio.

- Margherita ha ragione, diss'egli. Anche voi avete fretta sor Giacomo, non è vero? Ed io vi tengo qui in novelle..... Buon appetito ed a buon rivederci. Vado a pranzo prima che il fritto sia bruciacchiato del tutto. Sono con te, Margherita, sono con te.

Ed entrò sollecito nella casa parrocchiale dietro i passi di Margherita, che precedeva trionfante colle mani in sui fianchi.

Il signor Giacomo Varada ringuainò per così dire il suo fiato e ritrangugiò le parole di risposta che aveva già pronte; riprese il suo cammino con quel passo lesto e serrato che gli era solito, ed attraversata la piazza, infilò la strada principale del villaggio, a metà circa della quale era la sua modesta casetta.

Per arrivare a quest'ultima dovette passare innanzi al muro del giardino, in mezzo a cui sorgeva ia elegante palazzina di Antonio Maria, morto da poco tempo di crepacuore pel suo fallimento cagionato da certi disastri di borsa.

Il sor Giacomo, giunto al cancello che chiudeva l'entrata del giardino, rallentò alquanto il suo passo, e gettò traverso le aste di ferro un certo sguardo, che avreste potuto paragonare a quello della gatta per un pezzo di lardo cui non può arrivare.

Tutti gli anni Antonio Maria, colla moglie, veniva a villeggiare colà, per qualche giorno in primavera, per più lungo tempo in autunno, cercando riposo alle tante occupazioni che gli davano i suoi affari commerciali, e un po' dell'aria salubre di quel paese montanino, a riconfortarsi dall'afoso ambiente della città. Quell'anno non era venuto, e non sarebbe venuto mai più! La palazzina aveva un'aria triste ed abbandonata con tutte le sue finestre chiuse; il giardino, benchè la primavera ornasse i suoi alberi di fiori bianchi e rossi, e smaltasse le aiuola di mammole e di primule, benchè nella chioma novella delle piante cantassero il loro solito concerto gli uccelli, allegria della natura, cionullameno cominciava a prender quell'apparenza di trascuratezza che rivela l'assenza del padrone. Nella sabbia dei viali spuntava già qua e là l'erba parassita; le erbe selvaggie dalla prepotente cresciuta, nelle aiuole minacciavano e già anzi soffocavano le più delicate piante incivilite, in quella lotta dell'esistenza che ha luogo in tutta la natura organica. Il silenzio di quella casa, di quel giardino, di que' boschetti era qualche cosa di più che un silenzio di solitudine, era quasi un silenzio di tomba.

Il signor segretario comunale trasse un sospiro, scosse la testa, e pronunziò fra sè stesso le parole di risposta che aveva preparate alle tante domande del parroco.

- Che cosa resta a Pierino delle sostanze paterne? Gli resta un bel nulla, se non delle abitudini da gran signore e dei debiti, non potendo soddisfare nè questi, nè quelle. E chi sa ora dove diavolo si trova!... Venire in paese! Che cosa avrebbe da far qui, dove non c'è mezzo nessuno di rivalsa. Vivere sulle spalle dei parenti? Io non sono ricco abbastanza per mantenere un faciniente a scialarla da bellimbusto, il quale non mi è che cugino in secondo grado. Si dia le mani attorno e s'aiuti di per sè. Sua madre, la moglie di quel povero Antonio Maria, aveva tanta superbia! Le poche rarissime volte che andavo a Torino a vederli, essa mi accoglieva con un sussiego principesco, e smorfiva a parlarmi, come se le venisse del cencio sotto al naso, perchè non sono che un povero segretario comunale... Tò, prendi questa! Eccoti in malora. Non è già ch'io ne sia contento... oibò! tutt'altro; ma in fine in fine... Appunto! il parroco mi ha suggerita una buonissima idea. Lo zio Gerolamo potrebbe comprare quella casa; poichè ha voglia di fissar qui la sua dimora, non potrebbe esser meglio allogato, sarebbe vicinissimo a noi, e intanto farebbe anche un vantaggio al povero Pierino. Conviene che gli parli di codesto: si, gliene parlerò. Ma il busilli sta che a comprare questa casa da signore e mantenerla in assetto ce ne vogliono dei bezzi, ed io non so dello zio se torna ricco o povero. Quando è partito, non aveva che pochi scudi in saccoccia, che ci potevan ballare la monferrina senza gomitate; ed ora scrivendomi del suo arrivo, e' non mi fa una maledetta parola degli affari suoi. È costante che se ritornasse uno spiantato come prima, per me sarebbe un nuovo imbarazzo, che la fortuna avrebbe fatto meglio a risparmiarmi.

A questo punto del suo monologo, e'si trovò innanzi alla porticina di casa.

- Basta, soggiuns'egli con un sospiro di rassegnazione: sarà quel che sarà.

L'uscio non era che rabbattuto. Sor Giacomo lo sospinse ed entrò.

II

Una voce soave ed argentina dì fanciulla salutò la sua venuta, ed un fior di bellezza incarnato in una ragazza di sedici anni gli corse incontro festosamente.

La piccola fronte del segretario comunale si rispianò, tutta si rasserenò la sua fisionomia, un lieto raggio di solo brillò di colpo nei suoi occhietti irrequieti.

- Buon giorno, Enrichetta: diss'egli colla sua voce sottile, ma ora impressa di molto affetto, e che quasi tremava dall'emozione: buon giorno, gioietta mia.

Enrichetta gli si gettò al collo con grazioso vezzo da bambina, e gli sorrise colla dolcezza di donna affettuosa.

- Addio, babbo. Abbiamo da avviarci incontro allo zio? Io son bella e pronta.

Bella lo era daddovero, e pronta altresì. I suoi abbondanti finissimi capelli biondi, raccolti in voluminose treccie tirate su alla nuca, le facevano alla fronte purissima un'aureola d'oro sotto la tesa della semplice cappellina di paglia, su cui svolazzava un nastro color di cielo e color de' suoi occhi miti, lucenti, espressivi, profondi. Le sue labbra piccole, e vezzose avevano il colore e la freschezza delle ciliegie appena mature. Non vi è cigno che abbia movenze di collo così graziose com'erano quelle del piccolo, ben tornito, candidissimo collo d'Enrichetta. L'aria del volto era la più benigna, la più seducente che si possa immaginare. Le grazie di tutta la persona erano tali quali può desiderare per un modello di statua della primavera un intelligente scultore.

Ed essa era in verità tutta una primavera. La si destava allor'allora alla conscia vita del sentimento e dell'affetto. Collo sviluppo di quelle forme belle meravigliosamente, intravveniva in pari misura lo sbocciar dell'anima alle misteriose aspirazioni che guidano la donna al suo destino d'amore. Sulle sue labbra, certe volte il sorriso spuntava direi quasi pensoso, nei suoi sguardi correvano talora certe fiamme fugaci, che erano lampi di passione in potenza. La bella statua già era animata, senza che pure fosse venuto a comunicarle il palpito della vita un Pigmalione. Nella sua fantasia, in cui fiorivano lieti di splendida benchè vaga bellezza i pensieri ed i sogni, passava il caldo soffio di arcani sensi e di misteriosi impulsi, come tra i rami fioriti della rinnovellantesi campagna spirava allora soave, con armonioso sussurro, fremente, il tepido alito dello zeffiro primaverile.

Era vestita d'una semplice mussolina di color grigio-chiaro, su cui seminati qua e colà fiorellini rossi; ed alla vita esile e pieghevole, come una fina lama d'acciaio, portava cintura del colore dei nastri della cappellina. Nessuno sfarzo d'eleganza avrebbe potuto reggere al paragone di quella semplicità, in cui raggiava tanta freschezza, tanta avvenenza. Avrebbe potuto dirsi di lei ciò che disse d'una sua eroina un poeta; che dovunque si recasse, anche nell'oscurità della notte, la sua bellezza spandeva intorno a sè l'aureola d'una luce.

Sor Giacomo, guardandola colla dolcezza d'un'infinita compiacenza - come un artista può guardare il capolavoro che deve fare il suo nome immortale nei secoli - rispondeva alla interrogazione della fanciulla:

- Sì, avviamoci. Lo zio Gerolamo non ha scritto l'ora in cui sarebbe arrivato, ma siccome disse che da C... avrebbe preso il baroccio di Barbetta, io credo che sarà qui a momenti; è costante, che quel lumacone di Barbetta, per quanto presto se ne parta, non arriva mai che tra il mezzogiorno e il tocco. Andiamo pure, se siamo tutti pronti.

A queste parole uno strano movimento si fece in un angolo della camera, dietro certi panni che parevano là sormontati a rifascio. Chi avesse guardato attentamente verso quella parte, avrebbe potuto vedere anche prima comparire fra quelle stoffe una testa scarmigliata di donna, con una faccia macilenta, pallida e butterata, con occhi grigi, senza luce, in occhiaie affondate e illividite, con bocca larga e labbra senza colore, che aprendosi lasciavano scoperte le gengive sporgenti e la dentatura mal ordinata, disuguale, deforme, e insieme con quella testa una mano magra, magra e lunga, che andava e veniva sollecita, tirando l'ago col filo nell'opera del cucire.

All'ingresso del sor Giacomo, quella mano s'era arrestata un istante, e quel viso s'era voltato verso chi entrava con isguardo pieno di affezione e di rispetto; le labbra si erano mosse come per pronunciare un saluto, cui mancò poscia il coraggio a dar voce; e siccome nessuna attenzione era accordata a quell'essere colà rincantucciato, il capo s'era chino di nuovo verso i panni da cucire, e la mano era tornata alacre al lavoro.

Ma quando il segretario comunale ebbe domandato se tutti eran pronti, quell'infelice creatura, a cui appartenevano la testa e la mano che ho detto, si tolse dinnanzi quella montagna di stoffe, e s'avanzò nella stanza, zoppicando, imperocchè ella fosse sciancata e storta di corpo.

- Anch'io sono pronta: diss'ella con voce debole ed umile, che pareva domandar perdono di parlare.

Nel volto del signor Giacomo successe - ma in maggiori proporzioni - quel cambiamento che già vi dissi averci avuto luogo, quando il parroco sulla piazza gli aveva parlato poc'anzi delle sue due figliuole, e nominatele.

Ogni tenerezza, ogni mostra di lieta compiacenza sparì ad un tratto, e la sua fronte, come il suo sguardo, furano invasi di subito da una nube di malumore.

- Tu! diss'egli col tono più burbero, di cui fosse capace la sua voce sottile. Che? ti credi averci da venire anche tu? E chi starà a casa a curare il pranzo e far quel che occorre? Io forse, eh!

Giovanna tinse d'un lievissimo rossore la pelle guasta dal vaiolo delle sue guancie pallidissime, curvò il capo in mezzo alle spalle, di cui una cresceva fuor di squadro, e, tutta confusa e raumiliata, balbettò con una rassegnazione senza rancore, e quasi direi piena di convincimento:

- È vero.... Mi scusi.... Avevo creduto.... Mi pareva che stamattina ella avesse detto di prontarci tutti.

- Hai capito male: dissa il padre seccamente, e le volse le spalle per salutare la moglie, la signora Genoveffa, che entrava con fracasso, in un'assettatura di gran lusso piena di pretese.

La moglie dal sor Giacomo aveva determinato, senza fallo, di levar gli occhi allo zio che arrivava, secondo la segreta speranza de' coniugi Varada, con qualche buon milionetto in serbo. La grossa di lei persona - perchè, quanto il marito era mingherlino, altrettanto la moglie era atticciata e complessa - splendeva come la statua di legno della Madonna in dì di festa, vestita ch'ella era d'un raso di color verde di pomo, serrata al fianco da una cintura di color rosa, con sopra l'enorme seno due giri di grossa catena, che altri, con un poco di buona volontà, avrebbe potuto credere d'oro schietto, coperto il capo di un mostruoso capellino con ala gigante, e fiori e piume in proporzione.

Il sor Giacomo guardò ammirato lo sbarbaglio dell'acconciatura di sua moglie e la grossa faccia rossa che si mostrava sotto quell'ala di cappellino, come la luna piena nel sorgere in sera vaporosa all'estremo orizzonte della pianura.

- Cospetto! esclamò egli. Ti sei messa in fronzoli.

- Ho fatto male? disse la donna, pavoneggiandosi con una sua sciarpa di garza a liste rosse e bleu.

- Hai fatto benissimo. Or dunque siam tutti in ordine, andiamo.

Enrichetta, leggera como un passerino che saltella sui rami d'un albero, in due salti fu nella strada; il padre le tenne dietro col suo passo corto ed affretato; la signora Genoveffa si mosse più lentamente, coll'andatura solenne del suo corpo pesante.

Ma quando fu di fuori ancor essa, la signora Genoveffa si fermò ad un tratto, e mandò un'esclamazione di disappunto.

- Che cosa c'è? domandò il sor Giacomo, tornando indietro inquieto a interrogar la moglie.

- Ho dimenticato il mocicchino.

- Vado io a prendertelo, mamma: disse Enrichetta, la quale prese l'aire per correr entro casa.

Ma la mano potente della madre l'arrestò in sull'atto.

- Che? Vuoi correre a farti venire lo strafiato, poverina. Non c'è ella Giovanna?

E colla sua voce robusta, come erano robuste le sue membra, la signora Genoveffa chiamò la prima delle sue figliuole.

Questa non tardò a comparire affrettata, affannosa, quasi sgomenta.

- Va nella mia camera, la disse imperiosamente la madre, togli su il mio mocicchino ricamato col pizzo, che dev'essere sul mio letto, e portamelo; ma lesta, veh!

Giovanna si ritrasse ratta, e colla sua povera gamba sciancata corse faticosamente su per la scala che conduceva al piano superiore. Due minuti dopo, ritornava portando la pezzuola, il petto forte ansimante così da non poter più pronunziare nemmanco una parola.

Padre e madre e sorella si allontanarono senza altrimenti badare a lei; e Giovanna, fosse la stanchezza della rapida corsa nel suo debol corpo, fosse ancora un'altra emozione altresì, Giovanna si appoggiò allo stipite della porta, come persona che non può più reggersi e stette guardando con occhio pieno di lagrime i suoi nel dipartirsi.

Ma se in quel volto c'era dolore, c'era maggiore ancora la rassegnazione, ed una rassegnazione senza rancore; la qual rassegnazione è prova ed effetto, non della debolezza, ma della bontà.

III

Povera Giovanna! Essa era nata veramente sotto l'influsso d'una malignissima stella. Esser brutta e deforme! Gli è il colmo della sventura per una donna. Un uomo che nasca povero, imbecille e scellerato gli è fortunatissimo in paragone. I poveri hanno oggidì mille mezzi d'arricchirsi, quando si sbarazzino dell'incomodo fardello della coscienza; gl'imbecilli sono coloro che riescono di meglio nel mondo, e gli scellerati, se hanno tanta accortezza da non urtare in nessun articolo del Codice penale, giungono alla fortuna non solo, ma alla considerazione della maggioranza.

Ma esser brutta per una figliuola d'Eva è un danno fatale e senza rimedio; è una funesta maledizione. Domandatene a quelle poppattole privilegiate della moda, a cui voi bruciate l'incenso della vostra adorazione. La natura ha creato la donna per amare ed essere amata; la società le ha imposto la frivolezza e la civetteria. Se il suo cuore ha bisogno d'affetto, la sua vanità ha sete di ammirazione e d'omaggi. Lo sfogo e la soddisfazione di queste qualità e di questi difetti non può averli che la bellezza.

Pensate al tormento d'una donna brutta in mezzo ad un'accolta di belle; un cardone spinoso fuorviato in un mazzo di rose. La infelice è condannata a sentire una continua invidia alle sue compagne, a cui soltanto sono riservati i successi, i piaceri, le gioie del mondo. Essa possiede talora nel suo intimo tesori di affetto, cui deve anzi nascondere che manifestare, per tema del ridicolo. I sensi, la fantasia, il cuore parlano eziandio in lei, tanto più intensamente forse quanto più costretta, più segreta, più compressa deve sobbollire in lei la passione. Ma chi amerà d'amore la povera donna deforme?

Chi vorrà mettere la sua nella mano di lei, e procacciarle le ineffabili gioie della maternità? S'ella è ricca, qualche sciagurato, col baco nell'anima e nel cuore, consentirà a venderle il suo nome. Ecco tutto. E intorno a sè ella vede lo spettacolo della felicità altrui, senza speranza mai di mordere ancor essa a quello splendido frutto che le sta dinanzi, e che più ancora le pare seducente, appunto perché eternamente è a lei conteso. E quando vede una madre abbracciare suo figlio nell'enfasi di quell'amore che tutti gli altri sopravanza quaggiù, quando la vede con orgoglio tenere appeso al suo seno quel frutto diletto delle sue viscere, ella volta in là il capo, e s'ingoia le amare lacrime che le montano agli occhi; quando scorge due novelli sposi passare, le braccia intrecciate, chinar le teste l'uno verso l'altra a sussurrarsi con ineffabile sorriso le dolci parole, ella sente nell'amarezza della sua anima tutta la vacuità del suo destino.

E questo destino era quello toccato alla povera Giovanna.

Avreste detto che la Provvidenza aveva impartito una certa dose di bene per le due sorelle, cui la secondogenita Enrichetta fosse riuscita ad usurpare tutta per sè.

Il signor Giacomo Varada, sotto le umili apparenze della sua piccola persona, covava assai vanità, maggiore cento volte del suo merito. Secondo lui - nel pensiero, che però nascondeva entro gl'intimi penetrali del suo cervellino - il destino gli aveva fatto un gran torto a non farlo nascere milionario e a non averne stampato un ministro invece che un segretario comunale. La ricchezza lo abbacinava, e le distinzioni sociali lo inebbriavano. A sposare la grossa Genoveffa, che allora era la più appariscente delle ragazze del villaggio, ed in una fama di bellezza che si estendeva per tutto il Circondario, fama che doveva alla sua florida salute, lo aveva spinto più ancora che le polpose attrattive di lei, più ancora delle 12 mila lire di dote ch'ella recava seco, la protezione della illustre, nobilissima, ricca e generosa famiglia dei Roccavecchia, gli antichi feudatari del villaggio, rappresentata ora da un ultimo rampollo, il vecchio marchese, uomo che aveva conservato tutte le tradizioni della magnificenza, della larghezza, della vera grandigia dell'antica aristocrazia.

Nel tempo della rivoluzione, la nobile famiglia aveva dovuto la sua salvezza al coraggio ed alla devozione del suo fattore Anastasio Porretta, avo di Genoveffa, e mai non aveva smentita nè dimenticata la riconoscenza verso di esso e i figliuoli suoi. Erasi stretta fra la nobile prosapia e la umile discendenza di Anastasio una specie di legame, press'a poco come quello che esisteva nell'antica Roma fra il patrono ed il cliente, fra il cittadino libero ed il suo servo prediletto, cui aveva emancipato e datogli il suo nome. Quando Varada accese il suo fuoco di passione con intenzioni le più legittime innanzi alla paffuta beltà di Genoveffa, la nobiltà in Piemonte era tutto ancora, e la protezione del marchese poteva dare ansa non temeraria alle maggiori speranze di una brillante carriera. Giacomo Varada si vide, nei sogni della sua immaginazione capo-sezione almeno almeno in un Ministero a Torino, con la foglia di porro all'occhiello, passare raccolto nella sua superba umiltà in mezzo alla sberrettate degli uscieri dell'anticamera.

Il marchese assistette con generosa cortesia alle nozze. Fece alla sposa l'onore di mille complimenti, che sentivano la galanteria muschiata del secolo scorso, quello più insigne ancora di accompagnarla egli stesso all'altare in cravatta bianca e colla piccola edizione delle sue decorazioni in numero infinito all'occhiello; le fece altresì l'onore più solido d'un sontuoso regalo di gran valore.

Lo sposo mingherlino, smarrito nel suo soprabito nero e nell'abisso della sua felicità, aveva le lagrime agli occhi, e non poteva aver parola alle labbra. Non seppe, e non credette neppur conveniente domandar nulla in quel primo momento alla espansiva protezione del marchese: ma questi, senza parlar chiaro, senza prometter cosa alcuna, lasciava intendere che avrebbe fatto più che non si sarebbe creduto. E quando, dopo aver concesso l'onore alla novella coppia di sedere a destra della sposa al desco delle nozze, levate le mense, il vecchio marchese trasse in disparte il sor Giacomo, gli disse con una lusinghiera famigliarità:

- Orsù, heureux coquin, mi aspetto fra nove mesi un bel maschiotto, di cui voglio essere io il padrino.

Allora quell'heureux coquin dello sposo si sentì andar tutto in sollucchero, e credette davvero di toccare col dito il cielo... dei fortunati che rosicchiano il bilancio passivo.

Le parole del marchese furono una vera predizione. Erano pochi mesi passati, quando Genoveffa affermò che al tempo detto ella avrebbe dato a tenere sul fonte battesimale un bambino all'illustre suo protettore.

Il sor Giacomo fu felice come un giuocatore al lotto che ritiene per immancabile in fin della settimana l'estrazione del vagheggiato quaterno. Ben gli pareva - e andava dicendolo fra sè - che il signor marchese avrebbe potuto dare per intanto una qualche anticipazione del beneficio onde aveva in animo di favorirlo. Se fosse venuta subito una nomina a qualche buon impiego, cui le successive promozioni avrebbero fatto sempre più lucroso, gli sembrava che sarebbe stato tanto di guadagno sul tempo; ma si consolava, assicurandosi che quel giorno augurato del battesimo, il nobile padrino avrebbe portato per dono di comparatico alla Genoveffa chi sa che magnificenza di coppa d'oro, ed a lui il brevetto di chi sa qual grossa carica.

Nel migliore di queste grosse speranze del piccol uomo, eccoti scoppiar ad un tratto una terribile bomba, che le mandò in aria come altrettanti soffi d'illusione. Carlo Alberto aveva dato la Statuto, si gridava e cantava su tutti i tuoni e si metteva in atto da un capo all'altro dello Stato: uguaglianza, libertà, fine ai privilegi, e guerra allo straniero.

Giacomo Varada capì che quella rivoluzione era un pericolo; ma come fare a non gridare ancor egli, quando ad un tratto quel pacifico villaggio mise fuori gli spiriti i più liberali del mondo, e gridava più alto degli altri? quando il nuovo parroco venuto allor'allora, Don Pasquale, era stato il primo a mettersi un coccardone tanto fatto sulla sottana nera e ad animare la gioventù a correr sotto le armi per la guerra proclamata da Carlo Alberto? Il marito di Genoveffa era troppo timido per osare resistere alla corrente, o soltanto per tenersene in disparte; Gridò ancor esso, mangiò ancor esso i pranzi patriottici che allora eran di moda, beve ancor esso ai brindisi patriotici, di cui si faceva tanto abuso, portò ancor esso la coccarda tricolore.

In sul meglio di queste gazzarre, ecco capitar come un fulmine con quattro cavalli da posta il marchese di Roccavecchia, che scappando dalle fragorose dimostrazioni della capitale, cascava di pieno in una seconda edizione delle medesime in miniatura, fatta dal villaggio sottosopra.

Giacomo Varada fu sollecito a levarsi la coccarda tricolore e corse al castello. Fu ricevuto, secondo si suol dire, come un cane in chiesa, dal marchese inviperito che sfogò un poco della stizza che gli bolliva contro le cose nuove in una violenta bordata addosso a quell'omicciattolo innocente di spiriti liberali come l'acqua fresca.

- Ma, signor marchese, ma eccellenza: badava a dire il pover uomo sconclusionato: ma io non son di quelli.... oh tutt'altro! Io la penso bene... È costante che io la penso come V. E.... tale e quale.

- Si eh? Come se non sapessi tutto! di ripicco il marchese. Come se non vi avessero visto colla bandiera in piazza! Come se a capo di tutte queste balordaggini non ci fosse un Varada!... E questo Varada chi ha da essere se non voi?

Il sor Giacomo si tirò su della persona con un grosso rifiato, e parve uom che s'annega quando giunge ad abbrancare una corda di salvezza.

- No, eccellenza, no, signor marchese: gridò egli. Non sono io: gli è quell'intrigante di mio cugino: gli è quel birbone di Antonio Maria, che ha fatto tutto. Io, si figuri! io che ho l'onore di esser sotto la protezione di V. E.., io che posso dire di appartenere ad una famiglia tutta di servitori della sua illustre casa, io che....

E avrebbe continuato per un pezzo, se il marchese con un'altra delle sue uscite non avesse troncato all'infelice la parola e tutte le fin allora nutrite ed accarezzate speranze.

- Ah ah! esclamava il marchese passeggiando su e giù per la stanza, ed abbandonandosi alla piena dei sentimenti di indignazione che l'occupavano. Vogliono fare il mondo alla rovescia. Sono i borghesi, gli è la gentuccia che ha da comandare, e noi da esser più niente. Vogliono ritornare alle sconcezze, alle bestialità ed agli orrori della rivoluzione. E la monarchia, povera cieca! dà loro sciaguratamente la mano! Va benissimo. Facciano pure. Oh vedremo delle belle cose....

Si arrestò innanzi al sor Giacomo, che tutto raumiliato, curvava il capo tra le spalle come uomo che riceve una doccia sul cocuzzolo, e gli disse a bruciapelo in tono minaccioso:

- Ve ne accorgerete che bell'affare sarà codesto! Quanto a noi, persone comode, ce ne laviamo le mani. Avanti i signori avvocati e i signori medici ed anche i signori bottegai; lascino le comparse, le ricette ed il cacio, per dar mano alle cose di Stato. Vedremo che cosa sapran fare. Noi non ce ne immischiamo più...

- No, per amor del cielo! pregava sor Giacomo, che vedeva il suo impiego andare in fumo.

- Non ce ne immischiamo più! Ripeteva il marchese, battendo spiccatamente sulle sillabe. Gli operai vadano dai nuovi padroni a cercar lavoro; i poveri accorrano là a domandare l'elemosina; andate da quella gente ad invocar protezione. Io per me non voglio nemmanco assistere a queste schifose scenate. Sono bello e deciso: me ne vado in Francia...; cioè no, che anche là c'è un buscherio maledetto. Vado a Vienna... ma anche là, parbleu! il mondo è sottosopra. Vado in Inghilterra, vado a casa del diavolo, se occorre.

E fece come aveva detto; nè erano le parole del povero sor Giacomo che valessero a farlo cambiare d'avviso. Parti in fretta e in furia, recandosi a Londra, dove stette fino dopo la battaglia di Novara, quando, credendo che quel disastro mettesse fine ad ogni velleità rivoluzionaria, tornò colla certezza di trovare le cose ridotte come prima delle, secondo lui, funeste riforme.

Addio per i coniugi Varada la speranza dell'onore d'avere a padrino del loro primogenito il nobile protettore, e di godere delle più fruttuose conseguenze di questa sua degnazione! Come se quella povera creatura che aveva da nascere ne potesse qualche cosa, il signor Giacomo, senza fors'anco accorgersene, ebbe sminuita quell'aspettazione, quell'interesse, quell'affettuosa sollecitudine che aveva dapprima provati vivissimi pel nascituro, al primo annunzio d'essere oramai innalzato dalla natura alla dignità di padre. La signora Genoveffa, non ostante la sua florida salute e la sua robusta complessione, qualunque ne fosse il motivo, ebbe a soffrir di molto di quella gestazione: e come colei che fino allora non aveva mai saputo che cosa fosse disagio, nè fisico nè morale, e che d'altronde non aveva ancora desta in sè la fibra della maternità, molto se ne indispettiva e impazientava, e riguardava quel piccolo essere che sentiva fremere entro le viscere poco meno che una malavventura, la quale fosse venuta a seccarla, a turbarla, a guastarle i più begli anni della sua vita. Aveva trovato l'imene una freddura, spoglio affatto di quelle esultanze ch'essa aveva prima immaginate, e le pareva che per un fatale destino, senz'averne assaporate le dolcezze, non gliene toccassero che i fastidii e i tormenti.

Il disgraziato frutto di quei gelati amplessi veniva ora perciò alla luce trovando non molto acconci a fargli festa i genitori suoi. Tutte gli sarebbero ancora state perdonate quelle colpe non sue, quando fosse stato un maschio. Chi può spiegare al giusto la sciocca vanità che fa desiderare a quasi tutte le coppie un figliuolo maschio? Siffatta vanità l'aveva più che ogni altro il fintamente modesto sor Giacomo; e l'aveva uguale, se non maggiore ancora, la signora Genoveffa, a cui pareva di esser poi qualche cosa quando avesse posto al mondo un embrione d'uomo, e reputava troppa vergogna se avesse avuto a star di sotto alla moglie del cugino Antonio Maria, la quale era tutta felice e si dava delle grandi arie per aver partorito ed allattato, e per condursi seco per mano, biondo e roseo come un amorino dipinto, il suo Pierino.

Nel parto, la signora Genoveffa soffrì - era sua espressione - come una bestia; e quando la mammana ebbe pronunziato la fatal sentenza che il neonato era una femmina, padre e madre n'ebbero il maggior dispetto e il maggior disappunto del mondo.

Questa povera creatura che, nascendo, invece del sorriso trovava il broncio sul volto dei genitori, era miseruzza, e pareva non aver tanto fiato da poter vivere. La madre stava male, ed il medico era molto in pensiero di ciò. Non si aveva tempo ad occuparsi della bambina. Fu battezzata senza nessuna di quelle feste che si erano pensate per accogliere la venuta d'un figliuolo, e per torsene ogni fastidio fu data a balia alla prima donna che si presentò affermando d'aver latte da nutrirla.

Ma questa contadina, affermando ciò, diceva per tre quarti una menzogna, imperocchè di latte ne aveva tanto poco che gli era quasi nulla, ed oltre ciò, non avendo nè ordine, nè giudizio, nè cuore, amando troppo più il vino che bisogno non fosse, soleva piantar lì la bambina strettamente fasciata nella cuna da quasi soffocare, e se n'andava a zonzo, mentre la poverina si sgolava a strillare.

La malattia della Genoveffa fu lunga, e, durante tutto il tempo di essa, non si pensò nemmanco ad andare a vedere a balia la piccina, di cui il sor Giacomo si ricordava soltanto allora quando gli toccava pagare le mesate di baliatico, il che faceva brontolando, come per denaro gettato.

Quando Giovanna ebbe due anni, la ritirarono da balia. La povera piccina era pallida, macilenta, pareva, come si suol dire, ritenere appena un fil di vita coi denti. Non poteva ancora reggersi sui piedi, e per quanto si tentasse, non si riusciva a farle mutar due passi. Sembrava di cera con occhi di vetro. Aveva l'aspetto imbecillito e sofferente. La madre, al vedersi innanzi quel mostricciuolo, levò disperatamente le braccia in aria, e gettò le alte grida. Il sor Giacomo, che avrebbe potuto riconoscere in quella piccina il suo ritratto in caricatura, tenne bordone al dispettoso disgusto della moglie. Giovanna fu relegata in alto della casa in uno scompartimento del granajo, che era stato ridotto a stanza per la serva; e colà stette i lunghi giorni, quasi sempre sola, seduta su una di quelle seggioline per i bambini dal piano forato, con una traversa innanzi che lor si chiude perchè non caschino.

Figuratevi che infanzia! Le mura di quel granajo erano tutto il mondo per quella povera creatura. Un tratto di cielo, che scorgevasi a traverso i piccoli quadrati di vetro impiombati della finestra e si direbbe meglio dell'abbaino, era il solo bene, la sola gioia di quell'infelice. I suoi occhi grigi ed inespressivi si fissavano in quel bell'azzurro; ed ella restava cosi immobile per ore ed ore, la bocca larga, fiatando appena; e quando un raggio di sole sgusciava fino a lei, caldo e dorato e pieno di mille atomi che danzavano allegramente, era allora la sola volta che le sue labbra pallide si schiudessero ad un sorriso.

Di quando in quando, la serva, sentendo compassione della disgraziata bambina, la prendeva seco in braccio e la portava giù nel cortile, nel giardino, nelle strade del paese. Ma di farla camminare non c'era verso, e il dover sempre recarsela in braccio finiva per seccare alla fante. Un giorno ancora avvenne che, andando pel villaggio, la donna incontrasse la padrona, la quale stava chiaccherando colla cugina, la moglie di Antonio Maria, che, come sapete, abitava la casa vicina a quella del sor Giacomo. La cugina teneva per mano quel magnifico ragazzo che era il suo Pierino, ricco di salute, di prosperità, d'ogni leggiadria.

All'arrivo della fante colla Giovanna in braccio, la moglie di Antonio Maria la fermò per vedere la piccina, e disse, con accento d'interesse e di compassione che forse era sincero, ma che alla Genoveffa suonò come un'ironia:

- Povera la tua bambina! Com'è sempre strema e miseruzza! Dovresti far venire un medico dalla città perchè te la guarisse.

E volle fare una carezza alla Giovanna, la quale, usata nel suo granajo a non veder nessuno mai, si ritrasse in là tutta spaventata, e con atto scontroso alzò le sue piccole braccia a coprirsi e difendersi il viso contro ogni contatto.

Genoveffa stava sulle braci, e sentiva una specie di confusione, che era l'ira di dover sottostare come madre alla cugina. Questa, sia che la vista della disgrazia della Giovanna le avesse in quel punto fatto sentir vieppiù la felicità onde il cielo aveva favorito il suo amore materno, sia che avesse voluto trionfare vieppiù del suo vantaggio - sentimento naturale in donna - chiamò a sè tosto il Pierino, che saltellava gaiamente li presso, e toltoselo in braccio, cominciò per iscoccargli sulle guancie pienotte e rubiconde due di quei ghiotti baci, che fanno venire l'acquolina in bocca a vederli a chiunque abbia un poco di bozza della paternità, e poi, come pretesto dell'averlo chiamato e presolo in grembo, lo raccostò alla Giovanna, e gli disse:

- Tò, ecco la tua piccola cugina Giovanna; falle un bacio.

Pierino, che aveva allora cinque anni, grazioso ed amorevole com'era con tutti, si sporse verso la bambina per fare come la madre aveva detto; ma Giovanna, guardatolo sospettosamente di sotto le sue braccia ancora levate, si trasse anche più vivamente indietro, e voltò la testa in là, cacciandosi a piangere.

- Com'è brutta! Disse Pierino tutto malcontento.

A Genoveffa era come se le avessero piantato un grosso spillone nelle carni, e poi si divertissero a rivoltarglielo nella ferita.

- Riportate a casa quella sciocca; diss'ella ruvidamente alla serva. L'aria non le fa che male, ed è meglio non esca.

Da quel giorno la condannata bambina non varcò più la soglia del cortile.

Giovanna aveva oramai quattro anni, e camminava finalmente; ma camminava con pena, claudicando, costretta a sorreggersi ai mobili ed alla parete per istar su. La sua debolezza, il continuo star seduta rannicchiata sulla seggiolina, l'esser portata in braccio, la mancanza d'ogni cura nell'assisterne i primi passi, tutto insieme l'aveva fatta venir sciancata, e prodottole una leggera deviazione della spina dorsale.

Non bastava ancora. Si era dimenticato di farla vaccinare, e un bel giorno ecco il vaiuolo assalirla, metterne i giorni in pericolo, e lasciarla poi viva per miracolo, ma colla faccia tutta butterata da parere un crivello.

Poteva ben morire allora! Quale disavvantaggio sarebbe stato per gli altri? Nessuno. E per lei non sarebb'egli stato il meglio? Ma no; la sorte la riserbava a maggiori tormenti, come vi narrerà questa veridica storia, esatta come un processo verbale.

IV.

Il marchese di Roccavecchia, come ho detto, avvenuta la battaglia di Novara, era tornato colla speranza di vedere una compiuta reazione. La sua speranza andò frustrata; ma quell'anno di volontario esilio, alla sua età inoltrata, gli aveva tolto ogni ruzzo di fare ancora un'altra parodia di emigrazione. Siccome era un onest'uomo, e in fondo pieno di devozione alla monarchia, non congiurò contro il novello ordine di cose, ma si contentò di fargli il broncio, e di saettarlo coi suoi epigrammi, di cui arguti i più, molti anche giustissimi. Passava quasi tutto il tempo dell'anno al suo castello, e il sor Giacomo accorreva là ad inchinarlo, ad offrirgli l'omaggio della sua piacenteria, a dargli ragione, a ridere ed applaudire ai politici di lui frizzi. Ahimè! Inchini, fiato e sorrisi sprecati! Il marchese non era più nulla, e non voleva esser nulla più. Codesto, anzi, indignava il bravo sor Giacomo nel suo segreto; che, cioè, il marchese non avendo che da movere un passo, che da dire una parola per tornare a impadronirsi di quell'influenza e di quel potere di cui godeva dapprima, non volesse nè far quello, nè pronunziar questa, rinserrandosi in una solitudine impotente per sè e pel suoi protetti.

Un momento al nostro segretamente ambizioso omiciattolo era venuta la tentazione di piantar lì il vecchio marchese, potere esautorato, e recarsi ad ossequiare qualcheduna della nuove potenze che guidavano la baracca con articoli di giornale e chiaccherate di Parlamento. Bisogna perdonar molto alla debolezza della natura umana. Ma tuttavia ebbe il merito di fermarsi su questa strada d'una ingratitudine che somigliava quasi un'apostasia: primo, perchè la sua indole era troppo timida per avere anche il coraggio d'un simil tratto; secondo, perchè non sapeva dove, nè a chi rivolgersi, nè come governarsi; terzo, perchè, vivendo abitualmente nell'atmosfera, per così dire, del marchese, non poteva a meno di veder le cose un pò come le vedeva il suo nobile protettore, e quindi si lusingava che da un momento all'altro la borghesia sarebbe andata colle gambe per aria, e tornata in seggio la nobiltà a governare coll'aiuto del clero; quarto, finalmente, perchè un'altra speranza natagli in cuore, una folle speranza, se volete, ma pure tenacemente appiccatasi all'animuccia di quell'omaccino, lo teneva legato come per una catena a girar satellite nell'orbita del suo astro, il signor marchese.

Questa speranza era la seguente:

La signora Genoveffa si trovava di nuovo in istato interessante, e il marchese, il quale aveva nelle sue grazie più che mai la famiglia Varada, unico uditorio che si prestasse allo sfogo delle sue bizze politiche, se ne interessava moltissimo. Aveva egli promesso solennemente che questa volta, fosse un maschio, fosse una femmina, qualunque cosa succedesse, a meno ch'egli non fosse morto, avrebbe fatto da padrino al neonato, a cui la sua protezione, il suo affetto non avrebbero mancato mai più.

Il marchese era l'ultimo della sua stirpe, e non aveva di congiunti che alcuni lontani, i quali non portavano il suo nome e che non vedeva pur mai.

A chi avrebb'egli lasciato le sue vistose ricchezze? Il sor Giacomo, che aveva per unico patrimonio la misera casa lasciatagli dal padre, le 12 mila lire della dote della moglie e la sua carica di segretario comunale, il sor Giacomo tremava tutto, facendosi tra sè questa interrogazione, e rispondendosi pian piano nell'interno recesso della sua coscienza, che un figlioccio a chi non avesse famiglia era quasi come un figliuolo, e che l'erede del marchese poteva ben darsi che fosse poi quel bambino ch'egli avrebbe tenuto a battesimo.

La nuova prole della coppia Varada si preparava dunque a venire al mondo sotto i migliori auspici. Aggiungasi che questa volta, come se agguerrita dalla prima prova, Genoveffa aveva tanto di salute da vendere, ed essendo ella forse giunta al punto che il sentimento della maternità le si era fatto maturo nell'animo e sviluppato, non pensava che con una viva tenerezza alla creaturina che picchiava alle porte della vita. Sor Giacomo, pensando che la moglie portava il figlioccio del marchese, era per lei pieno di cure, di attenzioni, di affetto, imitando in ciò il nobile futuro padrino, che di regalucci, di mille galanterie, di squisiti tratti di quella gentilezza che era tradizionale in quell'aristocratica famiglia, veniva favorendo la sua futura comare.

Precisamente al contrario di quello che avvenne per la nascita della povera Giovanna, tutto andò benissimo a quella della secondogenita. Si era nella migliore stagione dell'anno, il marchese in villeggiatura confortava coll'invio dei consommés dalla sua cucina i travagli della puerpera; aveva voluto egli provvedere a tutto quanto occorreva pel nascituro, e, posto in disparte il fardelletto che aveva servito alla povera Giovanna, la madre si deliziava con ammirazione innanzi alle camiciuole, alle cuffiettine, ai pannolini finissimi ornati di ricami e di pizzi, venuti da uno dei più eleganti fondachi di biancheria di Torino, ed all'agnus-dei, che era una ricchezza, opera del primo e più abile orafo della capitale.

Venne il gran momento. Appetto a quanto aveva costato di dolori alla madre la nascita della primogenita, furono un nonnulla i tormenti del secondo parto. Il medico proclamò che mai non aveva visto donna in tal circostanza cosi bene in salute e con tanta facilità giunta in porto. La signora Genoveffa, quella tenerezza che già le albergava in cuore per quel secondo frutto delle sue viscere, la sentì accresciuta d'una specie di riconoscenza per avere la brava creaturina avuto il talento d'essere venuta al mondo così di piano.

Ben fece una smorfia il padre, quando gli si disse che anche quella era una femmina; ma il marchese si trovava li a quel punto, tutto animato, tutto affaccendato, e vista la smorfia del sor Giacomo, lo rimbrottò della bella maniera.

- Oh che cosa volete ora significare con quel niffolo? Che, vi sarebbe più caro un maschio eh? Avete di queste melanconie voi? Se aveste un nome glorioso da tramandare; una famiglia illustre da continuare; se foste un Roccavecchia, passi! Ma se anche i Varada s'estinguessero - cosa che non è probabile, vostro cugino il liberale vostro cugino avendo già un maschio - se anche si estinguessero i Varada, vi dico che non crollerebbe il mondo. Non piango io che muoio celibe, ultimo della mia stirpe!... E poi meglio una figliuola, che non un ragazzo, il quale, quando cresciuto, potrebbe diventare un liberale come il famoso vostro cugino Antonio....

Le ragioni del marchese erano troppo buone - e poi erano del marchese - perchè il sor Giacomo potesse resistere. Oltre ciò, quella bimba pur mo' nata era fin d'allora un vero amorino da chiamare i baci anche ad un misantropo che abbia mal di denti. La madre era in un entusiasmo da non dirsi, il padrino giurava par ses grands Dieux che non aveva visto un puttino così bello, nemmanco fra quelli che scolpivano al loro tempo i fratelli Collino per le tombe reali di Superga.

Così carezzata, festeggiata, ammirata, veniva al mondo la sorella di Giovanna, a cui, prendendo quello del padrino, venne posto il grazioso nome d'Enrichetta. Questa volta si aveva a così dire il diritto della medaglia di cui la povera Giovanna non era che il rovescio. La signora Genoveffa, in un lodevole slancio di tenerezza materna, decise che avrebbe allattata essa medesima la figliuola; e cò agli applausi del marchese, il quale in questo soltanto andava d'accordo con Rousseau, che cioè ogni madre deve far da nutrice alle proprie creature. Enrichetta fu il più sano e il meno noioso dei piccini di latte, e la madre trovò che il nutrirla conferiva ancora alla prosperità della sua salute. Gli era a lei adesso che toccava andar fiera recandosi al seno quella perfezione di bimba, cui tutti si fermavano a lodare vedendola. Quando passava accosto alla moglie di Antonio Maria, gli era con una segreta voluttà che Genoveffa le gettava uno sguardo trionfante, in cui si conteneva questa fiera apostrofe: - Vedi se io non sono stata capace di far qualche cosa ancora di meglio del tuo Pierino!

Giovanna, che era tornata da poco da balia, ci guadagnò di essere ancora più dimenticata nella sua bruttezza e nel suo granaio.

Enrichetta cresceva tutto vezzi e beltà. Era un miracolo.

Pei genitori non c'era nulla di bello abbastanza quando si trattava delle vesti, dei giocattoli, delle suppellettili d'Enrichetta; ogni suo desiderio era un comando tosto obbedito; ogni sua parola era un lampo d'ingegno. Il marchese la voleva spesso a castello, e veniva egli medesimo all'umil casa dei Varada a prenderla per mano e condursela seco, forte piacendosi dell'ingenuo e grazioso di lei chiaccherio. I regali del generoso padrino piovevano a bizzeffe; non c'era figliuola di milionario che venisse su in mezzo a tante amorevolezze e superfluità. Insomma si faceva di tutto per cavarne fuori la più insopportabile piccola orgogliosa e prepotente. Ma in lei, per fortuna, l'avvenenza delle forme non si scompagnava dalla bontà dell'animo. Forse la diventava bensì un po' leggiera e petulantella, un po' capricciosa, un po' inclinata a dare la prima importanza ai suoi desiderii ed alla sua bella ammirata persona; ma per eccellenza d'indole resisteva, senza averne coscienza, ai cattivi influssi della malconsigliata educazione, non diventava nè civetta, nè superba, nè disdegnosa d'altrui, e circondata da tanta adulazione di entusiastici ammiratori, bisognava proprio esserle riconoscente ed ammirarla assai se la non si era lasciato guastare il cuore, il carattere e la modestia.

Fu essa per la prima che, quando grandicella, ruppe il cerchio fatale in cui era stata rinchiusa la povera Giovanna e segregata dal mondo. Il padre e la madre, dalla diletta secondogenita tollerarono anche questo: che la misera sciancatella, la brutta e deforme, la vergogna degli occhi loro, fosse ammessa nel tinello a pranzare colla famiglia, nel salotto alcune volte a lavorare accosto alla madre ed alla sorella. A Giovanna ciò pareva un troppo onore per la sua indegnità. Ammiratrice della bellezza, della grazia e dei meriti di Enrichetta quant'altri mai, la sventurata pose alla sorellina un affetto ed una devozione, che rassomigliavano a quelli d'un cane di Terranuova pel suo padrone. Si fece la serva di Enrichetta; non era un'esagerazione il dire di lei che per la sorella si sarebbe gettata nel fuoco.

Due sole persone la povera Giovanna aveva trovato sinora pietose al suo infortunio: tutti gli altri non avevano per lei che amare parole, e beffe, e disprezzo, cominciando dai genitori, i quali le parlavano solamente colle ciglia aggrottate e coll'accento della rampogna. Queste due persone pietose a Giovanna, erano Enrichetta la prima, che ne accarezzava l'anima con dolci, affettuose parole; e il cugino Piero, il quale, quando ancora fanciulli, aveva difeso più volte la povera contraffatta dai crudeli dileggi e dagli insulti degli altri ragazzi del villaggio. Epperò la riconoscenza che questa infelice nutriva in cuore per quei due esseri, secondo lei, generosissimi, era immensa, profonda e tale da spingerla a qualunque sacrificio di sè in beneficio di essi.

Ma Pierino, dopo quei primi anni dell'infanzia, appena era s'ella lo aveva visto più. Il padre di lui, Antonio Maria, avendo saputo far prosperare i suoi commerci, era diventato ricco; e perchè il figliuolo si rendesse veramente in grado di continuare poi a sua volta, anzi di accrescere le fortune paterne, egli lo aveva mandato ad educare in un rinomatissimo collegio svizzero, e di là, quando finiti gli studi, lo aveva fatto andare a Parigi a perfezionarsi ne le apprese cognizioni, a imparare insieme con tutto ii resto la conoscenza degli uomini e delle cose che costituiscono il mondo; quindi, perchè vedesse sempre meglio diversi usi e costumi, gli aveva consentito un lungo viaggio e dimora per le principali città dell'Inghilterra, della Germania e di America. Pierino adunque, salvo una breve gita, quando uscito dal collegio, non era tornato più al paese, e la catastrofe, che doveva togliere a suo padre le sostanze e pel dolore la vita, sopraggiunse ch'egli era tuttavia in viaggio.

Questa tremenda catastrofe non dico che facesse piacere al sor Giacomo Varada, no, perchè egli non era tristo da tanto; ma però non lo affisse di molto. La prosperità delle fortune di suo cugino era una delle segrete sue trafitture, la quale gli rendeva più cocente ancora il fallimento di tutte le sue speranze ambiziose. Antonio Maria non s'era raccomandato a nessuno, non aveva la protezione di nessuno, ed era giunto ad essere - se non capo-divisione, nè manco capo-sezione - milionario, il che valeva bene la dignità e l'autorità di qualunque siasi più eminente carica; mentr'egli, il povero Giacomo, era sempre segretario comunale, senza un soldo di capitale. Ciò non pareva giusto al brav'uomo; e quando il cugino aveva fatto rifabbricare la sua casa vicina a quella di Giacomo, per abbellirla e renderla agiata di ogni ornamento e d'ogni vantaggio che sappia fornire l'intelligente lusso moderno, il nostro segretario comunale, guardando tutte quelle splendidezze, e poi rientrando nella più che modesta sua casetta, che era tale o quale glie l'aveva lasciata suo padre, sentiva dentro sè un certo qual rodimento, che forse a chiamarlo invidia non sarebbe stato un calunniarlo.

Ed ecco, un po' prima che incominci il nostro racconto, avvenire un fatto che diede pretesto di nuove speranza alla fantasia irrequieta di quell'omaccino.

Alla moglie del sor Giacomo capitò la lettera dello zio, il quale improvvisamente le annunciava il suo ritorno pel tal dì, con intenzione di piantarsi definitivamente al villaggio e finire i suoi giorni in mezzo alla famiglia.

Uno zio, che arriva inaspettato da lontano, chi è che non si farebbe tosto l'illusione ch'egli sia uno zio coi milioni, come se ne trovano nelle comedie? Giacomo Varada allargò i due battenti del suo cuore a siffatta lusinga. Però, come abbiamo udito da lui medesimo, lo zio nella sua lettera non faceva punto parola il meno del mondo della condizione finanziaria in cui ritornava, e il nostro bravo ometto era ansiosissimo di trovarsi finalmente a fronte di quest'incognita d'uno zio, per saperne una buona volta il valore.

Il momento era giunto, ed abbiamo visto, sul finire del secondo capitolo, come il sor Giacomo, sua moglie e la bella Enrichetta, muovessero di conserva in pompa magna all'incontro del personaggio aspettato.

V.

Abbiamo lasciato la povera Giovanna col petto affannoso, appoggiata allo stipite della porta, cogli occhi pieni di lagrime e la faccia improntata di dolore e di rassegnazione.

Questa era la prima o la più spiccata delle virtù di quella infelice, che tutte pure aveva le virtù concesse all'umana natura. In quelle condizioni in cui si trovava la misera, con quel modo ond'ella era stata allevata e trattata e la si trattava tuttavia, non c'era strada di mezzo: o diventare una trista creatura, maligna e perniciosa, od innalzarsi alla sublimità d'un angelo di virtù. Iddio aveva concesso alla infelice Giovanna di essere quest'ultimo.

Sulle sue labbra mai un lamento; nella sua sommissione mai pure un cenno di rivolta; alla sua ubbidienza mai un momento solo d'oscitanza; la sua rassegnazione non si smentiva mai neppure con un'ombra di impazienza.

Il suo aspetto ordinario era privo d'espressione; nell'occhio grigio non correvano lampi che lo illuminassero; tutto era rimesso in quelle sembianze, sopra cui la bruttezza regnava sovrana senza eccezioni; ma pure talvolta, chi attentamente e senza ripugnanza esaminasse la malgraziata creatura, si sarebbe potuto scorgere una non so quale aura, non oserei dire di grazia nè di piacevolezza, ma di sentimento, che le aliava intorno al viso, che anzi pareva emanarne; e quell'occhio grigio cessava di parer di cristallo per diventare l'occhio espressivo di una creatura piena d'affetto.

Gli era come se entro un vaso non del tutto opaco si mettesse una lampada accesa, e che la luce di questa debolmente trasparisse traverso le pareti. Così del pari la bellezza dell'anima, condannata miseramente a star rinchiusa entro quell'infelice carcere di rozza materia, in tali occasioni riusciva a manifestarsi con un mite, appena visibile raggiare. E ciò allora accadeva quando quella buona creatura aveva avuto modo di recare alcun bene intorno a sè, di far perdonare la sua esistenza con qualche vantaggio procurato ad alcuna delle persone che la circondavano.

Mentre adunque i suoi genitori e sua sorella se ne muovevano in fronzoli all'incontro di quell'enimma d'uno zio che doveva arrivare, Giovanna, secondo il cenno paterno, recavasi in cucina a far da seconda alla cuoca, che si adoperava intorno ai fornelli, rossa in viso come un papavero de' campi.

- Posso aiutarvi in qualche cosa, Gertrude? Chiese Giovanna colla sua voce timida e lenta.

E la cuoca in tono brusco ed imperioso, imitando ancor essa i modi dei padroni riguardo a quella infelice:

- A che la sarà mai capace lei? A farmi impaccio tra' piedi.

Giovanna si ritirava, zoppicando tutta mortificata; ma quand'era già presso la porta, Gertrude le diede una voce di richiamo.

- Aspetti, disse col medesimo accento alla poverina che s'era fermata di subito. Prenda il manticetto, e mi soffii costà sotto il calderotto, perchè il brodo tenga il bollore ed io possa gettar giù il riso, appena senta le voci di loro che tornino.

Giovanna, sollecita quanto più poteva, corse a pigliare il soffietto, e venuta ad accoccolarsi sullo scalino del focolare, ci diede dentro a soffiare con zelo.

Erano così, Giovanna soffiando, la fante rimestando in non so che cazzeruola, quando ecco alla porticina da via, che la zoppa aveva prudentemente chiuso rientrando, il picchio sonoro d'una mano forte e risoluta.

- Oh! chi ha da essere adesso questo noioso? Esclamò la Gertrude non cessando di rimestare nel suo intingolo. Giovanna smise un momento dal soffiare, e fissò il suo sguardo interrogativo sulla serva, come per attenderne il cenno, simile al cane che alla voce del padrone si volta, pronto ad obbedire.

Ma la cuoca pareva non avere ancora preso alcuna decisione in quel frangente, e si limitava a brontolare fra sè parole che Giovanna non capiva.

La persona che stava fuor dell'uscio non doveva esser dotata di molta pazienza, perchè, dopo appena un'attesa di pochi secondi, ritornava a picchiare, e con più forza della prima volta.

- E che prepotente! Esclamò la fante, levando in atto indignato il mestolino che aveva tra mano. Scommetto che gli è quello sciocco di Fusella, che ha da fare qualche commissione al sor Giacomo, e picchia col martello della nostra porta, come fa con quello delle campane quando suona a baldoria; che sì che glie ne dico quattro!...

Se la brava Gertrude aveva poca pazienza, quel di fuori mostrò di averne anche meno; ed eccolo, tratto solo un respiro, ripicchiare una terza volta con maggior vigore.

- Madonna santissima! Gli è uno sfacciato codestui: gridò la fiera cuoca incollerita, brandendo minacciosamente la sua mestola.

Poi si volse di scatto a Giovanna, che stava sempre in quella medesima positura d'aspettazione.

- E lei che cosa mi fa li incantata come un ceppo? Oh che vuole io pianti qui la crema perchè si aggrumi? La vada ad aprire in buon'ora di Dio, e se gli è qualche seccatore, lo mandi ai cento mila diavoli.

Giovanna si scosse come se tocca dalla corrente d'una pila galvanica, sorse come spinta da una molla, e senza darsi neppure il tempo di posare il manticetto, con questo in mano corse zoppicando ad aprire.

La si trovò in faccia un uomo di circa sessanta anni, ma di complessione robusta, vestito modestamente, con un grosso nodoso bastone in mano, e con un'espressione burbera sulla faccia tutta piena di rughe, che ben s'accordava colla nodosità della mazza su cui s'appoggiava.

Al vedere comparire in mezzo ai battenti della porta la figura butterata e deforme della povera zoppa, quest'uomo die' addietro un passo, manifestando uno stupore di poco aggradevole natura.

