Clelia ovvero Il governo dei preti : edizion ELTeC Garibaldi, Giuseppe (1807-1882) 74110 COST Action "Distant Reading for European Literary History" (CA16204) Zenodo.org CLIGS version "Clelia Il governo dei preti" Casa editrice MEB, Torino 1982 Ristampa anastatica dell'edizione Fratelli Rechiedei Milano, 1870 1870

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Giuseppe Garibaldi Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico PREFAZIONE DELL'EDITORE

Il titolo del presente lavoro, secondo le prime idee del Generale Garibaldi, doveva essere CLELIA OVVERO IL GOVERNO DEI PRETI, ma sul manoscritto non ve n'era tracciato alcuno.

L'originale italiano passò in Inghilterra, dove noi lo abbiamo acquistato; e colà il titolo principale sotto cui si stava pubblicando la traduzione, era IL GOVERNO DEL MONACO (The rule of the Monck) e noi l'abbiamo seguito.

Quando non eravamo più in tempo per rimediare, ci accorgemmo che IL GOVERNO DEI PRETI era titolo più acconcio e meglio in armonia colle idee del Generale. Ne scrivemmo a lui stesso ed egli si contentò di risponderci: "A Londra qualche prete senza dubbio ha creduto meglio intitolarlo IL GOVERNO DEL MONACO" e siccome comprendeva che non c'era più riparo essendo il libro in corso di stampa, non aggiunse altro.

Noi, per riparare quant'è possibile all'equivoco, abbiamo premesso il primo dei due titoli originari CLELIA al titolo della traduzione inglese; e di più facciamo ammenda dell'errore come fosse nostro, confessandolo.

GLI EDITORI

Fratelli Rechiedei

Milano 1870

PREFAZIONE

1. Ricordare all'Italia tutti quei valorosi che lasciaron la vita sui campi di battaglia per essa. Perché se molti sono conosciuti, e forse i più cospicui, molti tuttavia sono ignorati. A ciò mi accinsi come dovere sacro.

2. Trattenermi colla gioventù Italiana sui fatti da lei compiuti e sul debito sacrosanto di compire il resto accennando colla coscienza del vero le turpitudini ed i tradimenti dei governi e dei preti.

3. Infine campare un po' anche col mio guadagno.

Ecco i motivi che mi spinsero a farla da letterato, in una lacuna lasciatami dalle circostanze, in cui ho creduto meglio: far niente, che far male.

Ne' miei scritti, quasi esclusivamente parlerò dei morti. Dei vivi meno che mi sia possibile, attenendomi al vecchio adagio(1): gli uomini si giudicano bene dopo morti.

Stanco della realtà della vita, io stesso ho creduto bene di adottare il genere, romanzo storico.

Di ciò che appartiene alla storia, credo essere stato interprete fedele, almeno quanto sia possibile d'esserlo poiché particolarmente negli avvenimenti di guerra, si sa, quanto sia difficile il poterli narrare con esattezza.

Circa alla parte romantica, se non fosse adorna della storica, in cui mi credo competente, e dal merito di svelare i vizi e le nefandezze del pretismo, io non avrei tediato il pubblico, nel secolo in cui scrivono romanzi i Manzoni, i Guerrazzi ed i Victor Hugo.

GIUSEPPE GARIBALDI

CAPITOLO I CLELIA

Come era bella la perla del Trastevere!

Le treccie brune, foltissime; e gli occhi! il loro lampo colpiva come folgore chi ardiva affissarla. A sedici anni il suo portamento era maestoso come quello di una matrona antica. Oh! Raffaello in Clelia avrebbe trovato tutte le grazie dell'ideale sua fanciulla colla virile robustezza dell'omonima eroina(2) che si precipita nel Tevere per fuggire dal Campo di Porsenna.

Oh sì! era pur bella Clelia! E chi poteva contemplarla senza sentirsi ardere nell'anima la viva fiamma che usciva dalle sue luci?

Ma le Eminenze? Codeste serpi della città santa, i cui cagnotti con ogni più vile arte di corruzione cercavan pascolo alle libidini dei padroni, non sapevan forse che tale tesoro viveva nel recinto di Roma? Lo sapevano. E una fra l'altre agognava da qualche tempo a far sua quella bellezza che discendeva dai Vecchi Quiriti(3).

"Va Gianni, (diceva un giorno il cardinale Procopio, factotum e favorito di Sua Santità) vanne e m'acquista quella gemma a qualunque costo. Io non posso più vivere se la Clelia non è mia. Essa sola può alleviare le mie noie e bearmi la stupida esistenza che trascino al fianco di quel vecchio imbecille"(4).

E Gianni, strisciando sino a terra il suo muso di volpe, colla laconica risposta di "sì Eminenza" moveva senz'altro all'infame missione.

Ma su Clelia vegliava Attilio, suo compagno d'infanzia, ventenne, robusto artista, il coraggioso rappresentante della gioventù romana, non della gioventù effeminata data alle dissipazioni, piegata al servaggio, ma di quella da cui usciva un giorno il nerbo di quelle legioni, davanti alle quali la falange macedone indietreggiava.

Attilio, chiamato da' compagni di studio l'Antinoo Romano(5), per la bellezza delle sue forme, amava la Clelia di quell'amore per cui i rischi della vita sono giuochi, il pericolo della morte, una ventura.

Nella via che dalla Lungara ascende al monte Gianicolo, non lungi dalla fontana di Montorio, era posta la dimora di Clelia. La sua famiglia era di artisti in marmo, professione la quale permette in Roma una certa vita indipendente, se pure indipendenza può esistere, ove padroneggiano preti.

Il padre di Clelia, già prossimo alla cinquantina, era uomo di costituzione robusta, serbata nel suo vigore da una vita laboriosa e sobria. La madre era pure di sana complessione, ma delicata. Essa aveva un cuore d'angiolo e faceva le delizie della sua famiglia non solo, ma era adorata da tutti i vicini.

Si diceva che Clelia accoppiava alle sembianze angeliche della mamma la robusta e maestosa dignità del padre. Si sapeva che in quella santa famiglia tutti si adoravano.

Ora intorno a questa beatitudine si aggirava il vile mandatario del prelato nella sera dell'8 febbraio 1866.

Gianni si era già presentato sulla soglia dell'onesto discepolo di Fidia(6) che non se n'era accorto, perché si trovava con le spalle voltate; ma vedendo ch'egli avea certe braccia abbronzate e nerborute si sentì preso da un brivido tale che involontariamente indietreggiò sino all'altro lembo della via. Pareva già all'emissario di sentirsi piovere addosso una sfuriata di pugni o di bastonate.

Se non che l'artista si rivolse verso la porta e dimostrando, sulla sua fisionomia virile, cert'aria di benevolenza, il malandrino si sentì rinfrancare e fattosi ardito si presentò nuovamente sulla soglia dello studio.

"Buona sera, sor Manlio", principiò con voce di falsetto il mal capitato messo. "Buona sera" rispose l'artista; ed esaminando uno scalpello che aveva tra le mani poco badava alla presenza di un individuo ch'ei conosceva appartenere a quella numerosa schiera di servi prostituti, che il prete ha sostituito in Roma alla maschia schiatta dei Quiriti.

"Buona sera", ripeteva Gianni con voce sommessa e timida e vedendo che finalmente l'altro alzava gli occhi verso lui: "Sua Eminenza il cardinale Procopio, - proseguì, - m'incarica di dire a V. S. che egli desidera avere due statuette di santi per adornare l'entrata del suo oratorio".

"E di qual grandezza vuole S. E. le statuette?" rispose Manlio.

"Io credo sia meglio che V. S. venga in palazzo per intendersi con l'E. S.".

Un torcer di bocca del bravo artista fu chiaro indizio che la proposta gli andava poco a sangue, ma come si può vivere in Roma senza dipendere dai preti?

Tra le malizie gesuitiche dei tonsurati vi è pur quella di fingersi protettori delle belle arti e così hanno fatto che i maggiori ingegni d'Italia prendessero a soggetto dei loro capolavori le favole pretesche, consacrandole per tal guisa al rispetto ed all'ammirazione delle moltitudini.

Torcer la bocca non è una negativa, e veramente bisognava vivere e mantenere decentemente due creature, la moglie e la figlia, per le quali Manlio avrebbe dato la vita cento volte. "Andrò" rispose seccamente dopo qualche momento di riflessione. E Gianni con un profondo saluto si accomiatò.

"Il primo passo è fatto", mormorò tra sé il mercurio dell'eminentissimo; "ora è d'uopo cercare un posto di osservazione e di rifugio per Cencio". Il quale Cencio, affinchè il lettore lo sappia, era il subordinato di Gianni, a cui il cardinale Procopio affidava la seconda parte in così fatte imprese.

Gianni si affaccendava ora a trovare per Cencio una stanza qualsiasi d'affitto in vista dello studio di Manlio. Il che gli venne fatto facilmente. In quella parte della capitale del mondo l'affluenza delle genti non è mai strabocchevole, poiché i preti, che curano tanto per sé il bene materiale, non pensano, rispetto agli altri, che al bene spirituale. Ora il secolo è un po' positivo, bada al tanto per cento più che alla gloria del paradiso, ed è per questo che Roma, per mancanza d'industria e commerci rimane squallida e scarsa d'abitatori(7)

Gianni adunque dopo di avere preso a fitto una stanza, come dicemmo, se ne tornava a casa cantarellando e colla coscienza tutt'altro che aggravata, sicuro com'era dell'assoluzione che i preti non negano mai alle ribalderie commesse in servizio loro.

CAPITOLO II ATTILIO

Di faccia allo studio di Manlio ve n'era un altro, quello dove lavorava Attilio. Dalle sue finestre questi aveva potuto vedere la Clelia; appunto così s'era acceso per lei di altissimo affetto.

Clelia vinceva di beltà le più leggiadre donzelle di Roma, e forse era altera e non vaga di amori, ma quando occhio di donna s'era fiso per una volta sola nell'occhio del nostro Attilio ed aveva osservato la sua bella persona, per duro e cinto di triplice acciaio che fosse il cuore di lei, doveva commuoversi di ammirazione e di simpatia.

Un lampo dell'occhio scambiatosi da que' due era bastato a fissare il loro destino per tutta la vita.

Ora Attilio, avendo il suo santuario davanti allo studio ov'egli passava quasi intera la giornata, molte volte fissava lo sguardo ad una finestra del primo piano ove Clelia lavorava colla madre, e donde la luce elettrica dell'occhio suo incontravasi quasi di concerto con quella del suo prediletto.

Attilio quella sera aveva osservato il barcheggiare dello scherano, lo aveva riconosciuto per manutengolo di qualche pezzo grosso, e l'occhio suo penetrante, dallo indietreggiare, dalla titubanza e dall'irresoluto contegno di lui, istintivamente aveva augurato(8) male per la sorte della bella fanciulla. Imperocché i pochi eletti della popolazione romana sanno ciò che si possa aspettare dai settantadue(9) tanto più corrotti e lascivi quanto più son ricchi e potenti non mirano alla bellezza ed all'innocenza che per profanarle.

Non aveva Gianni fatto ancora cento passi all'ingiù verso la Lungara che il nostro amico già si trovava sulle sue peste seguendolo con aria sbadata come chi nulla avendo da fare si ferma a contemplare tutte le curosità che scopre sul davanti delle botteghe e sui frontespizi dei templi e dei monumenti, di cui ad ogni passo è ornata la meravigliosa metropoli del mondo.

E lo seguiva Attilio col presentimento di seguire un ribaldo, uno stromento d'infamia la cui meta fosse quella di rovinare la sua donna. Lo seguiva, Attilio, tastando il manico di un pugnale che teneva nascosto in seno.

Vedi presentimento! L'aspetto di uno sconosciuto veduto per la prima volta e per un solo istante, di uno sconosciuto volgare, aveva svegliato in quell'anima di fuoco una sete di sangue, in cui si sarebbe bagnato con voluttà da cannibale.

E ritastava il pugnale: arma proibita, arma italiana che lo straniero condanna, come se la baionetta o la scimitarra bagnate da lui tante volte nel sangue innocente, siano armi più nobili d'un pugnale immerso nel petto d'un assassino o confitto in quello d'un tiranno.

Gianni fu veduto da Attilio entrare nella casa ov'egli contrattava la stanza per Cencio, e quindi fu visto avviarsi e penetrare nel vestibolo del superbo palazzo Corsini, ove abitava il suo padrone.

"È dunque Don Procopio l'uomo" disse tra se il nostro eroe, Don Procopio il favorito ed il più dissoluto della caterva dei masnadieri principi di Roma; e andò innanzi immerso nelle sue riflessioni.

CAPITOLO III LA CONGIURA

Privilegio dello schiavo è la congiura e pochi sono gli italiani di tutte le epoche del servaggio del loro paese i quali non abbiano congiurato. E poiché il dispotismo dei preti è il più esoso di tutti, il più degradante ed infame, si può tenere per certo che il cospirar dei Romani dati dal dominio di questi impostori.

La notte dell'8 febbraio era in Roma notte di congiura. Convegno il Colosseo; perciò Attilio dopo aver pedinato quel messo di delitti che si chiamava il Gianni, anzi che avviarsi alla sua casa prese la via di Campo Vaccino(10).

Era oscura la notte e nuvoloni neri neri si addensavano sulla città santa spinti da violento scirocco: il mendico di Roma avvolto nel suo mantello cencioso cerca ripararsi in qualche aristocratico portone, o sotto il peristilio di qualche chiesa; il prete servito dall'inseparabile Perpetua sta invece rifocillandosi a lauta mensa e si prepara a delizioso riposo, di vivande ripieno e di vini prelibati.

Là nel fondo dell'antico Foro sorge il maestoso gigante delle ruine, tetro, imponente, segnando a questa generazione di schiavi cento passate generazioni e ricordando ai Romani che la loro Roma, sconquassata dal tempo e dalla vendetta delle già oppresse nazioni crollò, non cadde.

Lo straniero suole visitare il Colosseo a lume di luna. Ma bisogna vederlo in una oscura notte di tempesta, illuminato dal lampo, scosso dalla folgore e pieno di cupi e strani rimbombi.