Giovanna ebbe ad accorgersi che l'effetto prodotto dalle sue sembianze era, su quello sconosciuto, identico all'effetto che ognuno soleva provare al vederla: una sensazione di ripugnanza e disgusto; ma la misera da tanto tempo era avvezza a codesto! Erano diciotto anni che il suo aspetto non otteneva altro miglior risultamento; già tante e tante volte aveva essa letto negli sguardi della gente l'esclamazione che ciascuno mandava fra sè al vederla: - Dio! com'è brutta! - Spesso dalle labbra di qualche grossolano aveva ella udito pronunziare quelle scortesi parole, mentre passava trascinando faticosamente la sua gamba sciancata; onde non mostrò altrimenti il suo turbamento a quell'atto di ripulsione dello sconosciuto, se non arrossando lievemente le sue guance infossate sotto gli sporgenti zigomi, e chinando timidamente a terra gli occhi.

- Chi cerca ella? Domandò Giovanna colla sua voce debole ed esitante, di cui non v'era forse la meno sonora.

Lo sconosciuto guardò bene la casa innanzi a cui si trovava, volse gli occhi tutt'intorno ad osservare la strada, e poi con accento burbero e sgarbato, com'era appunto la sua fisionomia, disse:

- O ch'io ho le traveggole, o che il paese si è arrovesciato come un guanto, o che questa è la casa di Giacomo Varada.

- Signor sì, la è dessa precisamente.

- Benissimo! E voi, quella giovane?

- Io: disse più timidamente ancora e più sommessa del solito Giovanna; io sono figliuola del sor Giacomo.

- Ah! esclamò lo straniero con un'espressione che significava abbastanza chiaro: "non glie ne faccio complimento."

- Bene, soggiunse poi quell'uomo, vuoi dire che sono giunto proprio a posto. Fatemi grazia, signorina, di levarvi di mezzo all'uscio, perchè io possa entrare.

La fanciulla esitò.

- Scusi, ma siccome mio padre non c'è...

- Non c'è? Oh questa è bella!... Ci sarà bene sua moglie?

- Neppure. Sono io sola della famiglia.

- E va bene! E va benissimo! Ma questa non o una ragione per tenermi qui fuor dell'uscio, che diavolo! Ho l'appetito che mi travaglia lo stomaco vuoto da diciotto ore. Spero bene che la dispensa non sarà vuota di commestibili, come la casa di padroni. Quando meno, avrete bene da darmi una scodella di brodo ed una bottiglia di vino?

- Ma.... non so.... non posso: balbettò la povera sciancata con una gran confusione, ma senza levarsi di posto.

Lo conosciuto guardò bene in faccia la giovane conturbata, e lasciò scappare una grossa bestemmia.

- Mi prendete forse per un mariuolo? Ho io la faccia d'uno di quella razza di briganti che si è diffusa così bene per tutta Italia, da quanto mi veniva fatto di vedere ne'giornali? Tu es une pécore, se non sai leggere sulla mia fronte che sono un uomo onesto.

Giovanna si atterrì forte allo scoppio di quella voce, cui lo sdegno faceva sonora come un tam-tam.

- Scusi!... Non credo già.... Se sapessi con chi ho l'onore....

- Non deve arrivare nessuno da voi oggi?

- Signor sì.... Lo zio Gerolamo.

- Ebbene, scioccherella, lo zio Gerolamo sono io.

La fanciulla allargò la bocca, sovraccolta dal maggiore stupore del mondo, e lasciò cascare il manticetto che teneva ancora tra mano.

Gerolamo non istette a dare nessun'altra spiegazione; con un braccio tirò da parte la nipote, cui l'attonitaggine non aveva ancora lasciato muover di lì; con un piede diede un calcio al soffietto che gli impediva il passo, e con andatura franca, come uomo che entra in casa sua, s'avviò difilato in cucina.

La cuoca strabiliò a veder entrare con tanta padronanza uno sconosciuto.

- Meno male! Esclamò questi, vedendo la vivacità del fuoco nel camino, e la mezza dozzina di cazzeruole che schieravano i loro manichi in bell'ordine sul fornello. Ecco una veduta che può riconfortare un affamato. Ehi, buona donna, fatemi intanto il servizio di darmi una scodella di brodo.

Gertrude si rivolse tutto scandolezzata ai detti di quest'intruso, che osava comandare in quel modo; e chi sa quale vibrata risposta gli avrebbe regalata, se la povera Giovanna non fosse comparsa in quella alle spalle dello zio, col suo soffietto in mano, che aveva raccattato di terra, dicendo tutto affannata:

- Gli è lo zio Gerolamo!

VI.

- Lo zio Gerolamo! Esclamò stupita la cuoca, volgendosi di tutta la persona per guardar bene chi si presentava così stranamente sotto questo titolo: è impossibile.

- È tanto possibile che ciò è: disse bruscamente lo zio. E invece di star lì piantata a squadrarmi, fareste meglio a darmi il brodo che vi ho domandato.

E senz'aspettar altro, prese egli stesso una ciotola che vide sopra una scanceria, e dato mano al ramaiuolo che pendeva dal capifuoco, si servi a suo talento.

La fante stava sempre a bocca larga a guardarlo:

- Ma, signore! il padrone e la padrona e la padroncina le sono andati incontro sino in fondo alla discesa.

- Me ne rallegro tanto. Io era stufo di farmi sobbalzare dal baroccio di quello scellerato di Barbetta. L'ho piantato a mezza strada, ed ho preso la scorciatoia che mi ricordavo ancora esserci traverso i boschi... Che piacere scorrere per quei luoghi non più riveduti da tanto tempo!

Intanto aveva finito di bere il suo brodo. Giovanna si slanciò a prendergli di mano la scodella.

- Così va meglio: disse lo zio Gerolamo. Ora andiamo nella camera da pranzo, dove spero che sarà già apparecchiata la tavola.

- Sì, zio.

- Benone! Comincerò pergrignoter qualche bocconcino di pane, aspettando a mia volta che tornino i miei cari nipoti.

La zoppa corse innanzi ad aprire la porta.

Lo zio Gerolamo entrò nel tinello, abbrancò sul desco una manciata di grissini, e gettatosi a sedere abbandonatamente sopra una seggiola, si mise a farli scrosciare sotto ai denti.

- Tò, disse egli, dopo tanti anni che non ho più visti di questi grissini, come torno a rimangiarli con gusto!

Giovanna stava dritta innanzi allo zio, pronta ad ubbidirne ogni cenno.

- Che fai tu costi in piedi? Le domandò ad un tratto con la sua voce burbera Gerolamo.

La zoppa, tutto mortificata, rispose dolcemente:

- Mi scusi, stavo ad aspettare se aveva qualche cosa da comandarmi.

E ciò detto, si mosse per partirsene.

- Dove vai? Chiese col medesimo accento lo zio.

- Vado in cucina.

- A far che cosa?

- Ad aiutare Gertrude in quel poco che posso.

- Uhm! Esclamò Gerolamo, guardandola di sottecchi in modo che pareva dire: - che cosa sarai tu buona a fare.

Giovanna si credette licenziata a partirsi, ed aprì la porta.

- Fermati! Disse lo zio.

La sciancata ristette come un soldato a cui sia dato l'alt.

- Vieni qua, discorriamola un poco....

Giovanna si accostò lentamente zoppicando, tutto impacciata e timorosa.

- Non ti rincresce mica di stare a tener compagnia a tuo zio?

- Oh no! esclamò la miserella, osando allora sollevare sul volto severo di Gerolamo i suoi occhi miti, rimessi, quasi paurosi. In quel momento corse nello sguardo di lei uno di quei lampi di sentimento che ho detto, e lo zio parve avvedersene. Fu con voce meno ruvida ch'egli riprese a parlare.

- Ho tante cose da domandare, ho tante cose da sapere, e tu puoi dirmene una buona porzione.

Vide che la disgraziata malamente sorretta dalle sue gambe, stava faticosamente in piedi.

- Ebbene? adesso che fai? L'interpellò egli bruscamente.

Giovanna arrossì, e rispose tutta sgomenta, nella persuasione di aver fatto, senza avvedesene, qualche cosa che avesse dispiaciuto allo zio.

- Sto ad ascoltarla.

Gerolamo ebbe pietà di quell'emozione onde la poveretta erasi fatta tremante.

- Puoi ascoltarmi anche stando seduta: diss'egli con più benigno accento. E mi piacerà di più che vedermiti innanzi piantata come una gru, ora su una gamba, ora su un'altra.

Giovanna tornò ad arrossire lievemente e s'affrettò a sedersi sopra una seggiola lontana cinque o sei passi da quella dello zio.

Questi vide quel po' di rossore, s'accorse che le sue parole, alludendo al difetto fisico di quell'infelice, non avevano potuto riuscirle gradite come un complimento, e, buono qual egli era in realtà sotto la sua ruvida scorza, ebbe assai vivo il rincrescimento d'averle pronunziate e il dispetto contro sè medesimo. Pensò un momento se aveva da tentare di aggiustarla, ma poi saggiamente avvisò che sarebbe stato peggio. Tirò fuori di tasca un astuccio di sigari, ne scelse uno fra quelli ond'era pieno, e, messolo in bocca, si diede a cercare in tutte le sue tasche lo scatolino dei fiammiferi, che non trovò più da nessuna parte.

Giovanna, che stava seduta impacciatamente giocherellando colle sue lunghe e magre dita fra i legacci del suo povero e modesto grembiale, e faceva sgusciare di quando in quando il suo umile sguardo verso lo zio; Giovanna sorse di scatto, si precipitò in cucina, e tornò, il più sollecito che potè, con un canapulo acceso.

- Grazie, disse Gerolamo, accendendo lo sigaro; poi lasciò cadere il canapulo in terra, e lo spense col tallone del suo stivale.

Ma la ragazza fu lesta a raccogliere dal suolo il resto del canapulo, lo portò in cucina, e tornò sollecita con una granatina a spazzar via quel po' di cenere e d'incarbonito che c'era rimasto sul pavimento.

Lo zio la guardò a fare, ma non disse nulla. Quand'ebbe finito, essa venne a seder di nuovo sulla seggiola che occupava dapprima.

- Or bene, cominciò Gerolamo, tu sei la figlia di quel brav'uomo che ha sposato mia nipote Genoveffa.

- Sì, signor zio.

- Ci hai dei fratelli?

- No, signor zio.

- Delle sorelle?

- Sì, signor zio, rispose animata questa volta la buona creatura. Ho una sorella, Enrichetta.

- Oh oh! Lo dici con tanto entusiasmo. Le vuoi bene a tua sorella?

- Tanto tanto! E le vorrà un gran bene anche lei, signor zio, perchè è impossibile vederla e non volerle bene. E cosi buona, è cosi bella!...

- Ah! la è bella Enrichetta? Interruppe lo zio, guardando la bruttezza di Giovanna. Ma non aveva egli ancora finito di pronunciare queste parole, che si pentiva di nuovo di averle lasciate scappare, come quelle che, ricordandole la infelicità delle sue forme, potevano far pena alla poveretta che stava con lui discorrendo.

Giovanna invece esclamava tutto lieta, con vivezza d'accento in cui ciascuno avrebbe sentito la sincerità:

- Se la è bella!... È un occhio di sole. Quando la vedrà, resterà ammirato anche lei. E questo gli è nulla.... La sua bontà è ancora superiore alla bellezza.

- Ah! ah! Fece lo zio, guardando fissamente la povera sciancata; e intanto diceva fra sè: Tò, una brutta che non è invidiosa. C'è del buono in quel laideron.

Diede due o tre tirate allo zigaro, e si circonvolse in una nuvola di fumo.

Successe un istante di silenzio.

- Voi dunque siete due sorelle, e non ci è altri ragazzi in famiglia?

- No, signor zio.

Gerolamo guardò sul desco e non vide che quattro coperti.

- Chi è che ha preparata la tavola?

- Io.

- Perchè non hai messo un coperto anche per me?

- Come! Esclamò stupita la ragazza. Il suo eccolo qui in capo alla tavola.

- Uno ci manca. Non ve ne ha che quattro. Siete in quattro voi altri della famiglia; aggiungendomivi, io fo il quinto.

- No, signor zio. Di noi non si è che in tre a tavola. Il babbo, la mamma ed Enrichetta.

- E tu?

- Io non mangio a tavola.

- No?... E perchè?

- Perchè ho da servire.

- Ah! tu servi? E dove mangi tu?

- In cucina con Gertrude.

- E codesto non ti rincresce?

Giovanna alzò i suoi occhi di vetro in faccia allo zio, più stupita di prima.

- No, rispos'ella con sublime semplità. E perchè avrebbe da rincrescermi?

Lo zio tornò a guardarla un poco, poi tornò ad avvolgersi in una nube di fumo, restando un momento in silenzio.

Quando fu dileguata quella nebbia, Gerolamo disse alla giovane, con accento che era ancora brusco e vibrato, ma che pure aveva un certo non so che di più caldo e più espansivo:

- Tu stai lontana da me quasi che ti facessi paura.... Di' ti fo io paura?

La nipote lo guardò fugacemente e non seppe, o non ebbe la forza, a rispondere.

- Parla! Soggiunse lo zio con voce che pareva incollerita. Ti fo io paura sì o no?

Essa esitò, arrossi, e poi tremando sussurrò, con si poco fiato che appena si è potuto udire, il monosillabo:

- No.

- Uhm! Adesso non sei sincera, e vedo che a mentire non ci vali.

Temprò alquanto il ruvido tono della sua parola.

- Come ti chiami?

- Giovanna.

- Bene. Vieni qui Giovanna, più accosto a me. La zoppa avvicinò un poco la seggiola.

- Ancora.... Animo.... Suvvia!... Là, così.... Non ti mangio mica. Sono un po' ruvido eh?

Giovanna stette a capo chino e non rispose.

- Sicuro! È mio carattere questo. Bisogna pigliarmi come sono. Ho sempre vissuto senza famiglia sinora, in mezzo ad una banda di trista gente.... Il mondo non è pieno che di birbanti, sai! e l'uomo franco ed onesto che ci si trova in mezzo, non ne piglia argomento a stimare, a voler bene ed a trattare coi guanti i suoi simili. Breve! Sono burbero e villano, lo so, ma non sono cattivo. Chi sa che vivendo circondato dai buoni, amato sinceramente e non per interesse da qualcheduno, chi sa che non ridiventi buono ancor io!

La zoppa ascoltava tutto ciò sempre a capo chino, e non pronunciava una sillaba.

Lo zio Gerolamo tornò ad esaminarla ben bene, ora che la gli era più dappresso.

- Per Dio! com'è brutta! Disse fra sè. Passare il suo tempo con quel mostricciuolo innanzi agli occhi, non dev'essere cosa da star molto allegri.

- Tu ami molto i tuoi parenti? Domandò poscia lo zio, dopo un istante di pausa.

- Oh sì! disse la giovane con tutta semplicità, ma con accento di sincero e profondo sentire.

- E me, mi amerai tu pure?

Giovanna lo sogguardò timidamente a suo modo, e poi rispose fiocamente:

- Sì.

In quella ecco aprirsi e richiudersi con fracasso l'uscio da via, ecco un allegro suonare di voce argentina, a cui tien bordone una più robusta, ecco tremare il pavimento sotto la pressione d'un passo pesante ed affrettato, ecco precipitarsi nella camera, leggera, saltellante, ridente, la bella Enrichetta, e dietro lei il fruscio e lo sbarbaglio della veste della signora Genoveffa, e per ultimo la personcina riguardosa di sor Giacomo.

Enrichetta e sua madre parlavano in una con grande vivacità; avrebbe fors'anche parlato il signor Varada, se avesse potuto lusingarsi un momento di far udire il suo filo di voce in mezzo a quel mulinio di parole.

Enrichetta diceva:

- Gli è proprio qui lo zio! Questa è bella davvero! Mentre noi stavamo ad aspettarlo laggiù, ed egli era già a casa. L'avremmo abbracciato molto più presto se non ci fossimo mossi.

E mostrava lo splendore de' suoi denti in un riso, pieno di franchezza.

- Dove siete passato, caro signor zio? Diceva la Genoveffa. E che strana idea è stata la vostra? Figuratevi la nostra sorpresa, quando da lontano abbiamo visto il baroccio di Barbetta vuoto! Abbiamo creduto che voi non foste arrivato. Ma pur siete qui finalmente! Dopo tanto tempo che non vi ho più visto!... A dire il vero avete cambiato di molto, non vi avrei più riconosciuto....

- Nemmen io te: interruppe bruscamente lo zio, cui tante ciance parevano infastidire. E se tu credi che gli anni passino senza lasciar traccia, sei una testa busa.

Si volse verso Enrichetta, la cui beltà lo aveva di subito meravigliato.

- Orsù, le disse: perchè non mi son fatto trovare laggiù dove mi siete venute incontro, è essa una ragione per non darmi un abbraccio? Tu non mi hai mai visto, ma sono tuo zio, che diavolo!

Enrichetta si slanciò con avvenente leggerezza al collo di lui, e gli diede due bei baci sonori.

- Che la sia il benvenuto, caro zio!

La faccia burbera e rugosa di Gerolamo si rischiarò tutta al contatto di quelle fresche labbra giovanili; gettò via il suo sigaro, e tenendo abbracciata la ragazza, la baciò ancora egli replicatamente.

Ma dopo Enrichetta, ecco precipitarglisi nelle braccia, a farlo barcollar sotto il peso, la massa imponente della signora Genoveffa.

- Sì, caro zio: esclamò ella con quella sua maschia voce: siate il benvenuto.

- Grazie, grazie: s'affrettò a dire Gerolamo, allontanando dal suo naso l'enorme tesa dell'imponente cappellino di Genoveffa.

Allora fu la volta del sor Giacomo, che non aveva tuttavia potuto farsi notare nè con una parola, nè con un atto.

S'avanzò egli chetamente, e tendendo la sua destra verso lo zio, gli disse con quel modo ordinato ed espositivo:

- Permettete che ancor io abbia il piacere di darvi la buona venuta, e di manifestarvi tutta la soddisfazione che provo nel vedervi finalmente tra noi e per non abbandonarci più, siccome ci avete fatto l'onore di scriverci nella pregiatissima vostra del 28 aprile ultimo scorso. È costante che la vostra venuta soddisfa uno dei più vivi desiderii della mia famiglia.

Il tono con cui fu pronunziato questo discorsetto era quello con cui si leggono nelle assemblee i processi verbali della seduta precedente. La cagione di tanta freddezza non era solo nel carattere del prudente segretario comunale, ma nel risultamento delle osservazioni che aveva fatto esaminando con occhio scrutatore lo zio, mentre la moglie e la figliuola lo abbracciavano e gli parlavano.

Nello zio Gerolamo era tutt'altro che l'apparenza d'un uomo ricco. Vestito con una semplicità che si avvicinava piuttosto alla povertà, egli non aveva poi nell'aria, nel contegno, nella maniera, nel linguaggio nulla affatto che potesse far supporre in lui un favorito dalla fortuna. Se il bravo sor Giacomo, conoscitore del mondo e degli uomini, lo avesse incontrato per istrada, non sapendo chi fosse, ed avesse dovuto portar giudizio dei fatti di lui, avrebbe detto, senza esitare, che quello era tutt'al più un capofabbrica od un sorvegliante d'operai, se non pure un semplice operaio esso medesimo. C'era dunque più che altro da temere che questo benedetto zio, invece che un vantaggio, non fosse che un carico, e sor Giacomo, niente lusingato della fiducia manifestatagli, non era punto punto disposto a sopportare nessun aggravio.

Lo zio Gerolamo sogguardò un poco quell'omaccino tutto riguardoso, e gli rispose bruscamente a suo modo:

- Grazie!... Andiamo a tavola.... Ho fame.

E senz'altri complimenti, fu a sedersi innanzi a quel coperto che Giovanna gli aveva detto essere preparato per lui.

La signora Genoveffa levossi dintorno alla faccia larga e rubiconda l'aureola di nastri rossi e gialli e di fiori gialli e rossi che le faceva il suo cappellino madornale, e chiamò colla voce d'un caporale austriaco che ordina una corvée ad un soldato:

- Giovanna!

La zoppa fu lesta a presentarsi agli ordini.

- Prendi.

Le diede il famoso cappellino, che Giovanna prese con tutto il religioso rispetto che meritava un simile capo d'arte; le diede eziandio la sciarpa che teneva sulle spalle, e le ordinò con severo cipiglio:

- Vai a riporre questa roba, e bada di farlo con attenzione, e sollecita per venir giù a servire.

- Sì, mamma: rispose la sciancata, e si affrettò verso l'uscio.

Enrichetta si mosse per andarne colla sorella; ma la voce autorevole della madre l'arrestò di subito.

- E tu dove vai?

- Vado a portar su la mia cappellina.

- Dalla a Giovanna; e tu resta qui a far compagnia allo zio.

- Ma.... volle soggiungere Enrichetta.

La madre non la lasciò dir altro.

- Giovanna, comandò con quel suo accento imperioso da monarca assoluto, prendi la roba di Enrichetta, e portala su.

Giovanna obbedì e disparve. Allora sedettero tutti intorno al desco, su cui Gertrude venne a portare il fritto fumante.

Non vi descriverò il pranzo preparato per quella occasione solenne. Nei nostri villaggi, ancora oggidì, i pranzi per festeggiare qualcheduno, usano essere dei pranzi da Gargantua. Una schiera di pietanze in proporzioni enormi sfila davanti ai convitati in una seduta che dura delle ore. L'onore dei Varada non aveva permesso che si mancasse a questa buona tradizione fonte d'indigestioni, pel fausto ritorno di uno zio, che poteva essere la gallina dalle uova d'oro. Gerolamo mangiò bene e bevette meglio, da uomo che ha uno stomaco eccellente; il sor Giacomo ebbe sempre sulla piccola fronte l'ombra d'una nube; era l'ingrato pensiero che se lo zio fosse ritornato povero come quando era partito, tutta la spesa di quel pranzo eccezionale poteva dirsi sciupata. Genoveffa seppe stare a livello dello zio nel mangiare e nel bere, e in fin di tavola era più rossa della faccia color di fuoco di Gertrude; la povera Giovanna, che s'affannava intorno ai commensali per fare appuntino il dover suo, fu strapazzata cinque o sei volte, o perchè era troppo lenta, o perchè non prestava abbastanza attenzione, o perchè non aveva sufficiente destrezza.

Lungo il pranzo, il sor Giacomo aveva già tentato più volte di mettere il discorso sulle avventure dello zio; ma questi aveva sempre fatto orecchio da mercante, e, ad una richiesta più diretta, aveva finito per dire bruscamente a suo modo che lo si lasciasse mangiare tranquillamente, e che in fin di pranzo sarebbe stato il momento opportuno di siffatte chiacchere.

Ora finalmente si era alle frutta; le bottiglie di vin di rispetto erano stappate, ed avevano già riempiti due o tre volte i capaci bicchieri; lo zio Gerolamo si rovesciò comodamente sulla spalliera della sua seggiola, e disse ai commensali:

- Voi volete dunque conoscere le vicende della mia vita e le mie attuali condizioni?

- Sì, sì: esclamò il sor Giacomo, appoggiandosi coi gomiti al desco per chinarsi viemmeglio verso lo zio, alla sinistra del quale trovavasi.

- Sì, da bravo: disse ancor'essa la signora Genoveffa, agitando la servietta per farsi aria al volto, dove il pranzo aveva chiamate le più vive fiamme che mai.

Anche Enrichetta manifestò la sua curiosità con un leggiadro atteggiamento d'aspettazione; e persino la povera Giovanna, affaccendata sino allora a servire, si raccostò zoppicando, e si appoggiò alla spalliera della seggiola ove sedeva la sorella, per sorreggere la stanca persona. Ma la madre, che vide codesto, le intimò con severo cipiglio:

- Tu va in cucina, affrettati a mangiare, e poi farai il caffè.... e che sia ben fatto!

Giovanna si ritirò mestamente con sollecita ubbidienza. Lo zio Girolamo la seguitò con uno sguardo che poteva quasi dirsi pietoso, ma che da nessuno fu osservato.

VII.

Lo zio Gerolamo bevette ancora d'un tratto un colmo bicchier di vino, fece scoppiettar la lingua contro il palato, e poi prese a raccontare, in mezzo all'attenzione de' suoi uditori, che intenti ora tenebant.

- Sono partito con pochi denari in saccoccia, e molto coraggio nell'animo. In questo paese avevo provato a far di tutto, e nulla mi era riuscito. A Torino, dov'ero stato commesso e poi socio d'un negozio che finì per un fallimento, avevo stretto conoscenza con uno svizzero, corrispondente di varie case commerciali di Francia e di Germania; egli mi diede lettere per parecchi paesi di questa e di quella, nelle quali mi raccomandava caldamente; e munito di esse, io sono andato a cacciar la fortuna in un'età quando chi ha da riuscire l'ha già presa pel ciuffetto, e chi è restato colla mano vuota, può giudicarsi per condannato da Domeneddio a restar pitocco.

- E voi? E voi siete riuscito? Domandò il sor Giacomo con tanto ardore, che gli diede perfino forza alla voce.

Gerolamo scosse la testa, e scrollò le spalle con atto molto filosofico, ma assai sconfortevole per le speranze dell'avido nipote.

- Mi sono fatto molto ricco.... d'esperienza. Ve ne ha pochi al mondo, oso dire, che conoscano così bene gli uomini, e che abbiano perciò meno stima di essi. Dappertutto mi sono trovato in faccia l'egoismo o ipocrita o sfacciato. La caccia alla ricchezza è una lotta fra i concorrenti, in cui chi vince è quegli che ruba di più agli altri, più accorto, e meno scrupoloso. Sono entrato socio di certe imprese di costruzioni, nelle quali, in que' paesi come nel nostro, si rubava allegramente allo Stato. Rubare allo Stato è rubare a nessuno; massima morale, che fiorisce sotto tutte le latitudini. I guadagni erano molti ed i pericoli pochi...

- Avete dunque guadagnato? Interruppe il sor Giacomo col medesimo ardore di poc'anzi.

- Immensamente.

Il buon segretario comunale tirò un lungo rifiato, e i suoi occhietti brillarono lietamente.

- Mio caro zio! Diss'egli con accento di tutto buona fede. Bevete ancora una volta di questo Caluso.

E mescette con generosa abbondanza nel bicchiere dello zio.

Questi ringraziò, e tracannò il dorato liquore di Caluso senza farsi pregare; poi riprese con un'aria mesta, che da sola bastò a ghiacciare il sangue nelle vene del sor Giacomo:

- Sì, avevo guadagnato, ma quei guadagni che aveva fatti per me l'arte maliziosa de' miei soci, me li mangiò quell'arte medesima in una lite che seppero farmi e vincere.

- Diavolo! Esclamò il nipote tutto mortificato.

- Bisognava ricominciare da capo. Si forma una società anonima per l'esercimento d'una miniera di lignite, di cui si dicevano meraviglie. Mi ci metto con miracoli di destrezza, imitando accortamente gli esempi altrui, e acquisto una vistosa quantità d'azioni, che non pago. Le cose vanno benone. Per certi metodi appositi, i capi dell'Impresa, che erano fra i più potenti re della Borsa, danno favore a codeste azioni che montano, montano come nel ramino il latte che sta per pigliare il bollore. Ci ho un guadagno netto del 60 per cento, il che mi fa un bel gruzzolo in verità. Vivano codeste speculazioni di Borsa! In due mesi eccomi ricco....

- Ah! Esclamò il sor Giacomo con interesse, ma non osando più abbandonarsi come prima alla gioia.

La bottiglia del vino di Caluso fu lasciata tranquilla.

- Non avrei avuto che da vendere a quel punto le mie azioni, continuò lo zio, e lo volevo fare; ma uno giusto di quei pezzi grossi della finanza che ci aveva di più le mani in pasta, mi sconsigliò dal farlo, imperocchè le sarebbero cresciute ancora, e il dividendo, in fin del semestre, sarebbe stato qualche cosa di inaspettato. E fu veramente quale nessuno se lo aspettava, perchè non ce ne fu di sorta alcuna; appena è se si potè pagare l'interesse, e le azioni scapitarono della metà. Alla stretta de' conti, io ci perdetti quei pochi risparmi che avevo ancora.

- Diavolo! Diavolo! Mormorò il sor Giacomo sbalordito.

- Seppi che quel buono mio consigliatore, nel tempo stesso che dissuadeva me dal vendere, e' si sbarazzava segretamente di tutte le azioni che possedeva.

- Che birbone! Disse Varada con profonda indignazione. È costante che quello era un birbone matricolato.

- Allora determinai di cambiar paese. Andai in Germania. Gente più onesta, ma più sora; affari più sicuri, ma più lenti; per farmi un discreto patrimonio mi conveniva lavorare trent'anni, e morir di vecchiaia appena avessi radunato tanto da vivere agiatello. Ah! se ci fossi andato da giovane! Se aveste un figliuolo, miei cari nipoti, il quale avesse il buon senso di prendere la carriera dei commerci invece di farsi un inutile avvocato od un'ostrica appiccata al banco degl'impieghi, vi consiglierei di mandarlo colà. Imparerebbe a lavorare sul serio, arriverebbe a raccogliere delle sostanze onorate, perchè dovute alla propria opera, al rispamio ed alla virtù della previdenza, e si conserverebbe onesto. Non dico che colà sieno una derrata impossibile gl'imbroglioni, gli arruffoni, i ladri in soprabito alla moda; tutto il mondo è paese; ma dico che l'ambiente colà è più morale, il lavoro più onesto, i costumi più sani, e la ricchezza più degna e più degnamente aquistata che altrove.

Lo zio prese egli stesso la bottiglia del vin di Caluso, e si mescette un altro bicchiere, che il sor Giacomo preoccupato non pensava più ad offerirgli.

- Insomma? Disse quest'ultimo, desiderando venirne ad una conclusione.

Gerolamo riprese:

- Insomma, un bel giorno - un brutto giorno devo dire - mi sento cogliere da una tremenda. palpitazione di cuore e da un affanno che non mi lascia aver più il rifiato. Credevo schiattare a momenti. Un medico viene, mi fa cacciar sangue, mi fa impiastrare di cataplasmi lo stomaco, e mi dichiara che il soverchio lavoro, le emozioni, i dispiaceri mi hanno favorito d'una famosa malattia di cuore, e che se io non ho le più attente cure del mio individuo, robusto come mostro d'essere, posso basir lì da un momento all'altro. Grazie del complimento! N'ebbi abbastanza di viaggi, di fatiche, di tentativi, di lusinghe della sorte. Mi spaventai all'idea di crepar solo in terra straniera, senza riveder più i cari luoghi della mia giovinezza; e decisi su due piedi tornare in paese, e dare le mie quattro ossa all'alta erba del nostro solitario cimitero. Pensai a voi altri, unici congiunti che mi restate; mi affidai di trovare in voi una famiglia, poichè non ebbi la fortuna e il buon senso di procurarmene una; feci fagotto, ed eccomi qua, povero quale son partito.

Il sor Giacomo a questa chiusa stette cogli occhi bassi, tutto imbarazzato, senza trovare una parola da dire; Genoveffa guardava il marito e taceva ancor essa, mentre il suo viso non palesava neppure una gran soddisfazione per le cose udite; ma Enrichetta, che non era occupata da' pensieri de' suoi genitori, spinta dal suo buon cuore, disse vivacemente con somma effusione:

- E noi, sì davvero, le saremo una famiglia, caro signor zio; Giovanna ed io le faremo da figliuole.

Gerolamo ebbe ne' suoi occhi un lampo di tenerezza, che contrastava colla burbera espressione della sua fisionomia.

- Gli è cosi che l'intendo: diss'egli, col suo solito accento vibrato, tornando a fare una carezza alla bottiglia.

Il sor Giacomo, sempre più impacciato, guardava di sottecchi con malavoglia quel vino d'un limpido color d'oro riempiere di nuovo il bicchiere dello zio. Si vedeva che il brav'uomo voleva dire alcuna cosa e non sapeva come incominciare. Genoveffa, partecipe di certo dei sentimenti del marito, gli lanciava delle occhiate animatrici; lo zio, che considerava attentamente le figure dei due coniugi, venne egli stesso a solleticarlo, chiedendogli:

- Ebbene, Giacomo, che cosa ne dite?

Il signor Varada si pose allora a guardar fissamente il manico del coltello che aveva allato, e parlò: - parlò colla sua voce esile, collo stile e coll'accento da processo verbale che gli erano soliti:

- È costante che una gran soddisfazione è per tutti noi la vostra venuta: per Genoveffa, la quale veramente è la sola nipote che vi rimanga, per me che tutto ciò che riguarda mia moglie sono uso a considerarlo come cosa mia propria. È costante che noi siamo lieti di accogliervi ed aprirvi la casa, come se fosse roba vostra; e se fossimo in grado di fare secondo le nostre intenzioni e i nostri desiderii, certo voi, signor zio, non avreste da mancare di nulla più, e vorremmo che viveste in mezzo a noi come un milionario. Ma...

Qui il sor Giacomo s'interruppe, e tirò un sospirone; poi preso in mano quel coltello che contemplava così attentamente, si pose a nettarne la lama colla sua servietta da una macchia immaginaria.

- Ma, ripigliava intanto, pur troppo le nostre fortune sono tutt'altro che prospere. Voi potete pensare in che larghezze possiamo trovarci col miseruzzo di stipendio che ho io dal Comune e con quel poco di rendita che dà la dote di mia moglie.

- Ho capito! Disse lo zio Gerolamo, tenendo fissi i suoi occhi nel volto di Giacomo, che si ostinava a fissare il suo manico di coltello. Vuoi dire che voi non avete volontà di tenermi in casa vostra.

- Oh che cosa dite? Esclamarono in coro marito e moglie.

E la ragazza, che non intingeva per nulla nella machiavellica diplomazia di suo padre; Enrichetta, tutto sollecita, con vera effusione di cuore:

- Ma non sa, interruppe, caro zio, che dal momento in cui arrivò la sua lettera noi ci facciamo una festa di accoglierla? La sua camera è bella e pronta, che lo aspetta; l'abbiamo preparata con tutta cura Giovanna ed io... Anzi (soggiunse tosto graziosamente sorridendo) fece quasi tutto la buona Giovanna, perchè in questa casa mia sorella, se c'è un lavoro da fare, una fatica da prendersi, non c'è verso ad impedirla d'incaricarsene.

Lo zio Gerolamo guardava Enrichetta con occhio benigno.

- Via, via! pensava: anche qui c'è del buono. Quanto alle ragazze, le cose camminano, ma là....

E volgeva lo sguardo verso i coniugi Varada, che avevano tuttidue l'aria asciutta e composta d'un creditore, a cui il debitore è venuto a domandare la grazia d'una proroga pel pagamento.

- Vedremo di meglio: conchiuse fra sè stesso lo zio.

La signora Genoveffa si volse con tono di rimbrotto alla figliuola:

- Che cosa ti salta in capo di dire? Giovanna non fa nè più nè meno di quello che deve fare e non c'è nessun miracolo da affibbiarle.

Enrichetta non ribattè parola.

Allora la moglie del sor Giacomo si volse allo zio, e disse certo assai più e più chiaramente di quanto avrebbe osato dire il timido marito.

- Sì, caro zio - queste furono le solenni parole della signora Genoveffa - la vostra camera vi aspetta. Non è già che nella nostra piccola casetta abbiamo una camera di troppo. Santa Vergine dei dolori! Abbiamo appena il bisognevole; ma per accogliervi, per farvi luogo ne' primi tempi (e pronunziò spiccatamente queste parole) ci siamo aggiustati, restringendoci, abbiamo lasciata per voi la nostra stanza; e certo quanto più tempo la occuperete, tanto meglio piacere ci farete.

Il tono con cui queste cose furono dette era più freddo d'un raggio di luna, l'inverno.

Nella faccia dello zio corse un rossore repentino, negli occhi balenò una fiamma improvvisa; parve esser lì lì per parlare, ma non pronunziò verbo, e diede mano di nuovo alla bottiglia.

Enrichetta ascoltava assai stupita, e non comprendeva nulla. Quello zio era aspettato con tanta ansietà, ed ora ch'egli era giunto si mostrava ad un tratto una tal freddezza verso di lui! La stanza preparata non era occupata da nessuno, e si teneva pei forestieri; ed ora venivasi dicendogli che era quella della mamma e del babbo, e che avevano dovuto restringersi per lasciargliela!

- Ma, disse la ingenua giovanetta, mamma..

E avrebbe forse imprudentemente svelato l'arcano, se la madre non le avesse di sotto la tavola pestato un piede, accompagnando quest'atto con un'occhiata fulminea.

Enrichetta si tacque interdetta, ma divenne in volto del colore di una fragola matura.

Persino al marito parve che la Genoveffa avesse detto un po' troppo, e soprattutto troppo chiaramente; onde pensò d'aggiustarla egli con una di quelle sue parlatine architettate.

- Egli è il vero, disse che la nostra casa non è un palazzo e le nostre fortune non sono quelle dell'illustrissimo signor marchese di Roccavecchia. Ma ciò nulla meno, un parente ci troverà sempre disposti a far per lui ogni sacrificio che sia compatibile col nostro dovere di genitori, poichè non conviene dimenticare nemmanco che noi abbiamo famiglia, e che è primo nostro debito pensare all'avvenire delle nostre figliuole...

- Oh quanto a noi... Esclamò l'Enrichetta; ma la madre, dandole un'altra pestata ai piedi, non le lasciò aggiunger altro.

- Non interrompere tuo padre quando parla; disse Genoveffa severamente.

Lo zio Gerolamo aveva finito di centellinare il suo ultimo bicchiere, e si mostrava affatto calmo.

- Buono! Diss'egli. Voi avete le maggiori ragioni del mondo. Speravo poter vivere in famiglia con voi; mi provate che ho torto, non se ne parli più. Guarderò quello che mi resti da fare di meglio.

- Io aveva fatto un progetto: soggiunse allora il sor Giacomo; un progetto che sarebbe tornato acconcio per tutti; ma da quanto mi avete narrato, caro zio, vedo che esso è di impossibile esecuzione.

- Che progetto? Domandò lo zio.

- Qui presso a casa nostra - l'avrete veduta venendo - c'è una bellissima casa con un bellissimo giardino.

- Sì l'ho visto. Di chi è quella roba? Quando sono partito, a quel posto c'era la casa di vostro cugino Antonio Maria.....

- Ed è bene ancora sua quella lì cotanto signorile; cioè sua non più, perchè il poveretto è morto....

E raccontò per filo e per segno la storia di Antonio Maria arricchitosi, messosi a scialarla con mille grandigie, e poi rovinatosi e morto.

- Or bene, soggiunse di poi, quella casa io aveva immaginato che se voi foste tornato ricco come ci auguravamo... per vostro bene, voi l'avreste potuta comprare, e così, prima di tutto, avremmo vissuto d'accosto, e poi quella bella proprietà non sarebbe uscita, per così dire, dalla famiglia.

Gerolamo lo interruppe più burbero di quanto l'asse stato mai.

- Eh! io non ho denari da comperare case nè grandi nè piccole, nè ricche nè umili.... Ma sono pure avvezzo alle privazioni, all'esistenza del povero, e quel poco che mi basta per vivere l'ho tuttavia salvato dai vari naufragii che ha sofferto la mia fortuna.

Tacque un momento, e poi chiese con molto interesse.

- Vive bene ancora il notaio Tartini?

A questo nome, il sor Giacomo fece una piccola smorfia.

- Sì, vive.

- Benone! Questa novella mi fa proprio tanto di buon sangue. Eravamo così intimi amici!... Egli aveva un figliuolo; che cosa ne fu di esso?

- Egli è speziale, il primo speziale del paese; ha il fondaco sulla cantonata della piazza.

- Or bene, potrò aggiustarmi a stare con quella brava gente a dozzina.

I due coniugi si guardarono come per consultarsi a vicenda.

- Oh! per andare in una famiglia d'estranei; disse il sor Giacomo.

- Per pagare ad altri delle mesate, soggiunse Genoveffa.

- È costante che sarebbe meglio steste qui con noi.

- Ed a noi recaste quel poco vantaggio.

- Senza contare che saremo meno esigenti degli altri nel prezzo.

- E noi vi serviremo con grande amore, caro zio, disse Enrichetta.

- E si eviterebbero le ciarle del paese, il quale chi sa che cosa direbbe se voi andaste ad abitare in casa d'altri.

Lo zio Gerolamo s'alzò da sedere.

- Basta! diss'egli; ci penserò. Non voglio recar disturbo a nessuno, io, e non voglio averne. Questo è il mio carattere. Prima di decidermi a stare con voi, voglio vedere se poi voi od io non avremmo a penarcene.

In quella entrò la povera Giovanna tutta rossa nel volto, come chi è stato curvo sulle fiamme o sulle braci accese, e fra le mani si recava un vassoio colle tazze del caffè.

- Signor zio, Barbetta ha recato le sue valigie, ed è lì fuori che aspetta.

- Digli che aspetti ancora: rispose lo zio. Prendo il caffè, poi me le faccio portare alla locanda dove andrò ad alloggiarmi.

- Come! Alla locanda? Oh questo poi no: disse il sor Giacomo. Per ora starete qui.

Si rivolse con aspro accento di rimbrotto a Giovanna.

- Sei una stupida, che non sai far altro che stupidaggini. Che bisogno c'era egli di venire a dir cotesto in tal modo? Se tu avessi pure un granino di sale in quella zucca.....

- Oh sì, esclamò con ironia la madre, un po' di sale quella lì!

Il padre continuava:

- Avresti fatto portar su la roba nella stanza dello zio, congedato l'uomo, e poi saresti venuta ad annunziare che la era cosa fatta.

- Ma, babbo....sussurrò la miserella tutta mortificata.

Ed ecco entrare in campo la madre più aspra e niquitosa del sor Giacomo:

- Ci siamo collo scusarsi lei!... La non vuol mai star zitta quando la si rimprovera... Quante volte non ve l'ho già detto che non voglio scuse?

Lo zio Gerolamo guardava fisso la povera Giovanna, ne' cui occhi vòlti alla terra brillavano in pelle in pelle due lagrime.

- Via, via, diss'egli colla sua voce robusta e sdegnosa: non istrappazzatela in questo modo per codesto, dove la non ha torto....

Se il nuovo arrivato fosse stato, come ne avean concepito speranza, un vero zio d'America, è probabile che la signora Genoveffa avrebbe tollerato da lui ch'e' prendesse le difese della sciancata; ma giungendo pitocco nè più nè meno come quando era partito, secondo ciò che aveva dichiarato egli medesimo, parve questa alla brava donna un'improntitudine da non tollerarsi.

- Signor zio, diss'ella con tono più agro d'una susina verde: dovreste sapere che non c'è nulla di peggio che difendere i ragazzi dai giusti rimproveri dei genitori.

Il naso dello zio Gerolamo diventò rosso come un peperone.

- Cospetto di Dio! per cento mila, diavoli! Vorreste ora farmi la lezione?...

E la Genoveffa, che aveva ancor essa l'umore bizzarro più che bisogno non fosse, di rimpatto, senza lasciarsi punto sgomentare:

- Voglio, voglio....

Ma ecco saltare in mezzo Enrichetta e il sor Giacomo.

- Genoveffa! Esclamò questi con aria più di preghiera che di autorità.

- Mamma! disse quella, abbracciando l'incollerita donna.

Quanto a Giovanna, ella non fece un motto nè un atto, ben sapendo che ogni cosa da parte sua sarebbe stata inutile all'uopo, se non peggio, ma le due lagrime le caddero giù dalle guancie, e il cuore le palpitava forte forte nel petto. La povera creatura si sentiva pungere da un vero rimorso dicendo che cagione di questa scena era essa, la sventurata!

Non è punto probabile che l'intervento del marito avrebbe nulla giovato a sedare la bizza della signora Genoveffa; anzi l'esperienza del passato potrebbe persuaderci del contrario, ma gli è alla preghiera ed all'amplesso della Enrichetta che la madre troppo parziale non sapeva resistere; onde, quando si fu visto innanzi il bel visino della figliuola prediletta, si racquetò di subito, e s'ingoiò le parole stizzose che già aveva sulla punta della lingua.

Lo zio Gerolamo scrollò le spalle, e si diede a guardare una dalle quattro stagioni dell'anno in litografia che, incorniciate di legno nero, decoravano le pareti del tinello.

Fu sopra Giovanna - com'era naturale - che il sor Giacomo sfogò il dispetto che gli aveva procurato quell'incidente.

- Ebbene, che cosa stai ora a far costi, piantata come un zugo a piuolo? Non hai capito abbastanza? Vai, e fa portar quella roba di sopra.

- No: disse vibratamente lo zio. Si avrebbe di nuovo il fastidio di farla riportare abbasso.

- Oh che? insisteva il segretario comunale. Non ci farete un torto simile: bisogna acconciarvi a modo nostro... È costante.

Giovanna, che pareva sulle spine, pur tuttavia non si muoveva.

- E così, marmotta? le gridò il padre.

- Gli è che quell'uomo, disse balbettando la zoppa.

- Ebbene quell'uomo?

- Vuol essere pagato.

- Ah!

Il bell'ardore del sor Giacomo si estinse di botto, come cessa il bollor della pentola al cacciarvi dentro un secchiello d'acqua fresca. Ma tuttavia fece un atto eroico.

- Pagato? diss'egli. Ebbene, to', pagalo e che se ne vada con Dio. E pose due dita nel taschin sinistro del panciotto, dove teneva i denari.

Lo zio Gerolamo, che l'osservava sempre a suo modo, fece un cotal sogghigno, e disse con accento autorevole:

- Lasciate stare, Giacomo; vado io da quell'uomo ed aggiusto ogni cosa. Giovanna, conducimi tu da questo Barbetta.

Gerolamo e Giovanna uscirono della stanza.

Appena fuori di stanza lo zio, i coniugi Varada si guardarono in faccia.

- Sei stata un po' troppo brusca nelle tue parole, disse il marito; ma credo in fin de' conti non abbiamo a lamentarci del loro effetto. È costante che rimanendo a casa nostra lo zio, e non ci avrebbe pagato nè pensione, nè altro, e ci avrebbe costato assai.

- Babbo, disse Enrichetta: questo è pur l'unico parente che rimane alla mamma. L'ho udito dire da te stesso. Non ti pare che sarebbe nostro dovere....

- Lascia a noi pensare a queste cose: disse la madre con imponenza, benchè con amorevolezza. Di mangiapani non ne occorre empirci la casa; e se col risparmio arriviamo a metter qualche cosa in disparte, tutto andrà ad ingrossare la tua dote, carina.

La ragazza accennò voler parlare ancora; ma in quella si udì la voce dello zio, accompagnata da alcune altre.

- Zitto! Disse il prudente sor Giacomo, lo zio è qui che torna.

E diffatti l'uscio si spalancò vivamente ed entrò lo zio seguito da altri tre personaggi, di cui uno solo è già da noi conosciuto: il parroco.

VIII.

Lo zio Gerolamo aveva pagato il barocciaio Barbetta, e datogli ordine di recare le due valigie, che aveva condotte seco sopra un carretto, alla principale locanda del paese.

Ciò fatto, stava per rientrare, quando ecco sopraggiungere tre individui.

Uno era don Pasquale, gli altri due erano il notaio e lo speziale del villaggio, padre e figliuolo Tartini.

Il notaio era un vecchio rubizzo, coll'aria più aperta e più onesta di questo mondo. Aveva uno sguardo da uomo allegro, un naso da bevitore, ed un largo sorriso da coscienza tranquilla. Amava chiaccolare, ma nelle sue parole non c'era pericolo mai che fallisse alla prudenza e si lasciasse scappare cosa che non andasse detta. In sua qualità di notaio e per la profonda stima onde godeva presso tutti, egli era informato delle cose le più segrete che riguardavano gli interessi e le vicende intime di ogni famiglia del villaggio. Tutti coloro che avevano un imbroglio da aggiustare, un consiglio da domandare, un dispiacere da confidare, una disgrazia a cui cercar conforto, ricorrevano a lui. Tutte queste confidenze stavano sepolte nel suo cuore, e così bene che pareva averle egli stesso dimenticate. Nessuno mai non aveva dovuto arrossire innanzi ad una parola o solo ad uno sguardo di questo vecchio buon uomo che sapeva tutto. Allora soltanto mostrava di ricordarsi delle cose apprese quando poteva servisene per ottenere qualche bene.

Era naturale che un galantuomo simile fosse amato dai buoni e preso in uggia dai tristi. Costoro nella bontà altrui odiano sempre la più severa condanna della loro malvagità. Ora, anche nella falsa semplicità della vita dei villaggi il numero dei tristi non è punto minore in proporzione alla quota che tocca alle agglomerazioni cittadine. Sulla piccola scena del villaggio avete rappresentata la medesima commedia coi medesimi caratteri: gl'invidiosi, i truffatori, i maligni, i calunniatori e gl'imbecilli.

Il notaio Tartini - per sua gran disgrazia, come andava poi dicendo egli stesso - fu fatto sindaco, e credette suo dovere di accettare, avendo in animo di introdurre nel villaggio molte buone riforme, di cui era massimo, a suo senno, il bisogno. Gli invidiosi fecero al buon uomo aspro e duro oltre ogni dire il tempo del suo sindacato. Fra questi invidiosi uno dei più ostili, quantunque di soppiatto, gli fu Giacomo Varada, lo stesso segretario comunale.

Il buon vecchio ne ingoiò di tutte sorta. I suoi, ordini non erano eseguiti; le sue parole male interpretate; travisate le sue intenzioni. Ogni suo progetto di cui facesse cenno era divulgato tosto, e con proporzioni esagerate che gli davano aspetto di avventato e pericoloso innovamento, onde la stupida inerzia dei paesani, attaccati come edera al muro, al così faceva mio , si sgomentava e inalberavasi maledettamente. Egli volle impiantare delle buone scuole, e quindi, invece di pagare certi cappellani che mangiavano allegramente uno stipendio che li compensava del loro far nulla, volle accrescere il numero e lo stipendio dei maestri, affinchè si potesse averne dei migliori e che vivessero più comodamente e con più dignità; quindi non potendo obbligare i padri a mandare i figli alla scuola, non consentendo appo noi la legge questa benedetta coazione, immaginò quanto meno di allettarli con premi; non occorre pur dire che, facendo pagare ai ricchi, egli dava ai figli dei poveri gratuita affatto l'istruzione, cibo dell'intelligenza a cui tutti hanno diritto come a quello del corpo.

Codesta, in quel villagio, per opera massimamente del buon Varada, il quale pigliava l'imbeccata dal marchese di Roccavecchia, codesta, dico, parve una enormità; quantunque il buon don Pasquale lasciasse intendere a mezza bocca ch'egli non la disapprovava punto. Ma il parroco non osava fare di più in favore del sindaco, perchè temeva gli effetti della collera del marchese, il quale era nelle più strette ed amichevoli relazioni colla Curia vescovile.

Opposizioni, gridii, calumnie, indignazioni delle pinzocchere, il diavolo a quattro piovve intorno al povero sindaco, il quale era d'animo troppo mite per resistere a quel turbinio, ed alle persecuzioni.

S'aggiunse ancora che certi fondi destinati alla festa del Santo, essendo intravvenuta in quel torno una innondazione che produsse molti disastri, il sindaco impiegò con empia temerità a sollevare le miserie dei danneggiati; e la festa dovette essere celebrata con sì miseri apparati che tutta la popolazione donnesca, e la gran maggioranza eziandio di quella mascolina, rimase inorridita di tanto scandalo, di cui memoria d'uomo non c'era esempio.

Oltre a ciò, il sindaco rigorosamente provvedeva contro i ladri di campagna. Egli capiva che il proprietario, pagando la sue imposte, ha diritto d'essere guarentito nei frutti della sua proprietà; egli capiva che la tolleranza di simil ladroneccio viene a favorire l'ozio, e quindi i vizi e lo scadimento del senso morale nelle popolazioni campagnole; egli, pietosissimo verso la miseria, tanto da consumare i due terzi dei suoi redditi in elemosina, sentiva il dovere d'essere severissimo verso il vizio e l'immoralità. Il numero de' suoi nemici s'accrescea di tutti i birbanti che vivevano di rapine per l'innanzi tollerate.

Per ultimo, egli osò urtare di fronte un pregiudizio de' più radicati nei nostri paesi montanini, quello della proprietà comune dei pascoli; e propose di vendere quelle misere macchie coperte di eriche, su cui vagavano muggendo per fame le magre vaccherelle dei poveri. Parve che toccasse l'arca santa del paese. Le grida contro di lui giunsero ad una tale intensità che lo assordarono. La Prefettura della Provincia, d'altra parte, alla quale i suoi nemici avevano trovato modo di porlo in vista di esaltato, poco meno che di repubblicano, la Prefettura non gli concesse il suo appoggio; il buon notaio si sentì abbandonato di sotto o di sopra, e diede le sue dimissioni. Quel giorno in cui usci della casa comunale per ritornare semplice amministrato come tutti gli altri, egli diede un gran sospiro, e promise a sè stesso che non ce l'avrebbero colto mai più. L'onorevole carica gli aveva fruttate dispiaceri, nemicizie, calunnie e il danno materiale di quello che non aveva più potuto guadagnare colla sua professione, e di quello che aveva speso del suo per impiantar le scuole e per beneficare i danneggiati dell'innondazione.

Ora egli era tornato alla tranquillità della sua vita abituale.

Passava il tempo nel suo studiolo a far contratti e metter la pace gratuitamente fra i contadini, che prima di litigare si recavano da lui a farsi deffinire le quistioni che insorgevano fra di loro; quando non era nel suo studio o presso al letto di qualche moribondo che faceva testamento, lo si sarebbe potuto trovare, la sera, nel tinello del parroco, col quale se la diceva benissimo, dove si giuocava a tarocchi, lungo il giorno a leggere i giornali, e chiaccolar di politica nella bottega di suo figlio lo speziale.

Questi era affatto diverso da suo padre in tutto e per tutto; e stava al mondo eccezione incarnata alla massima d'Orazio che gli avoltoi non si generano dalle colombe. Il signor Tartini figlio era del metallo medesimo ond'era composto Giacomo Varada; ma aveva più ferma l'impronta. La sua voglia di ammassar denaro era accompagnata da più risoluzione e da più accortezza. Aveva delle qualità ed un'arte più acconcia ad andar a' versi di tutti, per trar profitto di tutti. Egli non s'era mica legato ad un solo partito, ad una sola persona, colla rovina della quale fosse irreparabilmente rovinato anche il suo vantaggio. Accendeva la candela all'arcangelo ed a satanasso, e li sapeva persuadere l'uno e l'altro che il culto sincero era quello soltanto che a lui era diretto. Quando parlava col marchese di Roccavecchia, andava meravigliosamente d'accordo con esso lui, nessuno sapeva, meglio del furbo speziale, deplorare le bruttezze del presente e fare un lusinghiero raffronto col passato; il marchese gli concedeva l'onore di fargli prender seco il caffè, e quello più grande ancora di dargli le punte delle dita da toccare, quando se ne partiva. Coi contribuenti oberati dalle imposte, che gridavano come aquile tapine contro il ministero, lo speziale appariva della sinistra con una fierezza d'opposizione degna d'un piccolo Bruto; il che non impediva che recandosi nella città capo-luogo di circondario, egli facesse visita ad ogni volta al sotto-Prefetto suo buon amico, col quale si sfogava a ridere dei codini ed a condannare severamente i rossi.

Era l'uomo il più influente del Comune, del Collegio elettorale, del Circondario. Ogni candidato a pubbliche elezioni doveva ricorrere a lui, e guadagnarsene l'appoggio con lusinghe di tutte sorta, con regali ed altro. Egli sapeva molto bene trafficare il suo voto e la sua influenza. Dal fondo della sua bottega, egli faceva i sindaci, non soltanto del suo paese, ma dei circonvicini, egli faceva il deputato, egli faceva i consiglieri provinciali. Avrebbe potuto essere egli medesimo ogni cosa che avesse desiderato di codesta roba; ma egli era troppo accorto per isciupare così la sua influenza. Impiegandola in favore ora di questo, ora di quello, la faceva fruttare assai più a vero beneficio dei suoi interessi. Non c'era impresa di lavori che si concedesse nel Circondario senza che lo speziale Tartini ci avesse ficcato il naso: il ponte, la strada, gli edifici pubblici erano dati a costruire ai suoi raccomandati; e la sua raccomandazione era quindi un valore ch'egli sapeva perfettamente scontare.

Così veniva raccogliendo una ricchezza d'autorità di cui molto si compiaceva, e un aumento di fortune onde aveva grandissima ghiottoneria. Era precisamente il rovescio di suo padre, che amava fare il bene che potesse e non comparire, e non profittarne, e che consumava il suo patrimonio per troppa bontà.

Lo speziale avendo molti punti di contatto col segretario comunale, era pieno o quasi pieno fra loro l'accordo. Il marito di Genoveffa temeva l'influenza del factotum del villaggio, e veniva lisciandolo con molta cura affine di abbonirselo; e lo speziale si mostrava tutto grazioso col padre di Enrichetta per certi suoi disegni che veniva accarezzando e che non dubitava punto di effettuare, avvezzo com'egli era ad una sicura riuscita in ogni cosa.

La bellezza della figliuola secondogenita dei Varada aveva colpito il cuore - uso quest'espressione per non sapere qual altra adoperare; ma poteva egli dirsi che avesse un cuore? - del farmacista. Aveva, un bel giorno, determinato che - verificandosi certe circostanze - egli avrebbe potuto fare l'onore a quella ragazza di domandare la sua mano; e voleva disporre le cose in modo da rendersi favorevoli, per quel caso, tutte le probabilità. La beltà di Enrichetta non avrebbe bastato a ispirargli questa eroica risoluzione. Per molto c'era entrato eziandio quel certo calcolo che l'avidità del sor Giacomo aveva fatto ancor essa. La protezione del marchese e il grande affetto che questi manifestava per la sua figlioccia doveva bene tradursi in qualche solido risultamento. Se non la intiera eredità, certo un vistoso legato era da aspettarsi alla morte del vecchio nobile sul ricco patrimonio dei Roccavecchia. Questo legato, messo insieme col patrimonio che il segretario comunale veniva ampliando a centellini, mercè la parsimonia, sulla base della dote di sua moglie, sarebbe riuscito di certo a formare una sostanza non degna di essere disprezzata. Il bravo Tartini figlio tendeva chetamente le sue reti perchè la preda non gli scappasse.

Egli ha trent'anni, non è nè bello nè brutto, ma mostra un'età assai più inoltrata di quello che la sua non sia; nasconde la importanza ch'egli sa di avere e ch'egli medesimo dà alla sua persona, sotto una falsa modestia che pare la caricatura di quella sincera di suo padre; veste da uomo sodo colle foggie di dieci anni fa; parla poco, lento e grave; sorride misteriosamente; pare un diplomatico in vacanza, travestito da droghiere.

Delle lusinghiere intenzioni dello speziale a suo riguardo Enrichetta non s'è ancora accorta il meno del mondo, e la figura volgare di quel grand'uomo di villaggio le torna antipatica anzi che no. La fanciulla, entrata appena nell'adolescenza, ha portato seco tuttavia quel prezioso talismano d'innocenza, e d'ignoranza, il quale non è ancora sfatato nemmanco dalla puntura della curiosità. Di forme e di bellezza, Enrichetta comincia ad esser donna, di cuore e di pensieri continua ad essere bambina; il suo riso schietto e i suoi occhi sgranati lo dicono aperto. Non ha imparato ancora nemmeno ad arrossire. Ai complimenti architettati ed alle sdolcinature affettate del signor Tartini figlio, essa usa rispondere con una bella risata sul muso, e scappa. Se la mamma non ne l'avesse proibita, Enrichetta giocherebbe ancora colla poppattola.

Ma delle pretese tuttavia coperte dello speziale, ben si sono accorti i coniugi Varada, la signora Genoveffa la prima. Un gran consiglio ebbe luogo fra loro due, in cui la moglie tenne la presidenza, e in cui fu accettato all'unanimità di giovare indirettamente ai dissimulati propositi di quel furbo, in quanto però ciò non potesse compromettere di troppo l'avvenire; perchè non si sa mai quel che possa capitare, e se quello era un partito pel presente convenientissimo, un altro poteva presentarsene ancora migliore; e conveniva inoltre sapere a questo riguardo l'animo del padrino d'Enrichetta. La giovinezza e la beltà di questa consigliavano l'indugio e consentivano altre speranze più audaci. I genitori seppero quindi porre in atto un sistema che, permettendo allo speziale di lusingarsi del successo, non impegnava tuttavia per nulla il futuro. Era la stessa condotta che Tartini figlio aveva determinato di tenere verso la fanciulla. Quelle due diplomazie camminavano di pari passo, osservandosi mutuamente.

Del parroco, il quale accompagnava i due Tartini padre e figlio, noi conosciamo già la buona e franca fisionomia, la grossa persona, l'indole mite e benigna, la mania interrogativa e la tabacchiera di corno. Conosceremo di meglio lungo il racconto la virtù di questo degno sacerdote, il cui difetto era soltanto una soverchia timidezza, soprattutto verso i suoi superiori ecclesiastici.

Lo zio Gerolamo, visto avanzarsi alla sua volta quei tre, stette a fissarli ben bene; il parroco e lo speziale gli erano affatto ignoti, ma il suo sguardo si fermò con interesse sulle sembianze del notaio, che gli pareva di riconoscere.

- Ecco il parroco e i signori Tartini: disse la voce timida e sorda di Giovanna, che era ancora allato dello zio.

Gerolamo mandò un'esclamazione, e si slanciò commosso verso il notaio.

- Sei tu Gaudenzio? Gli disse con molto affetto in quella sua voce burbera ed aspra.

- Son io, mio buon Gerolamo.

E i due vecchi amici si abbracciarono stretti con vera espansione d'amore.

Il figliuolo Tartini faceva il suo sorriso macchiavellico, osservando attentamente di sottecchi le sembianze, le maniere e gli abiti dello zio d'Enrichetta ed amico di suo padre.

Il parroco, a cui la vista di quel tenero amplesso pareva un gradito spettacolo, annasava voluttuosamente una presa di tabacco.

Giovanna corse zoppicando ad annunziare ai genitori la venuta di quei tre, e n'ebbe ordine di riportare in cucina il caffè, e di aggiungervi tre tazze pei nuovi venuti, - e soprattutto di far presto.

- Quanto tempo che non ci siamo più visti! esclamava il notaio. Tu stai bene, Gerolamo?

- Bene e non bene. Sembro un colosso, ma ho ancor'io i piedi di creta... Ma lasciamo star codesto... Eh! come siamo invecchiati, Gaudenzio mio! Sono venuto per morir qui in mezzo a voi altri... E lei, soggiunse volgendosi al parroco, lei mi farà il funerale.

- Che funerale? che morire? Rispose il parroco, facendo girare la sua tabacchiera fra l'indice e il pollice. Pensiamo a stare allegri. Lei è arrivato questa mattina eh? Come ha ella trovato, dopo tanto tempo, questo paese? Pochi cambiamenti neh? E dunque la fa conto di stabilirsi proprio qui?

Gerolamo s'apprestava a rispondere, ma il notaio, che sapeva come al buon parroco non importasse per nulla l'aver risposta alle sue tante interrogazioni, saltò su egli a dire:

- Quanto mi tardava il vederti! Sarei venuto fin dal primo momento del tuo arrivo, ma avevo paura che il sor Giacomo si pensasse che volevo farmi invitare a pranzo, ed ho tardato fin adesso che il pranzo dev'essere finito e strafinito. Ero lì, impaziente, nella bottega di mio figlio...

S'interruppe ad additarglielo.

- Eccolo qui mio figlio. Guarda che uomo s'è fatto! Tu l'hai visto non più alto di così, ed ora eccolo oramai nella maturanza degli anni. Esso è speziale, e ti auguro di non aver bisogno de' suoi servizi.

Girolamo tese la mano al figlio del suo vecchio amico, che gli s'inchinava cerimoniosamente.

- Godo assai di fare la conoscenza dell'uomo, io che non conosceva ancora che il fanciullo. Qua la mano... Domenico... Perciò mi pare che questo è il suo nome.

- Per servirla, rispose lo speziale, tornando ad inchinarsi e toccando colla punta delle dita la mano che francamente gli aveva tesa Gerolamo. Sono molto lieto di conoscere di persona un amico di mio padre, che questi mi ha insegnato da lungo tempo a rispettare ed amare.

- Sì, proruppe il padre. Parlavo sempre di te. Anche qui al sor prevosto, il quale, appunto udendo che venivo a vederti, ha voluto esserti presentato senza indugio. "Venga, io gli dissi, conoscerà un uomo d'oro con una scorza di rovere...." Imperocchè spero bene che tu sei sempre la copia del burbero benefico.

Gerolamo diede in una risata.

- Sono il diavolo che ti porti, vecchio adulatore; ma questa non è ragione per star qui sul passo dell'uscio. Entriamo in casa. Avanti, sor prevosto; animo, Domenico; dentro tutti; e noi vecchi compagni chiuderemo la marcia.

IX.

I nuovi venuti furono accolti assai bene dai coniugi Varada; si prese tutti insieme il caffè; Domenico Tartini fece dei complimenti da secentista ad Enrichetta, che fuggì ridendo, non ostante gli sguardi severi della madre; il parroco infilzò delle dozzine d'interrogazioni, a cui non si diede e non aspettò risposta; Gaudenzio il notaio e lo zio Gerolamo parlarono del buon tempo passato, e si animarono allegramente ai ricordi della loro gioventù; Gerolamo tornò a proclamare la povertà con cui era tornato, uguale press'a poco a quella con cui era partito; il sor Giacomo tacque profondamente, strette le sue labbra sottili, e non pronunziò che pochi monosillabi col suo fil di voce quando non potè farne a meno; Giovanna, com'era naturale, soltanto per servire il caffè, fu strapazzata aspramente due o tre volte, e dichiarata una buona da nulla, una mal destra, una sgarbata, uno stupido animale.

Passata circa un'ora, il parroco fu il primo a levarsi per partire, e il suo esempio fa imitato dagli altri.

Mentre i Tartini padre e figlio prendevan congedo dai Varada, il parroco chetamente sgusciò nella stanza vicina a cercare, diss'egli, il cappello che vi aveva lasciato. Era una piccola bugia, perchè il tricorno egli lo aveva deposto nell'andito, e quella era la stanza in cui lavorava la Giovanna.

Difetti questa povera creatura era là, sotterrata di nuovo dall'ammasso dalle stoffe che cuciva.

All'udire aprirsi l'uscio, l'infelice alzò il capo, e guardò chi entrase: visto il parroco, una specie di letizia si dipinse su quei tratti macilenti e butterati. Nell'accostarsi a lei la benigna fisionomia del parroco era ancora più benigna del solito.

- Ebbene, Giovanna, come va? disse don Pasquale in fretta in fretta, come per paura d'esser colto a favellare colla ragazza, e sotto voce come per non esser udito.

- Oh va bene, rispose la miserella con infinito sentimento di riconoscenza nella voce e nello sguardo. La ringrazio tanto!

- Tu dici sempre che va bene, riprese il parroco crollando un pochino la testa; tu sei sempre contenta di tutto, povero agnellino... Dammi un po' qui la tua mano.

Giovanna smise un momento dal far andare l'ago e porse la destra che don Pasquale prese fra le sue. Qual differenza fra le mani grasse e paffutelle dei parroco e quella di Giovanna, esile, lunga, tirata, magra da parere di scheletro coperta di pelle ingiallita!

- Buon Gesù, esclamò il sacerdote, questa mano abbrucia.

- Sono stata presso presso al fuoco, disse la giovane: e questo mi ha riscaldata!

- Eh! questo è ben altro calore. E poi non ti fa bene farti arsicciare il sangue così.

E la poveretta, come per difendersi da un rimprovero:

- È vero che lei me lo ha già detto, sor Prevosto, ma avevo da aiutar Gertrude, e poi ho dovuto fare due volte di seguito il caffè.

Il parroco non disse più nulla, ma stette un momento tastando il polso della fanciulla. Poi scosse la testa, come se quel polso non gli piacesse gran che, ma non manifestò però altrimenti il suo pensiero.

In quella una tosse profonda e penosa ad udirsi eruppe dal petto incavato di quella povera creatura.

- Ecco ancora la tua tosse! disse don Pasquale con accento sgomentato. La ti tormenta dunque sempre?

- Sì, di quando in quando, rispose mitemente la fanciulla. La notte soprattutto. C'è delle volte che mi pare voglia rompermi lo stomaco, e mi rincresce tanto tanto, perchè disturbo il babbo e la mamma dal dormire.

- E te ne rimbrottano eh?

- Oh no!... Certo per loro è una gran noia... Mi avevano detto, così per farmi paura, che se tossivo ancora a quel modo mi avrebbero mandata a dormire nella stanza terrena, dove si mette la frutta, e ciò mi avrebbe fatto assai pena, perchè, non ho vergogna a dirlo, avrei una gran paura a dormire colà, sola, lontana da tutti.

- Cospetto di bacco! Esclamò il parroco, preso da una grande indignazione che pur voleva dissimulare. In quella stanza umida e fredda? Ci mancherebbe altro!...

E faceva girare con rapidità concitata fra le dita la sua tabacchiera.

- Io faccio ben di tutto per frenar quella tosse, continuava Giovanna col medesimo tono. Ma la è più forte di me. Tengo, tengo un bel pezzo, e poi bisogna che prorompa, altrimenti schiatto, e mi par di soffocare.

- Un'altra bestialità adesso! Vuoi farti scoppiar qualche vena? Tossi liberamente, che diamine, e lascia dire. Tu non ne puoi mica nulla tu! E che cosa prendi per rimedio?

- Niente. Enrichetta voleva bene da principio che il medico venisse a vedermi e mi ordinasse qualche cosa; ma papà ha detto che non c'era bisogno di ciò, e che sarebbe passata.

- Uhm! Borbottò il parroco, ed avrebbe aggiunto altre parole, se in quella non si fosse udita la voce del notaio che diceva:

- E don Pasquale? Dove s'è andato a cacciare? Gli è partito senza aspettarci.

Il buon prete fece in fretta una carezza paterna alla guancia smunta della bruttissima Giovanna, e le disse con molto affetto:

- Addio. Sta di buon animo. Vieni qualche volta a vedermi... non fosse altro col pretesto di confessarti... E se desideri qualche cosa, e se hai qualche bisogno, dimmelo senza soggezione, sai?

Giovanna levò in volto al vecchio sacerdote gli occhi lagrimosi per intenerimento e riconoscenza, e presagli la mano con cui le aveva fatta quella carezza, la baciò.

- Grazie, sor prevosto. Non ho bisogno di nulla, ma verrò a confessarmi quanto prima.

- Son qua, son qua: gridò il parroco, slanciandosi fuor della stanza incontro a quelli che lo cercavano; non so più dove diavolo ho posto il mio cappello... Hanno visto il mio cappello?

Enrichetta comparve col tricorno di don Pasquale in testa, mostrando sotto i tre becchi di esso la faccia più leggiadramente furfantella che sia possibile immaginare.

- Eccolo qua il suo cappello.

- Ah biricchina! Esclamò don Pasquale, e prendendole il cappello di testa fece alla guancia fresca, bella e rubiconda di Enrichetta la medesima carezza che aveva fatta poc'anzi alla Giovanna; ma se in questa c'era cordialità ed affetto, non ce n'era tuttavia tanto quanto in quella che aveva avuto la povera deforme.

I visitatori uscirono.

- Vengo ad accompagnarti: disse col suo solito accento ruvido lo zio Gerolamo a Gaudenzio Tartini. Buon giorno, nipoti miei... A rivederci.

Prese il braccio del suo vecchio amico, e senza voler ascoltare altrimenti le parole dei Varada, che facevangli a mezza bocca offerte e proteste, entrò innanzi col notaio lasciandosi alle spalle il parroco e lo speziale.

- Senti un po', Gaudenzio: incominciò a dire Gerolamo; questi miei nipoti mi sanno del tirchio che fa spavento. Son venuto qua per avere delle affezioni disinteressate, ed ho trovato un'avida avarizia, che ha subito messo il broncio alla mia povertà. Se fossi tornato un asino carico d'oro, m'avrebbero aperto le braccia, il cuore e la casa. Quando ho loro detto che ero un pitocco sempre come prima, mi posero bellamente fuor dell'uscio. È un disinganno che la mia esperienza mi faceva bensì aspettare, ma che ciò nulla meno mi caccia l'anima di traverso. Non so che cosa mi tenga dal ripigliare la strada con questo mio fido compagno (e mostrava il nodoso bastone che aveva tra mano), e senza più nè buon dì nè buon anno, andarmene a crepare tutto solo in un cantuccio della terra, che nessuno di questi balordi non sappia mai più nulla de' fatti miei.

- Faresti male, disse affettuosamente il buon notaio.

E Gerolamo colla sua ruvidezza:

- Eh! lo so che farei male, ma pure... Anzi so ancora ciò che me ne trattiene, e sei tu....

- Io?

- Sì; perchè sono persuaso che se tu non sei cambiato da così a così (e voltò la mano da sopra a sotto), sei capace di avere un po' d'amore per un pover'uomo senza cercare se qualche cosa te ne viene in tasca.

Gaudenzio sorrise.

- No, in questo non sono cambiato.

- Uomo raro, va! Ho girato il mondo, e conosco dove il diavolo tiene la coda. La gente dabbene, come sei tu, è più rara della fenice.

- Via, via, non esageriamo, disse il notaio. E qui stesso di galantuomini ne troverai parecchi. Tu devi restar fra noi, perchè alla tua età si ha bisogno di ripose e di quiete nell'anima e intorno a sè. Dove troveresti maggiore la quiete che nel villaggio in cui sei nato e che ti ricorda i begli anni dell'infanzia e della giovinezza? Del resto io parlo anche un poco per egoismo: se a te non farà male trovarti a contatto della mia vecchia amicizia, a me sarà una grazia fiorita addirittura l'avere a fianco un caro e sincero amico, derrata che non si trova di spesso, e che non ho trovato più qui, dopo che ti ho perso.

- Va benissimo. Hai tu una stanza da darmi nella tua casa?

- La casa la ho ceduta a mio figlio, il quale ne aveva molto desiderio. Io non mi sono conservato che quattro cameruccie. Sono piccole, modestissime, ma pulite, ed hanno i favori del sole state e inverno, dalla mattina alla sera. Il sole per noi vecchi è un amico ed un medico. Quelle quattro stanzuccie sono a tua disposizione

- Ne prendo una: disse vivamente Gerolamo; e faremo i nostri pasti insieme; pagando io affitto e pensione, s'intende. Per quanto piccola sia la camera, ci sarà ben posto per alcuni libri, per un lettuccio, e per una poltrona, su cui sdraiato fumare dopo pranzo? Codesto mi basta. Vivremo da fratelli come due filosofi, e discorrendo del nostro passato, ci consoleremo della vecchiaia con dir corna del presente.

- Ebbene, sia, vieni a vedere il mio quartieretto.

Come aveva detto il notaio, esso era di quattro camere: la prima servivagli da studio, ed era la più grande; a fianco di quella c'era la cucina, e innanzi dalla parte posteriore della casa le due altre, di cui una rimase a Gaudenzio e l'altra fu presa da Gerolamo, al quale la vista che appariva dalla sua finestra e il sole che l'invadeva prepotentemente, piacquero a dismisura.

La vista era quella d'una sequela di orticelli e di piccoli giardini, che presentavano allo sguardo un ricco tappeto di verzura, smaltato di fiori e diviso da folte siepi e da rigagnoli d'acqua limpida che correva allegramente.

Gerolamo ben presto ebbe adottato il metodo di vita del suo vecchio amico. Si alzava per tempo, e mentre Gaudenzio lavorava nel suo studio, egli andava a prendere appetito in lunghe passeggiate nei bellissimi dintorni della campagna, poscia in compagnia del notaio divideva le ore della sua giornata fra la bottega del farmacista e le lunghe stazioni sulla piazzuola innanzi alla chiesa, per finire la sera in canonica dal parroco, che era lietissimo d'aver acquistato una nuova recluta fra i giuocatori di tarocchi.

Il signor Domenico - lo speziale - non aveva tardato ad andar poco a versi di Gerolamo; ma questi, per riguardo al padre, dissimulava i suoi sentimenti, o almeno non li manifestava che col silenzio, rivolgendo egli rarissime volte la parola a quel potente personaggio del paese.

Del resto la vita che conduceva lo zio Gerolamo era davvero quella d'un povero diavolo che possiede tanto appena da far bollir la pentola tutti i giorni. Nessuno sapeva dove avesse impiegati, nè come quei pochi capitali de' cui frutti viveva; ned egli confidavasi con nessuno, e quando qualche indiscreto accennava di voler fare interrogazioni a tal proposito, Gerolamo s'affrettava a fare una di quelle sue burbere risposte, che levavano la voglia a chicchessia di insistere e di tornare altra volta su simil discorso.

Di quando in quando egli si allontanava dal paese; prendeva il baroccio di Barbetta, e si faceva condurre alla più vicina stazione di via ferrata, donde recavasi poi, niuno sapeva il dove, ma tutti sussurravano che ci andava pei suoi affari.

Poichè una simil cosa si fu rinnovata due e tre volte, come vi potete pensare, divenne oggetto delle chiacchere del villaggio: e la signora Genoveffa, subodorato un mistero, venne in una maledetta curiosità di scoprirlo. Vedremo più tardi in qual modo essa procedesse a quest'intento, e che riuscita avessero i suoi tentativi.

Colla famiglia dei nipoti, Gerolamo tenne interrotte relazioni. Le poche volte che andava nella casa loro, mostrava troppo apertamente che la compagnia del sor Giacomo e le chiaccole della sora Genoveffa lo impazientavano a dismisura: quando i Varada andavano a trovarlo nella sua cameretta, li accoglieva con si poco garbo che, anco essendo i più duri di cotenna, bisognava sentirne l'umiliazione; onde, sicome in fin dei conti non credevano di avere ragione nessuna da ingoiare con coraggiosa tolleranza i rabbuffi e i disdegni di codesto zio bisbetico, si ripeterono il proverbio: chi non ci vuole non ci merita, e misero un punto fermo alle loro visite, e lo zio rese loro con perfetta reciprocanza il concambio.

Andavano però a trovarlo ancora tal fiata, le ragazze, Enrichetta specialmente, della cui allegria e grazia e gentilezza mostrava forte piacersi il vecchio zio. Giovanna poteva meno frequentemente recarsi da lui, perchè le faccende domestiche e i lavori continui che a lei si accollavano la tenevano schiava in casa; nè ad essa, come succedeva con Enrichetta, Gerolamo faceva istanza affinchè tornasse, perchè se la sventura della poveretta gli faceva compassione, e s'egli la trattava quindi con una certa dolcezza che era ammirevole pel suo carattere e per le sue abitudini di bizzarria, non era pur tuttavolta che la presenza e la compagnia di quell'infelice fossergli tanto gradevole da volersele procurare.

X.

Pochi giorni dopo il suo arrivo, lo zio Gerolamo si credette in obbligo di recarsi a visitare il marchese di Roccavecchia. La nobile famiglia aveva delle obbligazioni a quella plebea dei Porretta; ma anche quest'ultima doveva alla prima una certa dose di riconoscenza per benefizii ricevutine. Gerolamo adunque si vestì de' suoi abiti di rispetto, ed appoggiato a quel suo bastone, onde non si scompagnava mai, s'avviò lentamente su per la salita che conduceva al castello, il quale dominava da un'eminenza il villaggio schierato ai suoi piedi.

Il marchese accolse il figliuolo d'un antico agente della sua casa, il nipote di quello che durante la rivoluzione aveva salvati non i possessi, ma persino i redditi dei Roccavecchia in esilio, lo accolse con quella affabilità di protezione che ha un superiore verso un servo favorito. Nella gentilezza con cui il marchese fece avanzare nel suo salotto il reduce Gerolamo, con cui rispose per un chinar della testa al saluto di esso, con cui gli sorrise additandogli una seggiola innanzi a sè ove sedere, stava tutta la superiorità d'un semidio da sangue azzurro nelle vene verso un uomo di sangue comune, tutta la degnazione di chi da una sfera più alta consente generosamente ad abbassarsi al livello inferiore di colui che gli viene innanzi. Il marchese adoperava così senza precisa determinazione, senza nè anco accorgersene, per forza d'abitudine istillatagli dagli esempi paterni fin dall'infanzia, accettata da tutti coloro che lo attorniavano, tanto invecchiata ch'era proprio diventata natura. Era una tinta leggiera, di cui coloro che gli eran presso abitualmente non se ne accorgevano neppure, o pareva loro la cosa la più naturale del mondo; una certa maniera di sogguardare chi gli stava dinanzi, di rivolgergli la parola, di sorridere, di dar la mano, di ascoltare i discorsi, la quale il marchese non aveva più quando si trovasse insieme con persone a lui uguali in nobiltà, e la quale non impediva che in tutto quel circondario il vecchio aristocratico avesse la faccia della persona più a garbo e più gentile che si potesse vedere.

Prima di partire per le straniere contrade, avvezzo nella propria famiglia a vedere riconosciuta la prosapia de' Roccavecchia come qualche cosa di superiore, Gerolamo, quella certa tinta di protezione, non l'avrebbe nemmeno avvertita nelle maniere del marchese, od, avvertitala, non se ne sarebbe sentito menomamente offeso; ma ora, invece, dopo aver visto tanto di paesi e conosciuto nel mondo alle prove il vero valor della gente, e preso di sè stesso nella lotta cogli avvenimenti un maggiore concetto, non solo egli sentì nelle graziosità del marchese la boria aristocratica, ma n'ebbe ferita la fierezza del suo carattere e l'irritabilità del suo umore.

- Oh che si crede questo vecchio buon da nulla che io sono ancora a' suoi servizi ed a vivere de' suoi stipendi? Pensò fra sè corrucciato Gerolamo. Sono un uomo come lui, e meglio forse di lui, perchè ho lavorato di più ed ho imparato eziandio di più.

Le sue risposte al marchese, per quanto egli si frenasse, furono quindi improntate d'un'asciuttezza e d'una sciolta franchezza che il marchese, stupito e poco lusingato, trovò accostarsi molto all'impertinenza. Da ciò ne nacque che il vecchio nobile lasciasse un poco della sua squisita forbitezza di forme, e codesto rendesse da parte del plebeo più vibrato e meno riguardoso ancora il discorso. Sapete come avviene quando fra due uomini casca e germoglia e si sviluppa rapidamente un seme di contrasto. Non era un quarto d'ora che quei due vecchi si parlavano, che già consideravansi come due avversarii. Una barriera erasi innalzata fra di loro e dall'una e dall'altra parte di essa, si aveva una matta voglia di pungere e di umiliare il contradittore a vicenda.

Il marchese non aveva potuto a meno che cadere nel suo discorso favorito, che era la satira politica delle cose del giorno, e poichè sentì, anzi vide che al suo interlocutore rincrescevano, fece più malignamente acuti gli epigrammi all'Italia novella. Gerolamo dal suo soggiorno all'estero aveva attinto opinioni più liberali di quelle che avesse prima di abbandonare il paese: oltre ciò, l'irritazione che gli era nata contro l'orgoglioso aristrocatico lo spingeva a contrastargli più vivamente ed anco in quelle cose in coi forse non aveva torto, e Gerolamo eziandio avrebbe potuto consentire. Ne nacque una discussione, che fu impedita di diventare un alterco soltanto dalla squisitissima educazione del marchese e da un piccol resto che era stato nel figliuolo del fattore di casa Roccavecchia di quell'ossequenza che i suoi maggiori avevano sempre avuto pei nobili padroni.

Quando si separarono, il marchese e lo zio dei Varada erano due avversarii irriconciliabili. Si salutarono freddamente con tutte le forme della civiltà; ma il nobile castellano disse fra sè:

- Che tu non possa mai più mettere i piedi in casa mia, vecchio matto d'un liberale!

E Gerolamo a sua volta pensava:

- Prima che io venga di nuovo nelle tue sale, vecchio babbuino d'un aristocratico, ce ne ha da passare di acqua sotto il ponte!

La sera stessa, giuocando a tarocchi in casa il parroco, lo zio dei Varada contò il suo abboccamento col marchese, e sentenziò quest'esso un superbione insopportabile, un retrivo di tre cotte, che si credeva d'esser chi sa chi, e che avrebbe voluto far tornare indietro il mondo, per rivivere in quell'epoca sciagurata, quando loro nobili avevano tutti i privilegi.

A questa uscita, lo speziale tacque diplomaticamente, e parve tutto assorto nella contemplazione delle sue carte; il parroco si mostrò molto impacciato, e il notaio colla sua usata tolleranza, disse:

- Bisogna lasciare a ciascuno le sue opinioni, e rispettarle quando non fanno del male. Il marchese, checchè si pensi e si voglia, è un galantuomo....

Allora il parroco ebbe il coraggio di soggiungere:

- Sì certo, fa molta carità, e per tante povere famiglie del paese è una vera provvidenza.

Gerolamo non disse più nulla, ma borbottò non so che fra i denti, giuocò di traverso tutta la sera, e fu d'un umore più bizzarro del solito.

Da canto suo il marchese appena rivide i Varada, dopo il colloquio col loro zio, disse loro con amara ironia:

- Ho visto vostro zio. Cospetto! Gli è un liberalone di primo stampo.

I Varada se ne scusarono umilmente come di una sciagura che può capitare a qualunque senza sua colpa. Ma questa non fu ragione perchè i loro rapporti collo zio Gerolamo diventassero più frequenti o più affettuosi. Avrebbero anzi proibito affatto Enrichetta di mettere i piedi in casa dello zio, se la ragazza non si fosse ribellata a quest'ordine, e come quella, che in fin dei conti otteneva di fare tutto ciò che voleva, non avesse persuasi padre e madre a lasciarla visitare il vecchio Gerolamo, quando le talentava.

XI.

Don Pasquale usava dir sempre la prima messa. Non era ancora spuntato il sole quando egli celebrava il sacrificio incruento alla dubbia luce delle candele che tremolavano nel buiccio del crepuscolo, in presenza di tre o quattro femminette che borbottavano dei paternostri.

In una di quelle mattinate di maggio in cui nei paesi montanini la temperatura è ancora fredduccia e l'aria sottile, quando si vede ancora il rifiato uscir della bocca di chi parla, quindici giorni dopo l'arrivo dello zio Gerolamo, il buon parroco era, secondo l'usato, a dir la sua messa all'altare della Madonna dei sette dolori. Il giorno tardava quel di più del solito a comparire, perchè nuvoloso era il cielo ed anzi una fina pioviggina gocciava chetamente facendo per l'umidità parer più fredda ancora la temperatura. Lo scarso numero degli uditori di quella messa mattiniera era anche più scarso del solito: e don Pasquale, venendo dalla sacristia, non aveva veduto che due o tre forme di donne inginocchiate nell'ombra, cui egli non riconobbe e, come era suo costume, non cercò nemmanco di riconoscere.

Quando aveva incominciato la sua messa, ecco che da un angoluccio presso al confessionale che si appoggiava al pilastro d'un'arcata, egli sente suonare una tosse profonda, penosa, da stringere il cuore d'un essere pietoso.

- Questa è la povera Giovanna, ci scommetto: disse il parroco fra sè con molto rincrescimento. E voltosi un poco della persona, fece guizzare uno sguardo verso quella parte. Vide colà prosternata sulle ghiacciate lastre di marmo del pavimento una massa che avreste detto un mucchio di panni, se a rivelarla una creatura umana non ci fosse stato il bisbiglio d'un'ardente preghiera e di quando in quando lo scoppio di quella tosse così dolorosa.

- È proprio lei; continuò a parlar seco stesso il buon sacerdote, distratto alquanto dal suo uffizio per la tanta pietà che glie ne nacque nell'anima. Già alzata a quest'ora, là, inginocchiata sull'umido e freddo spazzo! Roba da far male anche ad un sano.... Ora la mi sentirà.

Non oserei dire che don Pasquale affrettasse la celebrazione della messa per togliere più presto da quella perniciosa positura la giovane infermiccia: ma il fatto è, però, che la sua messa, non mai lunga, durò quella mattina meno ancora del solito.

Partendosi dall'altare, il parroco fece il giro del pilastro - cosa insolita - per passare vicino a Giovanna nel recarsi alla sacristia, e quando fu presso alla poveretta sempre inginocchiata a quel modo, le disse:

- Vieni in sacristia; debbo parlarti.

Giovanna fe' cenno di sì, e quando il parroco fu entrato nella sacristia, ella, finite le orazioni ch'era in via di dire, si fece il segno della croce, ed alzatasi a fatica, si recò zoppicando dove don Pasquale stava aspettandola.

Il parroco, già svestitosi delle sue paramenta, era là, appoggiato alla spalliera di legno grossolanamente scolpito di una gran cassapanca, e faceva girare la sua tabacchiera tra le dita con una prestezza che in lui era segno di contrarietà.

Quando vide accostarglisi la Giovanna, si pose a crollare il capo con aria di scontentezza, mentre sulla sua fisonomia appariva l'interessamento e la compassione che invano avrebbe voluto nascondere per quella infelice creatura.

- A quest'ora, malaticcia come sei, già alzata! Esclamò il parroco in tono di affettuoso rimprovero.

- Mi alzo sempre all'alba, rispose umilmente Giovanna, perchè, se non facessi così, come avrei tempo a far tutto quello che devo, io che sono troppo lenta e incapace!

- Almeno non dovresti uscir fuori con questo umido, e cacciarti nella nostra chiesa, che è fredda come una ghiacciaia.

- Sentivo tanto bisogno di udire una messa!

- Eh la messa!... Cominciò con espressione d'impazienza il prevosto, ma poi tosto si corresse, e soggiunse col solito accento pacato: va benissimo. È sempre una buona cosa l'udir messa, ma non è questa la sola che si dica.

- Più tardi non avrei potuto venirci, e poi, desidero anche....

Sembrò esitare.

- Che cosa? che cosa? Domandò con sollecitudine il parroco.

- Che la mi faccia la carità di udirmi in confessione.

- Ah si. Eccomi pronto. Non ho ancora fatto colazione, non ho preso nemmanco il caffè, ma non monta... Per te, cara la mia figliuola....

- No, no: interruppe vivamente l'umil Giovanna; per me non voglio che la si disturbi.... Si figuri se occorre!... Io vado in chiesa e l'aspetterò al confessionale. Ella faccia con tutto suo comodo, e quando potrà, mi farà la grazia di venire.

E come se non avesse più voluto ascoltar altro, ella si avviò per tornare nella chiesa; ma don Pasquale tese una mano, e l'arrestò pigliandole un braccio.

- Fermati: le disse: vuoi tornare in quel freddo che ti fa male?

Toccandone i panni colla mano onde avevale abbrancato il braccio, egli sentì che erano bagnati.

- Disgraziata! Esclamò. Tu sei venuta in chiesa senza ombrello....

- Gli ombrelli son disopra, e per andarli a cercare avrei potuto turbare il sonno a babbo e mamma e ad Enrichetta....

- E te ne sei stata cosi cogli abiti immollati addosso tutto questo tempo! Ma tu sei matta, ma tu vuoi ammazzarti?....

- Oh no, signor parroco. Ho pregato tanto la Madonna. Essa mi aiuterà.

- Ti aiuterà, ti aiuterà!... Aiutati che Dio t'aiuta: dice il proverbio... Intanto non ti voglio lasciar cosi con tutta questa roba immollata addosso. Vieni in canonica; troveremo una buona fiammata di sarmenti in cucina ed una chicchera di caffè caldo che avrà fatto Margherita....

- Ma.... sussurrò Giovanna, resistendo alla mano del parroco che voleva trarla nella direzione della porticina verso cui egli s'avviava.

- Ma la confessione, vuoi dire? Eh! ti capisco. Ti confesserò la stessa cosa nel mio tinello, seduto comodamente sul mio seggiolone, e Dio, credilo pure, ci vedrà e ci assisterà quel medesimo.

Giovanna seguì il prevosto, il quale, uscendo per la piccola porta della sagristia, la condusse in pochi passi a quella dell'attigua modesta casa parrocchiale.

La grossa Margherita brontolava già, appunto perchè il padrone tardasse a venire per prendere il caffè ch'essa aveva fatto. Nell'alto camino della cucina, due tizzi raccostati conservavano un po' di fuoco, al quale scaldava la sua pancia rotonda la cuccuma di latta gialla. La vecchia fante non avrebbe mancato alla sua buona abitudine ch'ella di certo scambiava per un dovere: quella di accogliere il parroco al suono di qualche rimprovero, se il parroco medesimo glie ne avesse lasciato il tempo; ma don Pasquale, con una decisione di comando, di cui si serviva assai raramente, appena entrato, disse alla Margherita, piantata secondo il solito colle mani in sui fianchi:

- Getta una brancata di sarmenti sul fuoco. È fatto il caffè?...

La serva voleva rispondere, e come!... Ma egli non glie ne diede il tempo.

- Si?... va bene; metti due chicchere sopra un vassoio, e ne prenderà una tazza madamigella Varada.... Porta una seggiola qui presso al fuoco.... presto che la ci si sieda. Ella ha tutte le vesti bagnate addosso....

- Ih che furia! Esclamò Margherita; ih quante cose! Non posso mica far tutto in una volta: non ho cento mani, nè cento gambe.... Pigliar la fascina, le tazze, la seggiola....

- Incomincia dalla fascina: disse il buon prete colla sua virtuosa pazienza: dopo ci darai il caffè: quanto alla seggiola, to' la prendo io.

E cacciatasi in fretta nel naso la presa che si trovava ancor fra le dita, abbrancò la seggiola per la traversa della spalliera, e la recò presso al camino.

Chi sa quali e quanti argomenti di brontolio avrebbe trovato Margherita nella parole e nell'atto del parroco, se in quella il suo sguardo non fosse caduto sulla povera Giovanna, che se ne stava presso la porta tutto mortificata, umile e peritosa. Vistala così pallida che era perfin verde in volto, tremolare sotto i brividi che le correvano le gracili membra, Margherita, in fondo una buona donna, ebbe pietà della sciancata, e smessa ogni altra parola, si credette in obbligo di dirigere alla poveretta una specie di sorriso e qualche incoraggiamento.

- La venga avanti, madamigella. Proprio ch'ella è conciata come un barboncino che esce dall'acqua. Lasci a me che le vengo facendo tosto una vampa che il falò della festa di San Michele gli è nulla in paragone.

Prese un fascio di ramoscelli, li ruppe e gettò sui tizzi accesi, vi aggiunse un po' di scheggie, una manciata di truccioli, ed in un attimo ebbe fatto levare la fiamma più allegra e più vivace la cui vista possa rallegrare un miserello dalle membra intirizzite.

Giovanna, fatta sedere presso quel fuoco riconfortatore, schiuse le labbra ad un pallido sorriso di benessere, e quando ebbe preso il caffè caldo che Margherita s'affrettò a mescerle ed a porgerle, si sentì veramente rinfrancata.

- Scusi, diss'ella allora al parroco, timidamente secondo il suo solito; non vorrei esserle di fastidio, ma s'ella potesse farmi tosto la carità di cui la ho pregata.... Mi rincresce andar tardi a casa e mancare al mio dovere.

- Bene, bene, hai ragione. Eccomi qua subito, vieni nell'altra stanza.

La condusse nel tinello, e sedutosi sul seggiolone impagliato che stava sotto ad un umile crocifisso di legno appeso alla parete, s'apprestò ad udire quella poveretta in confessione.

Essa, Giovanna, si gettò in ginocchio ai piedi del parroco e incominciò senz'altro.

L'anima di quella infelice era essenzialmente religiosa.

Nelle sublimi espansioni, nei conforti divini della religione trovava la misera l'unico rifugio del suo cuore appassionato, l'unico sfogo del suo bisogno d'amore. Amò veramente, come dice il catechismo, Dio oltre ogni cosa e il prossimo come sè stessa, anzi più che sè stessa, imperocchè per sè medesima avesse ancor ella parte di quel disprezzo che avevano gli altri, e si ritenesse per la più infima e la meno degna creatura di Dio.

Don Pasquale ascolto sorridendo benignamente le pretese colpe di quell'anima innocente, e più volte si sentì commosso alla bontà di quell'essere diseredato d'ogni gioia della vita, d'ogni vantaggio della gioventù. Si affrettò a dare l'assoluzione, a farla sorgere da' suoi piedi e sedere sopra una seggiola vicina a lui, e la ritenne poscia in amichevole colloquio mercè il quale accortamente egli seppe farsene dire, senza ch'ella se ne accorgesse, tutti i tormenti, tutte le persecuzioni ond'era fatta segno in famiglia.

Passò così un'ora, e il loro colloquio avrebbe durato anche di più se, avendo gettato lo sguardo sopra l'orologio a pendolo che segnava l'ora in alto della sua lunga cassa dei contrappesi, Giovanna, atterrita di dover rientrare tanto tardi a casa, non si fosse affrettata a partire.

Diffatti Geltrude, sdegnata di aver dovuto essa stessa accendere il fuoco e preparare il caffè, accolse la Giovanna con un rabbuffo, che riempì di lagrime gli occhi e di amarezza il cuore alla misera sciancata.

Ma le confidenze involontarie che coll'arte delle sue interrogazioni don Pasquale era riuscito a strappare alla sua penitente, avevano fatto una profonda impressione nell'anima del buon parroco, già piena cotanto di pietà per quella creatura infelice.

Chiunque si sarebbe accorto che don Pasquale andava ravvolgendo nella sua mente qualche idea straordinaria. La sua tabacchiera si apriva e richiudeva troppo frequentemente fra le sue dita irrequiete; la attenzione ch'egli fece all'asciolvere messogli innanzi dalla Margherita era troppo inferiore ai meriti della cuoca ed al suo ordinario appetito. La placida fisionomia del suo volto, rotondo come quello del sole dei tarrocchi, lasciava scorgere una preoccupazione gravida di qualche partito da prendersi. E ad un tratto questo partito fu preso. Gettò sulla tavola la servietta che aveva sulle ginocchia, battè un colpo secco colle dita sul coperchio della scatola, e sorse come spinto da una molla.

- Santa Madonna! esclamò Margherita attonita vedendolo andare a prendere il tricorno ed avviarsi con passo accelerato verso la porta di via. Che cosa le è capitato? Dove corre con tanta furia?

Don Pasquale non rispose, dondolò alquanto la testa con espressione che significava: "Eh! so ben io quel che voglio," e venuto fuori, traversò la piazza, si diresse alla casa, dove sopra l'uscio d'una bottega, in mezzo a due caducei, brillava in lettere rosse su fondo nero il nome di Domenico Tartini, lo speziale.

Il parroco aprì l'invetriata della bottega e cacciò dentro nient'altro che la testa. Al tintinnio del campanello, cui il battente aprendosi faceva suonare, alzò il capo Domenico, che stava dietro il banco seduto ad esaminare il suo libro di ragioni.

- Buon giorno, prevosto: disse lo speziale. Venite avanti.

- No; cerco del sor Gerolamo: e guardavo se gli era qui dentro. Sapreste dirmi se sia in casa?

- Non saprei. Probabilmente sì. Se volete, mando il garzone a chiamarlo.

- No, no; vado io stesso. Grazie.

E ritrattosi di mezzo l'uscio, lo richiuse, e per la porticina che stava allato alla bottega entrò in casa.

- Che cosa può egli volere dal sor Gerolamo, il parroco, a quest'ora? Si domandò lo speziale curioso come egli era; e venne sul passo dell'uscio della sua bottega per vedere quando il prete sarebbe venuto fuori.

Dall'altra parte della piazza sullo scalino della porta della canonica c'era Margherita, non ancora riavutasi affatto dallo stupore che le avevano prodotto le nuove maniere del suo padrone.

Lo speziale aveva voglia d'interrogare, Margherita aveva uguale la volontà d'essere interrogata. Fecero ciascuno la metà del cammino e s'incontrarono nel centro della piazza.

- Il parroco è venuto a cercare del signor Gerolamo con un'aria così pressata che mi sorprese non poco: disse lo speziale.

- Ah! egli è andato dal sor Gerolamo? Domandò la fante, curiosa al pari del farmacista.

In breve quest'ultimo seppe che alla mattina di buon'ora la primogenita del segretario comunale erasi recata in canonica, che ci aveva avuto col parroco un colloquio di oltre un'ora, e che in seguito di esso don Pasquale era sempre stato sopra pensiero, finchè era uscito con subita risoluzione per venire dallo zio di Giovanna.

Bisognerebbe non conoscere affatto la vita dei villaggi per non indovinare che questi semplici avvenimenti eccitarono la fantasia del bravo speziale e della valorosa serva del parroco a fare mille assurde supposizioni, e destarono in ambedue un matto desiderio di conoscere il segreto che avevan per certo si nascondesse lì sotto.

Non bastavano tuttavia questi eccitamenti alla loro curiosità. Mentre discorrevano ancora in mezzo la piazza, ecco venir fuori dalla porticina della casa dello speziale il parroco collo zio Gerolamo, e questi, togliendo commiato dal primo, dirgli ad alta voce che Margherita e Domenico poterono udire:

- Lasciate fare a me. Corro, parlo, faccio, e vedrete che tutto andrà bene.

- Farete un'opera buona, Gerolamo: disse don Pasquale.

- Anzi farò un vantaggio a me, e vi ringrazio di cuore di avermi suggerito codesto.

Si strinsero la mano, e il parroco tornò a casa sua, il sor Gerolamo col suo inseparabile bastone s'avviò giù per la strada principale del villaggio.

Che cos'era quell'opera buona? Dove voleva andar subito il sor Gerolamo? In che bisogna sperava egli riuscire? Queste erano le domande che si faceva la curiosità, spinta all'ultimo grado, del farmacista il quale, piantato a mezzo della piazza, seguitò collo sguardo lo zio Gerolamo, e lo vide fermarsi e battere all'uscio della casa dei Varada, ed entrarvi, appena gli fu aperta.

Una delle cose che desiderava sapere, aveva già Domenico appreso: dove Gerolamo aveva da andare. Ma per che cosa? Era questo il mistero ch'e' si rodeva di scoprire. Se i miei lettori hanno un minuzzolo di questa curiosità che aveva lo speziale, io posso soddisfarli subito, facendoli assistere col solito privilegio di romanziere all'abboccamento che aveva avuto luogo fra il parroco e il sor Gerolamo.

XII.

Il notaio Tartini era fuori di casa. Gerolamo s'annoiava, guardando il cielo nuvoloso traverso il fumo grigio della sua pipa, seduto presso la finestra, di cui l'aria umida gli aveva fatto chiudere le invetriate.

- Si può? Disse la voce franca e leale del parroco, che, trovando aperto l'uscio del quartieretto, s'era introdotto nella prima stanza.

- Chi è là? Rispose Gerolamo, burbero come un caporale austriaco. Se cercate del notaio, egli non c'è: tornate più tardi.

Don Pasquale mostrò la sua buona faccia di vecchio frammezzo l'uscio della camera di Gerolamo.

Per lo zio di Giovanna il parroco non poteva giungere in momento più opportuno. E' si sentiva una grand'uggia addosso, e non sapeva dove andare, e non sapeva che cosa fare per torsela. La presenza di quel cuorcontento di don Pasquale gli parve in quel punto una ventura.

Si alzò egli da sedere, e fattosi incontro al prete, gli prese una mano e lo trasse dentro con festosa ed amichevole accoglienza.

- Bravo, don Pasquale! Gli è proprio un buon vento che vi porta. Venite a fare un po' di compagnia ad uno splenetico che sta qui a rodersi il fegato da solo. Sedete... lì... così... Fa un tempo scellerato. Sapete che ho avuto una tentazione maledetta di accendere il fuoco e mettermi la vesta da camera coll'ovatta? E la chiamano primavera codesta? Tutto adunque è andato sottosopra in questo paese eh? Quand'ero giovane, in questi giorni di maggio si andavano a cogliere le mammole su per la montagna. E io che sono venuto qui per godermi un bel sereno di cielo! Tanto valeva che restassi fra la nebbia di colaggiù! Piove! Va a passeggiare per la campagna!...

Si rivolse quasi con accento di sfida e di minaccia al buon don Pasquale che certo non ci poteva nulla.

- Che cosa ne dite eh?

Il parroco fu lietissimo di trovare Gerolamo in quella disposizione d'animo. Mai cattivo umore di qualcheduno non rallegrò il benevolo spirito d'un galantuomo, come allora avvenne al nostro buon don Pasquale. Le sue grosse labbra bonarie sorrisero; offrì con premura una presa di tabacco all'interlocutore, e con aspetto e con espressione di vero soddisfacimento, infilzò secondo il suo solito due o tre interrogazioni:

- Ah dunque, voi vi annoiate molto? Vi pesa il viver solo eh? Trovato che due vecchi, come voi e Gaudenzio insieme, non si possono fare quella compagnia che dà una famiglia? Vi rincresce eh non aver una famiglia? Che cosa dareste per averne almeno uno scampolo? Sentite voi tutta la vacuità della vita non circondata da affezioni? Va bene, va benissimo.

Gerolamo guardò il prete coll'aria d'un mastino che sta per azzannare i polpacci d'un povero entrato nella cascina commessa alla sua guardia.

- Bene un corno! Esclamò egli, interrompendo con una di quelle bestemmie che gli scappavano alla sera, quando le sviste del buon Gaudenzio suo socio nel giuoco gli facevano perdere bagatto. Che cosa mi venite a contar qui, sor Prevosto? Sì, mi annoio; sì, mi pesa questa vita di solitudine; sì, darei questa mano e questa pipa per avere qualche birbante di figliuolo che mi facesse impazzare. Sono venuto apposta in questo brutto buco di paese perduto, che nemmanco il diavolo lo viene a visitare. E che cosa ho da farci se ho trovata una famiglia d'egoistoni che amerebbero il somaro di zio quando fosse carico d'oro? E codesto a me non mi fa. Avete capito? Or dunque non c'è a dire nè ridire, e bisogna striderci; e se voi avete un gran di sale in zucca, signor Prevosto, non venite a rompermi le tavernelle con di queste ragioni, che le so meglio di voi.

Don Pasquale seguitava a sorridere. Aprì la tabacchiera, rimestò in essa la polvere, ne richiuse il coperchio, vi battè su colle quattro dita, fece girare lestamente la scatola tra il pollice e l'indice, e riprese, niente sgomentito dall'intemerata di Gerolamo.

- Siamo d'accordo. Ma che cosa direste se io trovassi modo d'improvvisarvi lì sul momento una piccola famigliuola? Voi e Gaudenzio siete come due fratelli. Buono! Avete mestieri di qualche affetto figliale. Io ve l'ho trovato. Dicevate adesso adesso che vi farebbe tanto gusto di avere qualche birbone di figliuolo; che viso fareste se io vi mostrassi il modo d'avere un angiolo di figliuola?

Gerolamo allargò tanto d'occhi.

- Che figliuola d'Egitto? diss'egli bruscamente. Spiegatevi, che io non ho mai valuto niente a indovinare gli enimmi.

- L'enimma è subito spiegato. Voi avete de' nipoti....

- Ah non parlatemi de' Varada: interruppe il vecchio burbero. Guardate quel maledetto tempo! Il giorno in cui sono arrivato mi rideva il più graziosamente dinanzi col più splendido sole, ed ora ecco in che modo mi fa il broncio colla sua mattinata da novembre in pieno maggio. Ebbene, quei signori miei nipoti, verso di me, furono tale e quale. Una festa per accogliermi! Sei cazzeruole sul fornello, la veste di seta sulle spalle di Genoveffa, sulle faccie il sorriso piacentiere di chi aspetta l'eredità. Appena ebbi detto che ero uno spiantato, si fece nuvolo nella loro anima e sul loro muso; mostrarono rimpiangere il pranzo che m'avevano dato, il vino che avevo bevuto, la cortesia che m'avevano usata, e mi posero fuori della loro casa. Vadano al diavolo essi e la loro parentela, e mi caschi il naso se non gliela farò pagare tosto o tardi!...

Don Pasquale mise delicatamente una mano sull'avambraccio dello zio Gerolamo, e gli disse in tono piano e soave:

- No, pagare, amico mio. Sapete voi qual è il dovere di cristiano?...

- Ah! lasciatemi tranquillo col vostro dovere di cristiano. Volete farmi una predica adesso?

- No, niente affatto; tutt'altro! Avete mai provato che c'è un modo di rispondere al male, che confonde ancora di più chi ha torto verso di noi e che più giova all'anima nostra?

- L'anima! L'anima!... Borbottò Gerolamo, e avrebbe forse soggiunto qualche grossa bestialità se il parroco non si fosse affrettato a continuare, colle sue interrogazioni:

- Nella vita sarete stato offeso molte volte, non è vero? Non vi è capitato di dover poi rendere qualche servizio a chi vi aveva fatto danno o dispiacere? Scommetto di sì. Bene! Non avete voi sentito allora una buona dolcezza? E poi; ora io non vengo mica a dirvi di far qualche cosa pel sor Giacomo e per sua moglie. Oibò! Ma dei torti di essi vorreste voi farne colpa a tutta la famiglia? I figliuoli innocenti hanno essi da portare il peso del fallo paterno?... Ora, il sor Giacomo ha due figliuole.

Gerolamo drizzò, come si suoi dire, le orecchie, e mostrò di prestar molta ed interessata attenzione.

- Ebbene? Diss'egli come per incoraggiare il buon prete a proseguire.

- Ebbene: vorreste averla amara anche con loro?

- Niente affatto. Esse veramente non hanno la menoma colpa. Furono per me e sono affezionatissime l'una e l'altra; le vedo sempre con piacere quando vengono a trovarmi; e venissero anche più sovente, non mi lamenterei punto.

Don Pasquale tirò un lungo rifiato, e prese nella scatola un pizzico di tabacco.

- Benone! Disse egli con volto più sorridente che mai. Siamo a cavallo. Che vi parrebbe se vi proponessi di prendere con voi una di quelle ragazze a farvi da figliuola?

Gerolamo fece un sobbalzo.

- Quale? Enrichetta? Domandò egli vivamente.

- No, Giovanna.

- Uhm! cette laideron! Borbottò fra i denti Gerolamo, facendo una smorfia che prometteva poco di bene.

Ma il buon prete coll'ardore di chi raccomanda una cosa che proprio gli sta a cuore:

- La è tanto brutta, non è vero? Voi volete dirmi che non è piacevole aversi dinanzi un povero essere così maltrattato dalla natura, eh? Ma se sapeste in quel mostricciuolo di corpo che anima eletta è venuta ad albergare! Voi avete bisogno d'essere amato, non è così? E dove troverete un affetto più illimitato, più devoto, più sagace nel servirvi? In nessun luogo, ve lo dico io.

Parlò per un quarto d'ora, interrogando a suo modo, rispondendosi, esclamando, battendo sulla tabacchiera, scaldandosi come un avvocato che perora; ma un avvocato in buona fede che ha la persuasione sulle labbra e nell'animo - quella persuasione che si comunica e conquide soavemente l'anima dell'ascoltatore.

Lo zio Gerolamo era già mezzo convinto e mezzo commosso. Guardava il fumo grigio della sua pipa, e traverso i vetri le nuvole del cielo piovoso. Sentiva accrescersi nel cuore quel certo istinto d'affetto protettore che hanno tutti gli uomini d'età matura; pareva che nel cranio gli si gonfiasse il bernoccolo della paternità; si pose a pensare ad un tratto come una mano amorevole, la quale avesse cura delle sue biancherie e della sua roba, gli facesse la rimboccatura del letto la sera, gli preparasse la vesta da camera e le pantoffole da essa medesima ricamate, farebbe assai meglio della mano mercenaria, distratta e mal destra d'una fante. Sorrise, pensando a un tratto che quella mano medesima avrebbe potuto caricargli e porgergli la pipa.

Don Pasquale, che lo vide sorridere, credette la causa perduta; ella era invece guadagnata.