Tale era la notte dell'8 febbraio, quando i congiurati ad uno ad uno per diverse vie si avvicinavano all'anfiteatro dei gladiatori e delle fiere, avvolti in ampi mantelli che nella luce incerta parevano toghe. È privilegio oggi de' mendichi soltanto quello di andare per le vie di Roma coperti dal tradizionale mantello in guisa da parere togati; e forse non pochi mendichi v'erano tra que' generosi, perché sulla terra dei Bruti spesso si nasconde sotto cenci l'animo virile di un gladiatore pronto a gittare la sua vita nell'arena, ove si contende la liberazione de' popoli.

Tra le mille loggie ove soleva adunarsi il popolo-re, ve ne eran varie più spaziose delle altre, forse in antico destinate agli imperanti, alla corte, ai grandi. Il tempo le avea ridotte ad una sola. Non seggioloni, non arazzi adornavano il recinto. (E che importavano gli adornamenti a coloro che s'eran sacrati alla morte?). Le macerie eran per loro pareti, tribune, sedili.

Al fioco lume di una lanterna sorda di cui eran muniti i congiurati si vedevano ascendere per diverse vie quei coraggiosi propugnatori della libertà romana e giunti nel loggione (tale era il nome dato da loro al recinto) ognuno vi prendeva posto senz'altra cerimonia che una stretta di mano tra i vicini, poiché tutti eran conoscenti ed amici.

Quando quasi tutti furono al loro posto una voce sonora si udì nel recinto che gridò: "Le sentinelle sono a posto?" Un'altra voce dall'altro estremo rispose: "A posto". Allora il lume di una torcia accanto alla prima voce illuminò centinaia di fisonomie simpatiche di giovani quasi tutti al disotto dei trenta, ed altre torcie si accesero qua e là per vincere l'oscurità della notte.

I preti non mancan di spie e spie famose sono i preti stessi, onde ad alcuno sembrerà strano che una massa di congiurati potesse riunirsi impunemente in Roma. Ma bisogna riflettere che nella santa città vi sono deserti e che il Campo Vaccino, principale di quei deserti, racchiude tante rovine quante forse non sono tutte insieme le rovine del mondo. Poi, in una città come quella, un mercenario, che ama la pelle sopra ogni cosa del mondo e fa servigi più in apparenza che in fatti, non corre ad avventurare la codarda sua vita in quelle macerie, assai men secure delle vie di Roma ove un uomo onesto è già sì poco sicuro.

In una città superstiziosa come è la Metropoli cattolica, non mancano leggende di apparizioni tra le rovine, né manca chi ci crede. Anzi si conta: che in una notte tempestosa come questa, due sgherri più avventati degli altri, avvicinandosi nelle loro ricerche al Colosseo scorsero una certa luce e contenti di tale scoperta, si fecero innanzi per riconoscerla; ma che procedendo verso quella parve loro vedere fantasmi così spaventevoli, che sopraffatti dal terrore se la diedero a gambe, perdendovi uno il cappello e l'altro la sciabola che aveva tentato di sguainare, ma che tremante lasciò cadere e non ebbe il coraggio di fermarsi per raccoglierla, e via.

I fantasmi altro non erano che i nostri giovani, i quali nel ritirarsi inciamparono nel cappello e nella sciabola e siccome le loro sentinelle avevano osservato l'approssimarsi delle spie e la loro fuga, ne venne che la scoperta degli insperati trofei produsse tra loro un'immensa ilarità.

CAPITOLO IV I TRECENTO

La prima voce che s'udì nel loggione era voce d'uno da noi conosciuto: la voce di Attilio.

Attilio, l'intemerato, a vent'anni era stato con voti unanimi eletto da quei generosi a capitano. Tanto è il prestigio del valore e della virtù e, diciamolo pure, anche dell'avvenenza e robustezza del corpo! E Attilio meritava la fiducia dei suoi compagni. Alla bellezza dell'Antinoo egli aggiungeva il profilo e il cuore del leone.

Dopo aver girato Io sguardo sull'adunanza ed essersi assicurato che tutti erano muniti di un nastro nero al braccio sinistro (segno di lutto per gli schiavi, da non deporsi sino alla liberazione di Roma, e segno di ricognizione dei trecento) Attilio così cominciò:

"Fratelli! Sono ormai due mesi che le soldatesche straniere, unico puntello del papato, devono sgombrare e non lo fanno. Essi lordano ancora le nostre contrade e sotto pretesti futili rioccupano le posizioni che già aveano abbandonate quando dovevano uniformarsi alla Convenzione del settembre 1864. Or tocca a noi. Pazientammo diciotto anni, subimmo il doppio giogo, egualmente esacrato, dello straniero e del prete. Ed in questi ultimi anni, pronti a menar le mani, fummo trattenuti da quella setta ermafrodita che si chiama de' moderati, e altra moderazione non ha e non usa che quella d'impedire il fare e il far bene: setta infame e divoratrice siccome il prete, pronta sempre a patteggiare collo straniero, a far mercato dell'onor nazionale pur d'impinguare sull'erario dello Stato che trascina a sicura rovina.

Di fuori i nostri amici son pronti e noi accusano di neghittosi. L'esercito, meno la parte legata alla pagnotta, è tutto con noi. Le armi che aspettavamo, per distribuire al popolo, sono giunte e stanno in luogo sicuro. Di munizioni ne abbiamo più del bisogno.

A che dunque tardare più oltre? Oual nuova occasione dobbiamo aspettare? Il nostro grido sia: "All'armi"...".

E "All'armi! all'armi!" fu la risposta dei trecento congiurati.

La stanza romita dove forse gli antichi eroi venivano ancora nella notte a meditare sul servaggio delle nazioni, rimbombò al grido dei trecento giovani, che giuravano di voler libera Roma, e l'eco diffuse tra le secolari macerie dello sterminato Colosseo il maschio grido di quella coorte.

Trecento! Trecento come i compagni di Leonida, come gli eroi dell'antica famiglia dei Fabii, erano i giovani nostri amici; i quali non avrebbero ceduto il loro posto, sia di liberatori, sia di martiri per un impero.

"Che Dio vi benedica, anime predilette! - riprese Attilio. - Non ebbi mai dubbio dell'unanime eroica vostra risolutezza per l'opera santa! Noi felici, cui la sorte affidò la redenzione dell'antica padrona del mondo dopo tanti secoli di servaggio e di brutture pretine.

Or come ognuno di voi ebbe la sua parte di popolo, suddiviso per rioni, ad educare, così quella stessa parte di popolo sia da ciascuno di voi guidata il giorno della battaglia che non sarà lontana, il giorno in cui verranno infranti i ceppi della nostra Roma e risorgerà questo popolo che il prete, schiuma d'inferno, il prete solo, poteva depravare, corrompere, abbruttire a tal segno da cambiare il grandissimo fra tutti i popoli nel più meschino, più abbietto, ed ultimo popolo della terra.

Sì, è stato il prete che ha avuto il merito di educare gli italiani all'umiliazione ed al servilismo. Mentre lui si faceva baciare la pantofola dagli imperatori, chiedeva agli altri esercitassero l'umiltà cristiana; mentre predicava l'austerità della vita, egli sguazzava nell'abbondanza, nella lascivia e nel vizio. Inchini e baciamani: ecco la ginnastica insegnata dal prete al popolo. Per Dio, lo dobbiamo a lui se la metà di noi porta il gobbo, od ha la spina dorsale curvata! La lotta che siamo per imprendere è santa. E a noi, non solo l'Italia, ma il mondo sarà grato se giungeremo a liberarlo da questa maledizione. Imperocché tenete per certo che nel mondo intero sarà possibile la fratellanza umana ove sia liberato dai preti...".

A questo punto era arrivato col suo ardente discorso Attilio, quando un lampo improvviso illuminò la vasta navata del Colosseo, come se a un tratto mille torcie si fossero accese per incanto. Al lampo tenner dietro le tenebre più fitte di prima ed un terribile tuono scosse fino dalle fondamenta la sterminata mole.

Non impallidirono i congiurati, disposti come erano ad affrontare la morte in qualunque guisa, né rimasero scossi. Ed ognuno di loro corse colla destra nel seno a ricercare il ferro. Quando, quasi fosse un seguito della meteora, s'udì una voce di disperazione risonare nel vestibolo dell'anfiteatro e poco dopo una giovine scarmigliata, fuori di sé, grondante acqua dalle vesti, si precipitava in mezzo ai congiurati.

Silvio fu il primo che la riconobbe, e:

"Povera Camilla!" sclamò il coraggioso cacciatore di cignali. "Povera Camilla! in quale stato mai l'hanno ridotta codesti mostri, che l'Europa c'impone a padroni, per i quali l'inferno solo dovrebbe servire di stanza".

Subito dietro alla Camilla, erano entrati alcuni dei giovani rimasti di guardia al di fuori e al loro capo raccontavano come quella donna al chiarore del lampo li avesse scoperti, come si fosse slanciata verso il loggione, senza che fosse stato possibile, in modo alcuno, trattenerla.

"Vedendo una giovane donna - dissero le sentinelle - abbiamo creduto farci interpreti del vostro desiderio non adoperando le armi per arrestarla. In altro modo ci è stato impossibile il farlo".

Camilla intanto, sollevata da Silvio avea innalzato meccanicamente gli occhi fino a lui. Ma fissatolo un momento, diede un urlo spaventoso e cadde a terra boccone, così dolorosamente singhiozzando da intenerire le pietre.

CAPITOLO V L'INFANTICIDIO

Si ritrae dalle statistiche che Roma è la città ove nascono in maggior numero i figli naturali.

E degli infanticidi quale è la cifra che danno le statistiche?... Nel 1849, al tempo del Governo degli uomini, io ho assistito a delle ricerche nei penetrali di quelle bolgie che si chiamano conventi e in ogni convento non mancavano mai gì'istromenti di tortura e l'ossario dei bambini.

Cosa era quel nascosto cimitero di creature appena nate o non nate ancora? Un senso d'orrore rivolta ogni anima che non sia di prete dinanzi a tale spettacolo.

Il prete invece impostore, cresciuto alla menzogna ed all'ipocrisia, deridendo la credulità degli stupidi, è naturalmente propenso a satollare tanto il ventre come la lussuria. E come potrebbe egli contentare gli appetiti del corpaccio se non facendo scomparire i frutti della seduzione o della violenza?

E così, nata, strangolata o macellata e sepolta era una creatura umana per nascondere la libidine di chi si era consacrato alla castità.

La terra, i fiumi, il mare, certo nascondono a milioni le vittime della scelleraggine e dell'impostura.

Povera Camilla! anche il nato dalle tue viscere andò nel carnaio degli innocenti dopo aver esalato il respiro sotto il coltello degli sgherri dello stesso Procopio, di quel Gianni che in questo momento s'aggira per sedurre e perdere la perla di Trastevere, la bellissima Clelia.

Nata contadina l'infelice Camilla ebbe come l'Italia il dono funesto della bellezza. Silvio, nelle sue caccie verso le paludi pontine, soleva fermarsi, passando, in casa del buon Marcello, padre di Camilla, a poca distanza di Roma. E s'era colà innamorato della fanciulla. Riamato da Camilla e chiestala al padre, l'ottenne e si fidanzarono. Era una bella coppia quella dell'avvenente e robusto cacciatore colla gentile e bella contadina ed entrambi assaporavano anticipatamente con l'anima le delizie della loro unione.

Ma troppo bella era Camilla e troppo innocente in quella metropoli della corruzione. I bracchi dell'Eminenza avean fiutato la colomba e quando viene fiutata e tracciata la selvaggina da costoro, è ben difficile non cada.

In una escursione di caccia, il povero Silvio aveva presa la febbre, sì comune in quelle paludi, e questo malanno fu cagione che il matrimonio venisse ritardato e più facile si rendesse il disegno degli avvoltoi su quella preda gentile.

Raramente ma pur qualche volta Camilla soleva recarsi a portar delle frutta in piazza Navona e lì una fruttaiola comprata da Gianni tese tante lusinghe e reti all'innocente contadina che la fece finalmente cadere nella trappola.

La caduta non rimase a lungo occulta. Il ventre ingrossando minacciò svelare l'arcano, onde temendo del padre e dell'amante, la povera Camilla si lasciò persuadere ad occupare una stanza nel palazzo Corsini ove a bell'agio il cardinale poteva continuare la tresca coll'infelice.

Il parto riuscì un bambino e quel bambino fu destinato come tanti altri al carnaio.

Camilla ne impazzì e grazie alla generosa pietà del porporato, il quale sognava nuovi amori, fu rinchiusa in un manicomio. Una notte però, sia colla violenza, sia deludendo la vigilanza dei custodi, la pazzarella riuscì a guadagnare l'aria libera. Uscì, vagò, vagò a lungo in quella notte tempestosa, senza direzione preconcetta, finché per caso avvicinatasi al Colosseo le parve intravvedervi una luce, avanzossi. In quel momento il precursore della folgore avea rischiarato ogni cosa e fra le altre le sentinelle che vigilavano all'ingresso dell'anfiteatro.

L'istinto, un vago presentimento la spinsero verso quegl'individui che almeno non avevano l'aria di preti. Costoro vollero arrestarla, ma Camilla avea in quella notte una forza sovrumana. Si svincolò, salì e giunta al loggione cadde spossata in mezzo ai trecento.

Povera Camilla! E Silvio che l'aveva riconosciuta, raccontava ai compagni la storia dell'infelice. "È tempo, - ripigliava Attilio, - di purgare la nostra città da questo immondo pretume" ed un lampo di sospetto per la sua Clelia, forse in procinto di cadere fra gli artigli delle belve istesse, balenatogli alla mente, il suo pugnale venne fuori come una striscia di fuoco. Quindi brandendo il ferro, Attilio sclamò:

"Maledizione a quell'indegno Romano che non sente l'umiliazione della sua patria e che non è pronto a bagnare il suo ferro nel sangue de' tiranni che la deturpano facendone una cloaca".

"Maledizione! Maledizione!" rimbombò per più minuti l'ampia volta delle ruine, ed il tintinnio de' ferri cozzanti, faceva riscontro al clamore delle voci; terribile musica all'indirizzo de' corrotti e scellerati padroni di Roma.

"Silvio! - ripigliava Attilio - questa fanciulla più infelice che colpevole, abbisogna di protezione e tu generoso non gliela niegherai. Vanne e l'accompagna, ed il giorno della riscossa, noi siamo certi, non mancherai al tuo posto".

E Silvio era generoso davvero e amava ancora la sua disgraziata Camilla. Costei alla vista dell'amante parve quasi per incanto calmata dal morboso furore, e tacita, rannicchiata era diventata docile come un agnello.