- Ma ho torto ad insistere sui vantaggi che ne avreste voi: continuò il parroco più infervorato; un uomo vostro pari è egli un egoista come gli altri? Ma volete sentire il vero argomento per farvi cedere? Eccolo qui. Non è per voi, è per quella infelice che vi domando l'opera di carità di torla della sua famiglia e prenderla con voi. Volete che la poverina muoia in poco tempo in mezzo ai maltrattamenti? Non avrete pietà d'una miserella, che in casa è peggio della Cenerentola della favola? Badate bene a quel che dico. Se Giovanna non vien fuori della sua famiglia, non passa un anno che la va a finire tutti i suoi guai al cimitero.

- Possibile! Esclamò Gerolamo.

E il prete a contargli tutto ciò che aveva visto, tutto quel che aveva indovinato; tutto quanto era giunto a spillar fuori da lei medesima quella stessa mattina.

Lo zio, che alcuna cosa già aveva notato di codesto, fu sdegnato contro i tristi genitori, coi quali aveva già una ruggine che non era acconcia a mitigarne il giudizio ch'egli portò dei fatti loro. Senza più dir parola, s'alzò vivamente, lasciò la pipa, prese il cappello e la mazza, e s'avviò con passo risoluto, mentre il parroco gli teneva dietro stupito e senza comprender bene.

- Che cosa volete fare? Domandò egli timidamente.

- Correre da quei cannibali. Domando loro la figliuola, e me la conduco via sull'istante.

Si arrestò ad un tratto, sovraccolto da un pensiere.

- E se me la rifiutassero? diss'egli.

- Spero di no, rispose il parroco. Credo che loro torni sommamente a grado l'esserne sbarazzati, avarucci come sono...

- E se me la rifiutano, corpo di bacco! Gridò lo zio brandendo il suo nodoso bastone, faccio un chiasso del diavolo, me la porto via per forza, e li mando tutti in quel paese.

- Piano, piano! Disse il parroco, per temperare quel subito bollore. Non facciamo guai, chè sarebbe peggio...

Ma lo zio Gerolamo già correva giù delle scale.

- Mi raccomando: disse ancora don Pasquale, raggiungendo l'impetuoso vecchio nell'andito della porticina. Usate calma e prudenza.

E fu allora che, uscendo fuori sulla piazza, Gerolamo pronunziò quelle parole che lo speziale e la serva del parroco avevano udite.

Ma l'usare calma e prudenza, pel carattere bizzarro dello zio Gerolamo, era più facile il prometterlo che il farlo. Picchiò risolutamente a modo suo all'uscio della casa dei Varada, e chi venne ad aprirgli, fu, come ben era da aspettarsi, Giovanna.

Costei, venuta a casa dopo la confessione e buscatosi per primo saluto il rabbuffo della Gertrude, aveva appena preso tempo di gettar là per là il fazzoletto onde s'era avviluppata le spalle, e s'era posta con gran furia a lavorare alle faccende di casa.

Ma il padre aveva rimbrottato la fante perchè sì tardi gli avesse recato il caffè, e questa si era trionfalmente scusata accagionandone l'uscita di Giovanna, che tanto aveva indugiato a tornare; ma Enrichetta aveva dovuto scendere ella medesima a prendersi l'acqua tepida che soleva portarle Giovanna, onde vi lavasse quel suo bel visino; ma la signora Genoveffa aveva dovuto aspettare cinque minuti prima che Giovanna fosse lì, scoccata l'ora solita, a compire la lunga e difficile opera della sua pettinatura, a tirarle la stringa della fascetta ed affibbiarle il busto della vesta; e tutti questi erano peccati madornali, che volevano esemplari rampogne.

Cominciò il sor Giacomo, il quale usciva frettoloso secondo l'usato, col suo solito fascio di carte sotto il braccio, per recarsi, come soleva, in Comune. L'omaccino affermò essere costante che Giovanna doveva dirsi la più trascurata e la meno virtuosa delle figliuole di questo mondo; essere una colpa grave uscir di casa senza chieder licenza a chi di dovere, colpa gravissima il non venire a tempo affine di dare al papà la sua tazza di caffè. Rincarò la dose la signora Genoveffa, di cui lo sdegno rendeva ancora più rubiconda la faccia. Giovanna fu proclamata dalla madre incollerita tutto quel peggio che si potesse essere: senza testa, senza giudizio, e senza cuore; tutto ciò colle più esagerate e ridondanti amplificazioni a cui valga loquacità di donnaccola.

Giovanna confessò mitemente il suo fallo, che, al vedere la collera dei genitori, parve davvero immenso anche a lei. Era stata a confessarsi, e s'era lasciata trattenere da don Pasquale a chiacchierare nel tinello della canonica.

Nuovo scandalo e nuovo sdegno nei conjugi Varada! Il sor Giacomo non ebbe tempo a dire gran che. Il suo ufficio l'aspettava. Si contentò di serrare le labbra sottili e di crollare la sua testolina con atto molto severo.

- Male! assai male! Che cosa sono queste ciarle col parroco? Di che cosa avete potuto discorrere se non della famiglia e dei vostri parenti?... Non vi avrei mai più creduta capace di tanto!

Ed uscì, pronunziata questa sentenza, lasciando la povera vittima bersaglio alle più vive e meno assegnate rampogne di Genoveffa.

- Voi siete stata a contare il con e il ron di quello che si fa in casa: gridava colla sua voce stentorea madama Varada; avete detto male dei vostri parenti, ne sono sicura; chi sa che pettegolezzi avete fatto e che bugie avete inventate! So che anima falsa voi siete, sotto quell'aria di mezzomorta, nessun mi tocchi, impostora d'un'impostoraccia malvagia! Già! Avete l'animo brutto come quel visaccio, che farebbe paura al diavolo... Ma saprò ben io mettervi alla ragione, andate là! Se mi accorgo di tanto così che vi sia scappato di bocca, pover'a voi, che vi aggiusto per le feste, anima scellerata!

La poveretta aveva dapprima tentato di negare, aveva cominciato a protestare ch'ella non aveva detto nulla contro ai suoi parenti, perchè non aveva nulla di male da dirne, ad ogni modo li amava e rispettava troppo per non parlarne altrimenti che come a figliuola si conviene. Ma, visto che le sue negative e le sue difese inviperivano viemmaggiormente la madre, aveva finito per tacersi e per ricevere con muta rassegnazione, a capo chino, ma con che trafitture nell'animo Dio vel dica, tutti gl'improperî scaraventatile addosso.

Il cuore le batteva, le batteva affannosamente di dolore, le lagrime le salivano sino agli occhi e facevano ressa alle ciglia per isgorgare; ma ella, che sapeva come la vista di esse avrebbe eccitato ancora vieppiù lo sdegno della madre, usava ogni sua forza a ricacciarle indietro, a ritenerle, ed a ringelare insieme i singhiozzi che le stringevano la gola. Pur tuttavia due lagrime forzarono il serraglio delle ciglia e colarono lentamente giù delle guancie incavate della poveretta. La madre le vide.

- Ecco lì! Esclamò con crudele ironia. Ci siamo alle lagrime. La bambinella piange! La fa la vittima... Poverina! Che ti venga... Uh! non so che cosa questa disgraziata mi farebbe dire e fare. Non voglio vederle queste imposture... Che sì che ti fo piangere io per davvero con un manrovescio...

E accompagnò le parole col simulacro del barbaro atto minacciato. Allora i singhiozzi e lagrime ruppero il freno per l'affatto alla povera Giovanna, che diede in uno scroscio di pianto.

Chi sa a qual eccesso il furore avrebbe spinto la spietata madre verso la misera figliuola, se per fortuna Enrichetta non fosse sopraggiunta in quel punto.

Enrichetta aveva un cuore troppo buono per vedere con occhio indifferente queste scene, che non si rinnovavano tanto di raro, contro la sua sorella maggiore. Ma il potere, che la bella ragazza esercitava sui genitori, era a questo proposito assai limitato dal rancore, dall'odio, chiamiamolo pure col suo vero nome, che Giacomo e sua moglie portavano alla brutta contraffatta. Se direttamente avesse tentato difendere Giovanna fronteggiando padre e madre, Enrichetta forse non avrebbe ottenuto che di far peggiori ancora le condizioni della sorella: onde, con quell'istinto d'accortezza che non fallisce mai a spirito di donna, aveva ella compreso che il miglior mezzo d'intervenire a favore di Giovanna era quello di sviare il temporale più che fosse possibile, quando crosciava sulle spalle della infelice. Un altro ancora migliore soccorso recava essa poi a Giovanna, ed era quello di alcune parole amorevoli, di alcune carezze onde dopo gl'ingiusti maltrattamenti ella regalava la povera sciancata. Per quanto dolorosa fosse la ferita che la misera aveva ricevuta, quello era balsamo che ne la risanava di botto.

Quel giorno adunque di cui vi sto narrando, Enrichetta, uditi gli scoppi di voce della madre, accorse quando il sino allora represso dolore di Giovanna traboccava in lagrime e singhiozzi. La giovanotta mostrò tuttavia di non vedere la faccia accesa di sdegno della mamma, nè quella inondata di pianto della sorella, mostrò di non accorgersi di nulla; ma tutto sorridente saltò innanzi alla zoppa, frammettendosi tra la madre e lei, e con piglio di scherzoso rimprovero le disse:

- Brava tu! Io t'aspettava nella mia camera per farmi il chignon: e aspetta, aspetta, non ti ho mai vista a comparire. Eccomi qua a cercarti io stessa. Fa il piacere, vieni tosto, chè senza tuo aiuto non mi ci raccapezzo. Abbi pazienza mamma, che ti piglio un momento la Giovanna, e tosto ch'io abbia finito, te la restituisco.

E senz'altro, presa pel braccio la sorella, seco la trasse nella sua stanza, prima che la madre avesse pur tempo a pronunziare una parola.

Quando furono colà ambedue, chiuso l'uscio e al riparo da ogni sguardo, Enrichetta gettò le braccia al collo della sorella, e stringendola a sè con amorosa pressione, le disse soavemente:

- Piangi pure, poverina, qui meco piangi pure liberamente, se ciò può farti bene.

Ma quelle lagrime che, impedite, erano sgorgate impetuose senza che la misera avesse più forza a trattenerle, ora che loro si lasciava libero il varco, parvero esaurirsi e poterono essere facilmente ricacciate indietro dalla sventurata fanciulla.

Giovanna fece il suo pallido sorriso; si premette colle scarne mani le occhiaie a rasciugarne il pianto, e disse mitemente:

- Sono sempre una bambina io, che al menomo rimbrotto mi vien da piangere.... Ho torto.... Ma non perdiam tempo, Enrichetta. Qua presto che ti racconci, per non far aspettare di molto la mamma... Tanto più che mi preme di andarle a chiedere il perdono.

E così fece. Rassettate quanto più sollecitamente seppe le chiome della sorella, si affrettò a recarsi innanzi alla madre, tutto raumiliata e col pentimento scritto sul volto, e pregarla perchè la volesse perdonare.

La signora Genoveffa rispose con un borbottio di parole inintelligibili, che svelavano impazienza più che altro; e di mala grazia, fattosi rendere quei servizi onde abbisognava, la mandò a riordinar la casa colla solita comminatoria di far presto e di far bene.

Quando venne ad aprire allo zio Gerolamo, la povera Giovanna, vestita a bardosso, scarmigliata le chiome, affannata per faticoso ed affrettato lavorare, la granata in mano, pareva poco meno che una strega di quelle che comparvero a Macbet.

Lo zio Gerolamo non potè a meno di esclamare ancora seco stesso:

- Per dio! come è brutta!

Ma non manifestò in nessun modo il suo pensiero.

- C'è tuo padre in casa? Domandò egli col suo solito accento ruvido e vibrato.

- No, signor zio, rispose Giovanna; è già in uffizio; ma c'è la mamma.

- Va bene; quasi quasi è appunto meglio ch'io parli a lei, che qui porta i calzoni.... Conducimi da tua madre.

Giovanna gittò la granata in un angolo e s'affrettò su della scala; Gerolamo le tenne dietro.

Giunsero così alla porta della stanza di Genoveffa, e la ragazza aprì per entrare.

- Scusi, diss'ella allo zio, che vide disporsi ad entrare con esso lei: vado ad avvertire la mamma, abbia la compiacenza di aspettar qui in sala.

Lo zio Gerolamo si ritrasse dall'uscio brontolando qualche cosa, e Giovanna sgusciò entro la stanza materna.

XIII.

Da quella stanza si udì tosto suonare irritata la voce robusta della signora Genoveffa.

- Che cosa c'è?

Lo zio Gerolamo non potè udire la risposta della Giovanna, ma di rimpatto giunse fino a lui la esclamazione che siffatta risposta provocò nella madre.

- Lui! Che cosa viene egli a rompere le tasche? Potevi dirgli che non c'ero nemmen io....

Giovanna dovette affrettarsi a farle conoscere che lo zio era lì nel salotto, colla sola separazione d'un uscio socchiuso, perchè la madre, interrottasi un momento, riprese con voce di sdegno:

- Sei una stupida.... Già sei sempre quella! Più che balordaggini non mi sai fare....

E giù una delle solite sfuriate.

Girolamo non ci tenne oltre: aprì l'uscio della camera della nipote, e cacciò dentro la testa.

- Corpo di mille diavoli! Gridò ancor esso colla sua voce incollerita da basso profondo.... Ad esserci venuto io in questa casa non è mica venuta la versiera. E se questa povera disgraziata ha per suo zio un po' più di rispetto di quello che hai tu, non è il caso di strapazzarla come un cane.

- Ah! il signor zio ascolta agli usci! Esclamò con ironico sorriso Genoveffa, imponente nel suo giaco da mattina di basino bianco. Non sa il proverbio? Chi ascolta agli usci ascolta i suoi disgusti.

- Ascolto un corno che ti... Uhf!... Gridi abbastanza forte perchè ti si senta anche da chi è in istrada.... Ma sta che non ti voglio romper le tasche un pezzo. Due parole; tu mi rispondi un sì o un no, e scappo, che non avrai più la seccatura di vedermiti dinanzi.

Cominciato in questo modo il colloquio, ciascun vede come poteva essere cordiale ed amichevole.

Giovanna fu lesta a partire. Lo zio piantò in terra la sua mazza, vi si appoggiò con tutte due le mani, e senza levarsi il cappello di testa, ritto in faccia alla nipote, le disse a bruciapelo:

- Nè tu, nè tuo marito non potete vedere quella povera creatura di Giovanna, e io credo che paghereste qualche cosa per esserne sbarazzati. Ebbene io vengo a recarvi questo servizio, senza che vi costi la croce d'un centesimo.

Voi vedete quanto poco valesse in diplomazia lo zio Gerolamo.

- Come sarebbe a dire? Domandò, inarcando le ciglia e piantandosi le mani sui fianchi la signora Genoveffa tra stupita, tra offesa e tra curiosa di veder dove andasse a parare.

- Gli è a dire che io, per non viver più solo, mi prendo meco la Giovanna, e me la tengo come figliuola.... Ecco!

- Ma parla ella sul serio?

- Sul seriissimo! Volete o non volete? Se acconsentite, rendete un servizio a me, fate un bene a quella disgraziata, ed un vantaggio a voi altri, togliendovi dinanzi agli occhi chi non potete soffrire.

Genoveffa, da rossa che era, divenne scarlatta. - Dove ha ella sognato tutte queste belle cose? Domandò essa con un'ironia, sotto cui covava un furore pronto a prorompere in improperii.

- Sognato o non sognato, non istate menando il can per l'aia. Vi ho fatto una domanda ricisa, fatemi una ricisa risposta. Sì o no?

- Ma lei è matto:

- Siete matta voi....

- Ella crede che i figliuoli si dieno via così come si darebbe un cagnolino....

- Quando si trattino peggio ancora dei cani....

- Signor zio, guardi come parli....

- Signora nipote, guardate voi quello che fate.

- Io faccio quel che mi tocca e quel che mi conviene.

- Ed io vi dico quello che vi meritate.

- E se lei non fosse mio zio, le risponderei io per le rime.

- Mi pare che il rispetto non vi metta molto freno alla lingua.

- Gli è per dirmi tutto questo che è venuto a disturbarmi?

- Gli è per togliervi dalle unghie una povera vittima.

- Qui non c'è alcuna vittima, signor mio.

- C'è una povera diavola che farete crepare....

- Sa che cosa le ho da dire? Che lei s'immischi nei fatti suoi. Che io a casa mia son padrona. Che io non faccio crepar nessuno. Che le mie figliuole so come trattarle e come allevarle, e che non ho mestieri nessuno mi venga a fare il dottore...

- Avreste bisogno.... so io ben di che... E fece un atto col bastone, che in verità era fin troppo significativo.

Il diapason delle voci dei due interlocutori in quel rapido dialogo, che era stato uno scambio vivace di botte e risposte, erasi venuto alzando all'alto tono della collera e della minaccia; ma a quest'ultimo gesto imprudente dello zio Gerolamo, la voce di Genoveffa toccò le più vibranti note delle sue corde.

- Che cos'è questo? La vorrebbe venire a fare delle prepotenze a me? A me nessun muso mi fa paura, sa! e non me ne lascio imporre da chicchessia.

- Non si tratta d'imporre. Lasciamo le inutili ciarle. Vi ho fatta una proposta. Che cosa rispondete?

- Rispondo che non mi secchi.... Rispondo che se non mi tenessi, non so per che cosa, le mostrerei io....

- Eh mi mostrate già abbastanza che siete una cattiva ed una impertinente.

- Signor zio!

- Il fistolo che vi colga!... Volete che ve lo dica? voi farete morire quella poveretta, della quale il torto maggiore è d'essere nata figliuola....

- Signor zio! Ripeteva Genoveffa coi denti stretti e le guance color pavonazzo.

- E s'ella è un brutto mostro, chi ne ha colpa se non voi che l'avete fatta?

Codesto era troppo! Genoveffa parve sul punto di schiattar dalla bile nel suo giaco di basino.

- Oh sapete che mi avete fradicia!... Questa è mia casa.

- Casa di vostro marito.

- Questa è la mia stanza....

- È la stanza d'un animale.

- Fuori, fuori!... La vada fuori, o mi metto a gridare accorr'uomo.

- Vado, vado, ma giuraddio!... To', avrei gusto d'essere solamente per mezz'ora tuo padre o tuo marito, maligna megera che tu sei, per poterti dare una lezione a modo mio.

E girato vivamente sui talloni, uscì bestemmiando come un turco, mentre la signora Genoveffa gli scaraventava dietro improperii come una trecca.

Queste erano state la calma e la prudenza dello zio Gerolamo!

Uscendo questi impetuosamente di casa i Varada, si rintoppava naso a naso collo speziale, cui la curiosità aveva finito per trarre a forza fin sull'uscio di quella casa.

La faccia concitata dello zio Gerolamo e gli scoppi di voce onde la signora Genoveffa dall'interno dell'alloggio perseguitava il fuggente, dicevano abbastanza qual vivace scena avesse dovuto aver luogo.

- Che cosa è stato! Chiese Domenico sollecito allo zio Gerolamo.

- Eh! andate al diavolo anche voi! rispose questi, che agitava il suo nodoso bastone, come guerriero che brandisce la spada.

Lo speziale non credette prudente insister dell'altro con quell'energumeno; ma lasciatolo passare, sgusciò pianamente nella casa.

Dall'alto della scala il giaco bianco della signora Genoveffa si agitava in una mimica che pareva convulsa, accompagnando il tempestare delle più violente ingiurie che sappia trovar collera di donna.

- O mio Dio! esclamò coll'aria d'uno sgomento interessato quell'impostore d'uno speziale. Che cosa le è capitato, signora Genoveffa? Si calmi per carità!

La moglie del sor Giacomo contò a suo modo la cosa: e il suo modo non era quello di una scrupolosa esattezza storica. Dal racconto della donna sdegnata si deduceva colla chiarezza d'una dimostrazione matematica, che quel tanghero malcreato d'un Gerolamo aveva tutti i torti, e che essa aveva dovuto uscire a forza della sua dolcezza d'agnellino, per ribattere le impertinenze di quel prepotente.

Domenico Tartini, come era da supporsi, diede tutte le ragioni alla signora Genoveffa; e poi con quel suo fare da volpone, che sembrava una semplicità o una franchezza, disse che quella richiesta cui Gerolamo era venuto a fare era stata complottata col parroco, il quale pareva a lui, Domenico, si piacesse un po' troppo di ficcare il naso negli affari della gente e nel seno delle famiglie. E qui, la signora Genoveffa a interrogarlo, a sollecitarlo perchè dicesse quel che sapeva, e che il furbo speziale aveva una matta voglia di dire. Ben conosceva egli di non esser troppo nelle buone grazie del parroco, e pensava che a mettere screzio fra don Pasquale e la famiglia d'Enrichetta, egli pel suo covato progetto di matrimonio non avrebbe potuto che averne giovamento. Disse dunque tutto quel che sapeva, e più ancora. L'acume della signora Genoveffa allora credette aver capito tutto. Ella fu chiara come quella vipera scaldatasi in seno di Giovanna - fu la sua espressione - fosse andata dal parroco a far mille false ed ingiuste lagnanze, a calunniare infamemente i suoi genitori; e il parroco avesse messo su quel villanzone dello zio Gerolamo a venire da lei a fare di quelle scene, che gli era un orrore da destar raccapriccio.

La bizza della brava donna era elevata all'ultima potenza di un parossismo che assolutamente richiedeva uno sfogo. E contro chi poteva aver luogo questo sfogo, se non contro la prima e la peggiore colpevole, la quale si trovava giusto lì sotto mano a tiro della collera della signora Genoveffa?

Le stanze della casa rimbombarono tutte della stentorea voce, con cui la fiera donna chiamò la rea ad audendium verbum.

- Giovanna! Giovanna!

Lo speziale era troppo furbo per non capire che quello era il momento di tirar via e lasciare a fronte madre e figliuola. Guizzò fuor di casa come vi era entrato, e tornò a rintanarsi nella sua farmacia, dove ci aveva dei veleni molto più innocenti dell'azione ch'egli aveva allor allora commessa.

La zoppa comparve innanzi alla madre già tutta tremante, come vi potete pensare.

Genoveffa le fu coi pugni sotto il naso per primo saluto.

- Che cosa sei tu andata a dire al parroco, brutto mostro?

- Io?... nulla.... Sono andata a confessarmi.

- Ah sì? Confessarti! Impostorona, falsa come l'anima di Giuda; non ti basta essere la nostra vergogna, non ti basta esserci una spina continua negli occhi, farci amara la vita colla tua presenza? Bisogna ancora che tu vada a sparger calunnie sul nostro conto!... Accusare, ed accusare falsamente i proprii genitori, oh! la è la più nefanda azione che possa commettere un figliuolo.

L'enormezza dell'accusa potè dar tanta forza a quell'innocente da superare il suo spavento e la sua emozione, e trovar tanta voce da esclamare:

- Non è vero! Ti giuro, mamma, nel nome di Dio, che non è vero...

Ma la madre con più inviperito scoppio di voce:

- Silenzio, bugiarda sfacciata, spergiura!... Ben lo sapevo che tu eri capace.... Te l'ho detto: guai se ti colgo!... Ora ne ho le prove, e l'hai da fare con me.

Giovanna tentò pronunziare ancora alcuna parola; la crudele madre si abbandonò siffattamente all'eccesso dell'ira da percuoterla.

L'infelice fanciulla quello schiaffo non lo sentì sulla pallida guancia, ma lo sentì nel cuore come una mazzata. Vide venire tutto scuro intorno a sè, fece ad abbrancarsi a qualche cosa per non cadere, sentendosi mancare le gambe di sotto, ma non potendo a nulla appigliarsi, strammazzò lunga e distesa per terra.

Accorsero Enrichetta e Gertrude. La sventurata fu portata sul suo letto, dove stette alcuni giorni facendo temere una grave malattia. Nè il padre nè la madre furono mai a vederla. Il sor Giacomo, informato dalla moglie, aveva condannato la colpevole figliuola a star priva della vista dei genitori, chiusa in arresto nella propria camera. Enrichetta guizzava qualche volta in questa povera stanzuccia a vedere ed abbracciare la sorella. Le recava così un poco di luce, per così dire, col suo sorriso, un po' di caldo colle sue carezze. Nella sua solitudine la povera sciancata lavorava e piangeva, ed accusava sè stessa per iscusare altrui.

Di andarsi a confessare, di andare a messa da sola, Giovanna fu proibita per sempre in avvenire. Dallo zio Gerolamo fu prescritto che nè l'una, nè l'altra delle due sorelle non mettessero i piedi mai più; e questo bel successo ebbe l'intervento pietoso del buon parroco per recare alcun sollievo a quella infelice creatura.

Povera Giovanna! Chi le avesse detto che il suo dolore, quando piangeva desolatamente da sola nella sua camera, sarebbe stato superato di assai da altri dolori che l'aspettavano, avrebbe sembrato a lei medesima che dicesse una cosa impossibile, eppure doveva esser così.

XIV.

Erano alcuni giorni passati. Lo zio Gerolamo, senza sapere precisamente la parte che nella nuova disgrazia di Giovanna aveva avuta lo speziale, s'era sentita accrescere in cuore l'antipatia che quest'ultimo gl'ispirava, e se a tale antipatia non dava aperta manifestazione, come il suo carattere avrebbe voluto, gli era soltanto in considerazione del dispiacere che sapeva ne avrebbe provato il suo buon amico Gaudenzio, quando col figliuolo di quest'esso egli fosse venuto a palese rottura. Imperocchè a dispetto della enorme differenza di carattere e di cuore che passava fra loro, a dispetto anche dei torti che lo speziale aveva verso di lui, il buon notaio amava tuttavia immensamente suo figlio, e, mercè una di quelle paterne illusioni che pei genitori è una felicità lo avere, egli continuava a credere alla bontà dell'indole, alla bontà dell'animo, così fermamente come credeva alla superiorità del talento del suo Domenico.

Questi, a cui giovava la stima universale onde godeva suo padre, faceva tanto che bastasse per non aver in pubblico la nota di cattivo figliuolo; e del resto sfruttava molto bene colla sua furberia, nelle sue brighe, la considerazione del nome paterno.

Accorto come vi dico ch'egli è, figuratevi se lo speziale non si è avvisto di qual natura fosse il sentimento che l'amico di suo padre aveva per lui! Ma siccome romperla con esso non gli presentava pel momento alcun vantaggio, ed era sua massima non farsi dei nemici dichiarati che per inevitabile necessità, egli dissimulava molto bene, ed appariva agli occhi della gente in assai buoni termini col signor Gerolamo Porretta.

Osservatore di tutto e di tutti, Domenico aveva creduto notare nei fatti di Gerolamo alcuna cosa che affatto non s'accordava con quanto egli aveva detto delle cose sue, una piccola ombra di mistero che avvolgeva le presenti di lui condizioni. Gerolamo non aveva mai voluto contare divisatamente le sue avventure del tempo in cui era stato all'estero; e si era sempre attenuto a quella sommaria esposizione che abbiamo udita anche noi, cui egli conchiudeva sempre coll'affermazione di aver messo in salvo appena una tenue rendita onde non mancar di pane pel fine de' suoi giorni; ma quale fosse questa rendita, su che capitali o possedimenti fondata, non bisognava nemmeno cercar di sapere, perchè Gerolamo ne taceva sempre, ed a qualche meno discreta domanda in proposito, rispondeva di guisa da levar la voglia di continuare.

Oltre ciò, questo bizzarro vecchio, pungente come un istrice a chi lo accostava, era di una generosa beneficenza, la quale, benchè egli si nascondesse accuratamente per farla, non tardò tuttavia ad essere in parte conosciuta. Lo speziale dalle sole larghezze che vennero a sua cognizione argomentò che quella certa rendita non doveva poi essere tanto tenue, e che quindi, nell'affermare così ripetutamente la sua povertà, Gerolamo non era del tutto sincero.

Bastava più del bisogno codesto per istimolare nello speziale la innata curiosità, che in quest'occasione dava la mano all'interesse, stante il suo carezzato progetto di matrimonio colla figliuola del sor Giacomo. Ma quali mezzi aveva egli per venire a capo di scoprir qualche cosa? Nessuno; e questo gli accresceva ancora il matto solletico.

Una sera il barocciaio Barbetta, che faceva da procaccio della posta fra il villaggio e la città vicina, aveva recato il plico delle lettere al sor Domenico, che aveva unito alla farmacia l'uffizio postale; mentre il farmacista dissuggellava il plico, Barbetta stava aspettando, per prendere di poi, se ce n'era, le lettere di coloro che abitavano nella campagna, ai quali egli era solito recarle a casa per guadagnarsi qualche soldo in capo all'anno.

In quella, ecco sopraggiungere Gerolamo, che tornava da una delle sue abituali passeggiate, in cui andava vuotando la sua borsa nei tugurii dei poveri.

- Che fai tu costi, buona lana? Disse egli a Barbetta, che lo salutava con un rispetto misurato alla buona mancia, ch'e' ne soleva ricevere ogni qual volta lo conduceva alla stazione della ferrovia, andata e ritorno.

- Ho portato il plico della Posta ed aspetto le lettere del territorio.

- Ah ah! sai tu se ci sieno lettere per me? Barbetta si strinse nelle spalle.

- Il sor Domenico rompe il pacchetto soltanto in questo momento.

Gerolamo entrò nella farmacia.

Lo speziale stava giusto esaminando con molta attenzione una lettera largamente ripiegata, sulla bustina della quale, sotto l'indirizzo dalla parte anteriore e sulla linguetta dov'era appiccicata l'ostia dalla parte posteriore, si vedeva impresso un bollo con inchiostro azzurro.

- Ci è qualche cosa per me? Domandò Gerolamo.

Domenico ebbe un lieve sussulto come persona sorpresa.

- Precisamente: ripos'egli poi tosto, senza il menomo impaccio. Questo plico è diretto a lei; signor Gerolamo Porretta; viene da Torino, e ci ha su il bollo del Banco di sconto e sete.

- Ah sì? Disse bruscamente Gerolamo, e, presa vivamente la lettera di mano allo speziale, uscì fuor della bottega, dove si mise a leggerla tosto.

Il farmacista si recò a continuar la sua bisogna presso l'uscio, e mentre veniva via facendo lo spoglio delle lettere, andava pur di sottecchi guardando che impressioni si dipingessero sul volto dello zio d'Enrichetta, nel leggere la ricevuta lettera. Ma Gerolamo non mostrò che la massima indifferenza.

- Barbetta, diss'egli però, quando ebbe finito di legere, ripiegata la carta e rimessala nella busta; domani mattina terrai pronto il baroccio per tempo, che io possa giungere a C. pel passaggio del primo treno.

- Va a Torino? Domandò lo speziale, alzando il naso dalle lettera che faceva scorrere tra le mani.

- Vado dove mi pare e piace: rispose rozzamente Gerolamo; poi continuando a parlare a Barbetta: - E secondo il solito, mi aspetterai pure pel convoglio della sera, che tornerò a casa.

- Sì, signore.

Domenico Tartini pensò lungamente e profondamente; e il domattina, quando Gerolamo fu partito, il bravo speziale pose in atto una presa risoluzione.

Si recò dalla signora Genoveffa, e confidenzialmente le comunicò i sospetti che gli erano nati intorno a quel misantropo di zio, che, vivendo da povero, largheggiava in elemosine da ricco, che riceveva lettere da uno dei principali stabilimenti di credito di Torino, e faceva in seguito ad esse viaggi solleciti e misteriosi; imperocchè il farmacista aveva osservato che le altre giterelle di Gerolamo erano avvenute eziandio dopo l'arrivo di una lettera simile o press'a poco.

La signora Genoveffa cadde dalle nuvole; ebbe una paura maledetta di dover pentirsi d'aver trattato così senza riguardi lo zio, e parendole troppo grave la cosa per indugiare a provvedere, mandò issofatto Gertrude alla casa comunale a chiamare in tutta fretta il sor Giacomo.

A tale appello il signor Varada piantò sulla sua scrivania le carte, la berretta, gli occhiali e la mezza manica di tale nera che portava al braccio destro; e corse sgomento co' suoi passetti accelerati

I due coniugi tennero un consiglio di guerra coll'intervento dello speziale, a cui fecero l'onore di ammetterlo terzo fra cotanto senno. I dubbi di Domenico e lo spavento di Genoveffa divennero sull'istante lo spavento e i dubbi del sor Giacomo. Ma quid agendum? Chiarirsi prima di tutto del valore delle induzioni dello speziale, e muovere intanto qualche passo per preparare una riconciliazione collo zio. Fu il parere del presidente, la signora Genoveffa, validamente appoggiato dal farmacista, accettato senza contrasto dal sor Giacomo, il meno ricco di idee. Succedeva una quistione ancora più difficile. Come scoprire la ragna? Genoveffa ne disse una, lo speziale ne disse un'altra, sor Giacomo non disse nulla.

Domenico ebbe la gloria di mettere innanzi una idea pratica.

- Bisogna aspettare che una circostanza simile si rinnovi; allora si manda dietro al sor Gerolamo un uomo fidato, che sappia spiarne i passi e riferirci dove andò e tutto quel che fece a puntino.

- Bravo! Esclamò la signora Genoveffa con entusiasmo.

- È costante che questo è il modo migliore: sussurrò il sor Giacomo colla sua voce sottile.

- Ma dove trovar questo tale? Domandò madama Varada, che lanciava intanto un'occhiata adulatrice allo speziale, come per invitarlo a trovar egli la persona ad hoc, oppure ad assumersi egli stesso il dilicato ufficio.

Domenico si grattava dietro l'orecchio; Giacomo saltò in mezzo tutto raggiante, felice d'aver egli una proposta da fare.

- L'ho io l'uomo che ci vuole: Fusella, l'inserviente comunale... È furbo come la malizia, e per un po' di denaro andrebbe a tirar la coda al diavolo... È un ubbriacone è vero, e bastona sua moglie... ma questo non ci ha che fare... Come mio subordinato, ci terrà a far le cose pulito per contentarmi, e comandandogli di non bere... e soprattutto non pagandolo che dopo, è possibile averne ciò che si vuole.

Il sor Giacomo ebbe la soddisfazione di vedere accolta la sua proposta. Determinarono adunque: 1.º per mezzo delle nipotine - chè quello fu giudicato il mezzo migliore - si comincierebbe ad avviare qualche riavvicinamento collo zio sdegnato, dentro lo spinoso riccio delle cui maniere ci poteva essere una buona castagna di eredità; 2.º Domenico avrebbe invigilato attentamente per saper subito quando Gerolamo facesse nuovamente una di codeste sue gite, e tosto tosto ne li avrebbe avvertiti; il sor Giacomo istruirebbe Matteo Fusella, e lo farebbe star pronto a compire la sua missione al primo avviso. Lo speziale fu ringraziato vivamente; si scambiarono delle forti strette di mano come i tre al Rutli, e Domenico partì colla dolce lusinga che egli poteva già dirsi un poco di quella famiglia, e quindi avrebbe avuto, per mezzo d'Enrichetta, in suo potere il patrimonio dei Varada, il legato del marchese di Roccavecchia e l'eredità dello zio - se v'era un'eredità da beccare.

Il bravo diplomatico non prevedeva che, quel giorno medesimo, lo zio Gerolamo sarebbe tornato al villaggio in compagnia di un nuovo attore nel dramma incominciato, nel qual personaggio le speranze e le previsioni dello speziale avrebbero incontrato il più serio ostacolo.

XV.

Lo zio Gerolamo, come aveva annunciato a Barbetta, col treno della sera arrivava alla stazione di C., di ritorno dal luogo a cui si era recato.

Mentr'egli scendeva dal carrozzone di prima classe, da uno di terza vicino discendeva pure un giovanotto, il quale attrasse la sua attenzione; ed era infatti tale da attirar quella di qualunque. Mostrava dai 20 ai 25 anni, e un paio di baffi sottili e finissimi di color biondo gli ombreggiava il labbro superiore. Bionda del pari aveva la capigliatura, folta, inanellata. Alto e ben preso di statura, aveva nelle sue maniere un certo garbo nativo misto a dignità, che riusciva assai bene simpatico. Era una di quelle figure su cui non può a meno che fermarsi benigno uno sguardo di donna, la persona all'avvenante: pareva fatto per essere distinto in ogni dove e in mezzo a chiunque si trovasse. Ora la sua bellezza era quasi direi ottenebrata da una mestizia così piena che ben si mostrava lo stampo d'un profondo, immenso dolore; i suoi bellissimi occhi color del mare non avevano luce, nè lampi; le labbra scolorate avreste detto che avevano disimparato per sempre il sorriso. Compagno a quella mestizia stavagli sulle guancie un pallore quasi cadaverico, livido sotto le occhiaie, quale avrebbe avuto chi fosse afflitto da malore poco men che mortale. E difatti, chi avesse visto quel giovane scender dal carrozzone, e lo vedesse muovere i primi passi fuori della stazione, giudicherebbe ch'egli a stento si regge, ed appena tanta forza gli rimane da camminare. Vestiva panni modesti, ma pulitissimi, di lutto, e portava in mano un piccolo sacco da viaggio, che pareva l'unico suo bagaglio.

Gerolamo sentì di subito un sentimento di simpatia per quel giovane sconosciuto, che pareva, a così vederlo, essere stato colpito da qualche grande sciagura e portarla con assai nobile coraggio; e volentieri gli avrebbe rivolta la parola ed offertogli i suoi servigi, se avesse saputo in che modo farlo senza ferire la suscettiva riserbatezza che in quel giovane appariva molta e tale da esigere ogni rispetto.

Quel giovane, su cui tanto s'era fermata l'attenzione del nostro vecchio amico, da parte sua non aveva badato menomamente a quest'esso, nè a nessuno, nè a nessuna altra cosa di quanto si vedeva e si trovava dintorno.

Uscito della stazione, si appoggiò alla parete un istante come uomo affaticato che vuol riprender lena, quindi drizzò la persona, scosse la testa, e guardò intorno a sè coll'aria investigativa di chi non conosce i luoghi e deve cercare per essi la sua strada.

In quella il barrocciaio, che stava aspettando lo zio Gerolamo, accostandosi riverente a quest'esso, lo salutava chiamandolo per nome.

- Eccomi qua ai suoi ordini, signor Porretta.

Questo nome parve fare alcuna impressione sul giovane sconosciuto. Valse i suoi occhi verso Gerolamo e lo guardò attentamente.

Gerolamo rispondeva al barrocciaio:

- Va bene, ma io di tutto il giorno colaggiù non ho potuto fare che un boccon di colazione, e mi sento bisogno di pranzare. Conducimi all'albergo del Braccio d'oro. Darai ancora una manciata di fieno al tuo mulo, berrai una volta anche tu, e quando io abbia pranzato, partiremo per ***.

E nominò il villaggio, teatro delle nostre scene.

Il giovane, che pareva esitare in una sua risoluzione, ad udir nominato questo villaggio, si decise; s'accostò con nobil mossa a Gerolamo, e salutandolo molto garbatamente, gli disse in dialetto del paese, ma con lieve accento forestiero:

- Scusi, vorrebb'ella farmi la gentilezza di mostrarmi quale sia la strada per ***?

- Ella deve andare colà?

Il giovane chinò la testa in segno affermativo.

- Farò di meglio che insegnargliene la strada: continuò Gerolamo. Sono ancor io diretto a quel paese. In dieci minuti pranzo e parto. Se vuole aver la compiacenza d'aspettarmi, le offro un posto nel barroccio del procaccino che ho impegnato a mio servizio per questa gita.

Quel burbero d'un Gerolamo riconobbe fra sè medesimo, e non senza meraviglia, che a quello sconosciuto parlava con più gentilezza di quanta fosse solito ad usare con chicchessia; e di ciò non sapeva egli stesso darsene una ragione.

Il giovane sembrava perplesso, teneva gli occhi bassi, e non dava risposta.

Gerolamo, guardandolo da vicino nel viso, credette vedergli scolpite le traccie non solo d'un dolore, ma degli stenti - forse d'una dissimulata miseria.

- Anzi, soggiunse tornando alla sua ruvida vivacità abituale, s'ella volesse farmi compagnia anche a tavola, per non annoiarsi aspettando, le offro volentieri...

Non terminò nemmanco la frase, perchè il giovane alzò vivamente il capo come cavallo che s'inalbera, e piantò in volto al suo interlocutore uno sguardo pieno di orgoglio offeso, mentre un lievissimo rossore glie ne veniva alle smunte guancie.

Però fu sollecito lo sconosciuto a dominare quello che pareva in lui un subito adombrarsi di suscettività soverchia, e raumiliatosi tosto nell'aspetto, rispose mitemente:

- La ringrazio... Non posso accettare... Non domando altro se non che la mi additi la strada.

- Va bene: riprese Gerolamo. La strada è quella...

E gliene diede tutte le occorrenti informazioni, per non fuorviarsi lungo la medesima sino alla meta.

Il giovine ringraziò, salutò collo stesso garbo con cui s'era accostato, e s'allontanò col suo sacco sotto il braccio per la strada indicatagli.

Gerolamo lo seguitò collo sguardo per un poco.

- Quell'individuo lì ha qualche cosa... un non so che.. dei modi... un'aria... Non saprei dirne la ragione ma m'interessa.

Montò sul barroccio, e si fece condurre all'osteria, dove, fattosi recare in fretta in fretta qualche vivanda, si pose a tavola a saziar l'appetito; ma intanto, e per la strada e mangiando, il suo pensiero non si sapeva spiccare da quel giovane in apparenza infelice, e pur sì nobilmente superbo.

Ad un tratto lasciò andar sul desco il coltello che teneva nella mano destra, e colla palma si picchiò la fronte come fa chi ha la mente illuminata ad un tratto dalla rivelazione d'un'idea.

- Cospetto! Esclamò egli fra sè. Vestito a lutto, triste, con un povero bagaglio, diretto a ***! Gli è di certo Pierino, il figliuolo di Antonio Maria... Ed io, bestia, non ci ho pensato!

S'affrettò a trangugiare quello che gli era stato ammanito, ci bevette su in un fiato un bicchierone di vino, strapazzò il garzone che non gli portava il conto abbastanza sollecito, pagò senza ribatter parola sui prezzi, in due salti fu nel cortile; poi nel barroccio, e disse a Barbetta, che alle grida di lui era salito in furia a cassetta:

- Fa correre quel tuo vecchio mulo più che puoi; e più presto raggiungeremo quel giovane che s'è avviato per dianzi, più grossa avrai la mancia.

Il barrocciaio, stimolato dal vino che aveva bevuto e più ancora da queste parole, si diede a frustare il mulo con una severità che non aveva mai avuto, e la bestia stupita, sparato un paio di calci per protestare contro l'inusata barbarie, levò il trotto, che la frusta di Barbetta s'incaricò di fargli mantenere.

Ma non ebbero a correre un gran tratto. Oltre un miglio appena, apparve loro il giovane disteso sull'orlo del fosso, come se, non reggendogli più le forze, fosse caduto o si fosse buttato là a giacere finchè glie ne ritornasse la lena.

Gerolamo fece di subito fermare il barroccio. Saltò giù e corse dal giovane, il cui occhio semispento era quello d'un uomo presso a svenire.

- Voi vi sentite male, giovinotto? Disse con molto affetto Gerolamo, passando una mano sotto l'ascella del giacente per aiutarlo a sollevarsi.

Il giovane gli volse uno sguardo riconoscente, e balbettò con quel poco di fiato che gli rimaneva:

- Sono stanco, sono debole.... Mi sento il petto oppresso.

Porretta prese il polso del giovane, che s'era messo a sedere.

- Eh diavolo! Avete una febbre da cavallo.... Io non sono medico, ma me ne intendo quanto un medico, il che non è un miracolo... Ora poi non mi farete più l'affronto di rifiutare il posto che vi offro in quella macchina scellerata a molle tutt'altro che inglesi.

Il giovane sorse in piedi aiutato da Gerolamo e dal barrocciaio, che era venuto anch'egli in soccorso, e sorretto ai due lati andò verso il barroccio, e vi salì sopra.

- La ringrazio, diss'egli con nobile semplicità a Gerolamo.

- Il fistolo che ci colga! Esclamò il vecchio burbero tornando a tutta la bizzarria del suo umore. C'è veramente un gran che da ringraziarmi. Avreste dovuto accettare subito alla prima offerta che ve ne ho fatta.... Ecco ciò che avreste dovuto.... Tu, Barbetta, ora vai pure pianino: non c'è più bisogno alcuno di correre, e il tuo maledetto legno farebbe saltar le budella anche ad uno fasciato e stretto come un salame. Va di passo, e ci guadagnerà il tuo mulo, ed anche noi.

La raccomandazione era troppo consentanea alle abitudini di Barbetta e del suo mulo, perchè fosse menomamente trasgredita. Il barroccio si pose a camminare con una solenne lentezza, che non si smentì mai sino alla fine.

I due compagni di viaggio tacquero per un istante. Il giovane stava accasciato dal male, scosso di quando in quando dai brividi della febbre: Gerolamo pareva meditar seco stesso; la sua faccia piena di rughe manifestava col succedersi delle espressioni la varietà dei sentimenti che gli si scambiavano nell'animo.

Ad un tratto il vecchio ruppe il silenzio a suo modo con una brusca uscita, che pareva uno scoppio di collera o poco meno.

- Due che vanno di compagnia, devono sapere l'un dell'altro chi sia.... almeno io la penso così. Se Ella è pratica di questi paesi, deve aver udito far menzione della famiglia Porretta, antichi fattori di padre in figlio della nobil casa dei marchesi Roccavecchia. Io sono l'ultimo di quel nome, e non ho più voluto essere al servizio d'altri che mio. Mi chiamo Gerolamo Porretta, ho corso il mondo, ho fatto ogni razza di mestieri.... onesti, e sono venuto a deporre le mie quattro ossa nella terra dove sono nato e dove ho mosso i primi passi.... Ecco!

Il giovane parve esitare un momento su ciò che avesse da dire o da fare; volse i suoi occhi abbattuti verso la rozza ma franca fisionomia del suo compagno, e parve dall'espressione di essa pigliar animo a parlare. Aprì le labbra, ma Gerolamo lo interruppe:

- Un momento! Voi non avete ragione, nè desiderio alcuno di nascondermi l'esser vostro?

- No... Tanto meno ora che conosco chi siete.

- Va bene. Allora lasciatemi il gusto di indovinare. Scommetterei che voi siete Pierino, il figliuolo di Antonio Maria Varada.

Negli occhi di quel giovane brillò un riflesso di luce come quello d'un raggio ripercosso da una lagrima.

- Sì, son quel desso....

Gerolamo non gli lasciò aggiungere altre parole; gli prese tuttedue le mani fra le sue, gliele strinse forte, e con emozione dissimulata nella sua bruschezza d'accento soggiunse:

- Bene, benissimo... Non aggiungete altro. So tutto. Siamo ancora quasi parenti. Mia nipote ha sposato vostro cugino Giacomo. Da vostro padre dovete aver inteso alcune volte far cenno di me. Io mi ricordo avervi visto non più alto di un sommesso. Quando son partito, che età avevate? Due o tre anni tutt'al più.

- Avevo tre anni... Sì, mio padre mi ha parlato soventi volte di lei, che amava e stimava moltissimo.

- Eravamo amici e compagni di scuola. Anzi ce la dicevamo insieme abbastanza bene, al contrario di ciò che accade, e fu sempre così, con quel meschino animale di Giacomo.... Basta! non parliamo di ciò.... Voglio concludere che io non sono un estraneo per voi, e che se mai adesso e poi posso aiutarvi in qualche cosa, eccomi qua.

- Grazie, mormorò Pierino, colla voce che pel malore e per la commozione gli tremava. Non ho bisogno di nulla.

Stettero in silenzio ambedue. Gerolamo borbottava fra i denti non so che cosa; Pierino lottava contro la febbre che lo possedeva.

Quando furono al principio della salita, Barbetta saltò giù per alleggerire il peso alla bestia, e Gerolamo ne imitò l'esempio; il giovane volle far così ancor egli, ma il suo compagno ne lo trattenne. - State lì, che diamine! Vedete bene che non vi potreste reggere in piedi.

Pierino si lasciò andare sul poco soffice banco ove sedeva.

Calava la sera; una tepida sera del mese di giugno, illuminata dal sanguigno chiarore dell'occaso. Innanzi agli occhi dei viaggiatori danzavano per l'aria vertiginosamente in frotte i moscerini. Dall'alto d'un poggio vicino veniva giù lenta e grave la voce d'un villano, che lavorava la terra cantando una di quelle meste e monotone canzoni delle nostre montagne. Il mulo camminava più lento che mai, scuotendo di quando in quando i campanelli del suo collare. Gerolamo, con una mano appoggiata all'usciolo del baroccio, veniva accosto al giovane, e lo guardava di quando in quando.

Ad un punto ruppe il silenzio.

- Dove fate voi conto di pigliare alloggio? gli domandò bruscamente.

Pierino volse verso l'interrogatore la sua faccia scialba e rispose con un po' di quella dignità orgogliosa che aveva già mostrato alle prime parole direttegli da Gerolamo alla stazione della ferrovia:

- Ho una casa.

Gerolamo chinò alquanto la testa; le rughe del suo volto s'incresparono, per così dire, e la sua fisionomia prese quell'aspetto che aveva quando ciò che gli era detto non gli andava a grado.

S'egli avesse formulato a voce il suo pensiero, avreste udito queste parole a press'a poco:

- Ecco lì!.. Allevato da ricco, colle abitudini da ricco, come se la ricchezza non avesse da mancar mai... Parla di sua casa... parlerebbe de' suoi redditi se gli si desse occasione.... L'offerta d'un soccorso la riceve come un oltraggio.... e forse non ha nè energia, nè talenti da bastare a sè stesso ed alla madre!

Alzò gli occhi e li piantò in volto al giovane. Il dolore fisico ed anco - e forse più - il morale avevano impresso e lasciatovi uno stampo così profondo, che di botto, al vederlo, tornò a sorgere in tutta la sua forza la compassione nel cuore del ruvido vecchio.

- La vostra casa! Esclamò egli. Ma, poverino, non ne avete più. Essa vi è chiusa per ordine di giustizia, ed appartiene ai vostri creditori, che se la disputeranno a colpi di lite.... di cui voi pagherete le spese.

I lineamenti patiti del giovane si contrassero, come avviene a quel ferito di cui una mano poco delicata urti la piaga.

- Avete ragione; diss'egli. Non ho più nulla al mondo.... che il mio dolore.... Andrò da' miei parenti.

- Ah sì i vostri parenti? Domandò Gerolamo con una ironia mal dissimulata; e tacque per un momento.

- Ne avete ancora molti di parenti in questo villaggio?

Pierino scosse il capo in segno negativo, e poi si dispose a rispondere a voce; ma siccome il respiro gli era grave e la parola faticosa, Gerolamo, senza lasciargliene il tempo, continuò egli stesso:

- Sì, sì, sono una bestia.... So bene che non vi ci resta che la famiglia di vostro cugino Giacomo.... Uhm!... Andate dunque lì.... Certo dovete andar lì.... Uhm! uhm!

Tacque di nuovo per un istante. Gli occhi di Pierino, collo sguardo incerto e vago d'uomo travagliato dalla febbre, stavano fissi sulle alte cime fronzute dei castagni indorati ancora, sopra il colle, dal riflesso della luce rossa del tramonto. Il suo dolore aveva preso la tinta d'una profonda mestizia. Certo ancor egli riconosceva que' luoghi che aveva abbandonati fanciullo e non aveva rivisti più, pei quali era corso così lietamente giuocando, ed a cui come diverso egli ora ritornava sotto i colpi d'una tremenda sciagura!

Alcune ragazze del villaggio tornando da attinger acqua alla fresca sorgente del bosco vicino, colle loro pentole di terra in equilibrio sul capo, dritte e ferme sulle ben piantate persone, passarono salutando lo zio Gerolamo, e gettando un lungo sguardo di curiosità e d'interesse su quel bel giovane dall'aspetto così patito e dolorante. Il piccolo campanile della cappelletta di S. Rocco, che sta al principio del villaggio come sentinella avanzata, appariva già fra le foglie degli alberi allo svolto della strada che saliva tortuosamente la costa, da lontano si sentiva già risuonare la grossa campana della parrocchia messa in moto dal braccio robusto di Fusella.

Quella vista, quei suoni, quegli accenti, le voci del natio quasi obliato dialetto produssero nell'animo tormentato del giovane nuovo intenerimento. Si coprì colle mani gli occhi e pianse in silenzio.

Gerolamo riprese a parlare:

- Voi siete giovanissimo, ma avete girato il mondo, e non mi pare dobbiate avere l'intelletto affatto ottuso. Dovete adunque aver imparato dall'esperienza più che agli altri della vostra età non consentano gli anni. Dovete conoscere gli uomini, e sapere che chi in una distretta fida nell'aiuto di essi invece che nel proprio coraggio, nella propria energia, la sbaglia come chi aspetta per sicura la vincita del quaterno giuocato al lotto. Avrete avuto campo già di apprezzare che cosa valgano in generale gli amici. Quando non vi piantano su due piedi nella disgrazia, non servono che a seccarvi col senno di poi e con inutili consigli, come facevano già al tempo di Giobbe que' chiaccheroni che andavano a fargli tanto di testa sul suo letamaio. Se Giobbe fosse stato furbo, si sarebbe potuto sbarazzare di essi senza ritardo col domandar loro denari in imprestito. Il mondo è sempre tale e quale: e guai a chi casca sul letamaio di Giobbe! I parenti poi sono degli amici che ci ha dato la natura, e il più delle volte valgono ancora meno di quelli che ha acquistati la nostra scelta.... Capite il latino? Voglio dire che, se voi avete fondato qualche speranza su vostro cugino, ci tiriate pur su un buon frego, e non che a soccorsi, non vi aspettiate neppure all'accoglienza la più cordiale ed entusiastica.

Pierino volse penosamente il capo verso il suo vecchio compagno di viaggio, staccando con rincrescimento lo sguardo dalla vista della campagna.

- Ah! non è per me, e non per mio avviso ch'io vengo ad implorare soccorso diss'egli. È per mia madre, e fu dessa a mandarmi. Un lieve sacrificio del cugino potrebbe conservarci la casa di questo villaggio, nel quale tutti i miei maggiori sono nati e dormono l'ultimo sonno, fuori del mio povero padre, dove nacque anche mia madre e son nato pur io.... Me d'altronde pungeva il desiderio di rivedere il paese. Partii sollecito, e forse troppo presto, perchè il malore, che già mi sentivo fin dal viaggio che ho fatto in tutta fretta per restituirmi in patria appena ricevuto il fatale annunzio, malore che speravo di vincere, ora mi pare accresciuto di tanto da vincer me.

Si entrava nell'abitato. Barbetta si volse verso Gerolamo:

- Dove ho da condurre il barroccio?

- A casa del sor Giacomo: rispose Gerolamo; ma ora aspetta un po' che aggiusto teco i conti, e poi ti lascio andar con Dio.

Trasse di tasca la borsa, e Barbetta tese la mano.

- Ha visto come ho fatto trottare il mio povero mulo, eh? Disse il barrocciaio, mentre Gerolamo contava i denari. Sì, che in un momento abbiamo raggiunto quel giovane, come ella desiderava!...

- Sfido io! esclamò Gerolamo. Quel giovane era mezzo morto su per la strada! Ma non temere tuttavia, avrai la mancia che ti ho promesso.

Lo pagò generosamente, salutò Pierino che lo ringraziava, e dopo che il barroccio riprese il cammino, stette un momento a guardargli dietro; poi presa una stradicciuola di traverso, s'avviò lentamente, appoggiandosi al suo bastone, verso la sua dimora.

Pochi momenti dopo il barroccio s'arrestava alla porta della casa del sor Giacomo.

Al rumore di esso, Enrichetta era la prima a saltar fuori, per veder chi fosse. Si trovò in faccia a quel giovane alto e leggiadro, dalle guancie così pallide, dalla fisionomia così triste, il quale entrava con umile ma dignitoso contegno, tenendo per mano il suo piccolo bagaglio, mentre già si allontanava il barroccio di Barbetta. Ella diede addietro d'un passo; e il suo cuore, senza ch'ella ne sapesse il perchè, si mise a batterle forte forte.

Il giovane, all'aspetto di quella splendida bellezza, rimase sovraccolto, e la sua emozione si manifestò con un lieve rossore che pur venne a colorire la malaticcia pallidezza delle sue guancie.

- Enrichetta! esclamò egli. Tu, certo, se' Enrichetta?

La ragazza stette ancora un poco infra due; poi arrossì fino alla fronte essa pure; i suoi occhi lampeggiarono lietamente, e mandando un gridolino di sorpresa e di gioia, esclamò:

- Ah! tu se' Pierino?

E senza indugiare dell'altro, spinta da un subito impeto di affetto, gli gettò le braccia al collo e gli stampò sulle guancie due bei baciozzi sonori, che il giovane restituì in tutta coscienza e con pari vivezza.

- Finalmente sei qui! Ripigliava la cara e bella ragazza tutta animata. Oh come sei bravo ad esser venuto!... Ti aspettavo, sai!... Me lo dicevo quasi tutti i giorni. Pierino verrà, certo che verrà!... Non avrà dimenticato il suo paese e la sua piccola amica... Ora non sono più piccola com'ero quando ci hai lasciati....

Ed appoggiandosi con amorevole famigliarità alla spalla del cugino, misurava, ingenuamente civetta, la sua graziosa personcina alla statura di lui.

- Ma, continuava, amica lo sono sempre del pari.... E spero bene che tu non ne dubiterai, non è vero?... Come spero che, in tutto questo sì lungo tempo che sei stato lontano, avrai ricordato me e i giorni che abbiamo passati insieme, e i nostri giuochi.... Ti ricordi quando facevamo a gatta cieca nel cortile? E quando andavamo a rubare le susine verdi nell'orto, a gran disperazione della mamma?

Enrichetta rideva allegramente, ed anche Pierino apriva le labbra ad un sorriso, non ostante il male sempre maggiore che si sentiva addosso.

- Se mi sono ricordato di te! Diceva a sua volta il giovane. Oh tanto tanto! In ogni luogo ch'io mi trovassi, in ogni caso della mia vita, il mio pensiero correva alle nostre montagne, e ci vedeva questi cari luoghi, e ci vedeva una cara testolina bionda con quelle due labbra di corallo che son lì adesso tali e quali.... Ma poi, quando la mia troppa disgrazia mi ebbe colpito, ed allora l'unico possibile sollievo al mio dolore sentii che gli era qui, allora, anelai a tornarvi con tutta l'aspirazione dell'anima mia, allora mi parve che qui e dalla mia amica d'infanzia soltanto avrei potuto trovare una vera pietà, alcun conforto, una partecipazione al dolor mio.

Queste parole disse egli con accento pieno di pianto. Enrichetta lo guardò in viso, e gli vide le traccie di tanto soffrire che i suoi occhi eziandio si riempirono di lagrime.

- Ma tu se' stanco: riprese a dire la ragazza, come per isviare il discorso dal troppo doloroso argomento; ed io ti tengo qui in piedi a ciarlare. Vieni, vieni innanzi.

E presolo per mano, lo introdusse nella stanza in cui come il solito stava a lavorare Giovanna, la quale, per sommo favore restituita in grazia, era di nuovo ammessa a far tutte le fatiche e tutte le bisogne della casa.

La zoppa, seduta nel suo cantuccio, arrestò un momento la mano che coll'abituale prestezza tirava i punti nel suo cucito, e guardò chi entrava. La nobile, interessante e soffrente figura del giovane introdotto per mano da Enrichetta, le parve la più bella che essa avesse vista mai. Nel vedere quelle mostre di tanto dolore che lo sconosciuto portava sulla faccia, l'anima di lei, che di patimenti s'intendeva pur troppo, provò per esso il più simpatico trasporto. Avrebbe voluto di botto potere con un suo sacrificio condurre una consolazione in quel cuore, un sorriso su quel volto, e l'avrebbe fatto senza esitare.

Il giovane non ebbe campo a vederla nell'ombra che la sera cominciava a gettare negli angoli. Innanzi a lui si presentarono Genoveffa, alta la faccia rubiconda, imperioso e superbo l'atteggio, ed umile seguace di lei il mingherlino sor Giacomo.

Enrichetta non diede tempo ai genitori d'interrogare; fu presso di loro con un salto, tutta lieta, battendo insieme le palme.

- Gli è nostro cugino, gridò essa trionfalmente. Gli è Pierino, che è venuto finalmente a trovarci.

I genitori non accolsero quella novella colla centesima parte dell'entusiasmo con cui la fanciulla loro l'annunziava.

- Ah! Fece Genoveffa, gli è Pierino!

- Oh oh! Ripetè il sor Giacomo come un'eco: Pierino.

Questi s'avanzò; salutò il cugino e la cugina; li baciò e ne ricevette il freddo amplesso; poi sentendosi mancare le gambe, prese una seggiola e vi si lasciò cader su più pallido d'un cadavere.

Enrichetta fu d'un balzo accosto al cugino, tutta sgomenta.

- O Dio! tu ti senti male?

Pierino rispose con voce affannata, ringraziandola del suo interesse mercè uno sguardo riconoscente:

- Gli è qualche tempo che ho di quando in quando dei capogiri, delle soffocazioni.... Spero che non sarà nulla.

Giacomo e sua moglie si guardarono con aria spaventata. In quello sguardo si dicevano chiaramente a vicenda:

- Costui ci fa qui una malattia adesso! Non ci mancherebbe altro!

- Tu hai bisogno di qualche cosa, rispondeva Enrichetta con amorevole sollecitudine. Vado a prenderti una tazza di brodo.

Pierino scosse la testa in segno debolmente negativo. Il sor Giacomo fu lesto a tradurre in esplicite parole quella negativa.

- No, no, egli non vuol nulla; e mi è avviso ch'egli ha ragione, e che la vera prudenza lo consiglia. È costante che s'è' non si sente troppo bene, il caricarsi ancora lo stomaco può, non che giovargli, ma accrescergli il disagio. Laonde è molto miglior partito lo star così, tanto più che essendo giunta oramai la sera, non si è più lontani dall'ora della cena, dove Pierino si può rifocillar poi, seppure non avrà pranzato, come in città è l'uso generale, alle cinque pomeridiane.

- È impossibile che abbia pranzato alle cinque, interruppe vivamente Enrichetta, poichè essendo giunto coll'ultimo treno della ferrata, egli era in viaggio a quell'ora.

- L'osservazione è giusta, disse il sor Giacomo. Voi dunque, Pierino, soggiunse a mezze labbra, ci farete compagnia a cena.

Il giovane alzò il capo, e guardò fisso in volto prima Giacomo, poi Genoveffa, la fisionomia dei quali era così poco invitativa come poco cordiale l'accoglimento. In quel punto gli vennero alla memoria le parole che poc'anzi gli aveva detto Gerolamo intorno ai parenti; e ne capì tutto il significato.

- Voi sapete, disse egli lentamente, guardandoli sempre a quel modo, che in questo paese, come in nissuno del mondo, io non ho più di mio un misero tetto sotto cui riparare il mio capo. Recandomi nel mio villaggio natale, avrei creduto farvi torto, se da voi non fossi venuto a cercare l'ospitalità.

- Certo, certo: sussurrò il sor Giacomo con tanto appena di fiato da poter essere udito.

- Avete fatto bene: disse Genoveffa freddamente, aggiustandosi le pieghe del grembiale.

- Sì, sì, Pierino: esclamò con calore Enrichetta. Da ragazzi, non eravamo noi come fratelli? Torneremo a vivere quel medesimo per l'avvenire.

- E vostra madre? Chiese il segretario comunale con una certa esitazione, che era frutto del timore di sentirsi a rispondere che sarebbe arrivata ancor essa.

- L'ho lasciata a Torino. Una pietosa famiglia, a cui mio padre, nel tempo della sua prosperità, aveva reso qualche servizio, ha raccolta la povera donna dopo la tremenda sventura, e la tien seco amorevolmente, quantunque non corra fra essa e noi nessun vincolo di parentela.

I coniugi Varada scambiarono fra loro uno sguardo che voleva dire come avessero capito la satira.

- E voi, domandò allora Genoveffa, come per volgere ad altre idee il discorso, da quanto tempo siete tornato in Piemonte?

- Da quindici giorni: rispose Pierino con una voce sorda, che indicava come a questo ritorno cagionato da sì dolorose circostanze avesse sofferto l'anima sua.

Ma Genoveffa, che non era da tanto da capir queste cose, muoveva un'altra più crudele interrogazione.

- E dove eravate voi quando la nuova del disastro vi giunse?

Pierino fu scosso da un lieve fremito, che passò come un lampo.

- Mi trovavo a Nuova York, rispose colla medesima voce. Il colpo fu sì crudo che giacqui per qualche tempo privo di forze, di volontà, di cervello. Quando appena lo potei, dato ordine ai miei affari, partii. Ciò che ho sofferto non saprei dirvelo, non potrei spiegarlo, non lo ricordo nemmanco. Non mi resta più dei tormenti passati che un indebolimento dell'anima; ma nel cuore ogni giorno si rinnova lo spasimo. Soffrii di mente, d'animo e di corpo. Ero ammalato; ma la mia volontà, più forte di esso, dominava il male. Certi momenti credevo morire, ma volevo almanco giungere a morir qui, dopo abracciata mia madre. Molte volte sentivo sfuggirmi dal cervello la ragione e credevo impazzire. L'ho persino desiderato. Ero povero affatto. I fondi mi mancavano, ed io aveva scritto al mio sventurato padre, domandandogli nuovo invio di denari. Povero padre mio! Invece della risposta che aspettavo, mi giunse...

La parola gli fu mozza in gola da un singulto. Tacque un istante; poi riprese con una corta foga, che era come una dolorosa impazienza di finire il crudele racconto:

- Volli pagare ciò che dovevo colaggiù. Vendei tutto quello che mi apparteneva. Quando ebbi pagati tutti i miei debiti e pagato il mio passaggio a bordo di una nave diretta a Genova, mi trovai senza roba e con tanto appena di denari da non morir subito di fame, da non essere costretto a domandar subito un tozzo di pane per Dio, appena avessi posto il piede sul terreno della mia patria. Sostenni privazioni di tutto, e d'ogni fatta. Purchè giunga sino in Italia, mi dicevo, sino a riveder mia madre! Guardavo il mare con infinito spavento nell'anima. Un giorno o l'altro, pensavo, sarò gettato cadavere in questi flutti profondi. Ma invece, a seconda che mi avvicinavo all'Italia pareva in me riprender vigore la vita. Giunto a Genova, presi il primo treno che partiva, e volai a Torino. Come ci rivedessimo mia madre ed io, quali parole e quali lagrime fossero le nostre, non vi dirò. Sono di quei momenti di cui non può capire tutto il dolore chi non li ha provati, cui non sa esprimere nemmanco chi passò per essi. La mia povera madre trovasi invecchiata ad un tratto, come se 20 anni fossero passati dopo l'ultimo amplesso che io le aveva dato. Dopo aver pianto di molto sul nostro dolorosissimo presente, parlammo dell'avvenire. I nostri pensieri si volsero con desio e con amore a questo caro luogo di nostra nascita. Ricordammo che qui avevamo amorosi parenti, che qui aveva le radici la nostra famiglia, che qui sarebbe stato possibile, mentre io avrei incominciato sotto altri auspici, in altre condizioni, la lotta della vita, che mia madre trovasse intanto sicuro asilo e riposo.

La narrazione di Pierino era pure riuscita a commuovere la signora Genoveffa ed anche il sor Giacomo. Quella s'era soffiato due volte il naso fragorosamente, e questi aveva un istante gli occhi rimbamboliti, come quando per gentilezza tirava su del naso due granellini di tabacco della presa offertagli dal parroco. Ma il finale guastò tutto l'effetto di quel patetico.

- Si viene a domandar soccorso da noi: pensarono ambedue; gli è alla nostra borsa che se ne vuole. All'erta!

Le loro faccia divennero fredde come maschere lisciate di cartone; e se Pierino, invece di tener la testa bassa, assorto nel suo dolore, avesse viste quelle fisionomie, senz'aggiungere nè aspettar altro, avrebbe cacciato fuor del suo cuore ogni speranza che vi potesse ancora avere verso que' suoi congiunti ed avrebbe fors'anco abbandonata in quel momento stesso la loro casa.

Chi non ebbe freno alla sua commozione e non la nascose fu Enrichetta, la quale, piangente, si gettò senza riguardi al collo del cugino, e gli disse con amorevole voce da riuscir soave anche al cuore più travagliato dallo spasimo del dolore:

- Povero Pierino! Povera tua madre!... Perchè non l'hai tu subito condotta teco?... Oh scrivile tosto che venga, che venga...

- Cara Enrichetta! Rispose Pierino dolcemente commosso. Oh! tu sei buona!...

La madre in quella interruppe:

- Lasciamo per ora questi discorsi. E' fanno male a Pierino, e nient'altro... Ed anche a me, non fo per dire, ma mi danno un certo rimescolo... Quando si ha un cuore come il mio!

- Si, soggiunse in appoggio il sor Giacomo colla sua voce sottile, facendo boccaccia per mostrare l'interno suo intenerimento; parliamo d'altro.

Ma di che cosa si aveva da parlare? Si stette muti un istante in un silenzio che era più impaccioso e più grave ancora del troncato discorso.

Pierino fu desso a riprendere la conversazione.

- Ma qui, diss'egli, guardando Giacomo, Genoveffa ed Enrichetta che gli stavano intorno, ma qui non veggo tutta la vostra famiglia, cugino. E Giovanna? che cosa ne accade di lei?

Giacomo fece la smorfia che gli era solita quando gli si parlava della sua figliuola primogenita: Genoveffa avrebbe risposto che Giovanna stava benissimo, se Enrichetta glie ne avesse lasciato il tempo; ma la vispa ragazza, senza indugio, con vivacità uguale nell'accento e nelle mosse, esclamò:

- Ah Giovanna!... Gli è vero! Perchè non vieni avanti Giovanna?... Eccola qui la buona Giovannina!

E corse nell'angolo dove, senza che nessuno le avesse badato fin allora, stava rannicchiata la povera zoppa.

In tal momento questa infelice avrebbe voluto profondar sotto terra. Le pareva di star così bene colà, non curata, ignorata, potendo udir ogni cosa e guardare a tutto suo agio la bella figura soffrente e simpatica del giovane cugino! Perchè andarnela a disturbare? Ella aveva ancora gli occhi pieni di lagrime pel racconto udito; e nell'anima aveva una confusione, un turbamento che mai l'uguale. Oh! se avesse potuto recare pur una parola di conforto a quell'immenso dolore che con sì modesti accenti si era pur allora manifestato! Ma che cosa avrebb'ella saputo dire? che fare? La sua naturale timidezza, di colpo, le si era accresciuta con una vergogna de' fatti suoi, quale non aveva ancora provata. Enrichetta la prese per mano, la fece sorgere in piedi, e poi la tirò per condurla presso al giovane sempre seduto, che la guardava dalla lungi.

Bisognava camminare! E bisognava camminare sotto lo sguardo di Piero, che stava aspettandola. Lo spazio di pochi passi fra sè e lui parve a Giovanna d'una lunghezza enorme; si disse in fretta in fretta fra sè ch'ella non avrebbe mai il coraggio di superarlo, e che pure bisognava percorrerlo. Fino allora non le era venuto in mente ancora mai di rimpiangere la sua sventura d'esser zoppa e di desiderare di non esser tale. Sempre le era apparsa questa come la più natural cosa del mondo: ella si riteneva zoppa per la stessa legge per cui sono aspre le sorbe e sono dolci i fichi; nè mai erale passato per la testa il sacrilego pensiero di ribellarsi al decreto della natura, al buon Dio che aveva voluto così. Ora, ad un tratto, sentì una pena nuova ed incommensurabile a doversi mostrar zoppicante innanzi a suo cugino. Non pensò neppure a cercare una ragione; l'avesse anche cercata, non avrebbe saputo dirsela; ma le parve che avrebbe più volentieri affrontato qualunque pericolo che non attraversato quei due metri di pavimento che la separavano da Piero. Avrebbe voluto scappare: si sentì mancare il cuore, ed ebbe paura un momento di svenire; si sentì serrar la gola, e fu lì lì per rompere in uno scoppio di pianto.

Enrichetta la tirava sempre per mano:

- Vieni, su, animo; vieni ad abbracciare anche tu il cuginetto.

Pierino si alzò da sedere, Giovanna gli stava davanti, rossa, confusa, gli occhi bassi, tremante: e il cuore come le batteva affannoso!

- Addio, Giovanna: disse Piero colla sua voce simpatica, armoniosa ed amorevole. Perchè non volevi venirmi ad abbracciare? Forse che tu non mi ricordi più, come mi ricorda ancora Enrichetta?

Giovanna protestò con una esclamazione. Osò ella sollevare lo sguardo in volto al giovane, e vide in esso una sì benigna espressione d'affetto che par tutte le vene sentì scorrere come un benefico calore che la confortasse. Il palpito del suo cuore non fu meno frequente, ma fu meno doloroso, più agevole il respiro.

- Io! Diss'ella con vivacità d'accento per lei straordinaria. Io dimenticarmi di voi... di te... Oh Pierino!

E non potè aggiunger altro, ma chinando di nuovo verso terra quei suoi poveri occhi grigi, due lagrime le calarono giù dalle guancie.

Oh! S'ella avesse saputo dirgli come la immagine del vispo garzoncello, che era stato suo difensore nell'infanzia, fosse rimasta sempre scolpita nel suo cuore; come fra gli affetti maggiori della sua anima avess'ella allogato un'accalorata gratitudine per quell'unico che non solo non l'aveva offesa mai, ma le si era dimostro generosamente pietoso!

Piero vid'egli quelle lagrime? Il suo tanto dolore lo rese forse più ancora proclive a comprendere i dolorosi misteri che gli si rivelavano pur nel contegno, nell'aspetto, in quelle poche parole della povera deforme? Il vero è che egli, con una espansione di tenerezza, strinse fra le sue braccia l'infelice sciancata, e le stampò un caldo bacio sulla fronte, poi due altri sulle guancie, che diventarono infuocate.

Chi potrebbe dire l'emozione onde fu colta in quell'istante Giovanna? Un tale atto ella non se lo sarebbe aspettato mai. Se glie l'avessero predetto, non l'avrebbe creduto di certo. Fuori di Enrichetta così buona, qual altra creatura umana poteva baciar mostro siffatto? E Pierino, la cui beltà essa aveva ammirato cotanto, la teneva fra le sue braccia: e le calde labbra di lui ella le sentì sulla fronte e sul viso! Quel bacio la penetrò come una fiamma. Ella chiuse gli occhi e s'abbandonò un momento sul petto di lui, proprio perchè le mancavan le forze. Quel ratto istante le tornò lungo e troppo corto. Quando, fattasi forza, potè reggersi e spicarsi dal seno di Piero, le pareva che un avvenimento fosse succeduto per cui tutta la sua vita avesse ad esser mutata di botto. Era un nulla che era tutto. Prima il sangue le era salito alla faccia, poi si ritrasse al cuore, che le parve dover iscoppiare, e divenne più pallida d'un cadavere. Sentì come se nella fronte le fossero rimaste appiccicate quelle calde labbra, e seguitassero a filtrare nel sangue un fluido pieno d'incognita ardenza.

Frattanto, colla sua voce commessa e soave, Pierino le diceva:

- Sì, anche tu sei buona, ed anche tu amerai questo povero infelice.

Oh si ch'ella lo avrebbe amato! Oh si ch'ella lo amava!

Giovanna si ritrasse sollecita senza pur rispondere. Avea bisogno d'esser sola. Le orecchie le ronzavano, i nervi le tremavano, si sentiva invasa da qualche cosa di nuovo, di strano, d'inesplicabile, ond'era tutta turbata. Le cose che l'attorniavano, anche le più indifferenti, le comparivano sotto una nuova luce, per così dire, sotto una forma novella. Le impressioni che riceveva erano tutte diverse, più vive le une, più smussate le altre, ma di tutt'altro tenore che prima. Che cosa era dunque intravvenuto? Corse nella sua stanzetta. Per la finestra aperta si vedeva un tratto di cielo bianchiccio per l'ultima luce del crepuscolo; in un angolo cominciavano ad accendersi alcune stelle, e mitemente splendeva più delle altre Venere colla sua luce benigna. Giovanna fissò in questi astri uno sguardo che luceva del pari. Quelle stelle la misera fanciulla le aveva guardate tante volte, e pure mai non le avevano detto la centesima parte di quello che ora le parve dicessero. Credette vederle sorridere a lei, ed ella rispose loro con un suo sorriso. Senti in tutto il suo essere commosso un trasporto, come un bisogno di pregare, di ringraziar Dio, di gettar baci all'aura che spirava. Le sembrò bella la vita!...

XVII.(1)

Pierino aveva voluto uscire per dare ancora in quel giorno, alla luce di quel crepuscolo, un saluto alla casa di suo padre.

Suonò alla inferriata del giardino. Un estraneo venne per vedere chi avesse suonato, e in quella dubbia luce non riconoscendolo, gli domandò chi fosse e che cercasse.

L'orfano si tolse il cappello, e mostrò al guardiano, sotto il poco chiaror del crepuscolo, la sua pallida fronte e le sue guancia più pallide ancora.

- Sono Piero, e vi domando in grazia di lasciarmi entrare.

Quell'uomo allora lo riconobbe. Salutò riverente, e gli aprì.

Il giovane entrò con passo barcollante. I suoi sguardi abbracciarono, per così dire, con avida premura tutte le cose che gli stavano attorno. Si recò sotto un certo pergolato, al cui rezzo soleva sedere suo padre. Il sedile era là ancora a quel medesimo posto. E' vi si lasciò cader su, e appoggiando i gomiti alle ginocchia, il capo alle palme delle mani, stette colà immobile parecchi minuti. Chi sa quali dolorosi fantasmi passarono allora nella sua mente! Quando si riscosse, disse con voce arrangolata al guardiano, che stava rispettosamente innanzi a lui lontano due passi, osservandolo non senza pietà:

- Fatemi una grazia.... Lasciatemi entrare nella camera di mio padre.

Quest'uomo annuì a tal desiderio. S'avviò, e Piero gli tenne dietro. Il guardiano propose di accender lume, ma il giovane non volle. Quando fu aperto l'uscio di quella stanza, Piero entrò solo, e l'uomo rimase nell'andito che vi conduceva. Dapprima egli udì entro la camera singhiozzi e pianto; poscia questo e quelli si calmarono, e successe un compiuto silenzio. Passato un quarto d'ora, il guardiano aprì un battente, e sporse la testa nella stanza.

- Signor Piero, diss'egli con rispettoso riguardo; e' si fa tardi. Abbia pazienza e si ritiri. Tornerà altra volta, quanto più le aggrada, ma ora che gli è notte piena, mi lasci chiuder la casa.

La notte era venuta diffatti, e in quella camera non c'era più luce nessuna da discernervi per entro. Solo per la finestra, al fondo fra le masse scure degli alberi nel giardino, appariva uno squarcio debolmente schiarito di cielo stellato.

Il guardiano non vide Piero da nessuna parte, e non n'ebbe nessuna risposta.

- Signor Piero: tornò a chiamare; e continuando il medesimo silenzio, quell'uomo, un po' sgomento, si avanzò a tentoni per la stanza a cercare del giovane. Urtò, camminando, in un mobile. Era una poltrona, e sopra di essa giaceva immobile Pierino. Il guardiano lo toccò, il giovane era freddo come un cadavere. Lo chiamò ancora scuotendolo; non rispose. Quell'uomo, spaventato affatto, corse per un lume, e tornò di volo. Pierino era svenuto.

Egli, entrando in quella camera, come potete pensarvi, aveva sentito rincrudirsi tremendamente di colpo il suo spietato dolore. Colà aveva vissuto i suoi momenti più lieti il padre perduto; colà egli aveva pensato all'avvenire ed alla felicità di quel figliuolo cui amava più di tutto al mondo, e cui, misero, non avrebbe più potuto mai abbracciare sulla terra. Piero toccò con religiosa riverenza quegli oggetti onde si serviva il padre suo, che gli erano famigliari. Si gettò in ginocchio innanzi alla scrivania dove il morto soleva lavorare, e baciò quel panno verde, su cui credette ancora sentire l'impronta delle mani paterne che vi si posavano. Fu allora che il suo cordoglio eruppe in lagrime e singhiozzi, lagrime ardenti, di cui la fonte avrebbe già dovuto essere esaurita, se la fonte delle lagrime in essere umano che senta e che ami, potesse esaurirsi pur mai; singhiozzi convulsi, che parevano dover rompere il petto del misero cui scuotevano con dolorosa scossa.

Si alzò da ginocchioni, che il capo gli andava a giro. Vide lì presso il seggiolone su cui soleva sedere il padre suo. Quante volte non l'aveva visto egli, da bambino, seduto colà, presso la finestra, in quella mesta ora del crepuscolo appunto, guardando quetamente le nuvolette vaganti pel cielo! Piero si buttò su quella poltrona, vi si assettò come faceva suo padre, e chiusi gli occhi, stette lì immobile, l'animo gonfio d'incommensurabile cordoglio. Che cosa non dovette egli pensare in quell'istante! Quali dolorose immagini non dovettero attraversare la sua fantasia! Quanta amarezza in quel punto non dovette traboccare dall'anima di quel giovane, lieto, amato, ricco, fino ad un'ora fatale; e poi di colpo ridotto povero, infelice, quasi solo nel mondo!

Le sue idee si confusero; il male che da tanto tempo gli serpeggiava per l'organismo, con subita violenza la vinse su di lui; si sentì soffocare, si sentì il capo come se dovesse infrangersi con uno scoppio. Credette morire; e quasi ne fu lieto; ma tosto pensò a sua madre, e nuovo spavento l'assalse. Volle ancora lottare, tentò alzarsi e fuggire; fece uno sforzo in cui raccolse tutta l'energia che gli rimaneva; non gli valse, e ricadde come corpo morto, privo di sensi.

Il guardiano, visto che da solo non poteva, nè coll'acqua gettatagli in viso, nè col battergli nelle palme della mano, far tornare in sè il giovane svenuto, corse alla casa vicina del sor Giacomo a dar l'allarme.

In questa casa era successa una grave discussione intorno al cugino, nella quale marito e moglie avevano manifestato un unanime accordo, e le due ragazze erano state oppositrici, Enrichetta apertamente e con calore, Giovanna in segreto, senza osar dire pure una parola.

Di non accordare al povero cugino la ospitalità che egli era venuto a domandare, nessuno osò proporlo, quantunque, senza il timore di esserne troppo censurati, fosse questo il partito che avrebbero più volentieri adottato i generosi coniugi Varada. Ma ammessa tal quistione pregiudiziale, trattavasi di decidere quale avesse ad essere la camera da destinarsi ad albergare quello sventurato.

Padre e madre sentenziarono di botto per comune ispirazione che quella fosse la stanza terrena, in cui l'autunno si riponeva la frutta, e la quale abbiamo udito dalle confidenze di Giovanna essersi minacciato a questa poveretta di assegnarle per sua, se continuava colla sua tosse a disturbare i sonni dei parenti.

Enrichetta combattè vivamente quella proposta. Secondo lei, non c'era altro da fare che accogliere il cugino in quella più adorna camera pei forestieri di riguardo, la quale era stata inutilmente preparata un mese prima per la venuta dello zio Gerolamo. Giacomo e Genoveffa mandaron le più stupefatte esclamazioni ad udire una cosa simile. Una stanza così bella per uno spiantato di quella sorta! Ma gli era proprio un'eresia. Quel letto era incortinato colla cascata di seta; i mobili erano belli e nuovi fatti venire dalla città capoluogo di provincia; c'era una lista di tappeto, une descente de lit, sul pavimento, innanzi al letto, dall'una all'altra delle guide! O che? S'aveva da metter colà un miseruzzo che si riceveva per carità?

La conciliazione fra quei due partiti estremi era impossibile: Giovanna ebbe il merito di trovare un mezzo termine, col danno, secondo il solito, di sè medesima. Ricordò tra sè come il parroco avesse affermato mal sano l'abitare nella stanza terrena che si voleva dare al cugino, e si spaventò del male che questi, già infermo come appariva, ne avrebbe potuto attingere.

Ella era già stata destinata per abitare quella camera; ella si poneva sotto la protezione della Madonna, cui pregava sempre tanto di cuore; e poi quando non si trattava che di lei, niuno e nè anco essa ci guardava tanto pel sottile. Propose adunque si desse a Pierino la sua camera al piano superiore; ed ella sarebbe discesa ad abitare in quella a terreno.

Enrichetta avrebbe forse mosso ancora qualche obiezione a questo aggiustamento eziandio; ma la proposta fu accettata di subito con sì accondiscendente premura dal padre e dalla madre e con tanto evidente contentezza della Giovanna, che di colpo furono troncati i nervi ad ogni possibile opposizione.

La zoppa si diede senza indugio ella stessa, e con tanto ardore, all'opera di preparare la sua stanza pel cugino e di acconciarsi uno stramazzo comecchessia per sè nella camera dabbasso, che in poco più d'un quarto d'ora ogni cosa fu all'ordine.

In quella ecco giungere il guardiano della casa vicina a recare la trista novella del pertinace svenimento del giovanotto.

Corsero colà tutti, Enrichetta la prima, animando colla voce e coll'esempio gli altri; vi corse Gertrude, vi corse zoppicando Giovanna, vi corse co' suoi passi stretti il sor Giacomo; chiuse la marcia colla sua andatura solenne la corpulenta signora Genoveffa.

Il giovane fu preso a braccia dal guardiano e da Gertrude e portato in casa Varada, spogliato e messo a letto. Giovanna sentiva nel suo cuore una pena da non dirsi; avrebbe voluto offrire metà del suo sangue per far tornare la vita e la salute a quel poveretto. Enrichetta non celava punto la sua commozione; diceva poco, ma sospirava molto, e stringendo forte le mani della sorella, andava via sclamando:

- Povero giovane!

La fante, uscendo della stanza dove s'era allogato Pierino e uscendo per andare a cercare del medico e di un farmaco alla spezieria, gettò un po' di conforto nel cuore delle ragazze mentre passava loro daccosto.

- Egli è tornato in sè il poverino. Santa Maria Vergine delle Grazie, io credeva non avesse mai più da aprire gli occhi!

- E come sta? E che dic'egli? domandarono in una le due sorelle, colla simultaneità d'un duetto in un'opera.

Gertrude crollò il capo e sollevò le spalle per significare che non c'era gran che di bene, e che non aveva tempo da indugiarsi a rispondere, e continuò la sua strada di corsa.

Le ragazze, quando videro il guardiano venir fuori della stanza in cui giaceva Pierino, ebbero il coraggio di penetrarvi esse piano piano, in punta di piedi.

Genoveffa stava dritta presso al letto e il sor Giacomo andava e veniva colla sua andatura peritosa insieme ed irrequieta, in aria crucciosa e contrariata. Il malato giaceva immobile, supino nel piccolo lettuccio di Giovanna, troppo corto per la sua statura. Aveva gli occhi aperti e fissi, ma il suo viso era sempre quello d'un cadavere. Ansimava penosamente, e pareva insensibile alle cose che lo attorniavano. Tratto, tratto, come se un dolore gli desse una fitta improvvisa, i suoi lineamenti si contraevano con subito spasimo, e poi tosto tornavano a quella immobilità di morte. Giovanna ed Enrichetta non dissero nulla, ma avvicinatesi chetamente ai piedi del letto, stettero mirando la faccia del giacente con infinita pietà.

- Non ci mancava più che questa! Borbottava il sor Giacomo durante il suo sollecito passeggiar per la stanza. Un malato in casa, e di una malattia chi sa quanto lunga e come dispendiosa! E chi pagherà medico e medicine?... Se la indovinavo che questo disgraziato mi sarebbe caduto addosso come viene la tempesta! Ora come si ha da fare? Tenerlo, cospetto! Non è mica una bubbola di spesa. Mandarlo via? Dove? all'Ospedale? Ed ecco gli sciocchi a gridare come tante rane d'estate che non ho cuore, che questo, che quello.... Proprio che è stata una brutta invenzione quella dei parenti.... poveri.

Genoveffa giudicò allora di avere abbastanza contemplato la faccia pallida e l'occhio febbrile dell'infermo. Si staccò dal letto, e senza pur pensare a mettere le sordine alla sua robusta voce, disse in tono di sentenza:

- Egli è calmo affatto. Ha avuto una scossa tal quale, e da pulcin bagnato si accasciò un momento. Domani sarà in piedi come se nulla fosse.

Il sor Giacomo diede un sospiro che significava: - Oh fossi tu proprio indovina!

- Per ora, continuava la signora Genoveffa, e' non ha bisogno d'altro che d'esser lasciato tranquillo. Quando il medico verrà, ci dirà poi egli se ci occorre qualche cosa.

Diede il cenno della partenza, Enrichetta, che finse di non accorgersene, fu presa delicatamente per un braccio dalla madre.

- Vieni, le disse, non istà bene che tu rimanga qui. E la trasse con sè, accompagnata nel partirsi dal marito, il quale non si sentiva la menoma inclinazione a stare a guardia di malati, e tanto meno di quello lì, che fra sè mandava di tutto cuore ai cento mila diavoli.

Giovanna restò sola nella stanza dell'infermo, e ne fu lieta assai, assai. Quando la madre aveva intimato di partire, il suo timore era stato di dovere ancor essa obbedire; ma se non si aveva bisogno di lei, chi del padre e della madre pensava alla povera sciancata? Fu obbliata in quella stanza, a patto di fargliene anche una colpa di poi, quando, nascendo il caso di aver mestieri dell'opera sua, si avesse da notare ch'ella era colà rimasta.

Partiti tutti, l'infelice fanciulla si avvicinò adagio adagio al capezzale su cui giaceva abbandonata la bionda testa del giovane. Essa osava fissarne le belle sembianze con immensa pietà, che era una potente espansione d'affetto, e cercava cogliere al passaggio lo sguardo fisso degli occhi larghi ed immobili. L'insensibilità del giacente le faceva paura. Si curvò sopra il letto, e trovò tanto ardimento da chiamare il cugino per nome due o tre volte.

Il malato mostrò pure alla fine aver udito; volse lentamente e quasi con fatica gli occhi verso quella parte onde era venuta quella voce sorda, soffocata, ma pure impressa di tanto affetto. In quelli di Giovanna s'incontrarono gli occhi di Piero, ma privi della luce della ragione, smaglianti solo dell'ardor della febbre.

- Mio padre!... Sussurrò egli debolmente. Mia madre!...

E queste semplici parole furono dette in voce di tanto dolore, contenevano raccolta l'espressione di tanto spasimo, che Giovanna non potè trattenere le lagrime.

Poscia tentò ella di pronunziare alcune parole di conforto a quell'ineffabile cordoglio; ma ben tosto si avvide che il malato non le udiva nemmeno queste parole, perchè se erano tornate in lui le funzioni della vita, non era tuttavia tornata la cognizione. Pierino delirava. Nel suo delirio egli vedeva la sua infanzia cotanto felice, e la riviveva sotto il sorriso paterno e le carezze della madre; rifaceva i suoi viaggi, e si ritrovava di nuovo nelle straniere città fra le liete venture d'un giovane ricco, accolto con premurosa cortesia dappertutto dalla gente di garbo. Ad un punto egli riebbe innanzi il momento del ritorno, il crudelissimo momento, in cui si gettò nelle braccia di lui orfano la madre vedova!

Mandò un grido l'infelice e sussultò con doloroso contrarsi delle membra.

- Madre.... Oh madre! Esclamò Piero con voce di pianto. Siamo soli sulla terra. Egli, il nostro amore, il nostro sostegno, ci ha abbandonati! Stringimi al tuo seno, madre: dammi forza tu, madre. Io ho paura della vita; ho paura d'esser dappoco innanzi alla crudeltà del destino... Se tu sapessi quanto soffro!... Perchè mi hai tu allevato per la gioia soltanto, come se avesse da ridermi sempre il sole della fortuna? Mi avete fatto troppo felice finora.... Ora, te lo dico, madre, ora piuttosto che soffrire preferirei la morte.... Oh no, no, perdonami. S'io fossi solo, oh sì che morirei di buon grado; ma tu mi resti, o madre mia.... Vivrò per te.... Vedrai.... Avrò forza, avrò coraggio.... Dammi un tuo bacio, madre mia, ed esso mi infonderà vigore; dammi un bacio, e vi attingerò la calma e la virtù....

E pareva aspettare con ansia il bacio materno.

Giovanna fu spinta da un subito impulso, su cui non ebbe neppur campo a ragionare. Si curvò sul giacente, e sulla fronte di lui, madida di freddo sudore, depose un bacio pieno di pietà e d'affetto. Le labbra dell'infermo si dischiusero ad un lieve sorriso a provare ch'egli aveva sentito la soavità di quella carezza e che un qualche conforto era sceso nel suo tormentato essere.

- Madre! Diss'egli ancora, girando attorno, come per cercarla, uno sguardo in cui già brillava un po' meglio l'intelligenza.

In quella l'uscio si aprì. Giovanna si rigettò indietro vivamente per allontanarsi dal letto, con una tutto nuova confusione. Entrarono il medico, il sor Giacomo, la sora Genoveffa, Enrichetta, la fante; e per ultimo introdusse la sua faccia curiosa lo speziale Domenico, il quale aveva accompagnato il medico chiamato da Gertrude alla farmacia.

XVIII.

La malattia di Pierino fu giudicata cosa seria e pericolosa, a gran disappunto della signora Genoveffa, a gran malavoglia del sor Giacomo, a profonda irritazione di tuttidue. Enrichetta e Giovanna, buone creature, pendevano dalle labbra del medico coll'ansietà di chi aspetta sentenza di cosa che tocchi i suoi più vivi interessi. Gertrude esclamava forte che gli era un peccato che un bel giovane come quello avesse da morire; lo speziale studiava i moti delle fisionomie dei coniugi Varada; il malato si sforzava di riafferrare quell'intelligenza che pareva balenargli un tratto innanzi e poi sfuggirlo dileguandosi.

- È cosa grave! Diss'egli, ripetendo le parole del medico. No, non voglio essere ammalato. Non posso esserlo, non ho tempo. Mia madre ha bisogno di me, del mio lavoro. Devo affrettarmi, devo andare....

E fece un moto per drizzarsi. Lo si contenne, e il medico, che era chirurgo altresì, cominciò per fargli un buon salasso, dopo il quale il malato parve cadere in una specie di letargo.

- E così? Che ve ne pare? Disse il sor Giacomo con faccia conturbata allo speziale, il quale s'era fermato dietro il medico per apprendere tutte le circostanze dell'arrivo del giovane. A me hanno a capitare di queste battoste! Mi costerà un occhio della testa la malattia di costui, che infine dei conti non mi è poi congiunto che alla lontana. Ciò è costante.

Lo speziale gli diede ragione, lo compati, pose la sua bottega al servizio del malato, e tornò a contare ai soliti frequentatori della sua spezieria che il cugino del sor Giacomo, arrivato quella stessa sera, era poco meno che moribondo, e mezz'ora dopo tutto il villaggio sapeva per cosa certa che il figliuolo d'Antonio Maria giunto quel giorno medesimo, non avrebbe passata la notte.

Il medico, tornato più tardi a visitare il malato, gli riapri la vena, e lo lasciò senza alcun miglioramento. Nell'uscire di quella casa, s'imbattè con Gerolamo, il quale girava in que' dintorni ansioso di saper notizie di quel giovane per cui aveva sentito nascere in cuore un vivo interesse, e pur non volendo mancare alla promessa che aveva fatto a sè medesimo di non mettere i piedi più in casa de' suoi nipoti. Dal medico seppe Gerolamo che se le notizie erano gravi, non erano però così disperate come ne correva la voce, che i signori Varada marito e moglie avevano tanto di muso, e che le ragazze promettevano di aver pell'infermo le cure che avrebbero potuto avere due sorelle.

Lo zio Gerolamo se ne andò, piantando forte per terra il suo bastone e mormorando fra sè;

- Buone figliuole! Sì, buone figliuole!

E diffatti era questo il proposito delle due fanciulle, ma quella che solamente lo potè mettere in pratica fu Giovanna.

Ad Enrichetta non si consenti in nissun modo che ella rimanesse appo il letto dell'infermo. Una ragazza intorno ad un giovanotto, oh sarebbe stato uno scandalo! Andarlo a vedere qualche volta, passi; ma rimaner lì le lunghe ore - tanto peggio poi durante la notte - mai più! E poi star nell'ambiente mefitico d'una stanza di malato, non era egli voler guastar quel flor di bellezza? Per Giovanna era un altro paio di maniche. Poteva ella dirsi una ragazza? Era un mostricciuolo che non aveva sesso. E quanto alla salute di lei, chi se ne curava? L'avrebbero lasciata di continuo a far da guardiamalati presso Pierino, se non avessero avuto bisogno ancor essi di lei. Incaricata esplicitamente di vegliare l'infermo era Gertrude; ma sì! ella aveva millanta cose da fare - ad udirla lei - e non ne aveva di voglia neppure per una. Dove aveva da pigliare il tempo? Andava a cacciar il naso di quando in quando nella stanza del malato, e lo guardava un momento, e poi se ne tirava via, dicendosi per tranquillare la sua coscienza:

- E' non ha bisogno di nulla che di star quieto.

La signora Genoveffa passava giorni intieri senza varcar la soglia di quella cameretta. Si fermava quasi sempre sul passo dell'uscio, e domandava alla Giovanna, che stava li rannicchiata a piè del letto:

- Ebbene?

Giovanna rispondeva:

- Sempre lo stesso.

E la sottana frusciante di madama Varada s'allontanava lungo il corridojo, che tremava sotto il passo pesante.

Se per caso trovava colà Enrichetta, le dava una strapazzatina e la conduceva via.

Così tutte le ore che prima soleva passare lavorando nella stanza terrena dove abbiamo visto andarle a parlare il parroco, ora Giovanna le passava nella stanza del cugino, lavorando del pari, pronta ad ogni menomo cenno di lui.

Le notti poi avvenne che quasi tutte e per intero le vegliasse la povera zoppa intorno al malato. Aveva incominciato fin dalla prima sera. Enrichetta sola aveva parlato della necessità che alcuno rimanesse a veglia del poveretto; ma Gertrude aveva protestato che, quanto a sè, ella era troppo stanca dei lavori della giornata per reggere al sacrificio di tutta una notte; la signora Genoveffa aveva affermato che non c'era nemmen per l'ombra un tal bisogno; il sor Giacomo esclamò con irritazione concentrata nella sua vocina che, per compir degnamente l'opera avrebbe ancora bisognato che gli si volesse far pagare una guardia notturna. Giovanna non disse nulla, ma di soppiatto strinse la mano ad Enrichetta con forza, in modo che significava, e la sorella lo capì perfettamente: "Sta tranquilla; sono qua io."

E diffatti, quando essa ebbe tutto fatto quel che le toccava per la casa e intorno alla mamma, quando questa fu in letto, la Giovanna, invece di scendere al piano inferiore e recarsi allo stramazzo preparatosi, guizzò pianamente nella cameretta dove dolorava l'infermo, e sedutasi innanzi a lui, stette là immobile, fissa a guardarlo.

Nella stanza non c'era lume. L'avarizia del sor Giacomo, aveva trovato che esso era perfettamente inutile per un malato che non doveva nè leggere, nè camminare, nè far null'altro che starsene in letto a giacere. Ma la luna mandava per la finestra un fascio de' suoi raggi che, disegnando una larga striscia sul pavimento, veniva a finire sulle coltri del letto. Quei raggi lunari riflettevano un chiarore opalino che si diffondeva per tutta la stanza, soavissimamente temperato, se così posso dire, all'alta quiete notturna. A tal chiarore, in mezzo alle coltri bianche, spiccava il viso gentile del giacente, più bianco di quelle coltri, più pallido di quel raggio di luna, con intorno l'aureola delle sue abbondanti, finissime chiome bionde, scomposte su pei guanciali.

E Giovanna, la povera Giovanna, la brutta, la deforme, la disprezzata Giovanna guardava, guardava con ineffabile tenerezza quelle troppo leggiadre sembianze.

Chi potrebbe dire i pensieri che invasero la mente di quella creatura infelice, cui la propria innocenza, il disprezzo medesimo che aveva ella stessa di sè non ponevano per alcuna guisa in guardia contro il pericolo di quelle dolci, novissime emozioni ond'ella si sentiva turbata?

Non vi ho io già detto che l'anima sua era amorosissima, e che in quel cuore, con tanta ironia della sorte posto in si misero albergo, stavano raccolti tesori d'affetto?

Ella non riconosceva più sè stessa nel suo segreto. Le idee, che avrebbe trovate le più balzane il giorno innanzi, venivano a spuntare nel suo cervello, come i fiori nel prato di primavera. Nello stesso mentre che la vista di suo cugino soffrente era per lei un tanto dolore, essa sentiva pure nel fondo dell'anima una ignota e inesplicata tendenza ad una strana, mai più provata letizia. Ella guardava sempre Pierino, ma non avea bisogno di vederlo per averne l'immagine innanzi. Questa le si era stampata nella mente e, chiudendo gli occhi, le si affacciava più viva, più reale che mai. Essa tornava a vederlo entrare in quella stanza dov'era solita a lavorare, col suo aspetto sofferente, colla sua andatura graziosa, colla sua maschia e pur gentile bellezza, che tanto bene diceva dello spirito che animava quelle belle sembianze, del cuore che palpitava in quelle membra leggiadre. Poi lo rivedeva, con crescente emozione, levarsi e far un passo verso di lei; quando Enrichetta, traendola per mano, glie la conduceva dinanzi, riudiva il dolce suono delle parole di lui, si ritrovava nuovamente fra le braccia, appoggiata al seno del giovane, come in quel momento in cui il suo cuore le aveva sembrato si dovesse rompere sotto il più acuto, tremendo diletto avesse mai provato l'esser suo. E qui tornava a sentire - e si riscuoteva tutta dal profondo a questa sensazione - sentiva di bel nuovo le labbra di lui posarsi sulla sua fronte...

Oh quel bacio! Le pareva che le avesse lasciato come un'impronta di fuoco, là dove s'era messo, che permanesse là quasi un focolare acceso, il quale continuasse a lanciarle una soave caldezza entro le vene. Si era fatto, direi quasi, un essere materiale che la occupava col suo pensiero, che prepoteva con carissimo dominio sulla sua volontà. Chiudendo gli occhi, ella vedeva la pallida, bella figura di Piero, staccarsi dal guanciale e venire lentamente verso di lei, col suo sorriso pensoso e si potrebbe dire addolorato, e tornare a darle quel bacio, per cui tanto cambiamento era avvenuto in essa.

Rendersi utile a qualcheduno, potere con un suo fatto recar alcun vantaggio a questo od a quello, era stato sempre per la buona creatura il massimo de piaceri; ma ora, poter tutta consecrarsi a lenire pure un istante di dolore a quel giovane sofferente, le tornava la più superba, la più profonda contentezza che avesse ancora provato: il pensiero s'ella potrebbe tutta la vita impiegare a servire, unicamente soggetta come una schiava, quest'essere che di botto le era apparso, la sentiva così nobile, tornava per lei come la più bella sorte da vagheggiarsi, come un paradiso sulla terra.

Povera Giovanna! Anche nel suo cuore la gioventù aveva rammontato quella massa di aspirazioni, di poesia, di intimi sensi che fanno turbata e splendida l'atmosfera in cui palpita l'anima della donna quando l'amore sta per predisporla e maturarla alla necessità del suo destino. A un tratto questo calor latente ed ignorato era stato svolto di forza, da un aspetto, da uno sguardo, da una mite parola, da un accento di voce, da un fatale contatto di labbra. Fantasia e sensi, cervello e cuore, tutto avea tumultuato in lei. Come una nuvola vertiginosa di farfalle dai brillanti colori, come uno stormo d'uccelletti vivaci ed agitantisi, erasi precipitata nell'anima di lei una turba di pensieri nuovi, strani, seducenti, una turba di amorini sussurranti in vario metro una dolcissima musica.

Ed essa guardava sempre la pallida, bella faccia di Piero. Ad ogni menomo atto, Giovanna era in piedi ed accorreva al capezzale, affine di udire se l'infermo domandasse alcuna cosa od esprimesse un desiderio. Quasi sempre erano parole incoerenti pronunziate nel delirio che perdurava; sovente egli faceva colle labbra inaridite il moto che si fa bevendo, e la ragazza, indovinando che quello era effetto della sete che tormentava il giacente, gli amministrava con infinita sollecitudine e delicatezza da bere.

Fino ad un punto, il malato era rimasto abbastanza tranquillo; ma nell'inoltrarsi della notte erasi manifestata e venuta crescendo in lui un'agitazione per cui Giovanna sentiva la maggior pena del mondo. Egli si dimenava entro il letto di qua e di là, volgeva e rivolgeva dall'una all'altra parte la testa, come se dappertutto trovasse un guanciale di spine; tentava sollevarsi, e non potendo, ricadeva piombato sul letto, rigettava dal suo petto le coltri come se gli fossero un peso insopportabile, smaniava agitando le mani, e mandava tratto tratto gemiti interrotti di lamento. Che cosa non avrebbe dato la povera Giovanna per poter procurare alcun sollievo a quel dolorante a lei già così profondamente diletto! Come si struggeva nella dolorosa impotenza in cui ella era di fargli alcun bene! Aveva pensato chiamar soccorso destando i suoi che dormivano, correre dal medico perchè veniss'egli a trovare quel poveretto; e non aveva osato far l'una cosa, nè l'altra. Pregava con fervore entro l'anima sua la beata Vergine, e i santi, e il Dio che ha sofferto per l'umanità.

Il colore acceso delle guancie di Piero indicava abbastanza come egli fosse allora sotto il parossismo d'un forte accesso di febbre. Giovanna ritta presso al letto, appoggiandosi a quest'esso, volle giudicare dell'ardore della febbre toccando la fronte dell'infermo. Questa fronte ardeva. Quando la ragazza tentò ritirare la sua lunga e magra mano da quella fronte, Piero fece un moto come per ritenervela. La freddezza della palma della destra di Giovanna aveva recato alcun refrigerio al dolorante, ed egli, con atto istintivo, procurava continuare quel contatto onde aveva conforto. Giovanna comprese e stette lì immobile per lunghe ore, alternando or questa or quella mano sulla fronte del giacente. Fosse il freddo materiale di quel tocco, fosse l'effetto d'un fluido speciale infiltrato da quella tanta volontà di giovare, da quel tanto affetto che animava quella buona creatura, il vero è che il malato si venne calmando a poco a poco, e sotto quella mano, che posava su di lui come una carezza, fini per assopirsi. Giovanna, vedendo Piero respirar più quieto nel suo sopore, sentì una tale soavità invaderla tutta, che gliene vennero agli occhi le lagrime.

Nelle notti di poi era stato ordine del medico che si stesse a vegliare l'infermo. Nuovi borbottamenti di Genoveffa e di Giacomo, i quali tuttavia non pensarono nemmanco un istante a concorrere personalmente all'opera pietosa. Fu deciso che avrebbero vegliato Gertrude e Giovanna, una notte per turno ciascuna. La serva non mostrò accogliere quella decisione con molta contentezza; borbottò che ella, faticando tutto il giorno, aveva mestieri di dormire la notte, e che se si voleva una vegliatrice notturna, dovevano procurarsela altrimenti; ma figuratevi se i coniugi Varada erano disposti ad udire di quell'orecchia! Enrichetta si offrì bene con molto calore ad entrar terza in quel turno e vegliare una notte su tre ancor ella; ma la sua proposta dalla mamma non fu nemmanco lasciata venire in discussione, e dichiarata tosto impossibile, assurda, affatto sconveniente.

Ma la prima notte che toccò vegliare a Gertrude, la povera Giovanna sul suo stramazzo nella stanza terrena non poteva aver quiete. Le pareva che non essendoci essa presso il malato; ogni momento dovesse succedere qualche cosa di peggio. E Gertrude sarebb'ella stata sveglia? E Gertrude avrebb'ella avuto, avrebbe saputo avere tutte le attenzioni che occorrevano? Ah! non sarebbe stata la mano di Gertrude - essa lo sentiva - la quale avrebbe potuto ottenere l'effetto che la notte precedente aveva conseguito la sua mano posta sulla fronte di Piero! E s'egli avesse avuto ancora bisogno di codesto e invano avesse aspettato quel sollievo!... Giovanna non potè più reggere oltre alla inquietudine che la prese. Salto giù del suo giaciglio, si vestì a bardosso in tutta fretta, e con ogni maggior cura, per non far sentire il suo passo claudicante su per la scala e lungo l'andito del piano superiore, si recò nella stanza del cugino. La luna che batteva giusto sul letto le mostrò il malato, nel parossismo della febbre, uguale se non maggiore di quello della notte precedente, smaniare più agitato che mai, e Gertrude, appoggiato il capo sul lembo estremo del materasso, placidamente addormentata.

Giovanna fu in un salto alla sponda del letto. La serva si svegliò in sussulto mezzo spaventata.

- Che cosa c'è? Gridò essa ad alta voce nel vedersi dinanzi quell'ombra colle chiome scarmigliate entro il chiarore della luna.

- Zitto! Disse la zoppa sollecita. Non ispaventarti. Sono io.

- Lei! Che cosa vuole? Che cosa è venuta a fare! Che cosa v'ha di nuovo? La povera sciancata ebbe l'ispirazione d'una sublime bugia.

- È già tardi, ella disse. Presto farà giorno, se vuoi andarti a riposare un poco, vacci pure. Starò io in tua vece.

Codesto rispondeva troppo bene all'intimo desiderio della Gertrude, perchè questa movesse la menoma obiezione: onde, senza punto stupirsi che la notte fosse passata con tanta fretta, la serva si alzò, e non ringraziando nemmanco la giovane, lasciata costei a suo posto, se ne andò a coricarsi nel suo letto, dove, non erano cinque minuti trascorsi, che ella russava nel sonno il più sodo e il più duro che si possa avere.

Giovanna, rimasta sola presso il malato, provò di nuovo a tener la sua mano sull'infuocata di lui fronte, ed ebbe l'immenso gaudio di vedere ottenuto il medesimo effetto.

Le notti che susseguirono avvenne sempre la cosa stessa. Passato appena un'ora dacchè Gertrude era lasciata a guardia del malato, Giovanna compariva, dicendole che la mattina era presso e ch'essa poteva ritirarsi: il che la fante non mancava mai di fare, senza la menoma obiezione; e così avveniva che tutte le notti le vegliasse la povera sciancata, senza riposarsi mai.

Chi avrebbe creduto capace la miserella, debole ed infermiccia cotanto, di reggere a questa prova? La volontà, la carità e l'affetto sono veramente capaci di grandi miracoli. Giovanna dimagrò, impallidì, si stremò ancora di più; le sue guancie divennero più infossate, più livide le sue occhiaie, più profonda e più penosa la sua tosse; ma ella sostenne la gravosa fatica, lieta, non trascurando pur nulla mai delle altre sue bisogne, quasi riconoscente che le si lasciasse compiere tanto sacrificio di sè.

XIX.

La malattia di Pierino fu causa che lo zio Gerolamo mancasse alla promessa che aveva dato a sè medesimo di non entrare mai più nella casa dei nipoti. Egli desiderava molto vedere l'infermo; i nipoti erano disposti ad accogliere a porta aperta lo zio e fargli cera migliore di prima, in causa dei dubbi cui avevano saputo ispirare le rivelazioni dello speziale; non mancava che il frego congiuntivo d'un'occasione per mettere a contatto questi desiderii e farli accordare. Quest'occasione la porse, chi l'avrebbe mai creduto? il marchese di Roccavecchia.