Silvio le si accostò, sollevolla, l'avvolse nel proprio mantello e dolcemente tenendola per mano, la condusse fuori del Colosseo verso l'abitazione di Marcello.

"Per il quindici alle Terme di Caracolla, e pronti a menar le mani!...".

"Pronti! Pronti!" ripeterono i trecento. Ed in pochi minuti il deserto delle rovine avea ripreso la sua tetra spaventosa solitudine.

CAPITOLO VI L'ARRESTO

Cencio, come fra la gioventù Romana suole a parecchi accadere, era disceso più per colpa dei genitori che propria, nell'abbiezione in cui l'abbiamo trovato.

Onesto carpentiere, il padre avea sposata una di quelle tante donne uscita dal connubio dell'alto clero con femmina Romana(11).

Costei non ignorava la non mediocre sua nascita e vanarella sognava poter innalzare il proprio figlio al disopra dell'umile condizione del padre suo. Essa faceva gran conto sulla protezione dell'Eminente genitore e le pareva che questi dovesse proprio occuparsi del suo nuovo nato. Stolta! che non sapeva come i godimenti mondani sieno la sola norma dei porporati predicatori della vita eterna e che, una volta satolli, costoro distruggono o abbandonano la prole.

E Cencio destinato dalla madre allucinata a grandi cose non curò imparare l'arte del padre, si diede dell'aria e finì, ostentando una condizione che non era la sua, a precipitarsi nel vizio e vendersi finalmente al primo ministro dei piaceri di un'Eminenza.

Dalla stanza dove lo aveva collocato Gianni egli non perdeva Manlio di vista; ed una sera mentre l'artista stava intento al lavoro piomba Cencio nel suo studio e con voce commossa, si fa così a supplicarlo: "per l'amore di Dio! voglia permettermi di rimanere qui un istante, sono inseguito dalla polizia... mi cercano per imprigionarmi. L'assicuro, - continuava l'impostore, - che non ho altro delitto, tranne quello d'esser liberale; nel calore di una disputa ho detto francamente che la caduta della repubblica era stato un assassinio. Per tutto questo mi vogliono arrestare!".

Così terminando il suo discorso Cencio per dare alle sue parole maggior colore di verità, fingeva di cercare dietro i marmi, ond'era ripieno lo studio, un nascondiglio che lo coprisse dalla vista della strada.

"I tempi corrono difficili", pensò Manlio fra sé, "c'è poco da fidarsi del prossimo; ma come si fa a cacciar di casa un compromesso politico? come si fa a mandarlo a crescere il numero degli infelici che gemono nelle prigioni dei preti?".

"Poi, - pensava Manlio sbirciando il nuovo venuto, - il giovane mi sembra di buon aspetto. Giunta che sia la notte, potrà facilmente trovare uno scampo".

E l'uomo onesto condusse lui stesso Cencio nella recondita parte dello studio, non sospettando di certo ch'egli albergava un traditore.

Non passò molto che una frotta di sgherri sfilando lunghesso la via si fermava davanti lo studio e vi penetrava chiedendo al proprietario il permesso di farvi una visita domiciliare per ordine superiore.

Non è difficile trovare il nascondiglio di uno che vuol essere scoperto. Poi il capo degli sgherri già d'intelligenza con Cencio lo avea da lontano veduto entrare ed era certo di non dover frugare invano.

Povero Manlio! poco sospettoso, come lo è generalmente la gente onesta, cercava di persuadere il briccone che nulla o nessuno si trovava nel suo studio che potesse dar sospetto alla polizia e procurava frattanto di guidare i cercatori in parti diverse da quella del nascondiglio di Cencio.

Ma il malandrino per abbreviare l'indagine che lo annoiava tirò per le falde dell'abito il capo-birro, mentre gli passava daccanto e questo con un piglio vittorioso afferrando il complice per il collo:

"Oh! Oh! voi renderete conto al Governo di Sua Santità del ricovero dati ai nemici dello Stato" disse, pavoneggiandosi il galeotto. E aggiunse "seguirete immediatamente in carcere il colpevole che avete voluto albergare".

Manlio poco avvezzo al contatto di quella canaglia era rimasto sbalordito. Ma alle minaccie del furfante sentì il sangue ribollirgli nelle vene e lo sguardo gli corse tosto ai ferri che adornavano lo studio. Eran scalpelli, martelli, mazze e Manlio stava lì lì per impugnare un pié di porco massiccio e fracassare con quello il cranio dell'insolente, quando apparve scendendo dalle scale Clelia preceduta dalla madre.

La vista di quelle care creature fiaccò lo sdegno dell'artista. Esse avevano dal balcone vista entrare quella insolita visita e non vedendola partire ed avendo sentito qualche cosa d'imperioso nella voce del birro, tementi e curiose discesero nello studio.

Era il crepuscolo della sera e siccome nel piano generale dell'arresto di Manlio era stabilito non lo si avesse a condurre in prigione di giorno, per paura di qualche riscossa dai Transteverini che amavano e rispettavano il nostro amico, così calcolò il capo-birro che a lui conveniva differire la traduzione dei prigionieri: onde col piglio simulatore della volpe. "Via dunque", rivolto a Manlio gli disse: "tranquillate le vostre donne, la cosa finirà in niente. Voi verrete a rispondere ad alcune interrogazioni e questa sera stessa, io lo spero, potrete tornare a casa vostra".

Vane furono le rimostranze delle donne, e Manlio sdegnando di supplicare il birro, incamminossi di lì a poco colla tristissima compagnia.

CAPITOLO VII IL LEGATO

Il fenomeno della insaziabile tendenza pretina al solo godimento dei beni materiali è cosa a tutti nota, mentre pur tutti sanno egualmente che per il resto del mondo, cioè per chi non è prete, essi predicano e millantano i beni spirituali d'una vita avvenire colla gloria del paradiso!

Osservate bene e ben ponderate quella gloria dei preti: "Gloria del Paradiso! Maggior gloria di Dio!". Udite sacrilegio da impurissima bocca: Gloria a Dio! Come se l'Onnipossente, l'Eterno, l'Infinito potesse essere illustrato, glorificato da quella razza di vermi! Agli stolti l'ignoranza e la miseria, per la maggior gloria di Dio; ai preti la crapula, ricchezze e lussuria, sempre per la maggiore gloria di Dio!

Oggi non più ma in passato, i preti, a forza d'imposture e per l'ignoranza delle genti accumularono sterminate ricchezze. Esempio ne sia la Sicilia ove la metà dell'isola apparteneva ai preti e frati d'ogni specie.

E due erano le principali sorgenti delle ricchezze loro. La prima proveniva dalle donazioni dei grandi, i quali dopo aver trascinata un'esistenza di delitti credevano, cedendo al clero una parte dei loro furti, rendere legittimo il possesso dell'altra e sottrarsi al castigo di Dio.

La seconda sorgente di ricchezze i preti la derivavano al capezzale degl'infermi ove padroni dei loro ultimi istanti, colle paure dell'Inferno e del Purgatorio da loro suscitate, carpivano legati e bene spesso l'intere eredità dai morenti a pregiudizio dei figli che riduceano senza pietà alla miseria.

Correva il dicembre del 1849. La Repubblica Romana, sorta dai voti unanimi dei rappresentanti legittimi del popolo, era stata sepolta da alcuni mesi dalle bajonette straniere. I preti ripigliata l'antica possanza dovevano riempire le prebende un po' smunte da quegli eretici di repubblicani ed il conforto, la cura, il sollievo delle anime dovevano ancora provvedere al conforto, alla pienezza, alla libidine di quei corpi beati!

Erano di poco trascorse le nove e fittissima era calata la notte sulla piazza quasi deserta della Rotonda. Sapete voi cos'è la Rotonda? Quella chiesuola ove ogni mattina poche donnicciuole vanno a far corona ad un pretuncolo per la maggior gloria di Dio? Ebbene la Rotonda è il Pantheon dell'antica Roma! Un tempio che conta duemila e più anni, e direste eretto appena ieri tanto la sua conservazione è perfetta, tanto la sua architettura è sublime.

Ogni colonna del suo peristilio sarebbe pagata a peso d'oro dall'antiquario straniero ed il gigante della scoltura Michelangelo, cui questa Rotonda bastava a turbare i sonni, non fu tranquillo se non dopo di avere innalzato nello spazio quel tempio di tutti i dei e postolo come cupola sul colosso monumentale dell'universo(12).

Ma il prete ne ha fatto la Rotonda, come del Foro Romano, ove s'adunavano i padroni del mondo per discuterne le sorti, ne fece un Campo Vaccino!

Erano dunque le nove d'una notte oscura di dicembre ed a traverso la piazza della Rotonda si vedeva scivolare qualche cosa di nero che t'avrebbe posti i brividi nelle ossa, fossi tu stato uno dei coraggiosi militi di Calatafimi.

Era ribrezzo o paura il sentimento svegliato dall'apparizione di quel fantasma? Non lo saprei spiegare ma credo fosse l'uno e l'altra ed erano giustificati entrambi, poiché sotto la nera sottana che ti scivolava davanti, batteva il cuore d'un demonio, anelante al compimento di tale delitto, che solo l'anima d'un prete può ideare ed eseguire.

Giunto al portone di casa Pompeo, situata in un lato della piazza, il prete dava mano al battente, lo lasciava cadere leggero, quindi tiravasi un po' indietro, ricercando collo sguardo la fitta tenebria, timoroso ch'alcuno non lo scorgesse mentre era intento a compiere la scena scellerata, ch'egli doveva aggiungere ai lugubri drammi della sua vita d'infamie.

Ma chi si curava del perpetratore d'un delitto ove dominavano il mercenario straniero ed il prete! Dove in una popolazione immensa, il poco di buono che c'era, stava imprigionato, proscritto, o ridotto alla miseria?

Il portone della nobile casa venne schiuso. Il portiere riconosciuto il reverendo padre Ignazio, con un strisciante inchino lo salutò, baciògli la mano e gli fece lume accompagnandolo fino ai primi gradini della scala più per cerimonia che per bisogno essendo già ben rischiarato dalla lampada l'ampio scalone d'una casa delle più opulente di Roma.

"Ov'è Flavia?" chiese il chiercuto al primo servo che gli capitò davanti, e Siccio, che tale era il nome del servo, proprio Romano davvero e poco simpatico all'uccello di cattivo augurio: "Al capezzale della morente" rispose, e voltò le spalle.

Ignazio con passo frettoloso, siccome ben pratico della casa, s'incamminò verso una stanza da letto che chiudeva una serie di salotti e di stanze ricchissime. Giunto alla porta faceva udire (sommesso però) certo grugnito che avea del bestiale, ma ben inteso e capito egualmente, poiché in un attimo, lo schifoso ceffo d'una vecchia suora comparve sull'uscio, schiuse, introdusse premurosamente il prete e scambiò con lui uno di quegli sguardi che avrebbero agghiacciato il sole, se fossero stati ricambiati al suo cospetto.

"È fatto?". "È fatto!" era la risposta della donna, ed entrambi s'incamminarono verso il giaciglio della morente.

Don Ignazio trasse di sotto alla gonnella una boccetta, ne vuotò il contenuto in un bicchiere ed aiutato dalla suora, sollevò il capo della moribonda che aprì macchinalmente la bocca e bevette fidente od inconscia tutta la pozione.

Un sogghigno di soddisfazione infernale volava dall'uno all'altro viso dei due scellerati. Abbandonarono sui cuscini il capo già insensibile della vecchia infelice, si ritirarono quindi tranquillamente a sedere in un angolo della stanza. Quivi Flavia passava nelle mani del prete un foglio; questi, senza leggerne il contenuto, che ben conosceva, volava coll'occhio alla firma, la fissava per qualche momento, poi ripiegando lo scritto, lo intascava con mano convulsa, senza aggiungere altro che un "Sta bene! Voi avrete la vostra ricompensa!".

Era quel foglio il testamento della signora Virginia, madre di Emilio Pompeo, morto sulle mura di Roma, da piombo napoleonico. La moglie di Enrico dopo averlo assistito nella lunga agonia, vinta dal dolore, alla sua volta soccombette lasciando un bimbo di due anni, unica prole orbata dei genitori, cui rimaneva soltanto l'appoggio della vecchia ava.

Virginia amava ancora il suo Muzio, unico rampollo dell'antichissima stirpe dei Pompei, con affetto vivissimo, e certo non avrebbe mancato di lasciarlo in possesso della vasta eredità di famiglia: ma che volete? come tante donne ignorava che sotto la nera sottana batte l'anima dell'inferno.

Don Ignazio con quella ipocrisia e sottigliezza che paiono privilegio della casta pretina, Don Ignazio confessore della vecchia, a forza di giri e rigiri era pervenuto ad ottenere che sul suo testamento s'introducesse un legato a suffragio delle anime del Purgatorio, ma se questo accontentava le anime del Purgatorio, non rendeva pago lo scellerato, il quale agognava all'intera proprietà della casa Pompeo.

Ammalatasi la vecchia Virginia, Ignazio le fece accettare Flavia per infermiera e col suo mezzo, e assiduamente vigilandola senza quasi permettere ch'altri l'avvicinasse, quando il corpo e la mente dell'infelice per l'aggravarsi del male s'andarono indebolendo, il ribaldo non trovò difficoltà a sostituire al testamento che portava il legato un nuovo testamento che lasciava per intero l'eredità Pompea alla corporazione di S. Francesco di Paola, creando per giunta don Ignazio stesso esecutore testamentario.

Non mancavano i testimoni idonei e la bigotta sottoscrisse la miseria e lo spoglio dell'infelice bambino per impinguare la crapula di quei figli della maledizione.

Intanto Muzio, diseredato, dormiva placidamente nella sua cameretta ancora adorna dalla mano materna in un magnifico letticino. Orfano infelice! che il domani doveva svegliarsi mendico.

CAPITOLO VIII IL MENDICO

Diciott'anni sono trascorsi da quella sera fatale in cui un prete nero nero come la befana avea traversato la piazza della Rotonda per commettere il nefando delitto che abbiamo narrato e noi ritornando sulla stessa piazza vediamo appoggiato ad una delle colonne del Panteon un mendico avvolto nel solito mantello foggiato a toga.

Non era questa volta una notte oscura di dicembre. Era un tramonto procelloso di febbraio.

Il mendico teneva avvolto intorno alla persona lo sdruscito mantello tanto da nascondere anche la parte inferiore del viso ma alle scarse sembianze che rimanevano svelate scoprivasi una di quelle fisonomie che vedute una volta ti restano impresse per tutta la vita.

Un naso Romano divideva due occhi azzurri che avrebbero abbarbagliato un leone: benché coperte il contorno delle spalle era mirabile e mostravano di appartenere a tale che non sarebbe stato facile insultare impunemente. L'attitudine, il contegno della persona apparivano imponenti, e lo scultore spesso dovette aver ricorso a quel mendico quando volle inspirarsi ad un atteggiamento eroico(13).

Un piccolo tocco sulla spalla scosse il mendico dalla sua immobilità contemplativa. Si volse e con piglio famigliare disse al sopravvenuto: "Sei qui fratello!" e sembrava veramente un fratello di Muzio quegli a cui egli dava quel nome. Egli era Attilio, l'amico nostro, il quale alle parole di Muzio soggiunse:

"Sei tu armato?".

"Armato?" rispose alquanto sdegnoso il mendico.

"Il mio ferro, tu lo sai, fu il mio solo retaggio, tutto il mio patrimonio! vuoi tu ch'io l'abbandoni, io che l'amo quanto tu poi amare la tua Clelia ed io... la mia?". Poi, levando in alto gli occhi dopo un istante di pausa con amaro piglio continuava: "Ma e che giova l'amore ad un mendico, ad un reietto della società umana? Chi crederà che palpiti qualche cosa sotto un petto coperto di cenci?".

"Eppure," soggiungeva Attilio, rispondendo alla digressione del mendico, "quella bella straniera, sono sicuro che ti ama, quanto è capace di amare una donna".

Muzio tacque e d'improvviso annuvolossi, il che Attilio scorgendo e dubitando si sollevasse qualche tempesta nell'animo contristato dell'amico lo prese dolcemente per mano e gli disse: "Vieni" e Muzio lo seguì senza proferire parola.

Intanto la notte scendendo, copriva col nero suo manto la città eterna. Per le vie silenziose, i passanti s'eran fatti più radi, l'ombre dei palagi e dei monumenti si confondevano colle tenebre e solo alcune pattuglie di stranieri rompevano il silenzio della notte col loro passo misurato e pesante.

Preti a quell'ora se ne incontravano pochi. Non s'incomodano, né si fidano: la tepida sala è preferibile alla squallida via, poi nella notte sono poco sicure le strade di Roma ed i preti, meno di chicchessia, amano di mettere la preziosa loro pelle in pericolo.

"La finiremo un giorno con questi mercenari che la fan da birri ai preti" diceva il mendico tornato in calma al suo compagno.

"Oh sì! la finiremo, e presto" rispondeva Attilio.

Così discorrendo ascendevano il Quirinale, oggidì Monte Cavallo, per le due famose statue equestri, capo-lavoro dell'arte greca che sulla piazza si ammirano.

Giunti a pié dei colossi si fermarono entrambi. Attilio tolto di tasca un acciarino ne trasse delle scintille; all'estremità della piazza lo stesso segnale si ripetè, e allora i due amici si avanzarono.

Prima di giungere all'ultimo limite della piazza un militare del picchetto di guardia al palazzo facevasi innanzi, stringeva la mano ad Attilio e conduceva i due verso una porticina laterale al portone d'entrata. Entrarono. Passato un angusto corridoio salirono una scaletta e si trovarono in una stanza apparentemente lasciata a disposizione del comandante la guardia.

Tutti gli arredi della stanza consistevano in un desco ed alcune sedie; sul desco varie bottiglie, parecchi bicchieri ed un lumicino ad olio. Quivi, dopo aver fatto sedere gli ospiti, ed essersi lui pure seduto, il militare ruppe il silenzio dicendo:

"Beviamo un bicchiere d'Orvieto, compagni, che val più d'una benedizione del Santo Padre, in questa notte d'inverno", e presentava così dicendo un calice del benefico liquore ai due amici.

"L'han dunque condotto qui Manlio?" chiese Attilio appena libato il primo sorso.

"Qui, siccome ti ho avvertito", riprese Dentato il sergente dei dragoni; "fu la scorsa notte verso le undici, e lo hanno rinchiuso in una segreta come fosse un gran delinquente. Dicono però che presto lo trasporteranno in castel S. Angelo, essendo queste prigioni soltanto di transito".

"E si sa per ordine di chi sia stato arrestato?" riprese Attilio.

"Eh! per ordine del favorito, del cardinale ministro; si dice e si aggiunge," continuò il militare, "che Sua Eminenza voglia stendere la mano potente non solo sul padre, ma anche sulla figlia, la perla di Trastevere".

Un movimento convulsivo di rabbia agitò Attilio alle ultime parole del sergente e:

"A che ora tenteremo di liberarlo?" chiese con visibile impazienza.

"Liberarlo! ma siamo in pochi per riuscire davvero", rispose Dentato.

"Fra un'ora sarà qui Silvio con dieci dei nostri; con tal rinforzo saremo sufficienti ad assalire tutta quella caterva di birri e di preti", soggiunse Attilio con accento d'uomo convinto.

Un istante di silenzio successe a queste ultime parole. Allora Dentato:

"Poiché hai deciso di tentare questa notte, dovremo aspettare almeno sino alle dodici. Allora direttori e custodi saranno in potere di Bacco e forse già addormentati. Il mio tenente poi ha trovata certa Lucrezia nelle vicinanze, la quale basterà per tenercelo discosto fin presso al mattino".

Le parole di Dentato furono tronche dall'entrare del dragone lasciato di guardia alla porta, il quale annunzio l'arrivo di Silvio co' suoi.

CAPITOLO IX LA LIBERAZIONE

Una delle cose ch'io notai come straordinaria in Roma fu il contegno e la bravura del soldato Romano. Quei soldati propriamente che si chiamano soldati del Papa e servono il più schifoso dei governi hanno conservato certo robusto piglio marziale e tanto valore individuale da far stupire davvero.

Alla difesa di Roma ho veduto gli artiglieri Romani combattere con tale coraggio da andarne superbo, ed ho pure veduto i pochi dragoni, allora esistenti, condursi valorosissimamente.

Nelle frequenti risse tra soldati romani e stranieri dopo caduta la città non v'è forse esempio di Romani sopraffatti, anche se gli avversari prevalevan di numero.

I preti lo sanno, e sanno pure che il coraggio disdegna essere guidato dalla viltà e sono certi che in caso d'insurrezione i soldati romani saranno col popolo; di qua il bisogno di mercenari, di qua le implorate invasioni straniere tutte le volte che il popolo accenna di avere perduta la pazienza.

Silvio fu accolto dalla brigata con amorevolezza. Anch'egli era uno di coloro che portavan nell'anima l'impronta del romano antico e su cui il compagno poteva fidare come sul proprio ferro.

"I nostri sono al loro posto. Li ho rimpiattati", disse Silvio, "tra le gambe dei cavalli di granito. Saranno pronti al primo cenno".

"Bene" rispose Attilio. Poi impaziente di farla finita, rivoltosi a Dentato: "il mio piano" soggiunse, "è questo: io andrò dal custode delle carceri con Muzio per le chiavi e tu guida Silvio co' suoi dieci per assicurarti dei birri collocati alla porta delle prigioni".

"E così sia" rispose Dentato; "Scipio (il dragone che annunziò Silvio) ti condurrà dal custode. Ma bada ch'hai a fare con un demonio. Quel signor Pancaldo è capace di metter le manette al Padre Eterno ed una volta che lo tiene non lo lascia andare nemmeno per la gloria del Paradiso. Bada ai fatti tuoi!".

"Lasciami fare" replicò Attilio, e senza perdere più tempo incamminossi con Muzio sui passi di Scipio che li precedeva.

Un'impresa di questo genere non presenta in Roma le difficoltà che presenterebbe in altro Stato ove il Governo è più rispettato ed i suoi agenti meno avviliti, ma qui ove il soldato non s'inspira all'amore di patria, al decoro nazionale, all'onore della bandiera, ma sa di servire un governo d'impostori, disprezzato e maledetto da tutti, qui, dico, tutto è possibile ed il giorno in cui lo straniero porrà davvero il piede fuori di Roma, quello stesso giorno il governo delle sottane sfumerà davanti al disprezzo dei cittadini e dei soldati romani.

Dentato condusse la brigata di Silvio verso il picchetto de' birri stanziati alla porta del carcere e ciò non era difficile essendo lui sergente di guardia ed avendo i dragoni la custodia esterna del palazzo. Era inteso che egli non doveva svelarsi, potendo giovare di più se l'affare si fosse andato ingrossando.

Silvio, avendo dal difuori adocchiato la sentinella, attese che nel suo uniforme va e vieni gli avesse rivolte le spalle e allora colla destrezza ed agilità con cui si avventava sul cignale della foresta le fu sopra in un baleno, colla sinistra l'agguantò al collo, colla destra le tolse il fucile ed assestandole un colpo di ginocchio nel fianco la rovesciò supina sul pavimento. I suoi compagni che l'avean seguito da vicino prima che il rumore delle grida e della caduta potesse sollevare in armi il picchetto gli furon sopra e con garbo ma senza cerimonie, mentre i birri fregavansi gli occhi, te li pigliarono tutti e incominciarono a legarli.

CAPITOLO X L'ORFANA

Quando Silvio colla disperazione nell'anima ebbe raccolto la povera Camilla nel Colosseo e la condusse verso la casa di Marcello non una parola fu articolata dai due durante il viaggio.

Silvio aveva un cuore d'angelo. Egli sapeva che la società tollera ogni specie d'impudicizia, colla sola condizione che le apparenze si salvino; ma che si mostra inesorabile contro l'errore di una fanciulla sia essa stata la vittima dell'insidia o della violenza. Egli sapeva che mercé questo pregiudizio passeggia a fronte alta il delitto, e vilipesa è l'innocenza tradita. In cuor suo protestava contro questa evidente ingiustizia. Egli che aveva tanto amato la sua Camilla e che la ritrovava ora sì infelice, poteva egli non impietosirsi alla sua sorte? Oh! anche in questa terribile notte egli avrebbe difeso la povera fanciulla contro un esercito!

Pieno di questi sensi gentili ei la sorreggeva poiché la sentiva stanca e lei si contentava di quando in quando di alzare uno sguardo timidamente supplichevole verso il suo protettore. Così camminavano verso la casa paterna che Silvio non aveva più riveduta dacché era stata deserta da Camilla, e camminavano silenziosi.

Un terribile presentimento invadea l'anima d'entrambi e l'ombra della notte copriva su quelle interessanti fisonomie un aspetto di mestizia, di disperazione, di dolore che s'andavano a seconda dei loro pensieri alternando.

Alla casa di Marcello giungevasi per un viottolo perpendicolare alla strada maestra, dalla quale distava circa un cinquecento passi. Entrati che furono nel viottolo (e già cominciava ad albeggiare) l'abbaiare d'un cane scosse Camilla dal suo letargo e sembrò infonderle nuova vita. È Fido! "Fido!" essa esclamò con una ilarità che da molti mesi erale sconosciuta, ma al tempo istesso come le avesse balenato un lampo nella mente, le si allacciò l'abbiettezza della sua presente condizione, si staccò dal braccio di Silvio, Io guardò e rimase sbalordita ed immobile come fosse una statua.

Silvio s'avvide di tutto - come leggesse nell'animo di lei e temendo di qualche ritorno alla pazzia s'avvicinò amorevolmente, e: "vieni Camilla" le disse "è il tuo Fido che ti ha udita, e ti ha forse riconosciuta". E non aveva infatti terminate ancora quelle parole quando il bracco apparve e indeciso prima, poi con una corsa furiosa si slanciò sulla sua padrona e saltellando, lambendo, urlando presentò una scena che avrebbe intenerito un animo di bronzo. Camilla inchinatasi automaticamente per corrispondere alle carezze dell'amoroso animale proruppe in un pianto dirottissimo.

La fatica e l'emozione avevano affranto quella buona ed infelice creatura. Adagiata sul terreno pareva incapace di rialzarsi; onde Silvio la coprì col suo mantello per preservarla dal freddo mattutino ed egli frattanto si avanzò in esplorazione.

L'abbaiare di Fido doveva avere svegliato chi si fosse trovato nella casa e veramente, appena Silvio vi fu giunto, scorse un giovinetto di circa dodici anni sulla soglia e conosciutolo lo chiamò per nome: "Marcellino!". Il giovinetto che sulle prime erasi insospettito di una visita sì mattutina, quando riconobbe la voce amica corse incontro a Silvio e teneramente gli si avvinghiò al collo.

"Ov'è tuo padrino?" chiese il cacciatore, dopo ricambiate le amorevoli accoglienze del fanciullo. Ma questi rimase muto. "Ov'è Marcello?" ripeteva l'altro ancora. Singhiozzando dolorosamente il giovinetto mormorava "Morto!".

Silvio commosso alla scoperta di tante sventure si lasciò cadere su di un gradino della soglia senza poter articolare parola e lui pure come la Camilla sentì bagnarsi il volto dalle lagrime.

"Oh! Dio giusto!" sclamava Silvio lagrimoso, "come puoi tu permettere che per contentare le disoneste voglie di un mostro tante e sì buone creature siano ridotte all'abbiezione ed alla morte!

"Se l'ora della vendetta non fosse vicina e se la speranza di presto immergere questo pugnale nel cuore dell'assassino non mi trattenesse, mi frugherei con esso le viscere per non vedere più oltre un solo giorno di umiliazione e di sciagura della povera patria mia!".

Intanto l'infelice Camilla all'alito soave dell'aria nativa, spossata com'era dalla fatica della mente e del corpo, dallo stupore e dal letargo, era passata ad un sonno provvidenziale e riparatore.

Quando Silvio e Marcellino giunsero accanto a lei s'accorsero che dormiva, onde Silvio vietò la si destasse, dicendo: "A che svegliarla alla sventura! Essa avrà tempo abbastanza per piangere e trascinare una vita di dolore e di pentimento".

CAPITOLO XI IL RICOVERO

Noi vedemmo Attilio, Silvio e Manlio, dopo che quest'ultimo fu liberato, incamminarsi per la campagna e dirigersi per l'appunto verso la dimora di Marcello, ora occupata da Camilla e dal giovine Marcellino.