Ancor egli aveva udito far parola del giovane infelice arrivato e caduto infermo a quel modo, e come tutto il paese, essendo che il vecchio nobile avesse in fondo cuore eccellente, aveva sentito un grande interesse pel figliuolo del fallito Antonio Maria. Un giorno adunque, sceso dal suo superbo castello, s'era avviata alla casa del sor Giacomo coll'intenzione di cogliere due colombi con una fava; saper notizie di quel giovinetto, e vedere la sua diletta figlioccia Enrichetta, la quale da qualche giorno aveva trascurato di andargli a fare le solite visite.

Presso all'abitazione dei Varada il marchese incontrò Girolamo, che andava e veniva per uno spazio di una ventina di metri, battendo impazientemente colla ghiera del suo nodoso bastone i grossi sassi del disuguale selciato.

- Buon giorno, signor Porretta, disse per primo il vecchio nobile con tutta la sua compitezza abituale, toccando la larga tesa del suo cappello di paglia di Panama.

- Riverisco, signor marchese: rispose Gerolamo, non potendo a meno che rispondere, con una scappellata al saluto del gentilissimo aristocratico.

- Lei forse viene di casa, sor Gerolamo?

- No.

- Ci va?

- Sì.... no.... cioè.... Sono qui che aspetto il medico.

- È andato forse adesso a vedere il malato?

- Per l'appunto.

- E come va quel povero giovane?

- Son qui che attendo il medico che venga a portarmene le novelle: rispose Gerolamo con tutta, la sua ordinaria bruschezza.

Il marchese sorrise in aria di condiscendenza, di protezione e di superiorità.

- Mio caro signor Gerolamo, mi pare molto più semplice, in luogo di star qui aspettando le novelle, di andarle a cercare noi medesimi là dentro.

Con una certa famigliarità da principe che vuol onorare il suo suddito, passò una mano sopra il braccio dello zio Gerolamo, ed appoggiandovisi, continuò coll'accento di chi non può supporre nemmanco si possa fare la menoma opposizione a quanto dice:

- Or via, andiamoci insieme poichè quella è la meta eziandio della mia gita; e sono appunto lieto di arrivare mentre c'è il medico.

Si ha bell'essere un vecchio burbero di democratico, ma quando l'ultimo nobile rampollo d'una stirpe nobilissima che si fu avvezzi nell'infanzia a veder circondata di ogni deferenza, vi parla in questa guisa e vi trae con sè per sì dolce ed urbana violenza, come si fa a resistere?

Lo zio Gerolamo, che pure aveva molto coraggio, non ebbe quello di piantarsi lì col suo bastone e dire al marchese:

- Non voglio entrare in casa di quegli animali, cui voi favorite della vostra protezione.

Si lasciò far violenza e ripassò - come dentro si desiderava fortemente - quella soglia che aveva giurato di non varcar più.

Il marchese e Gerolamo giunsero nel salotto terreno quando appunto il medico, dopo visitato l'infermo, dava ai parenti colà raccolti le men buone notizie. Il trasporto al capo in Piero resisteva a tutte le operazioni di sangue; la cognizione non era più tornata in lui, e il delirio s'avvicendava col letargo; di sicuro il medico non credeva poter dire ancora nulla, ma le probabilità erano più pel male che pel bene, e se l'infermo avesse durato ancora dodici ore in quello stato, il pericolo peggiore sarebbe diventato una certezza.

Il sor Giacomo esclamava che quello era un bell'impiccio, Genoveffa gridava che la sorte li aveva proprio presi a perseguitare, Enrichetta piangeva disperatamente, Giovanna, secondo il solito, era rimasta di sopra presso il capezzale del giacente.

L'entrata del marchese e dello zio Gerolamo fece diversione. Al marchese era cosa abituale che si facessero le più onorifiche accoglienze; allo zio Gerolamo la nuova politica, inaugurata dietro il consulto col diplomatico speziale, imponeva loro le sembianze dell'amorevolezza e del rispetto. Non ostante il fastidio e l'irritazione che in essi avevano posto le parole del medico, i coniugi Varada non mancarono alle loro abitudini verso il marchese, al divisato piano di condotta verso lo zio. Il sor Giacomo salutava come un burattino, e se il suo sorriso aveva l'amenità di quello del pizzicagnolo che si vede andare in malora le acciughe, era pur tuttavia pieno di buona volontà d'essere ameno; la signora Genoveffa si abbandonava alle riverenze più profonde ed ai complimenti di maggior sesto. Enrichetta, poverina, continuava a pianger sì dirotto, che non aveva tempo nè modo da dire nè da far nulla per accogliere il padrino e lo zio.

Il marchese, piantato lì marito e moglie Varada, corse nell'angolo dove singhiozzava la giovanetta.

- Olà, cara la mia fanciulla, diss'egli prendendola per mano e traendola a sè per abbracciarla paternamente; che cos'è questa desolazione così superlativa? Diamine! questo cugino, che è qui soltanto da due giorni, ti sta bene a cuore!

Enrichetta, pur nel suo dolore, sentì un gran turbamento a queste parole... Avrebbe voluto potere ad un tratto ringoiar tutte le sue lagrime, poter nascondersi, essere lontana di lì, e non aver udito quel che le era stato detto. Per la prima volta, sentì dentro se un po' d'ira contro il suo buon padrino, che la sopraccaricava sempre di carezze, di regali e di complimenti.

La madre intervenne.

- Questa buona Enrichetta! Diss'ella. Ha un cuore tanto fatto! È tutta la sua mamma questa cara piccina.

Gerolamo protestò con una tosse, cui gli suscitò l'aver ricacciate in gola le parole che già stavano per uscirne.

- Via, via, soggiungeva il marchese, carezzando la mano della ragazza. Ad ogni modo conviene farsi coraggio, e poi le cose non saranno proprio disperate del tutto...

Lo zio Gerolamo arrestò in quella per un braccio il medico, che, credendo di non aver più nulla da fare, se ne partiva quatto quatto.

- Alto là, signor dottore. Parlate voi, e proprio sul sodo. Quel giovane è spacciato?

- Non ancora. Stanotte o domattina, mi aspetto una crisi; se volge in bene, eh allora si potrà sperare; ma se invece la va male, buona sera ai suonatori.

- Diavolo!

- Perciò io diceva al signor Varada che sarebbe stato forse opportuno scrivere alla madre di quel poveretto; se si voleva esser sicuri ch'ella potesse ancora vederlo.

- Diavolo! Diavolo! Esclamò ancora lo zio Gerolamo tormentando con mano agitata il pome del suo bastone.

Il sor Giacomo fece una smorfia, e il rosso della faccia di Genoveffa crebbe d'intensità.

- Sicuro! Disse il marchese; il quale ricordandosi come egli per convinzione e per partito politico fosse buon cattolico, si affrettò a soggiungere; e converrà pure pensare a fargli somministrare i conforti della religione.

A queste parole i sospiri di Enrichetta si cambiarono in un nuovo scoppio di lagrime e di singhiozzi.

- Eh! la religione avrà tempo ad arrivare: disse bruscamente lo zio Gerolamo, cui il marchese giudicò allora oltre che democratico, anche un eretico. L'abbiamo qui a due passi incarnata nella buona faccia di don Pasquale; ma la povera madre bisogna farla venire da Torino.

- Conviene scriverle subito, soggiunse il marchese. Colla strada ferrata in tre ore può essere qui.

- Certo! Rispose Gerolamo col suo burbero accento. Domani mattina potrebbe trovarsi al capezzale di suo figlio, ed assistere a quella crisi che il medico ci annunzia. Se la volgesse bene, nulla di meglio, ma se invece... Povera donna! Provata così duramente dalla sorte, avrebbe da vedere morirsi fra le braccia il suo unico figlio; il solo sostegno, il solo amore che le resti?

Le lagrime di Enrichetta raddoppiarono.

Lo zio Gerolamo aveva un cuore eccellente (ve ne siete potuti accorgere); ma aveva l'umore più bizzarro che non sia permesso ad uomo che ha da vivere in società. Il pianto della ragazza gli faceva molta pena, ma finì per impazientarlo ancora di più.

- Eh calmati una volta: gridò alla giovane lo zio con un tono ruvido, onde il padre e la madre di lei e il marchese e persino il medico si scandolezzarono. Quando tu abbia spremuto due ettolitri di lagrime, non cambierai punto cica delle cose.

Enrichetta mortificata cacciò il grembiale sugli occhi, e fuggì di stanza per andare a piangere liberamente altrove.

Gerolamo continuava, come se nulla fosse:

- Figuratevi il bel colpo che si ha da recarle a quella misera, scrivendole;

"Venite presto che vostro figlio si muore!"

E si avrà bell'avviluppare questa botta nel cotone delle frasi; state pur certi ch'ella capirà più e peggio di quel che sarà scritto; sentirà il colpo tremendamente nel cuore. C'è pericolo di ammazzare una povera creatura di donna. In presenza di questo pericolo io avrei il coraggio d'un temerario indugio. Aspettiamo la venuta della crisi. La va bene? Ed allora parto io stesso per Torino, cerco di quella povera donna, e la conduco qui fra le braccia del figliuolo entrato in convalescenza. La va male? Allora pazienza, si curva il capo alla necessità della sorte, che ci costringe a dare il colpo tremendo.

La proposta dello zio Gerolamo fu accettata all'unanimità; il marchese, da uomo di cuore qual'era, capì tutta la pietà dell'idea di Gerolamo; i coniugi Varada videro che si sarebbe ritardata la venuta d'una novella ospite, e non trovarono motivo di contraddire ai due vecchi postisi d'accordo.

Il medico partì promettendo di ritornare fra poche ore, il marchese si pose in cerca della sua diletta figlioccia, e lo zio Gerolamo salì al piano superiore, curioso di dare un'occhiata alla faccia dell'infermo.

Entrò pian piano nella stanza che si era fatta additare da Gertrude; così piano che neppure Giovanna a tutta prima non l'ebbe udito venire. Vero è che la povera Giovanna non era solo intenta a guardia del giacente, ma era assorta eziandio in una fervorosa preghiera.

La stanza essendo fatta scura, Gerolamo che veniva dalla luce non ci vide nulla per entro al primo affacciarsi, e si arrestò sulla soglia, timoroso d'urtare in qualche mobile. Nulla colà si muoveva, ed il solo rumore ad udirsi erano due respirazioni affannate, l'una dal mal fisico, l'altra da un immenso dolore morale.

Poco stante, lo zio cominciò a discernere alquanto gli oggetti in quello scuriccio; vide nel bianco dei lenzuoli un capo scarmigliato in cui due occhi accesi brillavano di luce febbrile, vide buttato lì presso al letto un viluppo di panni, che era la povera zoppa in ginocchioni colla testa appoggiata alla sponda.

Quando gli occhi di Gerolamo, assuefattisi a quella poca luce, vedevano distintamente ogni cosa, Giovanna sollevò il capo e fissò sul quadro pendente al capezzale del letto, quadro che rappresentava la Madonna dei sette dolori, uno sguardo di così intima supplicazione, di tanto spasimo e insieme di tanta speranza, che lo zio ne fu profondamente commosso. Le mani strette violentemente insieme e sollevate verso la divina effigie, l'espressione di anelito della faccia macilenta e scolorita, concorrevano a dare più vivo e più efficace il significato a quello sguardo che conteneva tutto lo spasimo d'un alto spavento e insieme tutto il trasporto d'una intima speranza e d'una fede sopraterrena. Il vecchio zio, in quel momento, per quella vista, lesse più a fondo e meglio nell'anima di quella povera creatura diseredata d'ogni bene, che non avrebbe potuto fare con lunga coabitazione nelle circostanze ordinarie. Involontariamente pensò alle lagrima ed ai singhiozzi d'Enrichetta che l'avevano impazientato un momento prima, e senza preconcetto proposito di volerne far paragone, si disse che più profondo ancora e più forte era quel muto dolore ch'egli ora sorprendeva nella povera sciancata, e che nell'anima di questa più tenaci ancora e più forti avevano ad essere gli affetti.

S'inoltrò con precauzione entro la stanza, e Giovanna che l'udì sorse di scatto in piedi.

- Lei, zio Gerolamo! Esclamò a bassa voce la poveretta, riconoscendo chi entrava. Oh come è stato buono a venire!

- Sì, sono io: rispose Gerolamo con una ruvidezza che celava la sua emozione. Buono o non buono, ho voluto vedere co' miei occhi come si governa questo poveretto.

Giovanna scosse il capo, mandò un profondo sospiro e reclinò gli occhi alla terra.

- Sete...sete... oh quanta sete! Balbettò in quella il giacente con fioca voce.

La ragazza destramente sollecita sollevò col braccio diritto il capo del malato, e colla mano sinistra gli porse alle labbra la tazza ch'egli bevette avidamente.

- Uhm! Fece lo zio. Sei sempre intorno a questo povero diavolo, ci scommetto.

- Più che posso, rispose semplicemente Giovanna. Non ho l'animo tranquillo, quando son fuori di qua. Egli stesso poi non prende volentieri da bere se non glie lo porgo io, e non si calma se non gli tengo io la mano sulla fronte.

- Ah ah! Dunque un po' di cognizione ce l'ha?

- Il medico dice di no; ma quando io sopraggiungo e gli parlo, e' mi pare che mi riconosca.

- Lascia un po' ch'io lo esamini per bene. Lungo la mia vita ne ho già veduti parecchi di quelli toccati dal dito della morte, e un poco me ne intendo.

Giovanna gli fece luogo, e Gerolamo, chinatosi sopra il malato, lo guardò attentamente.

- Può essere ch'io non sia altro che una grossa bestia! disse egli ridrizzandosi poi; ma mi pare che questo giovanotto ha ancora una buona provvigione di vita...

La misera zoppa non lo lasciò neppur terminare. In un impeto subitaneo di riconoscenza irriflessiva, gli afferrò una mano e la baciò con ardore.

- Ehi là! Esclamo lo zio con tono da brontolone. Io non ci posso nulla, che il diavolo mi porti!

Prese la buona Giovanna fra le braccia, e stringendola senza badare che le piantava nella gibbosità della spalla il pomo del bastone, suo inseparabile compagno, tanto da farle male, le stampò sulla fronte il più affettuoso bacio, come se sotto quella fronte vi fosse un leggiadro visino invece di quelle brutte sembianze, mal fatte e butterate.

- Sta di buon animo, Giovanna: le disse. Questo povero diavolo guarirà, e sarai tu che più del medico avrai giovato a guarirlo.

Quindi uscì, borbottando fra sè;

- Se mai casco malato, non voglio altro guardiano che questo angelico mostro di ragazza, e quando tirerò le calze, il diavolo mi porti, se non voglio crepare fra le sue braccia.

Il marchese in questo frattempo s'era industriato a calmare il dolore d'Enrichetta, e se non era riuscito a consolarlo il meno del mondo, almanco aveva ottenuto alcuna diversione da esso col regalo d'una bella collana che appositamente s'era procurata a Torino. Quando il padrino le faceva di simili doni, Enrichetta gli saltava al collo, e sapeva trovare sì care parole, dette in sì caro modo per ringraziarnelo, che il vecchio marchese ne andava tutto in sollucchero. Quel giorno invece mancò la gioia espansiva, mancarono i baci, mancò l'entusiasmo ammirativo; appena fu se lo sguardo della fanciulla pagasse un tributo di curiosità al gioiello che brillava nella sua bustina foderata internamente di raso; e tutta la manifestazione della riconoscenza la sostenne la signora Genoveffa con un'abbondanza di parole da impazientare chicchessia.

Il marchese, poco soddisfatto del cambio, se ne partì pensieroso, e sulla soglia incontrandosi di nuovo con Gerolamo, che se ne veniva ancor egli, andò con esso lui di conserva per un tratto di strada.

- Signor Porretta, disse il marchese, ha ella badato a una cosa?

- Ho badato a parecchie cose, rispose Gerolamo; ma non so se fra queste vi sia quella di cui vuol dire il signor marchese.

- Voglio dire il dolore d'Enrichetta.

In quella erano giunti alla cantonata della piazza, e lo speziale, dritto sul passo della sua bottega, secondo il solito, vedendoli venire mosse loro incontro con profonde salutazioni al signor marchese.

Questi rispose ai saluti con un cenno famigliare della mano, e continuò il suo discorso, che Domenico accostatosi potè udire.

- Quel dolore per un semplice cugino, ancorchè sia stato compagno d'infanzia, è troppo. Ho paura che quella cara Enrichetta si sia lasciata portar via il cuore.

- Diavolo! mormorò lo zio Gerolamo, a cui le parole del marchese facevano sospettare un'altra simile verità, onde assai si sgomentava, riguardo a Giovanna.

- Cospetto! esclamò lo speziale sbalordito, che vedeva in quelle poche parole una minaccia terribile ai suoi vagheggiati propositi.

Il marchese salutò col suo garbo protettore, e si allontanò nella direzione del suo castello.

Domenico domandò con premura a Gerolamo:

- Che cosa dic'egli il signor marchese? Ci sarebbe pericolo?

- C'è che, guarisca o muoia, quel dabben giovane mi pare mandato qui dal diavolo apposta per far molto male ad una povera creatura.

Così rispose quasi in collera lo zio Gerolamo, e senza voler ascoltar altro, entrò nella porticina, e si recò a casa sua.

- Che? che? disse a sè medesimo lo speziale, grattandosi un'orecchia. Mi lascierei portar via la torta da un gatto forestiero? Oibò oibò!

E si ritirò ancor esso nella sua farmacia, scuotendo il capo come se l'avesse grave per mille ponderosi pensieri.

XX.

La notte che successe, Giovanna non abbandonò un minuto solo il capezzale del giacente; bene aveva inteso dal medico che quella era notte decisiva della sorte del giovane, meglio ancora e più vivamente glielo diceva in cuore il suo istinto. Essa inumidì al dolorante le labbra con cura continua, ne rinfrescò la fronte colle carezze delle sue mani, coll'alito del suo soffio, coi baci - sì anche coi baci - delle sue labbra. Ad un punto in cui pareva oppresso al giacente il respiro, ella trovò tanta forza nelle sue deboli membra, lasse per tanta fatica già sostenuta, da poter sollevare la persona di Piero e sostenerla appoggiata al petto palpitante, il capo abbandonato sulla sua spalla fuor di squadro. Quella positura parve recare conforto non poco all'affanno onde l'infermo era travagliato. Stette così lunga ora in un queto assopimento; ed ella immobil sempre nel penoso suo stare, non osava pure trarre il respiro. Ma quanta soavità sentiva la buona creatura entro sè stessa!

Il suo amore - sì il suo amore; e perchè non chiameremmo la cosa col suo nome? - Era un vero amore il suo, da essa medesima ignorato, povera creatura condannata a viver scevra dalle gioie paradisiache e tremende dell'amor corrisposto, ma un amore santo, puro, immenso, in cui tutta s'era venuta a fondere l'anima sua, la potenza della sua virtù, la sublimità del suo spirito - il suo amore prendeva in quell'istante alcuna tinta eziandio di quell'altro divino sentimento che è la maternità. Le pareva, sentiva che in quell'atto, con quella tanta effusione di volontà, di affetto, di sè medesima, ella istillava una porzione di vita in quell'organismo travagliato dal male, ella impediva, colla potenza del desiderio e dell'amore, che in esso prevalesse la morte. Gli affetti di donna innamorata e di madre in una invasero la sua anima così nobile e così santa. Le parve acquistare un diritto su quell'essere che riposava abbandonato fra le sue braccia; che ella, conservandolo alla esistenza, faceva suo il diritto ed il dovere di vegliare per sempre su quel capo diletto, che si appoggiava con tanta fiducia su lei. Ebbe uno scampolo delle ineffabili gioie materne, ella, misera pianta infeconda in questa landa della vita!

Al mattino il medico fu molto e grandemente sorpreso della piega che prendevano le cose.

- È va il meglio che si possa desiderare, diss'egli alle due ragazze che stavano ansiose aspettando le sue parole. Sono certo che fra poco tornerà pienamente in conoscenza di sè, e se nulla succede di nuovo, si può dir salvo fin d'ora.

Enrichetta proruppe in una esclamazione di gioia, e non potè contenere l'espressione del suo contento. Giovanna, essa, non ebbe parole; impallidì ancora maggiormente, sentì un rimescolìo inesprimibile in tutto il suo essere, le parve che la tanta emozione le stringesse la gola con mano di ferro, i polsi le batterono forte forte nel capo, fuggì da quella stanza, e riparatasi dove nessuno la potesse vedere, si gittò ginocchioni in terra, scoppiò in pianto che non erale penoso, sollevò le palme congiunte al cielo. ed esclamò dal fondo dell'anima:

- Grazie! Grazie, mio Dio! Grazie Vergine santissima addolorata!

Poi rasciugatisi in fretta in fretta gli occhi, premutosi il cuore che saltellava allegramente, come per imporgli più calmo battito, ella tornò sollecita nella camera dell'infermo. Tutta la sua stanchezza della notte parevale affatto svanita. Il medico aveva detto che Piero non avrebbe tardato a rientrare in sè. Ella voleva esser lì a cogliere il primo sguardo della tornata intelligenza. Era l'unico premio cui osava aspirare. Con quanta emozione stette essa aspettando questo sguardo! Ma vedete disavventura della infelice! La madre la chiamò per alcuna bisogna.

- Vai pure, disse Enrichetta. Sto io qui a vece tua....

Ah! gli era questo appunto che pungeva la povera creatura, e non ne sapeva bene il perchè. Un'altra in sua vece! Un'altra che avrebbe potuto carpirle quell'unico compenso cui agognasse! La madre ripeterà la chiamata colla voce più forte, con cui fosse solita far rimbombare le stanze di quella casa. Giovanna diede ancora una sguardata al volto placidamente composto di Piero, che teneva gli occhi chiusi e si allontanò. Ma appena aveva fatto pochi passi, quando Piero, foss'egli stato desto dalla voce troppo robusta della signora Genoveffa, aprì gli occhi, e li girò intorno con espressione di piena intelligenza.

Vide innanzi a sè la splendida bellezza d'Enrichetta, la quale pareva spandere un mite chiarore nello scuro di quella stanza. Richiuse nuovamente gli occhi per vedere se quella fosse una lieta visione od una realtà. Riaprendoli, riconobbe del tutto quelle sembianze leggiadre e quello sguardo soave, in cui era una emozione ch'egli sentì ricercargli dolcemente le più intime fibre dell'anima.

Durante il suo delirio, alcune volte, aveva egli pur tuttavia traveduto, come per lucidi intervalli, uno sguardo e un sorriso benigno di donna stargli sopra con immenso amore: aveva sentito in nube l'impressione di benessere che le cure della povera Giovanna gli cagionavano: l'idea glie n'era stata come latente entro l'anima per isvolgersi al primo tornare in sè della mente offuscata. Ora il ricordo e la riconoscenza glie ne vennero ad un punto: e trovandosi lì presente la bella fanciulla, a lei di colpo egli ne fece omaggio e li credette dovuti. Piero guardò la cugina con occhio pieno d'amore, le rivolse un ineffabile sorriso, e sussurrò colla debol voce impressa d'immensa gratitudine:

- Enrichetta!

Giovanna l'udì, benchè già avesse passata la soglia della stanza. Tornò presso al letto d'un balzo; ma era tardi! Il primo sguardo, il primo sorriso, la prima parola non erano state per lei.

- Anche tu, Giovanna! Disse il malato vedendola: Grazie! Grazie tuttedue!

Anche tu! Ecco la miserella ridotta alla parte secondaria. Ella ch'era stata sola al travaglio, non veniva che in secondo grado nella riconoscenza. Non pensò neppure a dolersene la povera sciancata, ma in quel primo istante n'ebbe una trafittura non lieve, di cui si rimproverò aspramente fra sè stessa come d'un tristo sentimento.

- Giovanna! Giovanna! Tornò a tuonare la voce potente dell'autocrate in gonnella di quella casa: e la poveretta s'affrettò ad accorrere.

- Io starò qui un poco a farti compagnia, se ti piace: disse Enrichetta colla sove melodia della sua voce, sedendosi su quella seggiola su cui aveva vegliate tante notti di seguito Giovanna.

- Oh tanto, oh tanto! Mormorò il giacente con infinita emozione di giubilo, di benessere e di riconoscenza.

- Va bene, riprese vezzosamente la fanciulla; ma bisogna star lì quieto e non parlare.

- Purchè possa guardarti! Disse Piero. Mi fa tanto bene il vederti!

Enrichetta fece un sorrisetto pieno d'una inesprimibile avvenenza.

- Oh guardami pure. Credo che ciò non ti possa nuocere.

E stettero guardandosi: e quante cose, senza pronunciar parole, si dissero in quegli sguardi le due giovani, belle e simpatiche creature! Giovanna in quel frattempo faticosamente si adoperava nei più umili e più gravosi servizi di casa.

Era di poco inoltrata la mattina, quando venne lo zio Gerolamo, che trovò Piero meglio assai di quanto avrebbe potuto immaginare la più lusinghiera speranza.

- E così, giovinetto, mi riconoscete ancora? Domandò egli col suo piglio franco e non ispiacevole nella sua bruschezza.

- Oh sì, signor Gerolamo: rispose il malato, e ricorderò sempre come al mio ritorno al villaggio il primo de' miei compaesani ch'io incontrassi sia stato lei, che fu così gentile per me....

- Uhm! Interruppe il vecchio bizzarro. Gentile un corno!... Gli è voi che foste superbo, più forse che non avreste dovuto. Lasciamola lì.... L'abbiamo scappata bella eh? Che tocco di febbre cerebrale voi mi covavate sotto quel malessere che a dir la verità, sosteneste con molto coraggio!... Basta; l'abbiamo rattoppata, e io metto pegno che queste arie balsamiche montanine, che sono inoltre le vostre arie native, vi rimettono quel di prima in men che non si dice. E della vostra guarigione sapete a chi vi conviene dir grazie? Alla natura dapprima, la quale in questa sorta di cose fa i due terzi, e poi ancora la maggior parte dell'altro terzo; quindi, se vi piace, dite pur grazie anche al medico, che non vi ha ammazzato, ma più assai che al medico siate riconoscente ad un angiolo che vi ha curato con tanta pazienza, con tanta sollecitudine che nulla più.

Piero volse il suo sguardo pieno di amore verso Enrichetta, la quale stava ancora ai piedi del letto, e disse coll'espressione di un sentimento incancellabile:

- Oh sì! lo so, e potessi dare tutta la mia vita a mostrare a quell'angelo la mia gratitudine.

Gerolamo si compiacque molto del calore con cui erano dette quelle parole da Piero, e non si pensò nemmanco per sogno che questi le applicasse ad altra persona da quella che se le meritava.

Forse lo zio, continuando nel discorso, avrebbe chiarito l'inganno; ma ad interrompere, ecco entrare la mole animata che portava il giaco bianco e la faccia rubiconda della signora Genoveffa.

Per prima cosa costei fece partire Enrichetta di là, per seconda degnò d'una stretta di mano lo zio Gerolamo tutto stupito di tanto favore, per terza disse al malato ciie sì rallegrava molto di vederlo in quella miglioria, e che sì augurava guarisse presto e per lui e per loro stessi.

Avrebbe detto qualche cosa di più chiaro da far capire al giacente che trovavano un soverchio peso la malattia di lui, se Gerolamo non l'avesse interrotta.

- Se voi mi promettete di star calmo, diss'egli a Piero, vi dirò una cosa che vi farà molto piacere di certo.

- Sì, sarò calmo, rispose il malato: ah! voi mi volete parlare di mia madre?

- Bravo! L'avete indovinata alla prima.

- Ah! Ella è qui! Esclamò Piero, i cui occhi brillavano. Oh venga, venga! Come la vedrò volentieri!...

- Ecco lì che non siete più calmo. No, signorino, essa non è ancora qui. Abbiamo giudicato meglio di non darle nuove affatto di voi, se non quando potessimo dargliene alcune un po' migliori. Questo momento è venuto. Essa, per non aver ricevute vostre lettere, sarà certamente in qualche ansietà, che è tempo di far cessare. Bene! Voi mi dite il suo indirizzo; io le scrivo tosto che si prepari e m'aspetti: parto col treno di mezzogiorno, arrivo a Torino - ho giusto qualche cosa da farci - la cerco, la trovo, le dico tutto per filo e per segno, e domani la imbarco meco in un carrozzone della ferrata, e ve la porto qui alla sponda del letto a mezzogiorno, un po' prima o un po' dopo, secondo che il mulo di Barbetta vorrà camminare.

- Oh grazie, esclamò Piero, i cui sguardi esprimevano tutta la gioia che gli destava in cuore quest'annunzio, tutto il bene che gli faceva e tutta la riconoscenza che ne sentiva per Gerolamo: oh grazie! Voi siete buono...

- Sì, tre volte buono, che il diavolo mi porti!... Sono quel che mi ha fatto Domeneddio, e state zitto voi, che il parlar non vi giova.

Nelle parole dello zio, due cose avevano colpito sora Genoveffa: una il prossimo arrivo della cugina, cui se non le dispiaceva affatto vedere umiliata ed aver supplichevole dinanzi, le rincresceva pur tuttavia dovere albergare; l'altra che Gerolamo aveva alcune faccende da sbrigare a Torino, ed era quindi il caso di mettere in atto il disegno suggerito da quel furbo di speziale.

Quando lo zio se ne fu andato, Genoveffa corse ella stessa nella casa comunale, confabulò col marito, e poi guizzò lesta nella farmacia, e si ridusse a stretto colloquio col sor Domenico nella retrobottega.

Ella disse allo speziale tutto quello che aveva da dire, ma lo speziale aveva da parte sua ben maggiori e più importanti cose da comunicarle. Prima di tutto, egli incominciò con una dichiarazione formale: il suo interesse per la famiglia Varada era tanto che ad ogni modo si sarebbe posto a qualunque sbaraglio pel vantaggio della medesima; credeva averne dato prove per l'addietro luminose; quantunque in realtà non avesse fatto nulla, la signora Genoveffa stimò buona politica di riconoscere calorosamente che queste prove egli le avea date in realtà. Ma, soggiunse il furbo factotum di quel villaggio, schietto com'egli era per natura, pensava suo debito non tacer oltre un suo caro progetto, di cui forse la signora Genoveffa erasi dubitata, poichè egli ci valeva cosi poco a dissimulare. Se a questo progetto fosse stato fatto buon viso dalla famiglia Varada, egli avrebbe avuto maggior zelo e maggiori titoli per adoperarsi in favore di essa, poichè si sarebbe stimato sin da quel momento di aver l'onore di appartenere alla medesima; e credevasi in caso di poterle rendere un servizio tutt'altro che indifferente.

Genoveffa, che aveva già capito tutto, domandò istantemente, pro forma, dicesse l'accennato disegno; e quando udì esser una proposta di matrimonio fra lo speziale ed Enrichetta, si mostrò forte stupita, come per cosa inattesa, di questa, domanda che si aspettava da oltre un anno. Capì che Domenico metteva la sua complicità a quel prezzo, ed ella, in massima non avversa a siffatto progetto, avrebbe pur voluto sapere se il concorso del farmacista arrecava un utile tale per cui convenisse impegnarsi con esso lui di subito, rinunziando ai possibili benefizii del temporeggiare. Rispose pertanto colle solite tergiversazioni. Era un grande onore per lei e per la figliuola la proposta accennata dal signor Tartini; ma Enrichetta era ancora tanto giovane; ma ella non poteva decider nulla così su due piedi, senza consultare prima anche il padre della ragazza; ma conveniva dipendere anche dall'eccellentissimo marchese di Roccavecchia, amoroso padrino d'Enrichetta, ecc., ecc.

Lo speziale controrispose come in una discussione alla Camera: Un buon matrimonio non esser mai troppo presto per una giovane che avesse passato i sedici anni; lusingarsi egli per le sua fortune, per le sue attinenze, pel suo casato di non essere un partito disprezzabile; certo essere da aspettare il parere del padre della ragazza, ma sapersi da tutti quanta deferenza avesse giustamente il sor Giacomo per sua moglie; confidare egli intanto che quest'alleanza non sarebbe vista di mal occhio nemmanco dal signor marchese, a cui egli sarebbe andato quel giorno medesimo ad aprirsi, quando la risposta della signora Genoveffa non l'avesse tolto affatto di speranza.

Siccome la madre d'Enrichetta si mostrava ancora in fra due, Domenico diede allora un gran colpo.

- Bene! Vi lascio tutto il tempo che più vi piaccia a pensarvi; ma, se fossero veri i sospetti che ho intorno alle intenzioni del sor Gerolamo, mi licenziereste voi intanto ad agire come se già fossi vostro genero?

- Che intenzioni sospettate voi nello zio? Domandò con molta curiosità Genoveffa.

- Le intenzioni più avverse a voi altri.

- Ma quali? Ma quali?

- Egli vuol fare testamento, e lasciare le sue sostanze ad altri che non voi.

- Oh cielo!

- Zitto! ch'egli è qui sopra con mio padre.

- Ma come? È ciò possibile? Da che cosa avete scoperto un simile orrore? Ma s'egli vuol far testamento, è proprio segno, gran Dio! ch'egli ha qualche cosa da lasciare!

Lo speziale ammiccò degli occhi e dondolò la testa, come per dire ch'egli n'era ormai certo.

- Volete ch'io vi dica tutto? Domandò egli.

- Oh sì, caro sor Domenico: disse Genoveffa con effusione, prendendogli le mani e stringendogliele forte.

Lo speziale guardò che nessuno potesse entrare in bottega senza far suonare il campanino della porta, tirò le tendine delle finestre perchè niuno si potesse accostare dal cortile senza esser visto, e cominciò la sua narrazione.

XXI.

- Bisogna che sappiate, così disse lo speziale a Genoveffa, che, non so per qual arte o merito, quel vostro malaugurato cugino ha saputo guadagnare in modo straordinario le grazie di questo vecchio burbero che guarda tutta la gente a stracciasacco.

- Chi? nostro cugino? Piero?

- Lui appunto. Sapete che sono venuti insieme quel dì al villaggio. D'allora in poi Gerolamo non fa che parlare di quel giovanotto con un interesse, con una affezione che il dirlo è nulla.

- E non s'eran mai visti prima. Che quel maledetto giovinastro l'abbia stregato?

- Il fatto è che parecchie fiate vostro zio andò ripetendo, e lo disse ancora testè tornando di casa vostra, che se la sorte gli avesse dovuto dare un figliuolo, egli avrebbe desiderato che fosse come questo tale che il diavolo ci ha mandato tra i piedi.

- Disse proprio cosi?

- Piuttosto dieci volte che una.

La sora Genoveffa rifletteva profondamente.

- E s'egli è tornato a casa vostra, continuava lo speziale, dopo aver detto a tutti, che avevano e non avevano voluto udirlo, che non ci avrebbe più messo i piedi, non fu egli per altro che per vedere questo coso ch'ei prese subitamente a proteggere e a prediligere?

- To' gli è vero!

Genoveffa abbrancò per un braccio lo speziale, e mettendogli la bocca vicino all'orecchio, soggiunse:

- E voi temete che voglia lasciar erede quel pitocco della malora?

Domenico accennò vivamente di sì col capo.

- Udite! diss'egli poi. Questa mattina, quando Gerolamo entrò in bottega tornando da casa vostra, io era in questo medesimo luogo, e le tende abbassate dell'uscio non lasciavano vedere che qui ci fosse gente. In bottega stava mio padre, col quale sapete quanta domestichezza e quanta confidenza abbia vostro zio. Se ci ha un segreto, io era certo che tosto o tardi il sor Gerolamo lo svelerebbe a mio padre. Dalle prime parole che pronunziò Gerolamo capii che se non aveva ancora detto nulla sino allora, era al punto adesso di cominciare le confidenze. - Sei tu solo? domandò vostro zio. - Affatto solo, rispose mio padre che sbadigliava sulla Gazzetta. Sentii il passo del sor Gerolamo che si accostava alla retrobottega, e mi rincantucciai in questo angolo scuro. S'ei mi avesse visto, avevo già un ampollino in mano che avrei mostrato d'esser venuto a prender colà. Non mi vide, lasciò ricader la tenda, e si riaccostò a mio padre.

Domenico tacque un momento, e poi guardando fiso con occhio penetrante la signora Genoveffa, disse in tono da ipocrita:

- Se si fosse trattato di tutt'altra cosa che del vostro interesse, vi prego di credere che o mi sarei fatto sentire, o mi sarei allontanato senza indugio...

- Lo credo, lo credo: si affrettò a dire con impazienza Genoveffa, ansiosa di venirne all'importante della faccenda. Ma in fine che cosa udiste?

- Dapprima, il sor Gerolamo passeggiò su e giù con passo concitato, picchiando per terra col suo bastone, borbottando e tossendo dì tanto in tanto, come uomo che voglia dir qualche cosa e non sappia da che capo rifarsi. Mio padre finì per alzare la sua faccia dalla Gazzetta, e guardando vostro zio dal di sopra delle lenti degli occhiali ch'ei si era messo per leggere, gli domandò con quella sua voce placida che gli conoscete: - Che cosa ti frulla pel capo? Scommetterei che ci hai qualche cosa che ti tormenta. - Sì, che il diavolo mi porti: rispose a suo modo il sor Gerolamo, piantandosi innanzi a mio padre. Vengo da casa i miei nipoti. - E quel giovinotto va peggio? interrogò papà. - No, anzi, può dirsi bello e sicuro della guarigione. - E qui giù gli elogi di quel babbuino che vi ho detto. - Che cosa è dunque che ti turba? ritornò a domandare mio padre quando Gerolamo ebbe finito. Qui vostro zio rifece alcuni giri per la bottega, e poi... Mi permetterete che io vi ripeta le sue testuali parole, perchè conosciate tutta la verità e possiate apprezzare giustamente la gravità della situazione.

- Sì, sì: esclamò Genoveffa al colmo dell'interessamento: dite pur tutto.

- Vostro zio adunque proruppe coll'accento più vivo dell'indignazione: - La ho con quei miserabili, senza cuore, sordidi avari di miei nipoti, che il fistolo li colga.

Genoveffa divenne, come nei casi delle grandi emozioni, di color pavonazzo.

- Disse proprio così?

- Lo disse, in parola d'onore.

- Brutto coso d'un vecchio barbone senza gran di sale in zucca!...

- Non alzate la voce; vi ripeto che vostro zio è qui sopra in casa.

- E poi? E poi?

- E poi continuò così: - Me, quando sono arrivato, perchè ho detto d'esser povero (notate quell'ho detto), mi trattarono come un cane col cimurro; questo povero giovane, se non fosse per rispetto umano, lo lascierebbero crepare all'ospedale; la infelice Giovanna che è quella che val meglio di tutta la casa...

- Ah sì? Interruppe coi denti stretti pel furore Genoveffa, alla quale parve tornasse più offensiva quest'ultima affermazione che tutte le ingiuriose parole di prima.

- Quell'infelice Giovanna assassinano a un po' per volta con barbarie degna più che della galera....

- Ah birbone! Ah scellerato! Diede fuori la moglie del sor Giacomo, che non poteva più contenersi. Ah noi siamo degli assassini, ah noi siamo gente da galera.... Uh! se l'avessi udito io!... E voi avete dato passata a tutte quelle belle cose, come se fossero zuccherini?....

- Calmatevi, sora Genoveffa: disse lo speziale col suo tono più melato. Volete farvi sentire fin dalla canonica?

- Eh! mi sentano da casa il diavolo.

- Sì, se ciò potesse giovare; ma uno scandalo non farebbe che tagliar alla radice le speranze dell'avvenire.

Genoveffa rientrò in sè, e capì che quel Macchiavelli da farmacia aveva ragione. La donna incollerita cedette il posto all'avida cacciatrice di eredità.

- È giusto, diss'ella abbassando tono e voce. Ma il nocco giace nel vedere se siamo ancora in tempo.

- Lo siamo. State ad ascoltare. Mio padre non rispose nulla alle parole di Gerolamo. È il suo modo di fare quando non può dar torto a chi parla e non vuole nemmeno dargli manifestamente ragione. Vostro zio tornò a girare come prima, che pareva un orso in gabbia, poi, masticato e borbogliato bene fra sè, uscì fuori di nuovo: - Gaudenzio, ho bisogno di te. - Eccomi qua. - Ma di te, soggiunse Gerolamo non come amico, sibbene come notaio.

- Ah, ah! Esclamò Genoveffa, che accrebbe ancora, se era possibile, l'attenzione con cui ascoltava.

- Come notaio? Domandò stupito mio padre, lasciando la Gazzetta e levando il capo: in che modo? - E il sor Gerolamo: - Se avessi bisogno di fare un atto?.... Papà lo interruppe. - Senti, gli disse, in questo paese non sono io solo di notaio, ma siamo in due, e il lavoro non ci è tanto che un atto di più o di meno da rogare non sia cosa da darci importanza. Appunto perchè noi siamo fratelli e conviviamo insieme, sarebbe opportuno e mi piacerebbe assai di più che tu ti servissi del mio collega, al quale, anche per debito di parentela, dovresti arrecare il vantaggio di questo po' di guadagno.

- Vostro padre è davvero un gran galantuomo: disse Genoveffa, che in realtà fra se stessa trovava tanta virtù un atto da minchione.

Domenico s'inchinò come per acconsentire a quella proposizione e farsene onore; poi continuò:

- Il sor Gerolamo disse che di vostro marito non voleva nemmanco sentirne a parlare; che quello cui accennava doveva essere un atto segretissimo da sapersi da nessuno al mondo fuor di loro due; in una parola che voleva far testamento e glie ne domandava prima consiglio e poi il suo ministero. A mio padre, che si stupiva gli fosse venuta questa idea del testamento così ad un tratto, vostro zio rispose che invece gli era da un po' di tempo che ci andava pensando, che aveva esitato finora perchè non sapeva bene a chi lasciar la sua roba che se la meritasse...

- E noi? Non potè trattenersi dall'esclamare la signora Genoveffa, i cui occhi brillavano come due carboni accesi. Ed io, che sono la sua unica parente?

- Gli è quello appunto che rispose mio padre; ma il sor Gerolamo esclamò che era bensì venuto in paese coll'intenzione di lasciar tutto a voi quando avesse trovato nella vostra famiglia dei parenti a modo suo, ma che la maniera con cui lo avevate accolto e quella con cui vi vedeva governar le cose vostre, glie ne avevano cacciato lontano le mille miglia la volontà. Mio padre parlò di nuovo a favor vostro, insistendo appunto sulle ragioni di parentela. - O che? Interruppe il sor Gerolamo, se io volessi lasciare ad uno che non mi fosse parente null'affatto, non ne sarei padrone?

- Oh cielo! Ha detto proprio così? E vostro padre che cosa gli rispose?

- Che legalmente era padronissimo, ma che pur tuttavia egli lo sconsiglierebbe dal farlo... Il sor Gerolamo non lo lasciò continuare. - Vai al diavolo anche tu: proruppe colla sua ordinaria brutalità. Non mi piace che i miei denari vadano in mano a gente di quella fatta; lascio un legato alle ragazze, e il resto a chi mi piace e a cui voglio bene.

- E voi pensate che abbia voluto significare quel pitocco di Pierino?

- Non saprei a chi altri applicare quelle parole.

- Uh lo scellerato! Non so chi mi tenga dall'andare senz'altro a metter fuori di casa quel mariuolo, perchè crepi nella strada.

- Fareste molto male: disse freddamente il farmacista.

- E vostro padre non soggiunse altro?

- Sì; disse che s'accorgeva dal come gli parlava. Gerolamo trovarsi in uno stato di surreccitazione; ch'era bene si calmasse e prendesse tempo a rifletterci, giacchè tanto e tanto non c'era nulla che premesse, ed egli aveva de' begli anni innanzi a sè. - E che ne sai tu? gridò vostro zio. Io posso morire da un momento all'altro per lo scoppio del mio aneurisma; e da alcuni giorni mi sento appunto cosi male, che non mi stupirei di restar lì col tiro a secco....

- Crepasse! Mormorò caritatevolmente in mezzo i denti la buona signora Genoveffa.

- Dunque chi ha tempo non aspetti tempo, continuava il sor Gerolamo; e se non vuoi farmelo tu il testamento, vado dal primo notaio che trovo a Torino, e me lo faccio schiccherar giù come mi piace. In quella entrò per ventura don Pasquale.

- Un altro bei capo, e de' nostri amici quello li! Disse Genoveffa con amara ironia, battendo replicati colpi del piede per terra a disfogo della stizza che la rodeva. - Mio padre propose di consultare il parroco in proposito: vostro zio acconsenti, e se ne andarono tutti tre nella stanza di sopra.

- Di modo che, proruppe la moglie del sor Giacomo, ora stanno là imbastendo uno scellerato di testamento, che ci spoglia di quanto ci viene?... Uh!...

- Voi conoscete mio padre. Non credo ch'egli si disponga a far cosa che possa pregiudicarvi; ma se egli non cede alla prima, il sor Gerolamo insistendo può farlo acconsentire a fare il voler suo un altro giorno, e in ogni caso può anche fare come disse, cioè cercar d'un altro notaio a Torino.

Genoveffa tornò ad abbrancare per un braccio lo speziale, e gli disse a bassa voce, ma con espressione sul cui significato non era possibile ingannarsi: - I nostri interessi sono i vostri, sor Domenico. Ditemi voi, che avete più talento di tutti, ditemi che cosa si debba fare.

Lo speziale guardò bene per entro agli occhi la donna, e fece a sua volta una richiesta:

- Mi domandate voi codesto come lo domandereste ad un estraneo o ad un amico... o ad un genero?

- Ad un genero; rispose la madre di Enrichetta. Qua la mano, sor Domenico. Abbiate il consentimento del marchese, e il matrimonio è fatto.

- Il consenso del marchese l'avrò di quest'oggi stesso. Ora ascoltate. Prima cosa da farsi: chiarirsi positivamente se esista un'eredità cui valga la pena di conquistare. Per ciò servirà Fusella, il quale seguiti oggi stesso a Torino lo zio Gerolamo.

- Mio marito glie ne diede già tutte le istruzioni occorrenti.

- Inoltre io farò di scoprir qualche cosa da mio padre, interrogandolo destramente. Da lui pure tenterò dì sapere se il testamento già fu fatto a come. Se sì, la bisogna sarà più difficile, ma non disperata; se no, converrà impedire che esso si faccia. Per ciò è mestieri vestire la pelle d'agnello. Mille dimostrazioni di benevolenza allo zio, a quel tanghero di vostro cugino, a patto di sbarazzarsene il più presto che si possa; trattar coi guanti Giovanna...

Genoveffa fece un sobbalzo come chi ode la più assurda delle proposizioni.

- È necessario; instò Domenico. Se si potesse ancora tirar io zio in casa, tanto meglio; mandargli intorno le nipotine... A proposito, non lasciare che Enrichetta bazzichi intorno al malato. Ci stia Giovanna, va benissimo; ma la mia sposa, no, no, e poi no.

- State tranquillo.

- E poi prendere consiglio dalle circostanze. Istruitemi di tutto quello che accade: io vi terrò in giorno di tutto quanto mai riuscirò a sapere, e cosi, viribus unitis, voglio dire tutti d'accordo, otterremo quello che ci sta a cuore.

Mentre nella retrobottega a pian terreno si suggellava fra lo speziale e madama Varada questa più intima alleanza, nelle camere del piano superiore abitate da Gaudenzio e da Gerolamo, fra questi duo e il parroco, aveva luogo una conferenza importantissima per le vicende di questa storia, i risultamenti della quale apprenderemo dal seguito del racconto.

Il sor Gerolamo, venuto alla stazione della ferrovia di C., notò un individuo che si baloccava là intorno, e riconobbe Matteo Fusella.

- Che cosa fate voi qui? Gli domandò accostandolo.

- Eh! mi tocca andare a Torino per certe mie faccende. Rispose con aria da nesci il mariuolo. O che ci va anche lei?

- Sì: rispose asciuttamente Gerolamo, al quale, senza ch'e' sapesse dirsene un perchè, la faccia del campanaro-inserviente comunale, che gli spiaceva sempre, in quel momento spiacque più dell'ordinario.

La campanella della stazione diede l'ultimo segno. Gerolamo senza aggiunger parola s'affrettò a prender posto.

- Oh oh! Disse Fusella, arrampicandosi in fretta in un carrozzone di terza classe. Vagone di prima! Ecco già una cosa da notarsi!

XXII.

Gaudenzio il padre dello speziale, discese nella bottega del figliuolo, dopo la conferenza con Gerolamo e col parroco, portando ancora in volto le fiamme suscitatevi da una calorosa disputa, e le mostre d'una preoccupazione e d'una contrarietà appena vinte.

Il figliuolo stava al banco a spedire una ricetta ad una povera donna che aspettava, tenendo in braccio un bimbo gemicolante. Il furbo speziale, guardando, senza farsi scorgere, suo padre, vide tosto che alcuna cosa di grave era intravvenuto, e che il brav'uomo era in una di quelle disposizioni dell'animo durante le quali egli aveva alcuna probabilità, con certi suoi modi acconci, di potervisi insinuare per entro. A quest'effetto, bisognava per primo guadagnare maggiormente le buone grazie del padre, e il birbo troppo sapeva come regolarsi in proposito.

- E dunque, diss'egli alla donna, quasi continuando un discorso, questo vostro bambino ci ha le febbri da un pezzo?

- Oh Santa Maria! Gli è un mese e più; rispondeva dolentemente la poveretta; e la vede come lo hanno stremato che pare un Gesù di cera, e il medico mi dice che senza il chinino non c'è rimedio e me lo porteranno via.... Ma Dio buono! il chinino costa cotanto, e noi siamo sì poveretti; e dove prendere il denaro? Abbiamo resistito finchè ci parve che la Madonna ci volesse far la grazia di guarircelo. Ma poi mi sono decisa: sono andata ad impegnare le sottane di lana e gli abiti dell'inverno, e....

- Povera donna! Esclamò Gaudenzio, il quale a questo racconto aveva posto in seconda fila le precedenti preoccupazioni per dare il primo luogo alla compassione. E come farete quest'inverno?

La donna voltò gli occhi in su ed alzò le spalle non quella rassegnazione fatalistica dei poveri:

- Eh! l'inverno è ancora lontano,

- Vi soprarriverà prima ancora che abbiate tempo a provvedervi.

- Alla guardia di Dio! Esclamò la donna, ripetendo quell'atto che ho detto poc'anzi. Intanto convien bene ch'io faccia guarire questo poverino. L'ho io da lascar morire addirittura?

Gaudenzio aveva le dita della destra nel taschino del panciotto, dove stava cercando e ricercando. Lo speziale, guardando di sottecchi suo padre, porse alla donna l'ampollina che aveva finito di riempire, e disse con voce insinuante:

- Voi guarirete vostro figliuolo, e non avrete da spendere nemmeno un soldo.

- Come! domandò la donna tutto stupita, la quale aveva già tratto di tasca le monete avviluppate in un pezzo di carta straccia.

- Tornate a riportare quei denari là dove avete impegnato la roba, e fatevela restituire. Questa medicina è per niente.

- Per niente! ripetè la misera, che allargava tanto di occhi e non poteva credere a sì gran generosità dello speziale.

- Sicuro, per niente affatto. Prendete e andatene con Dio.

Le benedizioni della donna piovvero per cinque minuti con entusiasmo di riconoscenza sullo speziale e sulla sua bottega. Quando ella si partì, il buon Gaudenzio, che aveva finito di rimuginare colle dita nel taschino del panciotto ed aveva raccolte in un pizzico fra l'indice e il pollice le poche monete che ci aveva trovate, l'arrestò un momento mentre apriva l'uscio, le insinuò in fretta in fretta nella mano quelle monete, e per paura che essa incominciasse da capo le sue benedizioni e i suoi ringraziamenti, la spinse per le spalle fuor della bottega, e le chiuse dietro l'uscio sollecitamente.

- Bravo! diss'egli poi, tornando colla mano tesa verso di suo figlio. Se I'ho sempre detto che tu sei migliore di quello che il mondo ti crede.

- Eh! sono vostro figliuolo, papà.

- Adulatore!

- Voi avete avuto una specie di battibecco col sor Gerolamo, disse ad un tratto lo speziale, che stimò miglior partito l'affrontare direttamente la difficoltà.

- Battibecco, no; rispose Gaudenzio, ma una discussione. Chi te lo ha detto?

- Sono venuto nella retrobottega dove avevo qualche cosa da fare, mentre discorrevate qui ad alta voce, e, volere o non volere, ho dovuto udire qualche cosa.

- Ed hai inteso di che si trattasse?

- Ho udito che si parlava di testamento.

- Diavolo, diavolo! Potevi bene far rumore perchè si sentisse che tu eri costì.... Se Gerolamo sapesse mai....

- Egli non saprà niente, e voi potete esser certo, papà, che io non dirò mai la menoma parola di codesto con anima viva.

- Ci conto su.

- Quanto poi all'argomento della vostra discussione col sor Gerolamo, io non posso a meno che darvi ragione.

- Ah sì? Esclamò Gaudenzio tutto lieto di quest'approvazione del figliuolo.

- Certissimamente. Sarebbe assai male che il signor Porretta lasciasse ad altri le sue sostanze che ai suoi nipoti, e voi, come notaio e come amico, avete fatto benissimo a metterglielo sotto gli occhi. Io non so se le fortune del sor Gerolamo sieno vistose e non mi curo di saperlo.

Tacque un momento, come per tirare il fiato, ma in realtà per aspettare se una parola, un atto, un movimento di fisionomia del padre valesse a fargli indovinare parte della verità. Gaudenzio non mosse ciglio. Lo speziale continuò:

- Ma fossero pur anco un nonnulla, mi sa male che un estraneo ne abbia da profittare, per quanto (soggiunse guardando attentamente suo padre) questo estraneo possa apparire degno di riguardo e di interesse....

- Che? Proruppe il buon notaio con un sussulto di sorpresa. Tu sapresti per caso chi sia colui al quale Gerolamo voleva lasciare la sua eredità?

- Eh! lo suppongo: rispose con aria accorta lo speziale, ammicando degli occhi. Qualche parola pronunziata dal sor Gerolamo mi pose sulla traccia. Credo non essermi ingannato nelle mie congetture.

- Lo so che tu sei molto penetrativo. Io, a luogo tuo, veramente non mi ci sarei mai più potuto raccapezzare: ma io sono un bonus vir. E dunque, sapendo chi è che quel matto di Gerolamo voleva lasciar erede, tu mi approvi che io mi sia opposto con tutte le mie forze?

- Per bacco, se vi approvo!

Il buon Gaudenzio non potè contenere la dolce sensazione che questo tratto del figliuolo destava in lui. Si gettò al collo dello speziale, e lo abbracciò e baciò con una espansione che da lungo tempo non aveva più usata con esso.

- Bene! Benone! Esclamò egli colle ciglia umide per dolcissima commozione. Sì che tu sei mio vero figliuolo. Sì che sei un birbone, che ti piace nascondere quel tuo buono e bravo cuore che ci hai lì dentro... Perfino a tuo padre par certe volte che tu la voglia accoccare, cattivo che sei; ma io me lo sono sempre detto fra me e me: - E' sa fingere, e' gli piace, non so per qual bizzarria, mostrarsi interessato; ma in fondo, oh gli è ben altra cosa, ma venga un'occasione, e si vedrà. L'occasione è venuta, e tu ecco a mostrarmi ciò che vali... E forse che tu avresti potuto credere un momento che tuo padre la pensasse diversamente in punto a delicatezza, in punto a dovere di coscienza? Appena mi ebbe detto chiaro la sua intenzione, perchè io, a dirti la verità, prima non l'avevo subodorata il meno del mondo, tosto lo rimbeccai di santa ragione, come per un vero insulto ch'e' mi volesse fare.

Domenico, attonito e scombussolato, guardava suo padre e sentiva tenzonar la testa fra un dubbio ed un timore, che subitamente gli erano nati nell'animo. Certo era che suo padre nè l'avrebbe lodato tanto delle sue parole se si fosse trattato di lasciar erede Pierino, ned egli avrebbe risposto, come diceva aver fatto, a Gerolamo, quasi che avesse voluto recargli oltraggio. Era dunque un altro questo tale che il vecchio burbero aveva pensato di lasciare erede delle sue sostanze, e chi poteva egli essere se non l'unico amico che avesse oramai, il suo compagno d'infanzia, con cui era venuto a passare, coabitando insieme, anche la vecchiaia?

Ed egli, bestione! non ci aveva nemmeno pensato!... Ah! se l'idea della possibilità di codesto fossegli passata per la testa! Avrebbe trovato ben egli mezzo alcuno da aggiustar le cose di guisa che il padre od accettasse, o almanco non impedisse Gerolamo di porre in atto quel suo divisamente, che l'avido speziale non poteva a meno di trovare stupendo. Ed invece no; il suo cervello aveva miserabilmente mancato al dover suo, sviandosi in una supposizione affatto erronea; ed ora era troppo tardi per rimediarvi in alcun modo.

Domenico volse a suo padre un sorriso di quelli che i francesi chiamano di color giallo.

- Veramente, diss'egli, se ne troverebbe pochi al mondo di coloro che stimassero un'eredità, che si voglia loro lasciare, al pari d'un insulto.

- Eh! le eredità che non ci spettano non fanno buon pro: esclamò tutto accalorato il buon notaio. Il mondo avrebbe potuto dire che io mi sono valso dell'amicizia che Gerolamo ha per me affine di spogliare i suoi parenti. Corpo della luna! Piuttosto vorrei vivere a pane ed acqua per tutto il poco tempo che mi rimane da trascinarmi su questa terra. Gli ho detto a quel vecchio matto ciò che ne pensavo. Il parroco non potè a meno di darmi ragione; ed egli dovette bene fare a modo nostro.

- Lo avete dunque deciso a lasciar eredi il sor Giacomo e sora Genoveffa? Domandò premurosamente Domenico.

- Loro no... Si lasciò scappar detto il buon notaio: ma poi tosto ravvisatosi, troncò lì la risposta.

- Eh, che diavolo mi fai tu chiaccherare? Queste cose non vanno dette nè anco ad un figliuolo.

- Voi sapete bene che potete essere sicurissimo di me.

- Non ne dubito.. Ma il primo dovere della mia carica è la segretezza assoluta.

- Tanto e tanto ho capito tutto: soggiunse lo speziale, guardando acutamente suo padre.

- Che cosa hai capito?

- Il sor Gerolamo ha lasciato eredi non i Varada, ma le loro figliuole...

La maniera dì stupore e d'ammirazione con cui il buon Gaudenzio guardò suo figlio, persuase costui d'aver dato nel segno.

- E forse una soltanto di esse...

Nuovo atto di meraviglia nel notaio, atto che il furbo speziale capì prontamente per un'affermazione.

- E non è difficile indovinare quale delle due... Il padre temette di aver già troppo tradito il suo dovere di segretezza.

- Tu sei più malizioso del fistolo: disse egli tra ammirante e contrariato: e senza aggiunger altro, aperto l'uscio della bottega, scappò fuori come si scappa da un pericolo che non si hanno i mezzi d'affrontare.

- È chiaro come il pien merIggio: disse lo speziale rimasto solo; l'erede è una delle ragazze, e non ci vuole molta penetrazione a indovinare che la non può essere altri che l'Enrichetta. Va benissimo. Si può ancora rimediare all'onesta sciocchezza fatta da mio padre. Andiamo a tirar le reti, perchè in ogni caso la selvaggina non ci scappi.

Si vestì cogli abiti di rispetto, si pose in testa il cappello a staio, e s'avviò di buon passo verso il castello di Roccavecchia.

Il marchese era nel suo giardino, che i buoni terrazzani chiamavano il parco, a passeggiare colle mani dietro le reni, guardando di sotto la larga tesa del suo cappello di Panama, le ciliege che pendevano in gruppo mature dai rami, e le fragole che smaltavano le liste di terreno fra siepi di rose fiorite.

Secondo il solito, il vecchio nobile esaltò il passato, e lo speziale gli diede ragione; disse corna del presente, e lo speziale gliene diede più ragione ancora; smaltì le più tremende profezie per l'avvenire, e lo speziale gli diede ragionissima.

A sua volta il furbo Domenico adulò la gloriosa stirpe dei Roccavecchia e il suo ultimo rappresentante, adulò le magnificenze del castello e le bellezze del parco, le virtù degli antenati e la magnanimità del vivente, adulò le ciliege, le fragole e le rose, e tutto quanto. L'incenso non era dei più grossolani, ed era mandato con bastevole arte cortigianesca alle nobili nari di quell'ultimo scampolo di feudatario. Il marchese si degnava sorridere e dire caro monsù Tartini a quel figliuolo di vassallo. Giunse persino ad appoggiare la sua destra sopra il braccio dello speziale, e ad offrirgli colle sue mani aristocratiche una rosa spiccata dallo arbusto.

Domenico giudicò che il momento era il più opportuno del mondo. La rosa gli ofriva una transazione naturalissima a parlar d'Enrichetta, e quindi dell'oggetto per cui soltanto era venuto.

- La offrirò a madamigella Varada, questa rosa, diss'egli, la quale è veramente degna di lei, e riuscirà tanto più gradita che la viene dal parco del signor marchese.

Quando sì diceva madamigella Varada, era inteso per tutto il villaggio che si intendeva parlare della secondogenita delle due sorelle; la prima non si chiamava da tutti che la povera Giovanna.

- Ah ah! quella cara Enrichetta! esclamò il marchese. Va benissimo; e ditele, monsù Tartini, che la fa male a trascurare il suo vecchio padrino così com'essa fa da qualche tempo.

Lo speziale entrò di pieno nel cuore dell'argomento con tutte le accorte finezze della sua rettorica. Egli amava come un disperato e sperava come un innamorato; ma ogni suo bene dipendeva dal cenno del marchese; a lui pertanto, prima ancora di parlare ai parenti, era venuto, per dovere, per fiducia, per impulso di profondo sentimento d'ossequio, ad aprire il suo cuore e ad invocare una parola che facesse nella sua vita le tenebre o la luce. Le reciproche condizioni di stato, di età, di fortune s'accordavano a maraviglia fra lui e la ragazza; egli aveva un patrimonio di tanto che avrebbe potuto farlo audace ad aspirare al miglior partito del Circondario; ma il miglior partito per esso era quello della giovanotta che alle grazie ed alle virtù onde andava ornata, congiungeva la inapprezzabile ventura della protezione del signor marchese, eccetera, eccetera. Parlò per venti minuti, si esaltò, si asciugò una lagrima assente, disse di aspettare la sua sentenza colla rassegnazione d'un cristiano, ma colla speranza di chi conosce la giustizia del giudice che deve pronunziare.

Come si fa a sfatare questa speranza in un uomo che pensa bene, cioè che pensa come voi, che vi ha dato ragione fin adesso e vi ha lodato dalla nobiltà del sangue fino alla bellezza dell'ultima rosa del vostro giardino? La favola del corvo e della volpe sarà pur sempre una verità nella storia dell'uomo. Le adulazioni sapute fare otterranno fino alla fin dei secoli tutti i formaggi, a cui anelano, dai becchi più tenaci. Il marchese parlò del cuore di Enrichetta, del pericolo che potesse essere occupato; e Domenico soggiunse che tanto più premeva aprirgliene ufficialmente le porte a lui per iscacciare qualche intruso, se ciò fosse (ma egli sperava di no) per istabilirvisi definitivamente ed impedire l'accesso ad ogni altro, quando fosse ancor libero: e dell'una o dell'altra cosa che occorresse, egli, sor Domenico, credeva potersi tener sicuro ed assicurare altrui di giungere a capo senza contrasto.

Breve! Lo speziale uscì dal castello, con una rosa all'occhiello dell'abito, una aperta soddisfazione nell'animo e una specie di promessa del signor marchese, ratificata da una stretta di mano, in cui il nobile padrino d'Enrichetta aveva posto, oltre il suo costume, più che la punta delle dita.

XXIII.

Giunto a Torino, lo zio Gerolamo, appena fuor della stazione, si vide innanzi la faccia da ipocrita del sacrestano campanaro.

- Posso servirla in qualche cosa, signor Porretta? La mi comandi. Sono tutto a' suoi ordini.

Il nostro vecchio burbero lo guardò di traverso.

- Ti comando di lasciarmi tranquillo e di andare pei tuoi affari, come io vado pei miei.

Il volto volontariamemente imbecille di Fusella non si scompose il meno del mondo.

- Signor sì: rispose il mariuolo, stando intanto a' talloni di Gerolamo; ma siccome non sono molto pratico io di Torino, e in questa strada dritta interminabile non so mai trovar fuori il bandolo, se per effetto della sua bontà ella volesse, ella mi permettesse....

- Che cosa? Domandò bruscamente il sor Gerolamo impazientato.

- Di seguirla un poco... per trovare la mia strada.

- Eh stupidaccio! Chi ti dice che la strada che ho da tener io sia la tua?

- Se lei volesse.... per tratto di sua bontà... dirmi verso che parte la s'incammina....

Gerolamo per finirla disse di botto:

- Io vado presso Piazza Castello.

- Benone! Esclamò l'inserviente comunale, mostrandosi tutto giulivo: io debbo giusto andare per quelle parti là.

- Gli è che io prendo una carrozza e ti saluto tanto: disse ridendo Gerolamo, e fece cenno ad un fiaccheraio che fu lesto ad accorrere.

Il vecchio aprì lo sportello della carrozza e disse al cocchiere.

- Ti prendo a ora. Vai alla birreria Calosso...

- Sì signore: rispose l'automedonte.

Gerolamo voltosi per caso, vide in quella il muso di Matteo, immelensito.

- Oh, vieni qua tu: gli disse; guarda, ti metti per quella strada che vedi in faccia a te di là dal giardino, e vai sempre dritto finchè sbocchi in una vasta piazza che ha un gran palazzo in mezzo. Sarai allora nella piazza Castello.

- Sì, signore: rispose Fusella, girando intorno degli occhi spaventati, più grullo che mai.

Gerolamo sedette in fondo alla carrozza, poi nel chiudere l'usciolo, come il suo sguardo cadde di nuovo sul campanaro che pareva più impacciato di prima, il suo cuore eccellente non gli permise di lasciarlo così.

- Aspetta: gridò al conduttore che già faceva muovere la sua carrozza. Ehi Fusella!

Il birbo fu in un salto accosto allo sportello.

- Monta su a cassetta, e ti conduco io fin proprio in sul principio della piazza.

Matteo fece così presto ad ubbidire, che non trovò neppure il tempo da dire un magro ringraziamento. Si assettò presso al cocchiere, e la cittadina si mosse. Quando attraversava la piazza Carignano, Gerolamo diede un pugno nella schiena al cocchiere, gridandogli:

- Ferma, ferma.

Il cavallo, dietro un fiero arresto datogli dal conduttore, ristette traballando sulle sue gambe magre. Gerolamo si sporse in fuori, e chiamò per nome un uomo che passava frettoloso, e la vista del quale era stata la cagione del subitaneo ordine di fermarsi.

Quell'uomo si volse, riconobbe chi lo chiamava, ed accorse sollecito all'usciolo della cittadina.

È superfluo il dire come il bravo Matteo Fusella avesse concentrato tutte le facoltà dell'esser suo nelle lunghe orecchie che gli ornavano la testa, affine di poter intendere tutto ciò che stava per dirsi.

- Giusto lei che andavo a cercare alla birreria Calosso: cominciò Gerolamo.

- Che fortuna l'esserci incontrati: rispose quel tale, che era un agente di cambio; io ne vado via in questo momento. Eccomi intanto qui ai suoi ordini. Se la vuol comprare, la rendita ha ancora ribassato quest'oggi.

- No: rispose Gerolamo. Voglio impiegare altrimenti i miei capitali. Mi si porge l'occasione di acquistare dei beni stabili con sommo vantaggio, e cencinquanta mila lire intendo applicarle a quell'uopo. - Cencinquanta mila lire! Ripetè fra sè stesso Fusella sbalordito. Giuggiole! Le son mica una baja.

- Per ciò, continuava il vecchio, voglio cambiare in moneta sonante quella somma che ho investita per suo mezzo in Buoni del Tesoro, i quali sono già esigibili, e ritirerò eziandio parte del capitale depositato al Banco sconto e sete.

- Come la vuole: rispose l'agente di cambio. Per quando la somma in numerario vorrebbe esser pronta?

- Per domattina prima delle nove.

- Sta bene, farò in modo che ella l'abbia appuntino. E dove ho da fargliela tenere?

- Dal procuratore X***, al quale ho già scritto ed a cui andrò tosto a parlare.

- Ci conti sopra.

I due uomini si salutarono; l'agente di cambio tirò via per la sua strada, e Gerolamo, senza più badare a Matteo, gridò al cocchiere.

- Via Santa Teresa, Banco sconto e sete.

Quando la carrozza fu giunta a quest'ultimo luogo Gerolamo nello scenderne si accorse del campanaro che stava quatto quatto sopra il seggiolo del cocchiere.

- E che fai tu costì? Gli domandò bruscamente.

E l'altro tutto ringrullito:

- Aspetto ch'ella mi conduca in Piazza Castello.

- Stupido animale! Ci eravamo presso quando ho fatto fermar la carrozza. Perchè non sei disceso?

- Ma io non ne sapeva mica di nulla: rispose con aspetto di mortificata desolazione il mariuolo.

- Or bene, disse impazientemente Gerolamo, aspetta qui fuori sulla porta; quando avrò finito ciò che ho da fare qui dentro, tornerò da quelle parti, e vi ti guiderò.

- Grazie mille, rispose Matteo.

Porretta pagò il cocchiere della carrozza di piazza, ed entrò nel cortile. Poco stante ne uscì fuori con un portafogli piuttosto voluminoso, cui chiudeva diligentemente colla linguetta a chiave e riponeva con una certa cura nella tasca interna del petto del suo soprabito.

- Buono, pensava Fusella. Costì sta il morto. Chi sa quante migliaia di buone lire in qualche straccio di carta. Altro che ricco, gli è un riccone! E quest'impostore se ne vive come un miserello che appena abbia da far bollire la pentola tutto l'anno. È una vera birbonata. Mah! se quel portafogli e' lo potesse perdere, e potesse trovarlo quel brav'uomo che si chiama Matteo Fusella!

Scosse il capo tutto internamente commosso e turbato da questa supposizione.

- Eh! gli gridò Gerolamo. Che cos'è che vai così impensierito?

- Nulla: rispose il campanaro riscuotendosi.

- Bada bene, soggiunse il vecchio burbero: questa è Dora Grossa, e laggiù in fondo c'è la piazza, va sempre dritto, e non puoi sbagliare.

- Signor sì..... La ringrazio infinitamente..... Ella mi ha reso un servigio....

Gerolamo non diede altro cenno d'aver udito che una crollatina ili spalle; e sollecitamente entrò in una porticina lì presso.

Il campanaro stette un po' grattandosi il naso innanzi a quella porticina, dubbioso di quel che dovesse fare. Volgendo gli occhi intorno, la vista d'una insegna sopra una bottega che si trovava di faccia alla casa in cui era entrato sor Gerolamo, gli ispirò una idea, alla cui felicità egli fece da sè stesso complimento con un sorriso di compiacenza. Su quell'insegna stava scritto: Vini e liquori. Matteo entrò colà dentro con passo risoluto, e due minuti dopo era seduto ad un tavolino presso alla finestra che guardava precisamente rimpetto alla porticina ch'ei voleva sorvegliare. Il garzone di bottega gli aveva recata una bottiglia, che il bravo inserviente comunale credette conveniente bere quasi d'un fiato, per paura che, Gerolamo uscendo prima che la fosse finita, avess'egli da trovarsi nel bivio crudelissimo o di lasciar lì il vino o di perder le traccie dell'individuo che doveva spiare. II vino era generoso, e il modo con cui Fusella l'ebbe tracannato ne accresceva l'azione capitosa. II nostro galantuomo si sentì un coraggio maggiore di quello che avesse prima, e uno zelo accresciuto d'assai di corrispondere alla aspettazione del segretario comunale, suo capo diretto, il quale avevagli dato sì fiduciosa missione.

- Lo zio Gerolamo è entrato colà, numero tale, via tale, va benissimo: così ragionava fra sè il mascalzone. Potrò dirgliene fedelmente: ma ciò non basterà a gran pezza a fargli sapere, al sor Giacomo, che cosa egli sia andato a fare. Se potessi dirgli invece: e' si recò in casa il tale o il tal altro!... Che bel colpo!

Pagò ed uscì della bottega, senza risoluzione fatta, ma pieno di audaci propositi. Domandare al portiere i nomi di tutti gli inquilini di quella casa, andare a suonare i campanelli a tutti gli usci in ogni ripiano, per chiedere se in quel quartiere era venuto il signor Porretta; pensò mille cose assurde, cui il vino gli aveva ancora lasciato tanto buon senso da non commettere. Un piede dopo l'altro, senza aver bene deciso il da farsi, entrò in quell'andito, s'introdusse nell'atrio della scala, fece ad uno ad uno gli scalini, finchè giunto al secondo piano, un cartello appiccato ad un uscio venne a chiarirlo di quanto desiderava. In quel cartello era scritto a stampa: X..... causidico collegiato. Fusella aveva sentito dal sor Gerolamo pronunziato poc'anzi nel modo che sapete il nome di quel procuratore. Era evidente come il vecchio fosse venuto colà a recare la somma ritirata dal Banco. Matteo tutto lieto della scoperta e superbo di sè, discese quatto quatto, e per premiarsi della sua penetrazione rientrò nella bottega del liquorista a regalarsi un bicchierino d'acquavite. Bevette in fretta anche questo, per timore che il vecchio venisse in quel mentre; ma siccome ciò non avvenne, Fusella credette bene di ripetersi quel regalo. Ebbe tempo di ingollarne tre o quattro, prima che fuor della porticina di prospetto comparissero la faccia burbera e il bastone nodoso dello zio Gerolamo.

Quando li vide, Matteo, fatto meno prudente dalle libazioni, si precipitò per uscire ancor egli: e per ventura gli occhi del vecchio erano allora giusto rivolti a quel punto. Bene fu lesto il mariuolo a ricacciarsi indietro, ma Gerolamo l'aveva visto ed avea visto del pari il moto di ritirata, e senza dare a ciò alcuna importanza, aveva pensato che il campanaro si vergognasse per miracolo di esser colto ad abbandonarsi al suo vizio prediletto, quello d'ubbriacarsi. Il signor Porretta levò le spalle e continuò la sua strada, e Fusella dietrogli, ma nel valoroso campanaro le idee erano un po' confuse e le gambe meno ferme di prima.

Gerolamo fece una lunga camminata, poichè se ne andò fino al viale del re in una casa che faceva cantonata. Era quello l'indirizzo che Piero gli aveva dato dell'abitazione di sua madre. Nell'entrare sotto il portone, lo zio dei Varada volse indietro per caso gli occhi, e gli parve scorgere la persona del Fusella che se ne veniva barellando un pochino.

- Che è ciò? Disse egli fra sè. O che quell'asino spierebbe i miei passi?

Matteo accortosi d'essere stato osservato, era di fretta scomparso entro la prima porta di casa che gli si parò davanti: Gerolamo, non sapendo trovar fuori una cagione per codesto spionaggio, credette piuttosto essersi sbagliato, e continuò il suo cammino senza più pensarvi.

Il Campanaro radunò ben bene tutti i suoi pensieri a capitolo. Si struggeva della voglia di sapere in casa di chi fosse andato colà dentro lo zio Gerolamo, ma capiva, anche nell'eccitamento in cui si trovava il suo cervello, che non conveniva commettere imprudenze. Conosceva l'umore del vecchio bizzarro, e non aveva desiderio nessuno di far conoscenza più intima con quel bastone che gli vedeva portar sempre in mano. Ma egli era in un giorno di felici inspirazioni. Sapeva che lo zio Gerolamo era venuto a Torino per prender seco la madre di Piero, e fino a quel momento non si era ancora occupato di lei il meno del mondo. Nulla di più facile adunque che in quella casa ci stesse la vedova di Antonio Maria. Fusella ebbe la fortuna di trovare una portinaia chiaccherona come tutte le portinaie, alla quale non occorse il solletico di molte interrogazioni per contare la storia di tutti gl'inquilini, di tutti coloro che venivano a trovar gl'inquilini, e via dicendo. Fra queste storie la più interessante era quella della signora ospitata dai casigliani del secondo piano, nella quale Matteo riconobbe tosto la storia della madre di Pierino.

Sino a questo punto Matteo Fusella era stato saggio e fortunato; ed avrebbe potuto vantare con tutta giustizia il suo trionfo. Ma qui il suo talento ebbe un eclisse, e la buona Dea della fortuna lo abbandonò. Egli si sentiva appetito e non c'era più legittimo diritto del suo di rifocillarsi; ma perchè scegliere appunto la bettola che stava alla cantonata opposta a quella della casa ov'era entrato il sor Gerolamo? Egli poteva mangiare finchè fosse sazio e bere a discrezione: nulla di più giusto; ma perchè ubbriacarsi da perdere la padronanza del proprio cervello, quando si aveva una così delicata missione, quando si aveva giurato di non commettere questo fallo? La fortuna, che fino allora lo aveva favorito, poteva bene far uscire Gerolamo di quella casa, mentre Matteo era a mezzo del suo pasto: certo egli non si sarebbe scomodato più per saperne oltre ciò che sapeva e che gli pareva già troppo per guadagnare la marcede promessagli; ma no, ecco che per quanto lunga sia stata la stazione di Fusella all'osteria, di uguale durata fu quella dello zio Gerolamo presso la madre di Piero, alla quale quel brav'uomo ebbe molte cose da dire, e importanti misure da proporre, affine di consolarla, di rincorarla di rassicurarla e sul figlinolo e sull'avvenire, affine di aggiustare eziandio le faccende economiche della povera famiglia; di guisa che, nello stesso, preciso momento in cui Gerolamo veniva fuori dalla casa dirimpetto, Matteo usciva traballando dell'osteria con in gola una voglia matta di cantare la bella Gigogin.

Erasi intanto fatta la notte, e Gerolamo aveva preso il viale poco illuminato, ed a quell'ora deserto. Non aveva egli dapprima posto mente a quell'ubbriaco, che usciva della bettola e si poneva ad ormare i suoi passi; ma nell'andare s'era poi accorto che un uomo lo veniva seguitando, fermandosi quando e' si fermava, assestando l'andare precisamente a quello che egli faceva. I giornali narravano di quando in quando audaci assalti in quelle ore notturne, di ladri che svaligiavano i passeggieri sui pubblici viali della città medesima. Gerolamo temette d'esser fatto segno ad una simile impresa da qualche mariuolo. Coraggioso e robusto com'egli era, non si sgomentò punto.

- A me a dare una lezione a questo birbante; diss'egli fra sè, brandendo il suo bastone; ed aspettato di essere in luogo più scuro per alberi più folti e per maggior lontananza dai lampioni si gettò ad un tratto dietro un tronco d'albero.

Fusella rimase tutto stupito nel vederselo scomparire.

- To' to', esclamò egli ad alta voce, avanzandosi coi più irregolari zig-zag: dov'è andato? Si è profondato sotto terra di sicuro.... Come farò io a raggiungerlo adesso?

Intanto era arrivato all'altezza dell'albero cui si appiattava Gerolamo. Questi conobbe dalla voce e dalla persona chi era il suo seguitatore. Di colpo capì chi l'esserglisi messo a' panni in quel modo e l'averlo codiato tutto il giorno come aveva fatto, era in Fuselli un proposito preso; e cercò in fretta fra sè qual ne potesse essere la cagione. Si ricordò d'aver parlato di denari quando il campanaro poteva udirlo e fece un giudizio temerario sul conto dell'onestà di quell'ubriacone. Il sangue, com'era cosa solita in lui, gli ribollì impetuosamente tutto ad un tratto; si slanciò addosso al mal capitato, e senza dargli il tempo di pur voltarsi, fece crosciar giù una mezza dozzina di legnate dove andavano andavano, gridando:

- Ah birbante! ah scellerato! Gli è a me che ne vuoi eh? To' prendi per tuo ripago, e impara a fare un altro più bello e più onesto mestiere, ladrone maldestro.

Fusella si diede per morto. Cadde ginocchioni gridando come un majale che si scorticasse vivo.

- Perdono! vociava in mezzo alle grida. Io sono innocente, un povero padre di famiglia. Mi hanno mandato.

- Mandato? Chiedeva tutto stupito Gerolamo: a far che?... Ad assassinarmi?

- Oh no!.... Assassinarla.... Mai più!..... Come può credere una cosa simile di Matteo Fusella?.... Volevano che la spiassi, che sapessi dire cos'ella faceva, dove andava....

- Chi?.... chi ha voluto questo? domandava impetuoso lo zio dei Varada.

Nella nube dell'ebbrezza permaneva pur tuttavia entro il mariuolo il ricordo della fatta promessa.

- Ho giurato di non dire, di....

Ma il vecchio bizzarro non lo lasciò continuare.

- Voglio saper tutto: gli disse con voce bassa, ma con accento pieno di comando e di minaccia: e tu mi dirai tutto.

E afferratolo pel bavero del vestito, lo scrollava violentemente.

- Sì... sì, signore: balbettava l'ubbriaco: per carità non mi ammazzi, dirò tutto.... Gli è il sor Giacomo che voleva sapere se lei era ricco o no, se....

- È lui che ti ha pagato?

- Cioè no.... non mi ha ancora pagato. Mi ha promesso....

- Ebbene comincia a pigliarti intanto questo po' di paga: il resto lo avrai dal mio degno signor nipote.

E lasciò cadere di nuovo il suo bastone sulle spalle dell'ubbriaco sempre inginocchiato.

- Aiuto! Misericordia! Urlò il mariuolo abbandonandosi lungo e disteso per terra.

A Gerolamo parve che accorresse gente a quelle grida, e senza preoccuparsi altrimenti di quel miserabile, lo lasciò là e sì allontanò di buon passo.

Alcuno venne difatti, e si abbassò verso quest'uomo giacente a terra che gridava come un disperato; ma visto che gli era un ubbriaco, lo lasciò lì senz'altro al suo destino. E il suo destino fu che, rotolandosi per terra, egli venne a cascare entro il fosso, in cui per fortuna quella notte non correva l'acqua, e trovato un soffice letto nella melma del fondo, vi si addormentò beatamente, non isvegliandosi più che all'alba col mal di capo, colla bocca amara, colle spalle dolenti, con qualche lividore sulla faccia, e cogli abiti che erano tutta una crosta di fango.

In questo bello stato egli capì che non aveva di meglio da fare che tornarsene al paese; e messosi nel primo treno che partiva per colà, giunse al villaggio nella mattinata, le orecchie basse e l'aria confusa d'un corpo d'esercito solennemente battuto dal nemico.

L'accoglimento ch'egli ebbe dal sor Giacomo non fu tale da consolarlo. Fattosi narrare ogni cosa, il segretario comunale gli diede una famosa strapazzata, e non gli diede la ricompensa promessa. Appena fu se gli volle pagare il prezzo del viaggio. Fusella irritato ebbe ancora a sopportare il fuoco vivace dei rimproveri della moglie, che lo vide giungere concio in quella guisa: ma almeno qui potè lo sciagurato avere finalmente uno sfogo, perchè dato mano ad un randello, ne prese occasione a restituire alla povera donna un po' di quella moneta onde lo aveva favorito la sera innanzi lo zio Gerolamo.

XXIV.

Dopo il mezzogiorno, in quell'ora appunto in cui era arrivato la prima volta, lo zio Gerolamo scendeva dal baroccio di Barbetta alla porta della casa dei Varada, e conduceva seco, giusta quel che aveva promesso, la madre di Pierino.

Non vi dirò la scena d'intenerimento che ebbe luogo fra madre e figliuolo nel rivedersi. Mentre essi erano lasciati alla mutua espansione dei loro affetti, lo zio Gerolamo ebbe a sè nella stanza del piano terreno Giacomo e Genoveffa, e colla faccia più scura d'un tiranno di compagnia drammatica, disse loro, incrociando le braccia al petto nella mossa di tutti i Napoleoni di bronzo degli orologi da camino:

- Ah! voi dunque volete sapere se questo vecchio carcame di zio ha denari o no, per misurare alla sua ricchezza la vostra affezione per lui? Va benone! Questo è proprio quello che mi piace, e che mi commuove nel fondo dell'anima. Avete precisamente trovato il modo di guadagnare le mie buone grazie e la mia eredità. Cialtroni che siete, cuori di sasso, e cervelli di sughero. Ebbene, sissignori, io son ricco: ho un mezzo milione circa impiegato qua e colà cosi bene che mi rende una trentina di mila lire all'anno....

I Varada allargavano tanto d'occhi. Lo zio prendeva innanzi a loro delle proporzioni monumentali; credevano vedergli intorno alla fronte un'aureola di marenghi.

- Ma di questa roba voi non avrete mai un centesimo sin che vivo, nè quando io sia andato ad ingrassare i petronciani, a meno che colla vostra condotta mi dimostriate di poter imparare ad esserne degni, val quanto dire diventiate umani, misericordi, generosi. Voi foste avari e scortesi con me, foste avarissimi e crudeli con vostro cugino, vi disponete ad essere sordidi verso la povera vedova di Antonio Maria, siete stati sempre i più barbari dei genitori per la vostra Giovanna. Provatemi che vi siete corretti, e io vi proverò poi che mi ricorderò d'essere vostro zio.

I due coniugi erano cosi confusi che non seppero trovare una parola da dire. Gerolamo uscì senza aspettare nessuna risposta, e s'avviò risolutamente verso la porta da via; ma là, quando già aveva la mano sulla gruccia della serratura per aprire, ecco una bella personcina precipitargli incontro abbracciandolo soavemente, ed una vocina la più dolce che si possa immaginare sussurrargli piano all'orecchio con infinita supplicazione:

- O caro zio! Ho tanto bisogno di parlarle.

- Eccomi qua, Enrichetta: rispose lo zio, nel quale e l'irritazione interna e la ruvida irosa espressione del volto non poterono a meno che dileguarsi al suono di quella voce, alla graziosa venustà di quell'aspetto che gli stava dinanzi. Che cosa mi vuoi dire?

- Venga meco, di grazia, soggiunse la giovanetta; andiamo a fare un giro nell'orto. Ho bisogno di essere affatto sola con lei.

E presolo per mano, lo trasse con sè proprio fino al punto più lontano dell'orto.

- Or bene? Disse allora con accento interrogativo lo zio.

Enrichetta trasse due o tre sospiri desolati dal profondo del petto, poi sussurrò piano piano:

- Ahimè! Mi vogliono maritare.... ed io credo che non c'è che lei a potermi salvare.

- Salvare?... Cospetto! Mi pare che questa non è poi tal pericolo da sgomentare siffattamente una ragazza....

- Secondo chi si tratta di sposare: disse vivamente la fanciulla.

- Sì eh? Vedi mo' la innocentina!...

Enrichetta divenne rossa fino alla radice de' capelli, e guardò la sabbia del viale con un'immensa confusione.

- Via, via: soggiunse lo zio, pigliandole il mento per farle sollevare il bel visino; non hai torto, e la è proprio cosi. Adunque ti vogliono dar marito, e quello che ti si propone non ti va a garbo?

La ragazza scosse il capo con mossa molto significativa.

- E chi è questo infelice?

Enrichetta si appoggiò alla spalla dello zio, e gli sussurrò all'orecchio:

- È lo speziale.

- Oh oh, il signor Domenico. A dire la verità ciascuno lo troverebbe un buon partito.

- Non mi piace: disse la giovane, scuotendo la testa con una smorfietta piena di grazioso dispettuccio.

- È di conveniente età, ricco, stimato.

- Non mi piace, non mi piace: ripetè con insistenza Enrichetta, battendo il piedino per terra.

- Bene! La ragione è eccellente. E chi è che vuol fartelo sposare contro tua voglia? Ordinariamente qui non si fa che a tuo senno.

- Tutti sono contro di me. Pare che si sieno data l'intesa di farmi contro. Quel sornione li ha saputi metter tutti quanti dalla sua.... E lo posso soffrire anche meno per ciò. Babbo e mamma, e perfino il padrino lo proteggono.

- Anche il signor marchese? L'affare è serio allora. Contro tali e sì poderosi avversarii che cosa potrei fare io... ammesso eziandio che volessi patrocinare le tue voglie, pazzerella?

- Ah! non sono pazzerella, stia sicuro. Che? Avrebbe simpatia anche lei per quel dissimulatore, per quella faccia tosta?...

- Lasciamo codesto. Non è il caso di sapere adesso ciò ch'io pensi o non pensi di quel cotale. Ti dico che, ricorrendo a me, tu ti raccomandi a un santo che non ha credito.

- Oh sì, sì: interruppe vivamente la fanciulla. Forse gli era com'ella dice parecchi giorni sono; ma da un po' di tempo babbo e mamma ci hanno ridato il permesso di andarla a trovare ed inculcatoci di essere con esso lei quale a buone nipoti si addice. E sì che non faceva bisogno ce lo dicessero! Stamattina poi, dopo un colloquio che ebbero coll'inserviente comunale, papà e mamma dissero esplicitamente che bisognava assolutamente guadagnarsi le sue grazie, perchè da lei dipendeva la nostra sorte.

- Ah si? Dissero queste parole? Va benissimo. Che cari nipoti!... Bene! Ma se io avessi da pigliarmela calda in tuo favore, occorrerebbe ancora ch'io fossi bene addentro ne' tuoi segreti...

Enrichetta non aspettò che lo zio aggiungesse altra parola per arrossire di nuovo sino nel bianco degli occhi.

- Eh! io non ho segreti: diss'ella vivamente.

- Perchè arrossi allora?

Voi indovinate che la giovinetta arrossì ancora di più.

- Niente affatto: perchè avrei da arrossire? Disse con una bizza adorabile la fanciulla. Non capisco nemmanco quel che ella voglia dire.

E lo zio, paternamente prendendola per le mani e guardandola per entro gli occhi ch'essa fu lesta a sviare da quelli di lui:

- Voglio dire che ordinariamente, quando un marito che non è il fistolo, proposto da padre e madre, fa lo spavento d'una ragazza, gli è segno evidentissimo che quell'individuo lì non piace, perchè c'è un altro che piace assai di più, troppo di più... Mi capisci adesso?

Enrichetta si divincolava per isciogliersi dalle grosse mani dello zio, bella come un amorino nella sua confusione e nella sua stizza.

- Non ho nessuno che mi piaccia... Oh che le pare quel grullo d'uno speziale sia partito da mandare in visibilio?... Non lo posso soffrire, ecco!

Riusci a liberarsi le mani dalla stretta dello zio, e scappò leggera e leggiadra come una ninfa.

- E se mi vogliono obbligare a sposarlo: soggiuns'ella fermandosi poi a pochi passi; piuttosto mi vado a far monaca...

- Eh! che i monasteri sono soppressi: esclamò ridendo lo zio.

- Cattivo anche lei, signor zio. Ah! se mi libera da questa disgrazia, le vorrò tanto bene, tanto bene. tanto bene, che sarà contento di me.

E gli ammiccava così vezzosamente da lontano pochi passi, che il vecchio burbero si sentì tutto allietare da quel giovanile sorriso.

- Là, là, sta tranquilla: diss'egli scherzosamente. Lo zio Gerolamo ti sosterrà nella tua ribellione contro l'autorità paterna, ed anche contro quella del padrino... Sì, per mille e cento diavoli! tanto più volentieri contro il superbo signor marchese.

Enrichetta gli mandò colla punta affusolata delle sue bianchissime dita un bacio tutto riconoscenza e spari traverso le piante. Gerolamo battè forte per terra con quel suo grosso bastone.

- No, per Dio, non lascierò fare questo matrimonio; e poichè il signor marchese lo vuole, ed io avrò un gusto matto ad oppormivi.

Uscì di casa i Varada con passo risoluto ed aria decisa, come un buon soldato che cammina quasi allegramente alla battaglia; ma poco stante, il suo aspetto cambiò e la sua fronte si coperse di nubi come la montagna vicina, quando minacciava temporale. Nella sua anima infatti sorgeva un tumulto di contrarie voglie, che lo mettevano infra due. Gli era venuto il pensiero di due persone, le quali ora gli erano le più care: Gaudenzio e Giovanna. Che cosa avrebbe detto il primo nel vedere il vecchio amico implacabilmente ostile a suo figlio? E per quella Giovanna, non sarebbe forse stata una ventura quel matrimonio, che separasse per sempre Enrichetta da Pierino? Però Gerolamo non istette lungo tempo nell'incertezza.

- Gaudenzio, pensò egli, è tanto assennato e tanto buono che capirà la ragione e mi perdonerà. Enrichetta, separata da Pierino, non otterrà il miracolo che quest'ultimo corrisponda all'amore della povera Giovanna. Dunque? A questa disgraziata altri compensi, a quei due che si amano... e non dubito punto che Pierino non s'accorga dell'amore d'Enrichetta e non tardi a corrisponderle.... a que' due la felicità di essere uniti...

Egli borbottava ancora fra sè queste ultime parole, quando fu accostato dallo speziale, che gli disse in tono di voce straordinariamente cortese e melato:

- Riverisco il signor Porretta. Giusto lei che desideravo vedere.

Lo zio Gerolamo alzò il capo, e trovossi alla cantonata della bottega di Domenico. Guardò in faccia quest'ultimo, e lo vide col sorriso il più ameno che egli avesse nel suo repertorio; quel sorriso ch'egli soleva usare soltanto nelle grandi occasioni, verso quelli solamente di cui aveva bisogno.

- Ho capito: disse fra sè il vecchio, la cui faccia per contrapposto divenne più burbera che mai. Viene a parlarmi dell'affare.

- Avrebb'ella, continuava Domenico, sempre più grazioso e piacentiere, un momento solo da ascoltare una sola parola?

E Gerolamo, coll'accento più ruvido che contrastasse con quello sì dolciato del farmacista:

- Un solo momento, una sola parola, sia; ma non più.

Il figliuolo di Gaudenzio accolse quella risposta colla faccia gioconda che si fa ai complimenti, e recatosi con Gerolamo nella retrobottega, diede ampia ragione all'indovinamento di quest'ultimo, cioè gli fece domanda solenne della mano di Enrichetta, protestando che dal solo buon volere di lui egli desiderava ottenerla. Mise in pratica tutta la furba eloquenza con cui usava abbindolare i contraenti nella conclusione di qualche affare, gli elettori nelle preparazioni di qualche nomina; ma i suoi colpi rinforzati dall'adulazione rimbalzarono impotenti contro la corazza adamantina della malavoglia ond'era armato lo zio Gerolamo, e le infinite, minutissime rughe della faccia di costui non accennarono pur mai, neanco un momento, di rispianarsi; la fronte stette accigliata, lo sguardo freddo e torvo, talmente che gli occhietti guizzanti dello speziale non osarono pur mai affrontarlo direttamente. Domenico sentì che quel primo assalto era una sconfitta.

- Signor Domenico, rispose asciuttamente Gerolamo, quando l'altro ebbe finito. Voi dite delle bellissime cose: ma lasciate l'essenziale. E si è che per ottenere Enrichetta, bisognerebbe che foste amato da lei, od almeno le aggradiste. Or io ho l'onore di dirvi che ciò non è il meno del mondo, e che io le ho promesso or ora di sostenerla nella negativa che ella intende di dare alla vostra domanda.

Così detto, lo zio Gerolamo voltò le spalle allo speziale, e se ne andò pei fatti suoi. Domenico rimase lì tutto sbalordito.

- Ah! questo è un ostacolo serio, esclamò poi fra sè, stato un poco a meditare. Ma pure, vorrà egli cambiare il suo testamento e togliere la eredità ad Enrichetta se io la sposo? Mai più! Il sor Giacomo sarà così ossequente alle parole dello zio da mancare alla parola datami?... Può darsi. Ma a quest'uopo conviene opporre influenza ad influenza. Se il marchese comandasse, conosco Varada io, non sarebbe capace di ribellarsi al suo volere... Andiamo a trovar il marchese.

E ci fu senza perder tempo. Colà seppe così bene presentar le cose ed avvolgere le sue parole, che, senza pure averlo detto chiaro, mandò persuaso il nobile padrino d'Enrichetta, che lo zio di questa - un mauvais manant, diceva il marchese fra i denti - non per altro s'opponeva al disegnato maritaggio che per gusto di contraddizione e per mancanza di rispetto alla nobile prosapia ed al nome illustre di sua eccellenza. L'ultimo dei Roccavecchia giurò par ses grands Dieux, e per le ceneri di tutti i suoi antenati, ch'egli l'avrebbe fatta vedere a quell'insolente plebeo; che già altra volta aveva potuto conoscere le sciagurate dottrine ch'ei professava, tanto più colpevoli in uno la cui famiglia era dipendente dall'augusto casato ond'egli, marchese, aveva l'onore di portare il sangue nelle vene, il nome glorioso e il titolo non macchiato mai; che non sarebbe più stato egli se non l'avesse spuntata, e palsambleu! avrebbe mostrato di che cosa era capace.

Domenico Tartini se ne partì dal castello tutto giulivo, mentre il marchese dava ordine solennemente ad un domestico che scendesse nel villaggio ed intimasse al sor Giacomo Varada di accorrere tosto a castello.

Giacomo fu lesto ad obbedire, e mezz'ora dopo tornava a casa ad annunziare alla moglie e ad Enrichetta desolata come egli avesse promesso al signor marchese che entro la settimana si sarebbero appiccati alla comune i cartellini della denunzia di matrimonio fra il signor Domenico di Gaudenzio Tartini speziale e la signora Enrichetta di Giacomo Varada e Genoveffa Porretta.

XXV.

Intanto la malattia di Pierino andava sempre meglio. La presenza di sua madre era stata per lui il farmaco più potente. Giovanna ora non era più che l'umile serva della vedova di Antonio Maria, per aiutarla nelle cure verso il convalescente. Enrichetta era stata proibita con solenne imponenza di comparire mai nella camera del cugino, eccetto che in quei pochi e ratti momenti in cui ci stava la signora Genoveffa. Pochi momenti e troppo ratti davvero e per lei e per lui: i quali ambedue, nel loro segreto, li aspettavano con un'ansia, con un desiderio da non dirsi, e provavano in quei fugaci istanti una dolcezza onde il loro cuore tutto era invaso e beato.

Pierino amava ancor egli immensamente Enrichetta. Era troppo modesto per lusingarsi di essere corrisposto, ma sentiva una infinita speranza quando mirava quello sguardo così sereno di lei a sè dolcemente rivolto, quando credeva ricordarsi aver veduto nel suo delirio china su di lui la faccia d'una donna, a cui egli attribuiva i bei lineamenti d'Enrichetta.

Ben sapeva egli d'esser povero, e questa sua povertà frammettersi ostacolo fra lui e la giovane; ma anche a tal riguardo, era venuta a rassicurarlo una conferenza che aveva avuto luogo al suo letto, tosto dopo l'arrivo della madre, fra quest'essa e il signor Gerolamo Porretta. Questi si rendeva acquisitore della casa e dei beni di Antonio Maria, pagandone col prezzo relativo i creditori, ad istanza dei quali erano stati sequestrati. Almanco quella diletta casa non cascava in mani profane, e Gerolamo annunciava che la porta di essa sarebbe sempre stata aperta per la vedova e pel figliuolo di quell'infelice che l'aveva fatta abbellire. Oltre ciò, siccome egli, Gerolamo, aveva ancora conservato alcune relazioni in quella sfera commerciale in cui aveva raccolto le sue ricchezze, egli prometteva, guarito che fosse Piero, di tastare quali fossero le sue capacità, e, trovatele acconcie, di affidargli un qualche piccolo capitale per cui potesse avviarsi all'opera di restaurare la fortuna paterna e di prendere una rivincita contro la sorte.

Lascio stare le benedizioni che madre e figliuolo mandarono sul capo al vecchio Gerolamo, e che questi non volle sentire, interrompendo bruscamente col dire: che ciò faceva perchè l'acquisto di quei beni e di quella casa gli conveniva, e perchè aveva voglia di mettere a frutto in nuove speculazioni commerciali, ch'egli stesso avrebbe diretto, qualche poco di suo capitale, giacchè non dovessero pensare ch'egli quelle anticipazioni che avrebbe fatto le volesse loro regalare: e ciò detto col medesimo accento con cui un altro direbbe delle ingiurie in una contesa, egli se n'era uscito per non udir più altre parole.

In tutto il villaggio aveva prodotto un effetto magico la novella che in un lampo s'era propagata: Gerolamo essere un riccone, comprare egli tutti i possedimenti di Antonio Maria, aver tanti denari da comprare, s'e' volesse, tutto il territorio, ed altre parecchie esagerazioni siffatte. Il vecchio bizzarro era di subito salito all'apogeo nella stima della gente, e, trattine Gaudenzio e il parroco, i quali continuarono ad essere quelli di prima, non vi fu persona che non accrescesse le mostre del rispetto per questo Creso che si nascondeva sotto i panni d'un povero.

La casa di Antonio Maria fu aperta e ripulita, fu fatto mondar dalle cattive erbe ed aggiustare il giardino: ma Gerolamo continuò ad abitare la sua stanzetta presso al suo vecchio amico Gaudenzio; e si seppe che appena Piero avrebbe potuto reggersi in piedi, il nuovo padrone della casa aveva voluto ch'egli e sua madre, abbandonando la dimora dei Varada, andassero ad abitar colà. Alcuni lodavano, alcuni censuravano, in presenza di lui tutti esaltavano la generosità del sor Gerolamo, il quale scrollava le spalle e rispondeva irosamente a suo modo. In sostanza non era più che si parlasse d'altro che di codesto.

Tutte queste voci e tutto questo rumore non poteva a meno che salire eziandio al castello di Roccavecchia, e chi conosce un tantino il cuore umano, non avrà bisogno di molte parole per andare persuaso, che siffatte chiacchiere piacevano al marchese come altrettanti buffetti sul naso. La importanza che veniva acquistando il plebeo Gerolamo, pareva al nobile discendente dei feudatarii ed era in fatti una diminuzione di quel tanto d'influenza che, quantunque non ufficialmente, pur tuttavia glie n'era rimasto, quasi un residuo della sua antica signoria. Vedeva in ciò il liberalismo moderno venire a sfidarlo e vincerlo fino nell'ultimo suo serraglio, e lamentava amaramente il predominio della bassa caricatura sulla nobiltà della stirpe nata a non far nulla. Ciò valse a rendere il marchese più ostinato che mai a volere che il matrimonio di Enrichetta collo speziale si compiesse, appunto perchè quest'ultimo seppe fargli intendere accortamente, come Gerolamo vi si opponesse non per altro che per farla vedere al signor marchese. Il sor Giacomo ebbe nuova intimazione di eseguire quanto prima il divisato progetto, e le polizze degli annunzi furono appiccate alle tavole del Comune.

Enrichetta piangeva, come la fontana presso al bosco dei castagni, lagrime inesauribili; e pensate se la buona Giovanna poteva vedere questo spettacolo senza punto commuoversi.

- Mia cara Enrichetta, le disse abbracciandola con infinito amore: non piangere così, per carità, che ben troveremo rimedio ancora a questa sciagura. Il marchese ti vuol tanto bene che mi pare impossibile non ceda alle tue preghiere, se tu vai a dirgliene ciò che provi, e lo zio Gerolamo non mancherà di assisterti come ha promesso. Io perciò sarei d'avviso che tu corra al castello, e veda di parlar da sola a solo al marchese: ed io frattanto vado dallo zio Gerolamo ad avvisarlo come ne stanno le cose.

- Ah sì, è vero! Esclamò vivamente Enrichetta, la quale baciò e ribaciò con espansione di riconoscenza la faccia butterata della sorella.

E tuttadue s'affrettarono a recarsi al luogo rispettivamente assegnatosi.

Lo zio Gerolamo, udita la Giovanna, prese pure senza parlare il suo cappello e la sua mazza, e s'avviò giù della scala del suo quartieretto così frettolosamente che la povera zoppa aveva difficoltà a seguitarlo.

- Va benone: diceva egli fra i denti. Il sor Giacomo mi sentirà, e mi sentirà anche il signor marchese, dove occorra.

Com'egli stesso aveva detto pochi giorni prima al suo amico Gaudenzio, era da qualche tempo che Gerolamo non si sentiva molto bene di salute. Quel giorno, fosse l'effetto della fatica del viaggio, congiunta colle emozioni morali che aveva dovuto provare; quel giorno egli stava ancora peggio, e il suo cuore, in mezzo a palpitazioni frequenti, gli dava acuti dolori di quando in quando. Alle parole di Giovanna, egli provò un certo rimescolo d'ira, che gliene fece arrossare i pomelli delle guancie ed accrescere il battito del cuore. Quando ebbe scesa a furia la scala, Gerolamo dovette fermarsi sulla soglia ed appoggiarsi con una mano alla parete, perchè fu assalito dal capo-giro, e la respirazione parve mancargli. Fu l'affare d'un minuto secondo. Si riebbe subitamente, tirò un lungo rifiato, e riprese il cammino di buon passo verso la casa del Comune, che si trovava dall'altra parte della piazza. Giovanna se ne tornò sollecitamente a casa.

Gerolamo entrò nell'ufficio del segretario comunale, colla dolcezza con cui entra un vento impetuoso che spalanca le finestre e fa tremare tutta la stanza.

- Che cos'è questo che intendo? Gridò egli come se avesse da fare udire la sua voce ad un battaglione di sordi. Nella vostra famiglia chi comanda è dunque il marchese? Presso di voi chi ha influenza è dunque un estraneo più che non un parente... un parente che ha mezzo milione di suo?

Il sor Giacomo, la mano in aria colla penna gocciante d'inchiostro, gli occhietti sbarrati, balbettò colla sua vocina delle parole che non sapeva egli stesso quali si fossero.

A quel magico motto di mezzo milione egli si sentiva commuovere profondamente le viscere.

Lo zio giurò, spergiurò e sacramentò che se non si faceva a modo suo, se non si rompeva subito quel maritaggio, se non si stracciavano senza ritardo le scritte delle denunzie appiccate lì sotto nel vestibolo della casa comunale, egli avrebbe saputo come regolarsi a sua volta verso i nipoti, e corrispondere degnamente al loro trattare.

Lo sfortunato sor Giacomo vide fiammeggiare in queste parole la minaccia della diseredazione. Figuratevi l'imbroglio in cui il pover uomo si trovava! Dall'una parte lo zio che, se quel matrimonio si faceva, lo privava della sua eredità, dall'altra il marchese, il quale, se non si faceva, gli toglieva la sua protezione e tutte le speranze che a questa venivano connesse. Mai nessun bivio più tremendo tenne dubbioso un Ercole senza risoluzione. Glie ne vennero le lagrime a quegli occhietti, che per emozione di pietà non piangevano mai. Espose supplicante la crudeltà della sua situazione allo zio incollerito, che faceva un chiasso del diavolo battendo col suo bastone per terra e sui mobili. Appena ebbe udito far cenno del comando dato dal marchese, Gerolamo interruppe con imprecazioni più concitate ancora del solito, poichè gli era il marchese che faceva e disfaceva, ed egli avrebbe parlato con esso lui; ma intanto la famiglia, che aveva per esso cosi pochi riguardi, si sarebbe accorta, avrebbe visto giuraddio! avrebbe dovuto pentirsene. Ed uscì collo stesso impeto con cui era entrato, lasciando il povero sor Giacomo pentito di non avere addirittura sconfessato quel maritaggio in grazia del merito del mezzo milione. Non ci aveva più testa agli affari del Comune, si sentiva da meno della circostanza, ed aveva bisogno del rincalzo dei consigli di Genoveffa. Era così turbato in faccia che Domenico Tartini, vedendolo a passare, abbandonò la soglia della sua bottega per venirgli incontro sollecito, e gli domandò se avesse male, che cosa mai fosse capitato.

Il sor Giacomo disse tutta la verità. Grande allarme eziandio nello speziale, che temette il vecchio matto potesse spingere la sua ostinazione sino a cambiare le disposizioni del suo testamento s'egli sposasse Enrichetta. Domenico accompagnò Varada in casa, e si tenne fra i tre congiurati nuovo consiglio, che durò assai lungo tempo, senza che nessuna risoluzione s'adottasse in cui paresse loro veramente di poter quietarsi. Era quello un Waterloo pel furbo Domenico, quando la fortuna venne a cambiarlo in un Marengo. Mentre stavano ancora fittamente discorrendo, dopo un'ora di colloquio, i conjugi Varada e lo speziale, ecco entrare affannato in casa del segretario comunale il buon Gaudenzio, sconvolto in viso da far paura, gridando, se lì per caso era suo figlio, che lo si chiamasse in tutta fretta.

A Domenico, il quale comparve ad interrogare che cosa fosse avvenuto, Gaudenzio disse con lagrime nella voce e con ispavento nell'aspetto:

- Presto! Corri! Gerolamo ha bisogno di te, Gerolamo si muore.

Tutti furono sossopra in un amen. Le interrogazioni s'incrociavano affollate e Gaudenzio non rispondeva altro che: - Correte, correte. Corsero diffatti tatti quanti, ma, benchè zoppa, la povera Giovanna fu la prima ad entrare nella camera dello zio.

Questi giaceva sul suo letto, gli occhi semichiusi, acceso in volto, affannoso oltre ogni dire il rifiato. Il medico, che gli stava a' fianchi, avevagli fatto un salasso, e teneva il polso in mano, studiandone attentamente i battiti. La sua faccia era oscura da presagire poco di bene. Gerolamo era in sè pienamente, e riconobbe tosto la Giovanna appena fu essa entrata. Le tese una mano, ch'ella si affrettò a venire a stringere ed a baciare.

- Brava! Le disse lo zio con quel po' di voce che gli rimaneva. Tu starai meco fin che sia finito. Quando ti ho vista intorno al letto di Piero, ho concepito il desiderio di averti assistente agli ultimi istanti della mia vita. Ringrazio il Cielo che questo desiderio sia soddisfatto, poichè tu starai qui, non è vero?

Il suo sguardo offuscato esprimeva pur tuttavia, tanta passione di desiderio che la sciancata s'affrettò a rispondere.

- Sì, sì...

Ed avrebbe aggiunto altro se il medico non gli avesse esclamato che bisognava tacere e lasciar tacere l'infermo, e se in quella non fossero entrati tutti gli altri, la famiglia Varada in corpo, e dietro di essa la faccia sottile dello speziale.

Convenne che a costoro il medico ripetesse l'intimazione del silenzio per porre fine alle esclamazioni e domande che fioccavano come le palle d'un fuoco di fila. Tutti volevano stare al capezzale del caro zio: ma il malato, che incominciava a perder pazienza, fece comprendere che non voleva altri che la Giovanna, e il medico aiutato da Gaudenzio riuscì a metter fuori tutti gli altri.

Domenico Tartini scese nella sua farmacia fregandosi le mani.

- S'egli crepa, diss'egli a sè medesimo, non potrà più opporsi al matrimonio, e non potrà rifare il testamento.

XXVI.

Ecco che cosa era successo quella mattina nel castello di Roccavecchia.

Il marchese aveva dormito poco bene; si sentiva un po' più tormentato dalla gotta, trovava più pesanti dell'ordinario i fastidii del celibato; era d'un cattivissimo umore. Per poco lo si fosse solleticato, si sarebbe ottenuto di farlo uscire da quella squisita urbanità ond'e' si faceva una legge: se fosse passato presso ad un povero che gli tendesse la mano, avrebbe fors'anco potuto dimenticare di dargli la solita moneta da venti centesimi. Insomma raramente era stato in sì straordinaria condizione dell'animo. Il pensiero di Gerolamo, della ricchezza di lui e della opposizione ai suoi voleri, lo veniva ad angustiare con nuovo pizzicore. Glie ne voleva maledettamente, a lui che della sua gotta, del suo celibato e della sua insonnia non ne poteva il meno del mondo. Ad un tratto pensava alle grazie della sua figlioccia, e l'egoismo gli andava suggerendo con potenti sofismi che avrebbe fatto assai bene a non lasciarla andare a marito nè con questo nè con quello, ma pigliarsela seco, e tenersela come figliuola a castello.