Essi camminavano silenziosi, ciascuno sotto la grave soma de' suoi pensieri. Manlio contento d'esser libero, comunque fosse, (poiché è preferibile essere morti al trovarsi nelle prigioni dei preti sotto l'imputazione di delitto politico), volava col pensiero verso la sua Silvia e la sua Clelia che erano l'Eden della sua esistenza. Silvio, il quale aveva proposto la casa di Marcello come primo ricovero per Manlio, pensava alla necessità di trovarne un altro più recondito e più sicuro, forse anche alle macchie Pontine in quella stagione non pericolose; Attilio riandava nella sua mente la visita di Gianni a Manlio, il suo ritorno in casa Procopio, le parole di Dentato sulla vociferata ragione dell'arresto del suo amico ordinato dallo stesso Cardinale e ravvicinando i fatti e combinando le osservazioni sentivasi costretto a concludere che veramente una trama fosse stata ordita dal Cardinale contro l'amata sua Clelia.

Dopo avere alquanto esitato decise di far parte de' suoi sospetti a Manlio e tutto per filo e per segno gli raccontò. Manlio sentì pur troppo di dover convenire nelle opinioni di Attilio e turbato da quel sospetto, disse:

"Ma per Dio! io non voglio allontanarmi dalla mia famiglia quando essa può trovarsi in pericolo di ricevere insulti da quella canaglia!". Attilio lo tranquillò dicendogli:

"Subito giunti in casa Marcello, io stesso passerò da casa vostra, avviserò le donne d'ogni cosa e vi assicuro che prima d'essere insultati, Roma vedrà delle novità!".

Attilio benché giovane erasi acquistata la simpatia e il rispetto di tutti, anche degli uomini maturi i quali si acconciavano facilmente ai suoi consigli, laonde Manlio che lo amava come figlio piegò senza molta resistenza al parere di lui.

L'alba cominciava a rischiarare il cielo, quando giunsero al viottolo che faceva capo alla casa Marcello. Fido si fece innanzi, minaccioso prima, poi lieto alla vista di Silvio e quando furono sul limitare dell'uscio apparve pure Marcellino a cui Silvio chiese dove fosse Camilla.

"Camilla!" rispose il giovane "se venite meco v'indicherò dove si trova". E guidandoli verso un'eminenza ove Io seguirono tutti, Marcellino additò loro un non lontano santuario, accanto al quale scorgevasi il recinto d'un Cimitero e disse: "Là all'alba ed al tramonto, voi potrete trovare Camilla e là essa si trova ora".

Silvio senza far motto ai compagni i quali continuavano a seguirlo, s'avviava al luogo indicato, ove Camilla, vestita a lutto, stava inginocchiata accanto ad un modesto tumulo di terra smossa di recente, così assorta che non si accorse dell'avvicinarsi di gente. Silvio la contemplava impietosito, e non osava disturbarla, sicché quando parve che la poverella avesse terminata la sua preghiera fu udita esclamare: "Ah! fui io sola la causa della morte del mio povero padre!". Ciò dicendo si levò e scorse Silvio ed i compagni alla qual vista non si turbò né alterossi ma sorrise d'un sorriso angelico al suo antico amante e s'avviò verso la casa insieme alla comitiva.

La pazzia di Camilla avea cessato d'essere furiosa. Dal momento in cui condotta da Silvio ritornò all'alloggio paterno s'era cambiata in una monomania melanconica che le lasciava le apparenze di una perfetta tranquillità. Ma il male quantunque mutato durava tuttora e la poverina non avea ricuperata la sua ragione.

"Ove ti domandassero chi è il signore che oggi viene ad abitare con voi, tu dirai ch'è un antiquario che studia le ruine della campagna Romana".

Questa era l'ammonizione che Silvio credette prudente di fare a Marcellino nel caso in cui Manlio dovesse rimanere alcuni giorni con loro.

Attilio dopo breve consulta con Manlio e Silvio sul piano ulteriore della fuga, lasciò subito quella casa e s'avviò solo verso Roma dove lo chiamava il suo cuore e l'adempimento della promessa che aveva fatta a Manlio.

CAPITOLO XII LA SUPPLICA

Eran passati due giorni dall'arresto di Manlio e ancora non se ne sapevano notizie. Le donne sue erano alla disperazione.

"E che sarà del tuo buon padre?" diceva Silvia piangendo alla figlia. "Egli non s'è mischiato mai in affari compromettenti, che era liberale sì e odiava i preti com'essi meritano d'esserlo, ma non esprimeva le sue opinioni che con noi e coi nostri intimi; come ha potuto destare sospetti nella polizia?".

Clelia non piangeva ed il suo dolore per la disparizione del padre, più concentrato, era più forte di quello della madre. Anzi trovava la forza di confortarla e: "Non piangete" le diceva, "il pianto a nulla rimedia. Bisogna sapere ove hanno condotto mio padre e, come dice monna Aurelia, cercare di liberarlo ricorrendo ove sia di mestieri(14). Poi Attilio è in cerca di lui e certo, egli non poserà finché non sappia che cosa ne sia avvenuto".

Le due donne così ragionando cercavano di confortarsi, quando il battente della porta annunziò una visita. Clelia corse ad aprire ed introdusse monna Aurelia, una buona vicina ed amica della famiglia.

"Buon giorno monna Silvia".

"Buon giorno", rispondeva l'addolorata asciugandosi gli occhi col fazzoletto. "Ecco qui" diceva Aurelia, "il nostro amico Cassio, cui ho parlato dell'affare, ha scritta questa supplica in carta bollata per chiedere al Cardinale-Ministro la liberazione di Manlio. Egli mi disse che voi dovete sottoscriverla e per maggiore sicurezza presentarla voi stessa all'Eminenza".

Silvia impicciata per la prima volta in queste faccende ripugnava d'andarsi a gettare ai piedi d'uno di quei demoni ch'essa aveva imparato ad odiare sino dall'infanzia. Ma come si fa? Trattavasi di uno sposo adorato, imprigionato, forse alla tortura. E quest'idea metteva un raccapriccio di morte in cuore alla povera donna.

Poi Aurelia consigliava ci andassero tutte due ed offrivasi di accompagnare le amiche al Palazzo Corsini;

"Andremo dunque" diceva Silvia finalmente risoluta. In mezz'ora eran le donne pronte, ed incamminate verso l'eccelsa dimora del delitto.

Eran le nove del mattino quando S. Eminenza il cardinale Procopio, ministro di Stato, fu avvisato dal Questore del Quirinale della fuga di Manlio e del modo violento con cui era stato sottratto. La furia del prelato fu somma. Immediatamente ordinò si arrestassero quanti birbanti attendevano alla custodia del Quirinale e delle sue prigioni e direttori, custodi, ufficiali di guardia, dragoni, birri, tutto quanto si trovava nel palazzo era posto in arresto per ordine perentorio dello sdegnato ministro. Poi, dopo aver provveduto a questo primo sfogo, fece chiamare Gianni alla sua presenza.

"E come diavolo" gridò apostrofando il Gianni appena fu entrato "non hanno rinchiuso quel maledetto scultore in Castel S. Angelo ove egli sarebbe stato al sicuro? Perché l'hanno condotto al Quirinale ove quella canaglia di custodi se l'hanno lasciato fuggire?".

"Eminenza!" rispondeva Gianni "quando si tratta di qualche affare importante come questo, l'E. V. lo affidi a me e non a quella ciurmaglia di birri, che V. E. sa cosa sono e quanto valgono. Robaccia vile" aggiungeva il Gianni coll'onesto intento di sollevare sé stesso deprimendo altrui "gentaglia che si lascia egualmente impaurire e corrompere...".

"Cosa mi vieni questa mattina ad annoiare co' tuoi sermoni, ribaldo!" interruppe l'Eminenza "come se io avessi bisogno de' consigli tuoi! Tuo dovere è di servirmi sempre senza far parole. Fruga ora nella tua testa di rapa per cercar modo di condurmi qui quella ragazza, se no, per Dio, i sotterranei del palazzo udranno risuonare presto lo schifoso tuo falsetto sotto la stretta della corda o il pizzicare della tenaglia".

Sapeva ognuno, e quant'altri sapevalo Gianni, che queste non erano vane minaccie e se il mondo crede l'èra della tortura finita, in quel pandemonio della Città santa essa esiste in tutta la sua pienezza.

E Gianni sapeva che i sotterranei delle chiese, de' conventi, dei palazzi e le catacombe nascondono delitti e patimenti tali da far inorridire gli assassini medesimi.

A capo chino, il miserabile eunuco (tale egli era, giacché simili ai Turchi quei perversi non confidano le loro donne che a castrati, mutilati dall'infanzia, col pretesto di farne dei cantanti) aspettava la sua sentenza senza fiatare.

"Alza quegli occhi di volpe" disse vedendolo intontito il porporato "e guardami in faccia". E quegli tremante fissava gli occhi sul volto infiammato del suo padrone. "Non saresti dunque capace, birbante, dopo avermi fatto spendere tanto denaro, sotto un pretesto o l'altro di portarmi qui la Clelia?".

"Sì signore" era la risposta di quel manigoldo il quale voleva uscire prima di tutto dalla vista del cardinale e pel resto si affidava alla sua buona stella.

In quel momento, con gran soddisfazione di Gianni che intravide una nuova occasione per essere licenziato, il campanello annunziava una visita ed un servitore in livrea fattosi avanti:

"Eminenza! - diceva - tre donne, con una supplica chiedono di potersi presentare all'E. V."

"Entrino" fu la risposta di Procopio, ma a Gianni non fece motto.

CAPITOLO XIII LA BELLA STRANIERA

Noi già dicemo che Roma è la terra classica delle belle arti. Là sono ammonticchiate le ruine del mondo antico coi loro templi, colonne, obelischi, statue, avanzi dell'arte Greca e Romana, capolavori dei Prassiteli, dei Fidia, dei Raffaelli, dei Michelangeli! Là sorgono ad ogni passo fontane, ove nuotano colossi marini, ruine le cui macerie vedute da lontano sembrano montagne all'attonito viaggiatore, colonne di venti secoli lanciate nelle nubi, ove sul bronzo sono scolpite le mille battaglie del popolo gigante; infine meraviglie d'ogni specie che il ricco straniero visita con ammirazione e copia per portare nelle sue terre, ai suoi amici, un simulacro della maggiore delle grandezze umane.

I preti hanno tentato deturpare quell'opera stupenda di venticinque secoli con delle mitre e delle Vie Crucis(15) ma non ci riuscirono. Il bello, il grande, il sublime ancor più sublime comparisce in mezzo alle loro miserie!

Giulia, la bellissima figlia d'Albione, abitava Roma da più anni. Progenie di popolo libero, disprezzava tutto quanto apparteneva alla famiglia dei chiercuti. Ma Roma! La Roma del genio e delle leggende, la patria dei Fabi e dei Cincinnati, l'emporio delle meraviglie umane, era per Giulia un incantesimo. Conosceva ogni cosa bella di Roma. Aveva impiegato ogni giorno, ogni minuto a visitarla. Esimia cultrice delle belle arti sapeva apprezzare i capolavori e il suo compito quotidiano era copiarli.

Fra i grandi maestri essa s'era fatta un idolo del Buonarroti e seguiva la sua scuola mista d'ogni studio artistico e gentile.

Davanti alla stupenda colossale figura del Mosè(16) passava ore intere in contemplazione. La impronta di grandezza su quella fronte e l'atteggiamento maestoso le sembravano inimitabili e sovrumani.

In Roma ella avea scelto il suo domicilio, in Roma avea trovato il pascolo necessario al sommo suo genio, all'immenso amor suo del bello. In Roma avea deciso di vivere e morire, perché non avrebbe potuto strapparsi per un giorno solo a tutti quegli oggetti della sua idolatria.

Giovane, ricca, nata e cresciuta nella bella e lieta Inghilterra, come poteva Giulia separarsene per sempre e per sempre abbandonare amici e congiunti che tanto l'amavano? Che volete! Essa aveva trovato il suo Eden tra le macerie e sotto la toga cenciosa del nostro mendico aveva scoperto colla sua immaginazione esaltata il tipo della fiera razza degli antichi Quiriti.

Nello studio di Manlio ov'ella si recava sovente, s'era incontrata con Muzio, il quale posava davanti alla creta del maestro.

Che importava a Giulia la bassa condizione di lui! Non v'era forse su quella fronte l'impronta che cerchereste per eleggervi un capo, un protettore, un amico? In quel portamento v'era tutta la maestà ch'essa tanto ammirava nel suo idolo di marmo.

Infine, mendico o non mendico, Giulia amò Muzio dal primo istante in cui lo vide. Era povero? E che importava a Giulia? Se la povertà è un marchio d'infamia per il volgo del tanto per cento, così non è per il genio. Ma infine i ricchi sono essi la miglior pasta dell'umana famiglia? Dalla stessa storia del nostro povero Muzio sembrerebbe di no.

E Muzio amava Giulia? Muzio avrebbe dato l'universo per essa, ma giammai egli avrebbe ardito di manifestarle l'affetto suo.

Una sera due soldati stranieri avvinazzati assalirono la nostra gentile inglese nella Lungara quando soletta tornavasene dallo studio di Manlio ed a forza volevano trascinarla con loro. Quello fu il più bel momento della vita di Muzio che aveva seguito da lontano la bella straniera; egli ferì ed atterrò l'uno: l'altro si diede alla fuga. Da quella sera il suo pugnale gli era diventato sacro e Giulia da quella sera non fu più insultata per la via.

Il giorno stesso nel quale le donne di Manlio avevano stabilito di recarsi al palazzo Corsini, Giulia ascendeva il Gianicolo per fare una visita allo studio di lui. Da un giovine allievo sapeva la dolorosa storia del maestro, seppe della gita delle donne ma non potè sapere quale fosse il vero motivo della disgrazia.

Mentre stava meditabonda e perplessa sullo strano caso, capitava Attilio e da lui uditi i particolari della faccenda non dubitò un momento che l'intrigo disonesto non fosse opera del porporato.

"Bene!" disse ad Attilio la giovane straniera, "da quanto odo le donne uscirono per chiedere in grazia la liberazione di Manlio. Non c'è un istante da perdere. Io ho accesso al palazzo Corsini, spero prima di notte potervi informare d'ogni cosa". Così parlando, e senza meglio chiarire i suoi disegni, accomiatossi.

Il nostro Attilio stanco dai disagi e dalle fatiche della notte, disperato di non trovare in casa la sua Clelia, sedette per interrogare con più agio il giovane Spartaco su cosa per lui di tanto interesse.

CAPITOLO XIV SICCIO

Tornando ancora al 1849 ed alla scena fatale in cui il nostro povero Muzio all'età di due anni fu derubato del suo patrimonio a beneficio della Compagnia di S. Vincenzo di Paola, ricordiamo ancora che un servo di casa, Siccio, aveva introdotto quel furfante di Don Ignazio con tale piglio che abbiamo creduto necessario doverlo notare.

Siccio era il più antico dei famigliari di casa Pompeo; in quella casa era nato, era stato beneficato in varie circostanze da' suoi buoni padroni ed amava l'orfano Muzio con affetto di padre.

Buon uomo ma non molto astuto diffidò tuttavia delle mene del paolotto e della sua complice, ma in Roma, al curatore delle anime, al medico spirituale, al confessore della padrona di casa, chi ardirebbe fare uno sfregio?

Ai preti importa troppo la confessione, e per ciò sanno circondarla di particolare prestigio.

La confessione! quell'arma terribile del pretismo, elemento primo delle sue seduzioni, veicolo per cui esso giunge al conoscimento d'ogni cosa, spionaggio infernale ch'egli esercita massime sul sesso debole per il quale egli può signoreggiare ancora, benché disprezzato e maledetto, la maggior parte del sesso più forte!

Il povero Siccio, per l'amore che portava al bambino ed alla casa, fu il primo congedato quando la caterva dei paolotti penetrò nel Santuario domestico per impadronirsi d'ogni cosa.

"E il ragazzo?" dimandava Suor Flavia ad Ignazio.

"Il ragazzo - rispondeva costui. - Non abbiamo noi l'orfanotrofio? Egli là sarà al sicuro dagli sviamenti di questo secolo perverso e dall'eretiche dottrine che oggi dominano il mondo. Poi là noi lo terremo sempre d'occhio, Suora!". E lì nuovo ricambio d'uno di quegli sguardi, cui si preferirebbe una pugnalata.

Fu ventura per Muzio che la ricchezza della preda avesse abbarbagliato i ladri a tal che, dopo quella conversazione del prete colla strega sul conto suo, non ne fecero più caso ed egli rimase in un canto dimenticato come uno straccio, piangendo dalla fame e dal freddo.

Siccio, l'onesto Siccio, non lo dimenticò. Pratico della casa profittò della confusione dei depredatori, e col pretesto di andare per la roba sua menò seco Muzio in una stanza recondita di Roma ove egli aveva preso dimora.

Gioverà sapere che il padre di Muzio era stato antiquario, e che nelle sue peregrinazioni fra i monumenti e le ruine aveva l'abitudine di condur seco Siccio.

Egli dunque nelle escursioni col suo padrone erasi fatto pratico alquanto delie meraviglie di Roma e ciò gli valse per professare il ciceronismo nel presente suo stato di bisogno poiché, col carico del giovine, egli non avrebbe potuto più oltre stare a padrone.

Come cicerone(17) egli poteva vivere miseramente sì, ma indipendente ed il profitto della sua industria serviva al mantenimento proprio e del suo protetto ch'egli amava ogni giorno di più vedendolo crescere vispo, robusto e bello come un Adone. Egli non tornava mai a casa senza portare al suo caro qualche cosa che sapeva gradirgli, e certo egli si sarebbe privato del bisognevole, piuttosto che lasciarne mancante il suo giovane amico.

Così durò vari anni, ma Siccio diventava vecchio, alcuni malanni dell'età lo impedivano sovente di recarsi alle consuete occupazioni, e pur troppo, dal ciceronismo alla mendicità v'è un passo solo. Accattare era doloroso per l'anima onesta di Siccio, ma bisognava pur mangiare e bisognava mantenere il suo protetto.

All'età di quindici anni Muzio era un tipo di perfezione, Gli artisti di Roma che lo videro s'invaghirono delle sue forme e lo richiesero di stare a modello per loro.

Ciò sollevò alquanto la miseria dei nostri poveri congiunti, ma Muzio che aveva imparato la sua storia e conosciuta la propria condizione da Siccio, ripensando alla trama scellerata con cui egli era stato ridotto alla presente poverissima condizione, sdegnava di posare davanti a persone che spesso non conosceva. Avendo sovente seguito Siccio nelle sue escursioni ciceronesche, poteva ei pure condurre un forestiere al campo Vaccino o nel tempio di S. Pietro, e preferiva questa professione. Né Muzio repugnava anche dai lavori manuali, anzi spesso era occupato negli studi degli scultori a muovere massi di marmo; e quando ve n'erano degli enormemente grossi che a mala pena tre uomini potevano levare, Muzio a 18 anni li maneggiava quasi scherzando.

Ma intanto niuno lo aveva mai veduto stendere la mano, ragione per cui gli altri mendichi lo chiamavano con sarcasmo: il signor mendico.

Un giorno una donna velata, entrò nella stanzuccia di Siccio e pose sulla tavola una borsa piena di monete d'oro, dicendo con voce austera al vecchio: "Questo denaro servirà a migliorare la condizione vostra e quella di Muzio. Voi non mi conoscete ma quand'anche giungeste a conoscermi non dite mai al vostro compagno da che parte vi sia venuta questa piccola fortuna" e senza aspettare risposta, disparve.

CAPITOLO XV IL PALAZZO CORSINI

"M'è proprio cascato il cacio sui maccheroni" diceva tra sé, stropicciandosi le mani, il dissoluto prelato alla vista delle tre donne, "e la provvidenza (badate provvidenza di quell'infame!) mi serve meglio stavolta che tutti i birbanti che mi attorniano".

Così pensando ei gettava occhiate di coccodrillo sulla bellissima fanciulla, che così ardentemente egli aveva desiderato contaminare,

"Venga la supplica" ei disse: come se da quella egli dovesse conoscere con chi aveva a che fare e di che si trattava, mentre alla prima occhiata aveva riconosciuto le sue interlocutrici.

"Venga dunque la supplica", tornò a dire il mezzano, vedendo le donne silenziose e sbigottite. Aurelia, che la pretendeva da più delle compagne, si fece innanzi e gliela porse.

Con apparente attenzione il Cardinale parve intento alla lettura, quindi ripiegato il foglio sclamò: "Ah siete voi signora!" e il furfante si dirigeva ad Aurelia, come se le altre due non le avesse conosciute, "siete voi la moglie di quel Manlio che si permette tener nascosti in casa i nemici dello Stato e di sua Santità?". Queste parole furono profferite con tale aria di severità e di comando che ti pareva udire un magistrato che desse delle ammonizioni ad un delinquente che non abbia scusa.

"Non è dessa la moglie di Manlio, - s'affrettò a dire Silvia, - sono io! Essa venne solo per accompagnarci e testimoniare all'E. V. ch'ella sin da fanciulla conosce la nostra famiglia e può giurare non esserci noi frammischiati mai in cose politiche. Donna Aurelia può dirlo - continuava incalorendosi la povera Silvia, - ella può dire se mio marito non è un uomo d'una onestà a tutta prova".

"D'un'onestà a tutta prova - ripeteva fingendosi corrucciato il malandrino. - E se siete onesti, perché albergate eretici e nemici dello Stato? e l'onesto Manlio, perché fugge violentemente di prigione adoperando mezzi imperdonabilmente colpevoli?".

Un momento di silenzio seguì quelle parole e Clelia la quale più d'ogni altro conservava il suo sangue freddo pensò subito: "Fuggito! dunque non è più nelle unghie di questi demonii!" ed un lampo di contentezza sfavillò sulla bella fronte della fanciulla che mormorò: "Fuggito!".

"Sì fuggito - ripeteva il chercuto indovinando l'effetto prodotto da quella parola sull'animo di Clelia, - però badate, niuno può fuggire dalla spada della giustizia! e Manlio cadrà sotto la doppia colpa d'essere stato il ricettatore dei nemici di S. Santità e di avere con criminosa violenza forzato l'inviolabilità delle carceri pontificie".

Alla povera Silvia le altosonanti parole del porporato fecero l'effetto della folgore. Impallidì, stese le braccia verso la sua Clelia, quindi sentendosi stringere il cuore cadde svenuta.

Procopio, agguerrito a questi colpi di scena, non si scosse, anzi ne profittò, chiamò i domestici, ordinò che le donne fossero condotte in altra stanza e si cercasse con ogni cura di richiamare in sé la svenuta.

"Oh! voi non uscirete di qui senza avermi pagato un prezioso tributo", pensò tra sé il lussurioso Cardinale tornandosi a stropicciare le mani. Chiamò a sé il Gianni, il quale non s'era allontanato di molto, prevedendo che il suo padrone poteva abbisognare dell'opera sua.

"Ebbene, vedete un po' signor Gianni" (e Gianni sapeva ciò che richiedeva da lui il porporato quando chiamavalo signore).

"Vedete, - dicevagli con aria giuliva, - se la provvidenza non ci favorisce meglio che noi sappiate far voi colla vostra abilità!"

"Io l'ho sempre detto che l'E. V. è nata sotto una buona stella, è destinata ad esser felice" rispondeva l'eunuco inchinandosi e strisciando come un rettile.

"Dunque, ora che la Provvidenza (e dalli colla Provvidenza malmenata da quella bocca sacrilega) ci ha favorito tocca a te il resto. Bada che quelle donne sieno trattate con ogni riguardo. Esse furono or ora condotte negli appartamenti posteriori del palazzo, di là, col pretesto di chiamarle ad interrogatorio presso Monsignor Ignazio (il lettore conosce già il buon soggetto), fate che sieno divise. Quando poi sieno tornate in calma e sciolte da ogni sospetto io avrà bisogno di trattenermi da solo a sola colla Clelia.

Siamo intesi, eh!".

E dopo essersi passata la mano sul mento con compiacenza, il Cardinale accennando col dito faceva segno a Gianni di andare. Quindi, senza far parola, con un profondo inchino si allontanava l'eunuco accompagnato dallo sguardo semi-austero semi-sorridente del suo padrone. Non appena uscito il Gianni, un domestico annunciò la signorina inglese.

"Ma avanti! avanti!" diceva il Prelato e tra sé: "Ma proprio dal cielo mi cade la manna quest'oggi". E passava e ripassava la mano sul liscio mento dove fra le macchie di cui avevanlo chiazzato la lussuria e la depravazione, si scorgeva la pallida e giallognola cute del camaleonte.

"Avanti, signorina!" tornò a gridare il Cardinale quando l'uscio s'aperse e fece alcuni passi per prender la mano dell'altiera e bellissima artista.

"Che fortuna è la mia di possedervi un istante sotto questo tetto, in questa stanza istessa che fu abbellita una volta dalla vostra presenza e mi sembra deserta da che la vostra preziosa persona l'ha abbandonata".

"Quanta galanteria sfoggia questa serpe" pensò fra sé la nostra Giulia, mentre che ascoltava il grandiloquente sermone del cicisbeo, e sedutasi, con poche cerimonie, rispondeva "Gentile e graziosa è l'E. V. e io le ne sono grata. Una volta io veniva qui più spesso per copiare i capi d'opera di cui va adorno questo palazzo, ma già da alcun tempo ho terminate le mie copie ed oggimai qui non saprei quello che dovrei venirci a fare".

"Non ci sapreste più che fare?! oh! questa poi è una dichiarazione poco galante da parte vostra, signora Giulia! qui come ovunque voi avrete un culto, bellissima fanciulla!". Biascicando queste e simili frasi melate, Don Procopio cercava di avvicinare frattanto la sua poltrona a quella di lei ma ella ritirava la propria d'altrettanto dimodoché le due poltrone avevano l'aria di onde agitate che si perseguono sempre, e non si raggiungono mai.

Stanco di perseguitare la giovine straniera a corso di poltrona, il prelato si alzò e risolutamente mosse verso di lei. "Ma sedete, od io parto!" esclamò Giulia alzandosi e mettendo la poltrona tra lei e l'indecente Cardinale mentre gli figgeva due occhi in volto che lo atterrarono. Il prete si lasciava andare sulla seggiola come colpito dal fulmine e Giulia sedutasi pure cominciò:

"La mia visita non è senza grave motivo, già lo sapete che per vedervi non ci verrei. Io son qui a chiedervi notizie d'una famiglia che m'interessa: della famiglia dello scultore Manlio".

"Fu qui è vero, ma se n'è andata" rispose Procopio, rinvenuto dal primo stupore.

"È molto tempo che se n'è andata?" chiese Giulia, con accento da cui trapelava la sua incredulità.

"Sono pochi momenti che le donne lasciarono queste stanze" fu la risposta di Don Procopio.

"Saranno dunque a quest'ora fuori del palazzo", ripigliava la straniera. Ed il prete: "lo saranno", rispose colla certezza di mentire.

Giulia con un gesto d'incredulità troncava il dialogo e maestosamente ripigliava la sua via, appena salutando con un cenno del capo l'eminente canaglia.

Ha pure i suoi vizi i suoi difetti la razza britannica. E cosa v'è di perfetto nell'umana famiglia? Ma se v'è popolo ch'io mi compiaccia a paragonare ai nostri antichi padri di Roma, è certamente l'inglese.

Egoista e conquistatore come quelli, la sua storia rigurgita di delitti; delitti commessi nel suo seno e nel seno delle altre nazioni.

Molti sono i popoli che egli ravvolse e ravvolge nelle sue spire di ferro per contentare l'insaziabile sua sete d'oro e di predominio. Pur non si può negare che egli non abbia immensamente contribuito al progresso umano e gettato la base di quella dignità individuale che presenta l'uomo diritto, inflessibile, maestoso, davanti alle esigenze dispotiche che padroneggiano l'uman genere.

A forza di costanza e di coraggio egli ha saputo conciliare l'ordine governativo colle libertà adeguate ad un popolo padrone di sé stesso. L'isola sua divenne il santuario e l'asilo inviolabile di tutte le sventure, il despota, come il proscritto dal despota, vivono insieme su quella terra ospitale, colla sola condizione di essere uomini.

Egli ha proclamato l'emancipazione dei negri oggi felicemente conseguita dalla lotta gigantesca della sua stessa razza sul nuovo continente; a lui infine deve l'Italia in parte la propria ricostituzione, grazie alla maschia sua voce di non intervento da lui fatta risuonare nello stretto di Messina nel 1860.