In questo frangente, capitava appunto Enrichetta. Il marchese volle accoglierla bruscamente, ma non seppe. In pochi minuti la giovanetta riebbe tutto il suo antico influsso sull'animo del padrino, e questi la rimandò consolata d'una specie di promessa che la questione del suo matrimonio collo speziale sarebbe posta sotto un nuovo esame.

Se Enrichetta avesse trovato per istrada, tornando a casa, lo zio Gerolamo, una gran sciagura sarebbe stata avanzata; ma mentre la damigella scendeva di corsa al villaggio per la stradicciuola più ripida e più corta, lo zio saliva, sbuffando e masticando furibonde imprecazioni, per la strada carrozzabile.

Al marchese bastò l'annunzio che il signor Gerolamo Porretta si presentava chiedendo un colloquio, per fargliene tornare in corpo tutto il cattivo umore che la visita d'Enrichetta aveva quasi dileguato compiutamente. A prima giunta pensò addirittura non riceverlo, poi si ravvisò, e diede ordine lo s'introducesse. I due vecchi si avvicinarono come due nemici. Il marchese stette in piedi, per indicare che desiderava l'abboccamento fosse corto e non voleva dare al visitatore alcun favore di famigliarità. Gerolamo, che era stanco della gita, sentì un vivo dispetto di codesto tratto; da parte sua il discorso cominciò senz'altro come una contesa. Se il plebeo era più violento, il nobile era più fine ed arguto nelle botte che si scambiarono a parole; l'uno e l'altro colpivano nel vivo. Da quello che avevano per le mani passarono agli argomenti i più estranei; se ne immischiarono le opinioni politiche; fu un battibecco in tutta forma. Il marchese si lasciò scappare un cenno che alludeva agli obblighi della famiglia Porretta verso la stirpe dei Roccavecchia; e Gerolamo si lasciò scappar del tutto quella pazienza che aveva sì poca. Il nobile padrone del castello mise alla porta il plebeo insolente, il quale uscì schiattando letteralmente di bile.

Gerolamo venne sino a casa sua che proprio non ci aveva più lume negli occhi. Gridava imprecazioni e bestemmie e gestiva da parere un matto; si sentiva nell'interno uno sconquasso e quasi un rumore come di una macchina le cui ruote girano senza regola, non più misurato e trattenuto l'impulso. Ebbe giusto tempo a salire in camera sua e poi cadde lungo e disteso, mancandogli ad un tratto tutte le forze. Egli capì subito di che si trattava, e lo disse colla voce soffocata a Gaudenzio, che per fortuna trovavasi in casa ed accorse a sollevarlo tutto spaventato.

- La è bella e finita per me...

- No, no: disse Gaudenzio commosso, trasportandolo a stento sul letto. Vado pel medico...

- Va piuttosto pel parroco: disse Gerolamo, che si sentiva mancare il respiro.

Gaudenzio corse dal medico, dal parroco, da tutti. e due ore dopo un po' di miglioramento era avvenuto, ma la morte non era respinta.

Nella camera del giacente stavano la povera Giovanna, Gaudenzio, il parroco, e ci veniva di quando in quando con qualche pretesto il curioso speziale che aveva tanto interesse a vedere e sapere come le cose si passassero.

Una delle fiate, in cui Domenico si recò a far capolino sull'uscio, gli avvenne di udire lo zio Gerolamo che diceva queste parole:

- Come esecutori miei testamentari, voi difenderete questa povera Giovanna, che ho fatta mia erede, dalla ingordigia de' suoi parenti. Voi impedirete che le male arti altrui e il proprio buon cuore non la spoglino di quella ricchezza che ho voluto a lei appartenesse per compensarla in parte di quello che le è toccato soffrire sinora. Tu, Giovanna, lascierai che la vedova e il figliuolo di Antonio Maria abitino nella casa che fra poco diventerà tua, e ciò, non solamente perchè fu mio desiderio, ma perchè il tuo cuore eccellente proverà piacere nel farlo. Io avrei voluto darti la felicità, poichè ti ho scoperta degna di ogni bene, ma la felicità, povera creatura, è fatta per nessuno sulla terra, e meno forse per te... Ti ho lasciata la ricchezza, la quale almeno compra di molte cose...

Giovanna piangeva, piangeva eziandio il buon Gaudenzio; e il parroco, il quale non aveva gli occhi asciutti neppur egli, interruppe il malato per pronunziare alcune confortevoli parole, consigliandolo a non sfaticarsi e star calmo.

Lo speziale s'allontanò quatto quatto senz'essere stato visto, ma con un grande turbamento nell'anima.

Giovanna era dunque l'erede? La brutta, la zoppa, la gobba Giovanna? Chi voleva guadagnare un mezzo milione addirittura non aveva che da pigliare quella mano lunga e macilenta da rachitico, e glie l'avrebbe trovato in pugno? Domenico stette dieci minuti piantato come un piuolo in mezzo la sua bottega, grattandosi il naso e l'orecchia e la testa.

Sentiva che gli avvenimenti incalzavano, che per procurare insieme il proprio interesse e far bella figura conveniva prendere una sollecita determinazione, prima che il mistero ch'egli aveva scoperto fosse fatto palese dalla morte di Gerolamo. Maledì la bizzarria di quest'ultimo nel voler lasciare le sue ricchezze a quel mostro. Chi si sarebbe mai più pensato un simil fatto? Mosse un passo verso l'uscio e s'arrestò: vide, come se l'avesse innanzi agli occhi, tutta la bruttezza di quella disgraziata creatura contraffatta, miseruzza e butterata, ed il suo coraggio esitò. Poscia venne ad occuparlo il pensiero ch'egli sarebbe il più ricco di tutto il circondario, che la sua influenza già cotanta sarebbe diventata incontrovertibile. Chi può mettere un limite alla tristizia del pensiero d'un egoista che anela al possesso dell'oro? Si disse che Giovanna non avrebbe potuto vivere lungamente, e che, lei morta, chi l'avesse sposata e sapesse farsene lasciare erede a sua volta...

Uscì precipitosamente di bottega, e corse in casa del segretario comunale.

I coniugi Varada non avevano ancora avuto, e non ebbero mai più uno stupore uguale a quello che provarono in quel giorno. Lo speziale, coll'aria compunta di un san Luigi, disse loro che nel matrimonio di Enrichetta, egli era l'affetto, era il cuore che cercava e non altro, e che essendo ora chiaro come la fanciulla ripugnasse, pur troppo - per mia sciagura, esclamava Domenico, volgendo al soffitto gli occhi - a quel modo, egli mai, no mai più non avrebbe voluto, nemmeno per ombra, vedervela obbligata. Egli veniva dunque, come galantuomo che egli era, secondo l'obbligo che sentiva fargliene la coscienza, veniva a restituire a' suoi amici i signori Varada, la parola che s'era tra loro scambiata, assicurando che ciò nullameno egli avrebbe sempre conservato una gran riconoscenza per essi, e si sarebbe considerato anzi fin d'allora come appartenente a quella famiglia, a cui non disperava tuttavia di potersi in qualche modo alleare.

Alla sua parlatina rispose un gran sospirane di sollievo dal petto dei genitori d'Enrichetta, che videro di botto levate via tutte le difficoltà onde si conturbavano; esaltarono essi fino al cielo la generosità di Domenico; gli dissero che, ad ogni modo, avrebbero mantenuto la parola data, ma che pure egli aveva preso il più savio partito che toglieva di mezzo ogni imbarazzo; protestarono che qualunque altra cosa potessero fare in beneficio di lui, ad un solo cenno l'avrebbero fatta.

Lo speziale uscì modesto sotto la piova di tante lodi, e si affrettò a tornare presso il moribondo. Giovanna era colà seduta al capezzale del malato, che stava assopito. Domenico s'accostò adagio adagio, e guardò la povera creatura cosi mal trattata dalla sorte. Sentì correre per l'epidermide una specie di ribrezzo, dicendosi: - Dovrò sposare quel mostro lì. Ma egli in questa fatta di cose era pieno di coraggio. Guardò da capo la Giovanna, e stette cogli occhi fermi su di lei. Il vero è che quell'espressione di bontà, onde ho già fatto cenno, era diffusa in quel momento sui tratti della meschinella. Però, più di codesto valeva per sor Domenico la frase meravigliosa ch'ei si veniva ripetendo fra sè e sè:

- Quello scimiotto scontorto avrà mezzo milione!

Affè! Non gli parve poi che quella bruttezza fosse cotanta. E poi, si disse, uno spirito superiore bada esso a queste cose? Ed egli aveva l'intima persuasione d'essere uno spirito superiore.

Giovanna sentì lo sguardo di Domenico si fissamente fermo su di lei, ed alzò il capo. La faccia dello speziale aveva un aspetto di tanta ammirazione, che la fanciulla tutta stupita gli domandò a bassa voce:

- Che cosa c'è?

Lo speziale congiunse le mani, e torse il collo per rispondere con flebile accento.

- C'è che ella è un angelo, madamigella, e che io, al vedere tanta bontà, tanta virtù, l'ammiro e la venero come una santa del paradiso.

Questo linguaggio era sì nuovo per le orecchie della povera contraffatta, che ella stette cogli occhi sbarrati e colla bocca larga a guardar chi glie lo traeva, come avrebbe guardato un quadrupede che si fosse messo a parlare. Prima credette che ad altri si dovessero indirizzare quelle parole; poi riflettendo che era sola, le giudicò una beffa, ed arrossì leggermente. Domenico si affrettava a ripeter la dose; ma essa gli fè cenno tacesse, e colla sua voce sorda e rimessa gli disse:

- Zitto! Non bisogna svegliare lo zio.

Poi chinò di nuovo il capo, come per significare che non avrebbe prestato più attenzione ad altri discorsi.

Domenico uscì persuaso in sè medesimo d'aver fatto colpo nell'animo della ragazza. Questo sistema di corteggiamento tenne egli pel seguito. Alla fanciulla parlava sempre, con una dolcezza adulativa, in termini di ammirazione. A tutti gli altri parlava di lei con entusiasmo. Siccome la malattia dello zio Gerolamo durò ancora una settimana, egli ebbe tempo a stupire tutto il villaggio della sua propensione e dell'affetto che manifestava per la zoppa, da tutti disprezzata, prima che la morte del vecchio e la conseguente conoscenza del testamento ch'egli aveva fatto venisse a dare agli accorti la ragione di quel suo nuovo diportarsi.

Lo zio Gerolamo, secondo quello che aveva desiderato, morì con intorno a sè Gaudenzio, il parroco e Giovanna, la quale lo pianse, come se da lungo tempo avesse imparato a conoscerlo ed amarlo.

Pel paese fu una gran novella che la sciancata fosse ad un tratto diventata ricca d'un mezzo milione; per la famiglia di lei fu un gran dispetto, e la memoria dello zio fu salutata con certi epiteti che non erano tutto riverenza. Allora capirono l'arte dello speziale, e pensarono opporre a quella un'altra manovra nel loro interesse. Ad essi conveniva che la Giovanna non uscisse mai di casa loro; e poichè la natura aveva già fatto assai per questo, si diedero a cercar modo di guarentirsi il pieno ottenimento di siffatto scopo.

La brutta, contraffatta, disprezzata ragazza, vide giorni novelli, così che le pareva sognare. Era diventata qualcheduno, essa che sino allora non aveva contato mai per nulla; poco mancava anzi che non fosse un personaggio d'importanza. La si trattava oramai con rispetto e deferenza. Codesto cominciava dalla famiglia, e si estendeva in tutta la cerchia del villaggio. Il padre le parlava, non coll'affetto che usava parlando ad Enrichetta, ma con riguardi, quali aveva per i suoi superiori; la madre metteva la sordina alla sua voce robusta nel rivolgerle il discorso, spoglio ora di tutte le solite invettive; il bastone della granata aveva cessato di essere in continua attinenza colle mani della poveretta: Gertrude si adoperava alacremente essa stessa nei lavori di casa, e faceva il miracolo di non borbottare; lo speziale non perdeva nessuna occasione per farle assaggiare quel profumo da cui era stata sceverata fino allora, il profumo dei complimenti che la turbavano con un profondo sentimento di vergogna; i biricchini avevano cessato di schernirla; nello sguardo della gente le pareva di trovare un'espressione di interesse, che il suo desiderio si compiaceva ad interpretrare per manifestazione d'affetto.

Un fatto la commosse sino al fondo dell'anima. La madre di Piero e quest'esso, il quale nella sua convalescenza progrediva con passo lento ma sicuro, vennero a ringraziarla d'averli lasciati prendere stanza nella casa del morto loro marito e padre. La vedova di Antonio Maria sentiva una viva gratitudine per questo fatto. Piero, di cuor generoso, aveva accresciuta la sua naturale compassione per l'infelicità di quella creatura da una simpatia fraterna, che s'era destata in lui vedendola, durante la famigliarità della convivenza, sì buona e sì mite nella sua rassegnazione. Fu con vera tenerezza che la madre le espresse i suoi ringraziamenti, che Piero le strinse le mani, chiamandola "sua cara Giovanna". Ella sentì un rimescolio non mai provato, volle parlare, e non ebbe parola fatta: si gettò al collo della madre di Piero, e ruppe in un pianto che le tornò dolcissimo. Quella stretta delle mani di Piero, quelle sue parole piene d'affetto, quei suoi sguardi espressivi erano altrettante preziosissime gioie per lei, cui avrebbe pagato anche col suo sangue.

XXVII.

Piero avea ricuperato del tutto la sua salute, ma una profonda preoccupazione lo possedeva, da scorgersi facilmente da chicchessia. Era l'amor suo per Enrichetta, ch'egli teneva nascosto ancora a tutti, e perfino a lei, alla quale anelava confessarlo, e non osava.

Due persone però se n'erano accorte; prima la fanciulla medesima che n'era l'oggetto; secondo lo speziale, che credeva suo grande interesse osservare tutto ciò che accadesse in quella famiglia, intorno a quella fortuna rappresentata da quella gobba ragazza, a cui egli aveva incominciato un regolare assedio; e tutti due si trovarono disposti a favorire siffatto amore.

Domenico Tartini aveva creduto conveniente di stringere più domestica relazione, e quasi direi amicizia con Piero. Non poteva persuadersi che in quel giovane ora spiantato ed avvezzo alla ricchezza, non ci fosse un potente competitore pel mezzo milione da lui agognato, e gli pareva una sua buona ventura che siffatto pericolo fosse cansato, rivolgendo altrove l'attenzione e i desiderii di quel possibile rivale.

Piero, giovane com'era, fiducioso ancora ed aperto dell'anima, accolse quale moneta di buon conio le dimostrazioni e le proteste d'amicizia del furbo speziale; e siccome fra gli abitanti di quel paese questi era pur anco quello che più gli s'affaccesse e per età e per coltura, non andò gran tempo che fra loro si avviò una certa intrinsechezza, per cui passavano insieme assai ore del giorno, e cominciavano così a scambiarsi quelle certe confidenze che sogliono gli amici.

Domenico fu il primo a dar l'esempio; disse qualche cosa di vero de' fatti suoi, inventò anche delle piccole confidenze, che lo mettevano in buona luce e figuravano far entrare il suo ascoltatore proprio nell'intimo della sua coscienza; seppe guadagnare di Piero tutta la stima e l'affetto. A capo di questi sentimenti v'ha l'assoluta fiducia. Il giovane non aveva ancora parlato dell'amor suo per Enrichetta, ma era alla vigilia di superare ogni riserbo, e tanto più che l'occasione gli si prestava poco a parlarne colla cugina medesima, sorvegliata com'essa era da' genitori avversi più che mai ad un tal maritaggio, e che anco quando per caso l'occasione gli si fosse presentata, egli non avrebbe forse saputo servirsene, per la nuova timidità che gli aveva messo addosso il suo amore.

Un bel giorno, lo speziale affrontò egli medesimo il delicato argomento. Narrò, con un'espressione di sincera bonarietà da illudere anche un più accorto che Piero non fosse come egli avesse provato per Enrichetta un cominciamento d'amore, a cui aveva voluto dare sviluppo legittimo con un buon matrimonio, ma che sul più bello la ragazza gli aveva tagliato addirittura le gambe, facendogli capire che il suo cuore non era per lui. Domenico affermava di aver sofferto, come si suol dire, morte e passione, ma di avere ubbidito al suo dovere di galantuomo, e rinunziato, come Piero sapeva per bene, al tesoro di quella mano. Il cugino d'Enrichetta trovò che questo dello speziale era un eroismo, appetto a cui tutti quelli che vantano le storie greche e romane sono prove da ragazzi, e se l'avesse osato, avrebbe gettato le braccia al collo a quella copia di Scipione, che rinunziava sì generosamente ad una donna che non sapeva che cosa fare di lui.

Ma lo speziale, crudelmente scherzoso, aggiunse ammiccando cogli occhi.

- E so ben io la causa della ripugnanza d'Enrichetta per me! Io non ci potevo entrar più in quel cuore, perchè un altro era venuto, che di botto l'aveva tutto occupato.

Piero provò un gran turbamento, e un po' di rossore gliene venne alle guancie. Domenico non gli lasciò pure il tempo di domandare una spiegazione alle sue parole, che gliela diede egli stesso senz'altro. Soggiunse che quest'altro non era da cercarsi altrove che nei panni del sor Piero medesimo.

- Che! Tu credi!... Esclamò il giovane, tutto palpitante ed acceso nel volto dall'afforzarsi in lui, per queste parole dell'amico, la speranza che gli si annidava nel cuore.

- Ne sono di là di sicuro - rispose lo speziale; ed anche tu, briccone, se vuoi essere sincero, ne vai persuaso.

Come fare a non cadere di pieno nella fase delle confidenze? L'innamorato si sfogò - e ne aveva bisogno - disse anche i tormenti della sua incertezza e la timidità che l'occupava, lui avvezzo ad affrontar perigli, e le difficoltà che gli si attraversavano allo scoprir l'animo suo alla idolatrata fanciulla. - Diamine! Esclamò Domenico: e se non puoi servirti della lingua, e che non hai una mano ed una penna da scrivere?

Questo fu un lampo di luce pel giovane. Afferrò il consiglio, e lo pose in atto senza ritardo. Scrisse una lettera modesta e dignitosa com'era il suo carattere, calda insieme ed onesta come il suo amore; la ripiegò tremando un pochino, la recò seco andando tosto in casa i cugini, determinato di farla, ad ogni modo, arrivare nelle mani di colei a cui era destinata.

Egli trovò nella camera da lavoro Enrichetta..., ma a suo fianco la madre inesorabile, con un'aria da dragone che custodisce gli orti esperidi. Come fare? I due giovani si scambiarono di sottecchi uno sguardo che diceva di molte belle cose; ed Enrichetta chinò il capo più giù sopra il cuscino da cucire, tirando ancora più in fretta il suo ago, ma si punse due o tre volte, e i punti tirati non avevano quella regolarità che si sarebbe voluta.

Piero sedette senza esservi invitato, parlò di questo e di quello senza venire incoraggiato menomamente nè dalla sora Genoveffa, che rispondeva poco ed asciutto, nè da Enrichetta, che non apriva il labbro; e dopo dieci minuti, la moglie del sor Giacomo s'alzò con mossa solenne, e disse alla figliuola di lasciar lì quel lavoro e d'andarne con essa per altre bisogne. Enrichetta obbedì senza ritardo e senza neppure alzar gli occhi; ripigliò i panni che cuciva, e li ripose nella cesta apposita, mise il cuscinetto sopra un tavolino, e seguì la madre, consolando Piero della sua sì ratta partenza impostale, con una guardatina tut'altro che indifferente. Il giovane, rimasto solo, credette di avere l'inspirazione di una felicissima idea: d'un balzo fu presso al cuscinetto di lavoro, e vi insinuò dentro la sua letterina, poi udendo rumore di qualcuno che sopraggiugeva, s'affrettò a scappare, senza vedere chi entrasse e senza esserne visto.

Chi entrava era Giovanna, la quale veniva a prendere il suo cuscino da lavoro, da lei lasciato colà e che Enrichetta, venendole comodo, aveva adoperato per non andar a cercare il suo. La povera sciancata si rassettò al suo posto solito, e fece a riprendere, secondo l'usato, il suo lavoro: ma quando mise la mano nel cuscino, ecco venirle fra le dita una carta che sapeva di non avervi lasciata. Era ripiegata a lettera, e non recava soprascritta. Messa nel suo cuscino, poteva ella essere per altri che per lei? Giovanna la spiegò tutta stupita, e lesse.

La letterina era concepita nei seguenti termini:

"Ammalato di corpo, sei tu che colle tue cure incessanti mi hai restituito alla vita, tu cui vedevo anche nel mio delirio curva sul mio letto; ora attendo da te anche la vita dell'anima. Ho riconosciuto in te quella donna che sola può farmi felice l'esistenza, e t'amo d'amore. Vuoi tu dividere il mio destino? Rispondimi un motto solo, e quando io sia così felice che esso sia affermativo, oh tutto saprò affrontare, tutto tentare, affine di ottenerti. - Piero."

Giovanna dapprima non comprese nulla di questo biglietto, lo rilesse, guardò se quel cuscino era bene il suo. Sì era proprio quello a cui tante volte Piero l'aveva vista a lavorare. Senti un tumulto tale in tutto l'esser suo, che credette il cuore le scoppiasse. Era Piero che le scriveva - che le scriveva di queste parole - Piero che essa immensamente amava.

Prese quel benedetto cuscino, entro al quale aveva riposto la lettera di lui, se lo strinse al seno quasi direi con avida passione, e corse nella sua stanza ove si rinchiuse. Come il cuore le palpitava! Come le battevano i polsi! Sola, chiusa nel suo stanzino, tornò a spiegare quel foglio di carta, e volle rileggerlo. Quei motti le saltavano agli occhi come sprazzi luminosi. Il sangue dal cuore le si affollava al cervello. Si pose quella lettera sul petto e premendovela stette un istante come priva di sensi. Ma le sublime visioni d'un bel sogno d'amore le sfilavano dinanzi, facendogliene assaporare tutte le dolcezze. Era fuoco nella faccia, la povera Giovanna, e le mani le tremavano come a persona assalita dalla febbre. La spina del dubbio venne a pungerla in cuore. Quella lettera era essa proprio per lei? Ma sì, perchè mille fiate, Piero infermo e convalescente l'aveva vista a lavorar a quel cuscino, facendogli compagnia.

Ed era a lei, Giovanna, che egli scriveva siffatta parole! Impossibile! Impossibile! Eppure.... Volle resistere al superbo e seducente pensiero. Non potè. Le apparenze tutte congiuravano a volerla delusa. Non era essa che l'aveva salvo dalla morte colle sue cure? Non era la figura di lei, che egli nel delirio aveva dovuto intravedere curva pietosamente su di sè? Un mese prima, ella forse non avrebbe potuto credere a niun modo a cotanta ventura; ma allora le mostre di considerazione della gente erano pure riuscite a scemare alquanto quel profondo disprezzo ch'ella stessa nutriva di sè, e i complimenti e gli sguardi e il contegno dello speziale, per quanto modesta ella fosse, le avevano pur tuttavia mostrato essere fra le cose possibili che un uomo badasse a lei. Del vero motivo, che spingeva il tristo sor Domenico a codesto, ella era troppo innocente per averne pure un sospetto.

Credette adunque: si abbandonò, infelice, all'immenso gaudio del credere. Fu in lei allora uno scoppio di gioia, quale mai non provò per amore donna al mondo. Obliò tutte le tristissime giornate del suo passato, e si vide schiuso dinanzi il paradiso. Ringraziò Dio, benedisse la sorte e la sua vita. Sentiva in sè tanti tesori di bontà e di affetto, che le parve potere, come anelava in quel punto, tergere tutte le lagrime che si spargono sulla terra. Oh come le parve ad un colpo raddoppiato quell'amore che aveva posto in Piero nel suo segreto e che già pensava giunto all'estrema sua possa! Ella lo amerà tanto, da farlo ad ogni modo felice. Gli è lui che le domandava la vita dell'anima! O Dio! Ma per lei e vita, e cielo, e tutto, gli è il solo Piero. Sapersi amata da lui, esser sua, non fosse che pochi giorni, che pochi istanti; ma la è tal ventura per essa, che ella ripagherebbe non che colla morte, ma coi peggiori tormenti.

Ma Piero aveva domandato una risposta. Perchè tardare a fargliela? Fu d'un balzo al suo piccolo tavolino con un foglio di carta davanti e la penna in mano.

Dapprima tracciò parole esitando: la piena stessa dell'affetto e dell'emozione non le lasciava trovare giuste espressioni: poscia il discorso s'avviò, i motti s'affollarono sotto la penna, ed ella effuse in essi tutto l'animo suo.

Cominciava per dire di non poter credere a tanta ventura; amarlo essa più che tutto al mondo, averlo amato dal primo istante in cui l'aveva visto al suo ritorno: meglio, amarlo fors'anco fin dalla sua infanzia, quand'egli l'aveva difesa dallo scherno altrui: il cuore di Piero aver ella sentito parlare al suo cuore; essere indegnissima d'un tanto bene, oh saperlo pur troppo, ma essere disposta ad ogni sacrifizio per farsene meno immeritevole; l'amor suo, ella non avrebbe ardito palesar mai, sarebbe morta col suo segreto; ma certo gli era la Provvidenza che s'era mossa a pietà di lei mandandole sì avventurata vicenda. Poi soggiungeva, facendo forza a' suoi desiderii, egli ci pensasse per bene prima di pigliare irrevocabil partito, ella non volere la offertale felicità a prezzo d'un solo di lui rincrescimento dappoi.

C'era in essa un tumulto del sangue che non le lasciava luogo più a fredda riflessione. Se si fosse decisa a non rispondere almanco sino a sera, avrebbe parlato diverso e forse avuto sospetto dell'errore. Ma la mano della fatalità la spingeva. Uscì di casa e corse in quella vicina, abitata dalla vedova e dal figliuolo di Antonio Maria. Piero non era ancora rientrato. Giovanna non cercò neppure di vedere la madre di lui; salì in fretta, che pareva aver l'ali, al piano superiore, ed entrò nel quartieretto che sapeva abitato dal giovine. Si fermò sulla soglia, sentendosi mancare ad un tratto tutta la fiducia e tutto il coraggio. Fu per ripartirsene senz'altro; la sua le parve una temerità senza pari. Miglior partito, pensò, sarebbe stato l'attendere ancora da Piero nuova prova della verità del fatto. Ma qual prova migliore di questa lettera ch'ella sentiva sul suo cuore? Si fece animo, entrò, e di corsa, per non vacillare di nuovo nella presa risoluzione, andò a posare il suo biglietto sul tavolino di Piero. L'emozione quasi le toglieva il respiro. Si appoggiò a quel tavolino con una mano, e gettò attorno uno sguardo pieno di amore come ad abbracciare e carezzare con esso tutti quegli oggetti cui soleva vedere, toccare, adoperare il suo Piero.

XXVIII.

Quando si mosse per partirsi di là, quando già aveva la mano sulla gruccia della serratura, udì nell'andito dei passi che venivano a quella volta. Li riconobbe tosto, erano i passi di lui. Ma non eran soli, quelli d'un altr'uomo li accompagnavano, ed una voce, che Giovanna riconobbe tosto per quella dello speziale, dialogava con Piero. Per nulla al mondo la poveretta avrebbe voluto esser côlta in quel punto nelle stanze del giovine, tanto peggio poi da lui stesso e accompagnato. Il primo suo pensiero fu di fuggirsi riportando via la lettera; ma già erano troppo vicini per poterlo fare. Presso la stanza di Piero vi era un gabinetto, di cui egli servivasi per la sua toilette. Giovanna ebbe appena il tempo di gettarvisi e di far cadere dietro di sè la cortina dell'uscio, che i due uomini entrarono.

Piero non era venuto a casa che per prendere dei sigari prima d'avviarsi ad una passeggiata per la campagna, a cui Domenico s'era offerto di accompagnarlo. Ma, appena entro la stanza, lo speziale introdusse il discorso sull'argomento onde avevano parlato la mattina, e domandò all'amico se avesse scritto la lettera, se avesse avuto risposta, e quale, ecc. ecc.

Piero narrò aver trovata Enrichetta lavorando a quel modo che ho detto, averle posto la sua lettera dentro il cuscino da cucire, aspettarne ancora il riscontro.

- Tò, tò: esclamò Domenico, il quale s'era accostato al tavolino; ecco qui sopra una letterina che mi ha tutta l'aria di venire da mano di donna.

E presala fra il pollice e l'indice della destra, la mostrò a Piero. Questi fu in un salto presso lo speziale, e gliela strappò di mano. L'aprì sollecito e si pose a leggerla palpitando.

Ma Domenico, il quale guardava Piero, vide il volto di quest'esso improntarsi di tanto stupore e quasi d'una certa aria di sbalordimento, che domandò:

- Che è? La ti risponde picche?

- O cielo! È successo uno strano errore.

- Che errore?

- Eh! non posso spiegarlo.

Lo speziale venne a lato dell'amico, e gittò un'occhiata di sbieco sulla carta che Piero teneva spiegata in mano. Vide a piè della pagina il nome della zoppa.

- Oh oh Giovanna! Tu hai scritto all'Enrichetta, ed è quell'altra che ti risponde.

- Ecco ciò che non capisco.

- Ti scrive a nome di sua sorella?

- No.

Domenico travide la verità del fatto. - Che? che? diss'egli. Sarebbe mai?...

E l'idea gli fu così burlesca ch'egli diede in una gran risata.

- Giovanna ha creduto che la tua lettera fosse per lei?

Piero accennò di sì col capo.

- E la ti fa l'onore di accettare il tuo amore?

Piero non potè tenersi dal foggiare le labbra ad un sorriso. Lo speziale invece ebbe un nuovo e più forte scoppio di ilarità.

- Ah ah ah! La storia è bella: tu hai fatto la conquista della gobba, della storta, della butterata.

- Ella è matta! disse Piero impazientato, scrollando le spalle.

Stracciò in minutissimi pezzi la lettera di Giovanna e li gettò con dispetto per la finestra aperta; poi s'affrettò ad uscire, seguito da Domenico.

E la povera Giovanna? Oh quelle risa furono peggio che coltellate alla poveretta. Quella tremenda verità le squarciò l'anima con tortura inesprimibile. Qual dolorosa vergogna fosse la sua, niuna parola lo potrebbe dire. Ella aver osato sperare, lusingarsi!... Se non cadde svenuta, lo si dovette all'eccesso medesimo della sua onta.... Gran Dio! Se que' due avessero avvertito ch'essa era là! Dov'ella fosse caduta, essi sarebbero accorsi; questo pensiero le diede forza; ma l'angoscia fu tanta che un momento sperò di morire lì sul colpo. Perchè non un gemito, non un sospiro la tradisse, si premette il fazzoletto alla bocca, si morse sino al sangue le stesse sue mani. Il farsi male fisicamente le sembrava un sollievo. E d'altronde in quel momento ella si odiava come non si era odiata mai tanto.

Quando potè uscire dal suo nascondiglio, era pallida come un cadavere, appena poteva respirare, le gambe stentavano a reggerla, e chi l'avesse vista ne avrebbe avuta profonda compassione, e insieme spavento. Si buttò a seder là, presso quel tavolino su cui poc'anzi, il cuore pieno di tanta felicità, ella aveva deposta la sua lettera; ed appoggiandovi i gomiti, si serrò fra le mani il capo, confuso per mille idee cozzanti in tumulto. Una gran desolazione la possedeva intieramente. Le pareva impossibile oramai la vita, e in quell'agitazione dolorosa della mente spuntava un'orribile pensiero, una sciagurata tentazione a cui mai la sua mite anima non avrebbe creduto di andar soggetta: quella del suicidio.

Vivere ancora dopo sì crudel disinganno, dopo una tanta vergogna! Oh no, non lo voleva più, pensava più non poterlo. Sino al ritorno di Piero, l'esistenza non era stata per lei che una sciagura; or ecco ridiventarle a mille doppi un tormento, e un'onta.... Oh come Domenico aveva riso di lei! Ed anche Pierino aveva dovuto sorridere. Essa non l'aveva visto questo sorriso, ma pur se l'era sentito penetrare fino al cuore come una sottil lama di pugnale... E con qual accento di disprezzo le pareva avess'egli esclamato: - Ella è matta!... Era Enrichetta ch'egli amava. Ed ella non avea nemmanco pensato che ciò fosse! Ella, miserabile mostricciuolo, aver avuto tanta superbia da credersi amata! Ben ti sta la beffa crudele. Era la bellezza di Enrichetta che aveva vinto Piero. L'anima ed il cuore chi li vede? Ella stessa, non era forse l'avvenenza del cugino che a primo colpo le aveva fatto impressione? Enrichetta e Piero si amano: e' son degni l'uno dell'altra. A loro le gioie dell'amore, le delizie dell'Imene, le rose della vita. A lei, oh a lei, misero essere dispregiato, la miglior sorte è morire.

Si alzò di scatto. Le pareva sentire dietro sè lo scherno come un flagello sulle spalle. Uno scoppio di riso beffardo le suonava incessante all'orecchio. Il suo sguardo cadde per caso sopra uno specchio, e s'arretrò spaventata essa stessa innanzi alla faccia contratta di color cadaverico che si vide dinanzi. Poi fissò con una specie di astio accanito quella sembianza deforme: sogghignò pazzamente, e tendendo il pugno chiuso verso la sua immagine, disse con accento d'odio implacabile:

- Oh ti distrarrò, miserabile corpo!

Si cacciò le mani nei capegli, proprio come una pazza, e corse alla finestra. Sotto la casa si stendeva un tappeto d'erba e di fiori. Colà sparsi vide ella ancora i minuzzoli della sua lettera gettati al vento da Piero. Ecco com'erano disperse la sua speranza e la sua gioia! - Era mezzogiorno - quell'ora appunto in cui vedemmo incominciare questo dramma in sì modesta scena; - le volate della campana messa in moto da Fusella mandavano tutt'intorno le onde sonore di quella voce di bronzo. Giovanna alzò gli occhi verso quella parte d'onde veniva quel sono così famigliare alla poveretta. Sopra le verdi masse degli alberi del giardino si drizzava bianco sotto la piova della luce meridiana il campanile, le cui tegole inverniciate in sul comignolo e la croce dorata brillavano al sole. La povera Giovanna stette un momento a contemplare quel riflesso di luce. Il suono grave e vibrato della campana della sua parocchia, le pareva un saluto, le pareva un appello. Una bizzarra idea le spuntò ad un tratto nella mente; parve che un gnomo venisse malignamente a sussurrargliela sotto il cranio entro il cervello indolorito. Salire fin lassù su quel culmine, sopra il quale a piombo batteva il sole, dare un'ultima sguardata al villaggio, alla valle, alla montagna e poi precipitarsi giù nella sottostante piazza. Un attimo, un respiro, un grido, e poi tutto finito! Finito il dolore, finita la vergogna! Che cosa avrebbero detto quando la vedessero cadavere sformato su quella piazza? Ah! nessuno più avrebbe osato di ridere.

- Quando sarò morta, pensava, il terribile scancellerà il ridicolo.

Era sotto il compiuto dominio di questa idea, non poteva più ammetterne altre, ogni voce della ragione taceva.

Uscì di quella casa correndo. Giunta al cancello di ferro però, ristette ad un tratto. Si guardò intorno come smemorata. Fece scorrere il suo sguardo su tutti gli oggetti che l'attorniavano, l'un dopo l'altro; la facciata dipinta della casa, i boschetti del giardino, la sabbia dei sentieruoli, le aiuole dei fiori, le sbarre inverniciate color di bronzo dell'inferriata. Diede mentalmente a tutte queste cose un saluto. Mille ricordi diversi le invasero ad un tratto il cervello. Colà s'era fermata una tal volta ed aveva colto un fiore; lì presso, a quel cancello, Pierino l'aveva difesa; sotto quelle ombre ella aveva visto Pierino ed Enrichetta felici di chicche e giocattoli, che loro si prodigavano, mentre essa ne era priva pur sempre.... Quei tempi com'erano andati! E quei luoghi ella non li avrebbe rivisti mai più! Provò uno stringimento tale nella gola che credette di soffocare, ma gli occhi le erano asciutti con un fuoco febbrile interno che li abbruciava. Mandò un'esclamazione, o meglio un gemito, e riprese la sua corsa verso la piazza.

Mezzogiorno suonato aveva fatto rientrare a casa loro pel pranzo tutti quei pochi sfaccendati che stavano a chiaccherar sulla cantonata. Non un'anima viva per la strada, nè per la piazza. Sul campanile ci si saliva dalla sacristia, ed a penetrare in questa, bisognava passar per la chiesa. La gran porta della parrocchia era chiusa, ma lo sportello n'era rabbattuto soltanto. Giovanna lo sospinse con mano concitata che tremava, ed esso cedette alla spinta.

La dissennata, infelice creatura si precipitò nel tempio, e, tuttavia correndo, per quanto la sua gamba sciancata glielo permetteva, senza voler pensare ad altro, coll'idea fissa chiovata in mente di voler morire, e tosto, la poveretta prese la direzione della sacrestia.

La sua paura era che Fusella, partendo, l'avesse chiusa a chiave dietro di sè. No, l'uscio era aperto, e Giovanna varcò quella soglia. Allora temette non fosse invece serrata la porta che metteva nel campanile. Corse là. Ancor essa era aperta.

Colà giunta, la misera trasse un lungo respiro come di soddisfazione; poi, siccome era stanca per quella corsa alle sue membra infelici cosi disagiata, affralita per quella tremenda scossa morale onde l'animo suo era in preda, si appoggiò all'impiallacciatura di rozzo legno che vestiva le pareti della sacristia, e stette lì guardando con occhio smarrito la scura e piccola scala che, cominciando ad un passo da lei, si contorceva su a spire entro il campanile, quella scala che stava per menarla all'eternità.

XXIX.

Siccome la povera Giovanna, in quel momento, non aveva proprio più forza nessuna per muovere pure un passo, dovette rimaner lì più che non avrebbe voluto. Un gran silenzio regnava in quel luogo. Niun altro rumore perveniva a lei che quello d'un tarlo che rodeva lì presso con monotono scricchio il legno dell'impiallacciatura, e quello del suo cuore che le batteva concitato nel petto. Una dubbia luce, cha appena dileguava le tenebre, penetrava in quella sacristia. Quelle ombre e quel silenzio in quell'ora erano già come una segregazione dalla vita, parevano il silenzio e le ombre d'un sepolcro. Lì, in mezzo ai viventi, Giovanna si sentiva pur tuttavia sola, abbandonata da tutti. All'accesso del dolore violento di poc'anzi, sottentrò in lei un abbattimento compiuto, ma disperato ancor esso. Stette ella alcuni minuti che le sembrarono eterni e pur tuttavia un soffio, tanto aveva ella smarrito la misura del tempo, stette a capo chino, le braccia pendenti colle mani intrecciate, senza pensiero, senza volontà, ma con un immenso, intimo dolore indefinibile nell'anima. Si riscosse ad un subito rumore che ruppe ad un tratto quell'alto silenzio. Un buffo di vento, entrando per la porta e per la finestra della chiesa, venne ad aprire l'uscio della sacristia e farlo batter contro il muro.

Giovanna sussultò spaventata. Ma da quell'uscio aperto sgusciava una lista di chiarore, mandata da quella maggior luce che per le alte finestre invadeva la chiesa; ma con questo chiarore penetrava di subito il pigolio di alcune rondini che, entrate pei finestroni nel tempio, si movevano svolazzando allegramente sotto la volta. Era la vita che s'intrometteva in quella silenziosa tenebria di tomba. La misera fanciulla, istintivamente, senza propria volontà, senza pur badarci, venne fino alla soglia a guardare quelle rondinelle temerarie. Nella chiesa eravi tutt'altro ambiente da quello dell'angusta e scura sacristia. V'era luce e calore. Le tende rosse delle finestre svolazzavano, quasi direi allegramente, a quel venticello che, entrando per le invetriate aperte, scorreva con lieve sussurro nella navata e tra gli archi delle cappelle. La lampada, di continuo accesa innanzi alla Madonna de' sette dolori, dondolava graziosamente. Anche lì v'era una profonda pace, ma non la pace del sepolcro.

Quante memorie eziandio in quella chiesa, per la infelice! Ma queste memorie non erano tali che, al par delle altre, accrescessero lo spasimo del suo dolore. Guardò fisamente il banco su cui soleva venirsi ad inginocchiare per udir la messa, guardò l'immagine della Madonna che sorrideva colle sette spade piantate nel cuore, guardò il confessionale dove la si prosternava ai piedi del buon vecchio sacerdote; e il suo occhio perdette alquanto di quella asciutta ardenza che aveva. Questi oggetti le parvero come veri amici che avessero simpatia e compianto per la sua sciagura. Se alcuni momenti di bene essa poteva contare nel suo passato, gli era a quei luoghi, a quelle cose che li doveva. Le si presentarono alla memoria certe estasi di anima commossa, certe interne tenerezze di sentimento che si erano a volta a volta suscitate in lei sotto il misterioso influsso della preghiera, là, in quel banco, sotto quella immagine della Vergine, alla grata di quel confessionale.

Quest'ultimo le fece apparire dinanzi la buona e santa figura di quel vecchio umile, pietoso, dalla veneranda canizie, che era il parroco. Sentì allora di non essere affatto sola e abbandonata nel mondo, si accusò d'ingratitudine per aver potuto obliare un momento questo suo vero padre spirituale. Le parve che la Madonna dipinta la guardasse con mite rimprovero. Tutte le preghiere, le ardenti preghiere, - per sè di farla buona, per gli altri di farli felici - ch'ella aveva innalzate sotto quell'immagine, le parve ridiscendessero, per cosi dire, da quell'immagine a lei e facessero come una catena che soavemente la venisse a cingere e l'attraesse di nuovo colà ad umiliarsi innanzi a quel'emblema dell'umiltà glorificata. Cedette, si buttò ginocchioni sotto quella lampada accesa, e le sue labbra cominciarono a balbettare le usate parole dell'Avemmaria.

Dapprima la sua preghiera non fu meglio che un atto macchinale. Le sue idee erano altrove, o per meglio dire, erano intralciate, confuse, incerte ed ondeggianti: ma quella fissa e tremenda, che un istante prima possedeva per intero la misera creatura, erasi quanto meno affievolita, e sotto l'agitarsi di altre mille veniva via via digradando.

A poco a poco la mente di quell'angosciata si fissò sulle parole cui pronunziavano le sue labbra: su quelle parole, alle quali ella soleva dare tante significazioni, nel suono delle quali ella comprendeva pur sempre tante aspirazioni dell'anima, tanta espansione di quella massa di intimi, caldissimi, sublimi affetti, che doveva comprimere entro il cuore. Un'ombra di tenerezza, per così dire, cominciò a spuntare in quell'anima contristata, tutta fino allora occupata, dal furore della disperazione. Ad un tratto ricordò - e perchè mai quel ricordo le venne? oh certo fu il suo pietoso angelo custode che le invocò la dolcezza di quella memoria - ricordò il giorno della sua prima comunione ch'essa, erano già anni parecchi, aveva compito lì in quella medesima chiesa. Era un bel dì, con uno splendido sole, come quello che raggiava allora appunto dal sereno azzurro del cielo; anche allora, ella si rammentava aver udito sul cornicione della chiesa cantare le rondinelle; e in quel momento siffatto canto le era sembrato tutto un inno di tripudio. Ora di certo quelle bestiole innalzavano il medesimo canto; ma era l'anima sua che, mutata così profondamente, più non lo capiva. Ah! quel giorno era sempre rimasto nei suoi sovveniri come lo splendore d'una gioia fra la monotona tristezza della sua vita abituale. Quel dì, contro l'ordinario, tutto le aveva sorriso. Nessuno l'aveva maltrattata; ed ella pel mistico rapimento della sua anima in quella festa cristiana, erasi sentita cosi internamente lieta, cosi innalzata oltre la sfera terrena, che le era sembrato aver veduto aprirsi la volta del cielo e trasparire allo sguardo della sua mente quasi in estasi le ineffabili delizie del paradiso. E quanti proponimenti non aveva ella fatti allora di virtù, di sacrificio, di abnegazione, sentendo con ardore un trasporto, una smania direi quasi di soffrire per altrui, di rassegnarsi ad ogni tormento, di rispondere ad ogni cosa con un'effusione di amore! Ed ora era ella ancora la medesima? Inorridì al pensiero che, per la prima volta, aveva accolto nell'anima un sentimento di odio: vero è che quest'odio volgevasi principalmente contro sè stessa: ma pure ella s'era sentita offesa, e non aveva perdonato. Offesa? Oh sì! Ma che colpa ne avevano gli altri? Il torto era tutto suo. Ella che si era così stranamente, così sfacciatamente illusa. Avrebbe ella accagionato altrui della sua sciagura di essere un mostro, d'essere una creatura disprezzevole, di aver avuta la folle temerità d'una impossibile lusinga?

- O madre divina, perdonatemi! Esclamò la misera con ineffabile trasporto dell'anima, levando verso l'immagine della Vergine gli occhi e le mani congiunte: Madonna Santa dei dolori, datemi voi conforto e consigli e forza a vincere il male.

Provò come una calma che scendesse in lei; le parve udirsi all'orecchio le miti benigne parole del confessore, tante volte sue consolatrici; a poco a poco i suoi occhi avevano perduto quella vitrea fissità ed aridezza, e venivano inumidendosi; ad un tratto un singhiozzo le salì dall'imo petto, e la piena del dolore trovò finalmente sfogo a prorompere in lagrime. Pianse e fu sollevata. Pianse a lungo, disperatamente, perdutamente; pianse come la poveretta che di sulla soglia del chiostro dà un ultimo addio alle gioie dal mondo per condannarsi tutta la vita all'ombra del sepolcro ed al sacrificio dell'espiazione, e colle lagrime che le colavano abbondanti e noncurate giù delle guancie, coi singhiozzi che le rompevano il petto, ella frammischiava ardenti parole di preghiera e d'adorazione, invocazioni di perdono e di pace.

Quando s'alzò di colà, ella era calma. Le lagrime erano cessate; ma sul volto le stava un'impronta di tristezza da non cancellarsi più. Usci a passo lento dalla chiesa, debole tanto di forze da potersi reggere appena, e recossi nella vicina casa del parroco. Questi, al vederla entrare, l'accolse con una interrogazione spaventata.

- Che cosa c'è? Dio buono, che cosa hai, povera Giovanna?

- Vengo a supplicarla ch'Ella mi ascolti in confessione.

Don Pasquale e la fanciulla si ridussero di nuovo colà dove li abbiamo visti pochi mesi prima, quando il buon sacerdote accortamente otteneva dalla disgraziata il racconto di tutte le sue miserie; ora essa spontanea veniva a raccontare al confessore i suoi nuovi più crudi tormenti, che essa, poveretta, riteneva pe' suoi peccati.

Rispetteremo il segreto di questa conferenza, certo alla infelice dolorosissima. Certo ella disse tutto, e la pena che dovette provarne se la impose come prima penitenza di quello che credeva suo fallo. Quando il confessore e la penitente uscirono dalla riposta camera, quello aveva l'aria commossa e gli occhi umidi di pianto, questa era accasciata, con aspetto d'un immenso male che l'opprimesse, ma le raggiava dal viso una certa serenità che si sarebbe potuta dire celestiale.

Il parroco, che sempre aveva parlato alla misera con infinito affetto, aveva ora per lei un accento di ancora maggior tenerezza, e quasi di riverenza.

- Sì, mia cara Giovanna, le diceva egli, stringendole tutte due le mani e guardandola con occhio amorevole oltre ogni dire; sta certa che tutto sarà fatto secondo il tuo desiderio. Gaudenzio (a cui vado tosto a parlare) ed io insieme aggiusteremo tutto.

- Grazie, grazie: rispose la ragazza colla sua voce più sorda che mai.

La serva di don Pasquale strabiliò per la meraviglia, nel vedere il suo padrone trarre la zoppa verso di sè per quelle mani che ancora le stringeva, e deporle paternamente un bacio sopra la fronte: cosa che Margherita non gli aveva mai visto a fare con nessuno.

- Va, va, Giovanna, soggiunse il parroco; ed abbi pensiero e cura anche di te.

Giovanna fece un mesto sorriso. Oh! quante cose, quanto dolore e quanta rassegnazione sopratutto in quel sorriso! Poi s'avviò per partirsi; ma in quella, ecco uno scoppio della sua tosse profonda, che da alcun tempo pareva aver rimesso d'alquanto, assalirla cosi forte ch'ella dovette fermarsi ad appoggiarsi al muro.

Don Pasquale fu intorno alla misera con ogni sollecitudine e con un diluvio d'interrogazioni piene d'interesse e d'amore. Ella non volle nulla, rispose che gli era nulla, e appena passato quell'accesso, partissi. Il parroco, guardandole dietro con occhi rimbamboliti, scosse il capo in aria addolorata; e preso il suo cappello, s'affrettò ad andare in traccia del notaio Gaudenzio Tartini.

Giovanna, ella, coraggiosamente andò in cerca di Piero. Pensate voi qual animo fosse il suo nel comparirgli dinanzi; ma, per quanto cruda la stretta del suo povero cuore, la faccia era tranquilla, e su quelle labbra allividite stava un sorriso. Dio solo sa ciò che costasse di sforzi alla misera quel suo pallido sorriso.

- Hai tu ricevuto una mia lettera in risposta a quella che avevi messa nel cuscino da lavoro? diss'ella con accento scherzoso.

Piero la guardò tutto impacciato, e balbettò qualche parola senza troppo senso.

- Non ti sei mica offeso dalla baia, voglio sperare: continuò coraggiosamente Giovanna. Ma gli era per punirti d'aver avuta sì poca confidenza in me da non dirmi nulla del tuo amore per Enrichetta.

- Ah tu sai?....

- Certo. Volevi tu ch'io credessi sul sodo che il tuo biglietto era per me?

E qui la sventurata ebbe la virtù di fare un nuovo sorriso.

- Ma non temer più di nulla: continuò essa. Enrichetta sarà tua moglie, te lo prometto.

Piero l'abbracciò con trasporto. Povera Giovanna!

Intanto il signor Gaudenzio e il parroco eransi recati come in solenne imbasciata dal segretario comunale. Dietro mandato della Giovanna, avevano l'incarico di comunicare al signor Varada che questa faceva donazione del patrimonio ereditato dallo zio Gerolamo, per metà al padre ed alla madre, per metà alla sorella, ma colla condizione che si celebrasse fra un mese il matrimonio fra Piero ed Enrichetta.

I genitori non ebbero molte obiezioni da fare. Alcuna tentò muoverne il marchese, sobbillato dallo speziale, il quale era furibondo per vedersi scappare di mano ogni preda agognata: ma le difficoltà affacciate dal vecchio nobile non furono trovate insuperabili, ed egli medesimo, il marchese, non tardò ad acconsentire al disegno di questo maritaggio.

E fu celebrato in una bella mattina dello scorso agosto. Enrichetta, vestita tutta di bianco, ornata della corona e del mazzetto di fiori d'arancio, colla felicità che raggiava dagli occhi e da tutto il sembiante, era bella oltre ogni dire, e tutti l'ammiravano - perfino le donne. Piero presentava l'invidiabile aspetto - sì raro a vedersi - d'un uomo che ha conseguito l'oggetto de' suoi più ardenti desiderii.

In un angolo della chiesa, prosternata nell'ombra più scura d'una riposta cappella, stava una forma di donna che pregava e piangeva. Era Giovanna, a cui nessuno in quel momento pensava. Ma certo su quell'anima desolata era rivolto pietosamente lo sguardo di Dio!

XXX.

Il mese d'ottobre volgeva oramai al suo fine; l'autunno spandeva su tutta la campagna le sue malinconiche bellezze in quel raccoglimento della natura che precede il sonno dell'inverno. Il bosco de' castagni aveva dato agli abitanti del villaggio i frutti spinosi de' suoi alberi, e finiva di rendere alla terra "l'una appresso dell'altra" le sue foglie ingiallite. La fontana sussurrava mestamente in una solitudine non più turbata dalle ragazze, che la state venivano ad attingervi l'acqua fresca. Sul modesto tumulo che segnava la fossa ove dormiva il sonno eterno la salma dello zio Gerolamo nell'angusto cimitero, intorno alla croce di pietra fattavi metter su da Gaudenzio, era già cresciuta alta l'erba, che ora vi si assembrava. A quella croce più nessuno veniva da un mese a pregare, mentre prima, quasi tutti i giorni, si sarebbe potuto vedere una donna, trascinantesi a stento, recarsi colà, claudicando, inginocchiarvisi e starvi assorta lungo tempo in una preghiera che pareva una meditazione, interrotta frequentemente da una tosse penosa ad udirsi.

Era la povera Giovanna. Nella casa famigliare tutto era festa, tutto era gioia. Ma chi ricordava ancora il burbero zio che aveva attraversato come una meteora l'esistenza di quei felici, che pure a lui dovevano mediatamente la loro felicità? L'anima di Giovanna non era in accordo con quell'ambiente di contentezza: essa raccoglievasi nel silenzio, cercava - ed otteneva - d'essere obliata ancor essa, e là, su quella tomba, poteva pensare e piangere a suo agio, senza far contrapposto alla gioia altrui, ombra allo splendore della felicità della sorella.

Ma da un mese la non ci veniva più.

Negli ultimi giorni d'ottobre, come dissi, io che scrivo dovetti per alcune faccende recarmi al villaggio dove successero gli avvenimenti che son venuto narrando fin qui, e giuntovi, siccome avevo da parlare al segretario comunale, lo cercai al suo ufficio, e non trovandovelo, m'avviai a casa sua. Giusto nel punto in cui stavo per entrarvi, ecco uscirne il signor Varada e sua moglie fra Enrichetta e Piero, e dietro loro il buon notaio Gaudenzio. Avevano tutti l'aria commossa, ed Enrichetta piangeva.

- Che cos'è? Domandai al signor Tartini, arrestandolo.

Il vecchio scosse la testa, e due lagrime che stavano negli occhi anco a lui caddero sul suo panciotto.

- Quella povera Giovanna! mi rispose, è morta, adess'adesso, e Piero ed Enrichetta condussero a casa loro il padre e la madre per tòrli a quello spettacolo.

Non so quale curiosità mi spinse a salire per vedere la salma di questa poveretta morta.

Il suo volto color della cera portava le traccie di tutti i patimenti che aveva sofferti, ma su quelle sventurate sembianze, però, stava ora una calma, un'espressione di pace, come forse non avevano avuto mai, lei viva. Le sue labbre scolorite erano atteggiate quasi a sorriso. Sul tavolino presso al letto s'era acceso un lume, e questo sbatteva su quei tratti macilenti certi riflessi dorati, che a volta a volta parevano dar loro ancora qualche sembianza di vita. Nelle mani intrecciate insieme, cosi magre che le avreste dette diafane, avevano messo un crocefisso. Poverina! Tutta la sua corta vita ella aveva portato la croce. A piè del letto stava in piedi il parroco, ed anco a lui tremolavano entro gli occhi le lagrime.

A me, che lo interrogai, don Pasquale rispose: - La sua fu un'agonia di mesi. Si estinse conscia di sè e del suo fato, benedicendo tutti e tutto, ella a cui ogni cosa ed ognuno si può dire che avesse costato un dolore. Essa, da cui tutti avrebbero dovuto supplicare perdono, morì chiedendo perdono a tutti per sè. In quelle disgraziate forme era un'anima d'angelo. Ora sarà restituita alla sua sede meritata, alla sua divina bellezza. Preghi essa per noi!

Tra poco ella sarà obbliata e traccia nessuna rimarrà di quella travagliata esistenza che la infelice condusse su questa terra. Non le manchi almeno il passeggiero compianto delle anime pietose, e voi, gentili, che avete letto questa dolorosa novella, possiate almanco prender commiato da essa esclamando:

Povera Giovanna!

FINE.
(1) Nel testo originale, si passa dal capitolo XV al XVII. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]