Alla Francia come all'Inghilterra molto deve l'Italia. Alla Francia molto deve l'umanità per la propaganda de' principi filosofici, per l'affermazione dei diritti dell'uomo. Alla Francia si deve l'annientamento della schiavitù barbaresca nel Mediterraneo. La Francia seppe mettersi alla testa della civiltà umana ma non lo è più. Oggi strisciando davanti al simulacro d'una grandezza fittizia essa distrugge l'opera grandiosa del suo passato.

Un giorno la Francia proclamava e propagava la libertà nel mondo, oggi è dessa che cerca distruggerla dovunque.

La Dea ragione, quel parto straordinario dell'intelligenza emancipata, essa oggi la rinnega ed i suoi soldati fanno il gendarme al Sacerdote dell'oscurantismo.

Speriamo per il bene dell'umanità veder presto le due grandi Nazioni rimettersi insieme all'avanguardia dell'umano progresso.

CAPITOLO XVI LA TRIADE

Nella meschina stanzaccia di Siccio quella stessa sera stavan raccolti tre individui che avrebbero fatto l'ammirazione di colui "che nuovo Olimpo alzò in Roma a' Celesti" e di qualunque dei grandi Maestri del bello.

Eppure non è egli mero caso il nascer bello? e non ho conosciuto io molta gente con cuore d'angiolo e pur deformi di corpo? Che volete? è così; l'uomo per irresistibile istinto è portato al bello, forse più dell'uomo la donna.

Le belle forme della persona ispirano istintivamente maggiore fiducia. Piace d'aver il padre bello, la madre ed i figli, d'aver un capo le cui fattezze sieno quelle dell'Achille, non del Tersite(18).

La bellezza del capitano, suscita più entusiasmo nei militi, più timor nei nemici. Infine, comunque sia, è una gran fortuna il nascer belli, ed in questo, come in tante altre cose, non si capisce perché l'Onnipotente sia stato prodigo con gli uni, avaro con gli altri, si direbbe quasi capriccioso.

Quante mortificazioni un povero diavolo deve soffrire se ha la disgrazia di essere deforme! Che smorfie! che sogghigni da ogni parte! Non beato dal sorriso delle belle (e meno ancora delle brutte, le quali, o mancano dell'istinto di compassione o temono, mostrandosi generose, d'essere sospettate richiedere per se stesse il ricambio affermando la propria deformità) gli si fa sentire la pietà a traverso un'umiliante protezione e quando non s'aggiunge qualche satira o beffa di begli spiriti è una fortuna per il poveretto.

L'oro solo mitiga alquanto le deformità del corpo.

Intanto con aria di trionfo, e contento di sé, passeggia da dominatore nella folla, colui che senza merito proprio ebbe dalla natura forme prestanti e forse bello spirito.

Sarà calcolo, sarà sorte, sarà capriccio di chi poteva far meglio?

Giulia, che Attilio e Muzio avevano aspettata per aver notizie della famiglia di Manlio cominciò: "Sì! esse sono in casa Corsini; quell'indecente Procopio lo ha negato ma voi sapete in quella tana di vizi quanto sia facile di coprire ogni cosa coll'oro".

Attilio si alzò, fece un moto d'impazienza come volesse partire, passò la mano sulla fronte, poi come pentito di quella manifestazione tornò a sedere.

Giulia che lesse nell'atto d'impazienza del giovane qual vulcano bolliva in quell'anima ripigliò:

"Attilio! vi bisogna più che mai conservare il vostro sangue freddo. Vi sarà necessario per liberare la vostra fidanzata dagli artigli di quell'avvoltoio. Ora è troppo presto. Voi dovete aspettare almeno sin dopo le dieci per tentarlo".

"Sicuro - aggiunse Muzio - e frattanto io andrò ad avvisare Silvio che si trovi pronto coi compagni nelle vicinanze del palazzo. Non ti muovere sinché io non sia di ritorno".

Noi sappiamo quanto il povero Muzio amasse la bella straniera, pure un'ombra di sospetto, di gelosia, non annuvolò la sua fronte al lasciarla così sola in compagnia dell'avvenente suo amico. E Giulia, sola col più bel giovine di Roma e sì giovane e bellissima lei stessa, non correva pericoli? No! l'amore di Giulia per il suo Muzio, era di pura e forte tempra, amore che non s'altera, che non muore, che non cambia per cambiar d'età o di fortuna. E poi Muzio era infelice e questa qualità assai più caro lo rendea alla generosa.

CAPITOLO XVII LA GIUSTIZIA

Giustizia! santa parola, prostituita, derisa dai potenti della terra! Cristo era inchiodato sulla croce per mano della giustizia, Galileo dalla giustizia posto alla tortura. E non sono la giustizia, l'ordine, le leggi, che governano questa babilonia che si chiama Europa civile?

L'Europa! ove chi fatica muore dalla fame e gli oziosi nuotano nell'abbondanza e nella lussuria, ove poche famiglie signoreggiano le Nazioni e le mantengono in un perpetuo stato di guerra colle altisonanti parole di patriottismo, lealtà, onore della bandiera, gloria militare, ove una metà del popolo è schiava e l'altra metà fa giustizia, bastonando gli schiavi quando hanno l'ardire di lamentarsi!...

Sovente un po' di "giustizia-pugnale" o "giustizia-carabina" rompono la monotonia delle giustizie legali, ed allora si grida all'assassinio. Orsini(19) assassino è decapitato, e Bonaparte che assassinò nessuno a Parigi, a Roma, al Messico, è un magnanimo! e che so io!

Qui però si prepara giustizia, vera giustizia, sia essa fatta col pugnale o col cannone, mentre là in quella tana di iene sollazzano, banchettano i depredatori delle sostanze del povero, i depravatori di una nazione di venticinque milioni.

Là nel Palazzo Corsini stanno Procopio ed Ignazio che noi conosciamo e di cui conosciamo i delitti, e qui fuori, pronto a fare giustizia degli scellerati stanno Attilio, Muzio, Silvio e venti compagni dei nostri trecento.

Questi superbi figli di Roma hanno capito e sentono che per Io schiavo non v'è pericolo, non v'è impresa difficile quando si consideri la vita quale l'hanno resa i tiranni: un disprezzevole arnese.

L'anima di questi prodi è tranquilla come alla vigilia d'una festa, il loro cuore batte, ma di speranza, ma di desiderio che venga presto l'ora di menar le mani e l'ora non è lontana! Essi passeggiano per la Longara aspettando le dieci, ma non passeggiano insieme perché il governo dei preti vieta le riunioni.

"Saranno riuniti all'opera!".

Nel palazzo la triade de' perversi col pretesto dell'interrogatorio aveva separate le donne e lasciata sola la Clelia. Questa, prevedendo inganni, traeva dalla capigliatura un pugnaletto che si usa portare dalle donne romane e dopo d'averlo considerato ed assaggiatane la punta, lo nascose alla cintura sotto le pieghe del vestito. Clelia era degna di coloro che anelavano alla sua liberazione.

Dopo le nove il prelato, adornata la persona nel modo ch'egli credeva più ricco ed attraente, si accinse all'assalto della fortezza (così chiamava lui le sue seduzioni infami). Aprì dolcemente la porta della stanza ove si trovava Clelia, biascicò un "Buona sera, signorina", a cui con voce piuttosto disdegnosa rispondeva la Clelia: "Buona sera".

"Mi scuserete se vi ho trattenuta per tanto tempo in questa stanza, ma - soggiungeva con voce melliflua il volpone, - volevo proprio io stesso venire a congedarvi ed annunziarvi che qualunque cosa sia successa a vostro padre sarà da me dimenticata.

Volevo poi che sapeste, bellissima fanciulla, - continuava a dire l'infame - ch'io non vi vedo per la prima volta e che da quando vi vidi io arsi per voi dell'amore il più puro".

Nel terminar questo astuto discorso, trascinando la serica sottana, il tentatore si avvicinava a Clelia. Ma questa, inarcando certe ciglia leonine, si mantenne tra un tavolino ed il prelato a cui sarebbe stato impossibile poterla raggiungere s'anco fosse stato agile e svelto al pari di lei.

Invano egli la supplicò, adoperando tutte le lusinghe di cui era capace. Sempre più fieramente le rispondeva la nostra eroina, laonde, furioso il prete che vedeva scorrere il tempo senza approdare a nulla tornò alla porta, fece un segno e comparivano in suo soccorso Don Ignazio e Gianni.

Accortasi del pericolo di dover lottare contro i tre, Clelia trasse risolutamente il pugnaletto e mentre furibonda e con voce commossa esclamava: "Piuttosto m'immergerò questo ferro nel cuore" il maledetto vecchio, ladro delle sostanze del povero Muzio, s'andava avvicinando in modo da poter lanciare la sua mano di falco sulla destra della fanciulla, che strinse come una tenaglia. L'eunuco alla sua volta dalla parte sinistra la raggiunse e tra i due tentarono di domarla, disarmandola del pugnale.

Non fu però facile impresa. Clelia si dibattè con tanto furore che il demonio di prete e l'eunuco avevan già le mani intrise di sangue quando si fece innanzi anche il corpulento e dissoluto ausiliario. I tre riuniti finirono a domare la povera fanciulla, disarmarla e condurla scapigliata in un'alcova attigua alla stanza, alcova senza dubbio destinata a tali oscene nequizie.

Chi ha letto la storia dei Preti ricorderà che un Farnese, figlio di Papa, turpemente violò un vescovo di Fano di cui s'era innamorato facendolo tenere dai suoi scherani. Che cosa ci sarebbe di strano adunque, se lo stesso spediente si usasse con una femmina? A tanto si preparavano questi servi di Dio contro la svenuta, sventurata fanciulla!

In quel mentre però un baccano d'inferno s'intese di fuori, un urto terribile sconficcò la porta e in mezzo alla stanza furono visti piombare due uomini il cui volto avrebbe fatto impallidire il demonio. Eppure eran bei volti quelli! belle fattezze! ingigantite da quel sentimento sublime che crea gli eroi!

Attilio fuori di sé, corse all'amata fanciulla e forse i malandrini profittando di quell'errore avrebbero potuto svignarsela, che, lì era Muzio solo, freddo e solenne, girando lo sguardo tagliente sui tre atterriti. Dopo un momento entrava Silvio, all'arrivo del quale, Muzio, additandogli la porta, "Nessuno esca" disse.

Poi col pugnale alla mano ordinò, pena la vita, al prelato di coricarsi boccone. La stessa ingiunzione fece ai due complici; quando furono in quell'attitudine, tirò fuori una corda e cominciò a legare il più grasso colle mani di dietro. Chiese poscia ad Attilio altra fune e legò Gianni. Il Monsignore riservò per ultimo e mentre stringeva il legame tanto da stritolare le ossa degli scellerati, un maligno sorriso sfiorava la bella bocca del mendico.

Ahi! gridava il prete, mentre Muzio stringeva; e quegli: "Perverso! non gridavi ahi! nella notte in cui hai derubato un orfano delle sue sostanze e lo riducevi alla mendicità. Non mormoravi ahi! quando portavi le vergini infelici a questo infame stupratore!".

Non voglio nauseare chi legge con tutte le bassezze, le giustificazioni, i giuramenti, le preghiere di questi tre perversi, per aver salva la vita. Invano! troppo sanguinose eran le ingiurie ricevute dai nostri tre amici e troppo prezioso l'olocausto dei tre mostri alla libertà di Roma. Clelia, Camilla, Manlio, vittime loro, dovevano essere vendicate. Colle mani legate dietro alla schiena ed una corda al collo, uno dopo l'altro, i tre malfattori presto penzolarono fuori della finestra della stanza di un'altezza di due piani dal terreno, ed al far del giorno, nella folla che si riuniva a contemplare l'orrendo spettacolo, una voce s'udì risuonare dicendo: "Così, devono finire coloro che in quindici secoli di menzogne, di corruzioni e d'inganni hanno ridotto la Metropoli del mondo una cloaca".

CAPITOLO XVIII L'ESILIO

Era la mattina del quindici Febbraio, e la campagna di Roma era illuminata dai primi raggi del sole.

Quel solenne deserto ove un dì sorgevano città cospicue oggi è seminato di macerie e presenta all'attonito passeggiero un'immagine di desolazione e di morte. I miserabili abitatori che s'incontrano in quelle steppe riflettono sulle loro gialle e squallide fisonomie i patimenti e la malaria. Pianure immense ove una volta prosperavano numerose popolazioni sono oggi percorse da bufali selvaggi e da cignali. I giardini, le ville, gli orti, che alimentavano di legumi e di frutta i due milioni d'abitatori dell'immensa metropoli sono sostituiti da macchie e paludi pestilenziali.

Qua e là alcune croci di legno attestano al viandante gli omicidi frequenti a cui la miseria e l'ignoranza pretina trascinano i discendenti del gran popolo, oggi ridotti ad una masnada di fanatici e di briganti.

I vestigi delle vie consolari che solcavano per tutti i versi quelle pianure e che ricordano il passaggio delle immortali legioni, appena si scorgono tra i bronchi e le rovine che lo ricoprono. Siccome l'anima degli abitatori il prete padrone(20) ha inaridito quel terreno fecondo.

In quella mattina, da una carrozza giunta al crocicchio di casa Marcello, scendevano quattro donne che noi conosciamo e s'incamminavano verso l'abitato. Con che gioia si abbracciassero padre, madre e figlia lo lascio pensare a voi, dopo tanti disagi e tanti pericoli. Giulia e Aurelia con gli occhi umidi di lagrime contemplavano silenziose tanto affetto, e maledicevano in cuor loro chi aveva cagionato sì fiero rammarico a questa onesta famiglia.

Camilla istupidita osservava l'insolito spettacolo e non era capace di formare parola. Se avesse potuto indovinare la fine atroce del suo tentatore, chi sa non fosse ritornata in sé, allora non comprendeva nulla.

Marcellino dopo aver egli pure girato lo sguardo curioso dall'uno all'altro, dal bellissimo volto di Giulia al non men bello di Clelia, si dirigeva verso la stalla per mugnere la vaccarella ed offrire un bicchiere di latte fresco alle simpatiche visitatrici.

Dopo mille domande e risposte e ragguagli, Manlio volto a Giulia diceva: "l'esilio dunque ci resta, non ci vedo altra via. Questo governo infernale finirà presto, non ne dubito, ma intanto dopo tutto quel ch'è accaduto bisogna sottrarci agli ultimi parossismi del prete sanguinario, oggi tutto astio e vendetta".

E Giulia, "io sono del vostro parere: sottrarvi alle persecuzioni di quegli scellerati e non perder tempo. Dio farà il resto e certo in breve potrete tornare nella vostra Roma ringiovanita e redenta".

Il modo di mettersi in salvo fu presto trovato dalla coraggiosa straniera. "Io - essa soggiunse, - ho il mio yacht a Porto d'Anzo".

Il mio yacht!, ma questa parola sarà inintelligibile a chi legge, se uomo e più ancora se donna italiana. Il mio yacht! Una signorina col suo yacht! Ma che razza d'arnese è questo yacht, che portano le fanciulle inglesi ed offrono agli amici?

Lo yacht non è un arnese ma una nave, su cui l'inglese ricco e coraggioso solca gli Oceani e passeggia il mondo tutto, come fosse la propria casa.

I francesi, gli spagnuoli, gli italiani non hanno yacht, benché essi presumano di essere nazioni marittime. La loro educazione è troppo molle. Ricchi, si danno alle lussurie delle metropoli e non avventurano l'effeminata loro esistenza sul mare tempestoso e perciò l'Italia, la Spagna, la Francia non contano i loro Rodney, i Jervis, i Nelson.

L'inglese, anche millionario, repugna dall'ozio, compra un yacht e si spinge sull'Oceano a cercare le tempeste. Egli non teme i calori della zona torrida, né i ghiacci del polo. Veleggia, corre, s'istruisce e diventa robusto di corpo e di mente. Con tali figli Albione signoreggia il mare da secoli. Co' suoi baluardi di legno essa rese inviolabile e sacra la sua terra d'asilo e si può sperare che coi nuovi baluardi di ferro essa saprà sfidare qualunque tentativo d'invasione straniera.

Dunque, "Ho il mio yacht a Porto d'Anzo, - diceva Giulia, - noi andremo là; e spero di potervi imbarcare inosservati e veleggiare con voi verso il solitario".

CAPITOLO XIX LE TERME DI CARACALLA

Lascio pensare a voi quale scompiglio vi fosse in Roma il giorno quindici febbraio che seguì la notte tragica di Palazzo Corsini. Un andirivieni, un diavolo per le strade, un chiedersi: "che è, che non è? È ora di menar le mani? Di mandare a rotoli questo esoso temporale(21) e lo spirituale con lui?".

Frattanto i tre cadaveri penzolavano dalle finestre e siccome in quella tana di birbanti uno diffidava dell'altro, niuno ardiva di avvicinarsi alla stanza fatale per non suscitare sospetti. Finalmente, un battaglione straniero, che la paura dei preti aveva richiesto, comparve nella Laguna ed invase l'immenso palazzo. I soldati se la ridevano sotto i baffi nel vedere appiccati i due chercuti e l'eunuco. Senza nessuna reverenza al mondo s'andavan dicendo fra loro: "Che bei salami! Se ne hanno esposti per mostra tre, vuol dire che ne ha molti il pizzicagnolo".

Nella folla ognuno diceva la sua mentre i soldati davano opera a far rientrare i cadaveri.

"Lasciali andar giù a rompicollo, avrai più presto fatto", diceva l'uno. "Maneggia il pesce che non si strappi", diceva l'altro, e tutti a fischiare, mentre sforzandosi i soldati a tirar su il corpulento cadavere di Procopio, si spezzava la fune e il corpo precipitava sul lastrico con grande fracasso.

Nella folla, mentre durava l'osceno schiamazzo, il mendico diceva a Silvio:

"Questo popolaccio mi nausea, esso ama ridere di tutto. Pasquino solo ci rimane dell'antica Roma. Io vorrei che questo popolo avesse la gravità, con cui i nostri padri, nel Foro, vendevano e comperavano ad alto prezzo il terreno occupato dalle schiere di Annibale vincitore, oppure eleggevano un Dittatore per salvare la Repubblica in pericolo, senza ingannarsi mai nella scelta. Ma quanto tempo dovrà passare prima di averlo degno ancora dell'antica fama, corrotto com'è dai preti? Di tutti i danni fatti da questi impostori al nostro paese, il più imperdonabile è la corruzione con cui han potuto talmente snaturarlo".

"Cosa vuoi? - rispondeva Silvio. - Il servaggio fa dell'uomo una belva e questo nostro è stato il più maligno, il più perverso di quanti si conoscono. I chercuti hanno il garbo di farci schiavi e farci adorare i nostri tiranni".

Così discorrendo i due amici quasi istintivamente s'avviarono verso lo studio d'Attilio, che trovarono dinanzi. la mensa modestamente imbandita alla quale parteciparono di tutto cuore. Dopo d'avere ragguagliato l'amico delle faccende del giorno, i tre si sdraiarono per cercare un po' di riposo ed era loro ben necessario dopo le fatiche della notte.

Verso le dieci della sera, i nostri tre amici giungevano alle Terme di Caracalla, ove sappiamo che i trecento dovevano riunirsi.

CAPITOLO XX ALLE TERME

Padroni del mondo e ricchissimi delle sue spoglie, i Romani si diedero al lusso, alle gozzoviglie ed agli eccessi d'ogni specie.

Fastidiose ed insopportabili divennero loro le fatiche del campo, l'aratro e l'armi che tanto avevano influito a mantenerli sobrii e robusti. Colle membra rese delicate dall'ozio il peso delle armi divenne soverchio e tra gli stranieri schiavi si cercarono i più robusti per farne dei soldati. Gli stranieri forti, armati ed agguerriti alla scuola di Roma, cominciarono a disprezzare i dissoluti ed effeminati padroni, poi, ad ammazzarli, per impadronirsi delle loro donne e delle loro ricchezze.

Ecco la storia della decadenza di quell'impero gigante che finì, come devono finire tutte le potenze edificate sull'ingiustizia e le violenze.

Fra i lussi degli antichi c'eran le Terme, ossia i bagni, e vi si prodigavano ricchezze immense per renderli comodi, doviziosi e splendidi.

Ve n'erano di particolari e di pubblici, e siccome al tempo degli Imperatori ognun di loro procurava di farsi celebre con qualche opera grandiosa, Caracalla, uno dei più abbietti di quei despoti, fece edificare le famose Terme, i cui avanzi si contemplano oggi nell'immenso deserto di ruine che segnano la grandezza e la decadenza di Roma.

Gli edifici più cospicui dell'immensa città, quasi tutti avevano dei sotterranei, praticati dai grandi con astuta previdenza per nascondervisi in tempo di pericolo o per nascondervi il frutto delle loro rapine e violenze.

Nel sotterraneo delle Terme di Caracalla era stabilito il nuovo convegno dei trecento, nella notte del quindici febbraio, e subito che l'ombre della notte cominciarono a coprire Roma, già le loro sentinelle erano collocate nelle vicinanze del luogo di riunione e sulle vie che vi conducevano.

CAPITOLO XXI IL TRADITORE

La liberazione di Manlio e l'assalto di palazzo Corsini avevano spaventato il governo Pontificio. Mentre preparava solenni esequie al cardinale Procopio e ai compagni, avea messo sotto le armi quanta truppa straniera ed indigena v'era in Roma. La polizia coi suoi cagnotti era in grande confusione. Al minimo sospetto si arrestavano cittadini di ogni classe e le carceri ne rigurgitavano.

Il governo dei preti aveva saputo comprare un traditore perfino fra i trecento. Per buona sorte costui non s'era trovato coi dieci del Quirinale, né tra i venti del Corsini. Egli però sapeva della riunione alle Terme di Caracalla e ne aveva informata la Polizia.

Assuefatti alla congiura, gli italiani, sanno ciò che sia una contro-polizia. Ma per chi non Io sapesse: essa è una polizia di congiurati, che regola e conosce le mene di quella del governo.

Il capo della contro-polizia liberale era Muzio e ben gli serviva la sua qualità di mendico; poiché tra quei tanti infelici che accattano il pane nelle vie e sulle piazze di Roma i preti trovano sempre alcuno che si vende coll'infame patto della delazione. Muzio non lo ignorava e, coll'intelligenza superiore che lo adornava aveva saputo dai suoi emissari far vigilare gli emissari dei preti.

L'ultime ombre dei congiurati (perché veramente sembravano ombre che traversassero quelle macerie) eransi introdotte nella gola del sotterraneo. Attilio aveva fatta la dimanda: se le sentinelle erano a posto: il lume, dopo la risposta affermativa, aveva rischiarato le austere fisionomie dei nostri giovani, quando un fischio simile a sibilo di serpente fece risuonare le antiche volte dello speco.

Era questo segnale d'allarme ed era il mendico che lo mandava, il quale, messo appena il piede sull'entrata del sotterraneo "non v'è tempo da perdere - esclamava -, non solo siamo accerchiati da forza armata da questa parte ma altra forza ha già preso posizione all'uscita settentrionale del sotterraneo!".

L'imminente pericolo in luogo di far impallidire quei prodi, gettò sulle loro maschie fisonomìe un'aria di giubilo. Tale è la coscienza del vero coraggio, massime quando serve la sacrosanta causa della libertà e della patria, ed Attilio girato uno sguardo di compiacenza sul consesso imponente ordinò a Silvio di recarsi con due compagni all'estremità del sotterraneo ed informarlo di quanto accadeva.

All'entrata compariva una sentinella e confermava quanto Muzio aveva asserito, ma dalla parte opposta, niuno si faceva innanzi, il che dava a supporre che le sentinelle, da quella parte, potessero essere state arrestate.

Appena però Silvio giungeva all'estremità del sotterraneo alcune fucilate dal di fuori annunziavano il conflitto, mentre rientravano al tempo istesso i quattro compagni, che si trovavano di guardia in quella parte, per dar notizia dell'arrivo di numerose truppe. Silvio tornò indietro e ragguagliò il suo capo di quanto accadeva.

Attilio allora diede questi ordini: "Muzio formerà la avanguardia coi suoi cento, io lo seguiterò coi miei. Silvio colla sua schiera starà alla retroguardia. Con uomini come voi, io posso risparmiare ogni incoraggiamento: dirò soltanto, che qualunque sia la forza che noi abbiamo a fronte, dobbiamo caricarla in massa col pugnale alla mano. I primi venti della tua schiera, disse a Mimo, marcino radi e adagio sino ad incontrare il nemico. Scoperto, lo assaltino gridando e a passo di corsa. Noi vi seguiremo da vicino".

Dopo queste poche parole Muzio, disposti i venti e dato un colpo d'occhio al resto della sua schiera, si avvolse la toga al braccio sinistro e col pugnale nella destra si avanzò dicendo: "seguitemi!".

L'antro sembrò in quel momento vomitare un torrente di lava ed all'oscuro, perché ogni lume era spento, cupi, silenziosi, s'avanzarono i discendenti dei Fabii, pronti ad affrontare i satelliti del dispotismo.

I primi soldati che s'incontrarono coi nostri ebbero appena il tempo di spianare i fucili, che in un lampo si trovarono avviluppati dai terribili aggressori e volti in fuga. Un urlo tremendo di "avanti!!!" uscito da trecento maschie e sonore voci incuteva una paura di morte anche nei men codardi di quella bordaglia.

In men ch'io noi dica il Campo Vaccino e poi le vie di Roma diventarono fiumi di fuggenti. Elmi, sciabole, fucili, si trovarono seminati sul lastrico delle vie e più feriti vi furon dagl'inciampi in quelle armi che da mano nemica. Molti incespicando rovesciati cagionavano la caduta dei vegnenti dimodoché in certi luoghi si trovavano qua e colà monti di mercenari e di birri. Alcuni si lamentavano, altri mostravan tanta paura nelle ossa che gridavano: "Non mi uccidete, signor liberale, ch'io mi sono arreso".

Frattanto i prodi campioni della libertà di Roma, dopo d'aver fugato i mercenari pretini si separavano e tranquillamente ripigliavano la via delle loro case sparpagliati in piccoli gruppi.

Quanto valga l'uomo di coraggio è cosa incredibile! Un uomo può mettere in fuga un esercito e non è esagerazione. Io ho veduto degli eserciti colti dal panico fuggire davanti non ad un uomo solo ma a meno d'un uomo, davanti ad un pericolo immaginario. Un grido di "salva chi può!", "Cavalleria!", "il nemico!", risonante di notte ed anche di giorno con qualche tiro di fucile o senza, basta a mettere in fuga un corpo di truppa che ha combattuto e combatterà in altra circostanza col maggiore coraggio. Comunque sia, il panico è vergognoso e, veramente veduto e considerato con pacatezza, esso ha qualche cosa di degradante. Io vorrei non aver mai a vedere gl'Italiani colti da terror panico. Eppure pare che i popoli meridionali e più spiritosi, come il Francese, l'Italiano, lo Spagnolo vi siano più soggetti dei popoli freddi e posati del settentrione.

Dei liberi, pochi furono i feriti, il che succede sempre ai valorosi; dei mercenari però molti furono i feriti da loro stessi, e si contarono alcuni morti.

Tra i cadaveri che all'albeggiare si distinsero nelle vicinanze delle Tenne, v'era un giovane col mento appena coperto di lanugine, era supino e sul suo petto a grandi caratteri si leggeva la parola traditore.

Giovinetto senza esperienza, Paolo, ebbe la disgrazia d'innamorarsi della figlia d'un prete. La Dalila astuta, ammaestrata dal padre, era giunta a scoprire che il suo amante apparteneva ad un gruppo di cospiratori. Dal primo errore lo sciagurato cadde in altri e finì con l'abbandonarsi intieramente all'infame vita del delatore.

Quella notte n'ebbe degna ricompensa!

CAPITOLO XXII LA TORTURA

Siccome l'ora della solenne vendetta della popolare giustizia non era sonata ancora, i preti se la cavarono con la sola paura. Essi ben temettero in quella spaventosa notte di veder rompere il capello a cui la giustizia di Dio tien sospesa la spada sterminatrice che reciderà il loro capo nefario: ma fu differito il castigo. Non, che la misura non sia colma, ma forse le colpe degli uomini meritano ancora quell'abbominevole flagello!

Conoscete voi la tortura?

Sapete voi italiani che dai preti fu torturato Galileo? il più grande degli italiani? e chi se non i preti poteva istituire la tortura? Ci voleva l'animo d'un arcivescovo, per condannare a morire di fame in carcere murato Ugolino con quattro figli!

Sì! la tortura! Dacché nella famiglia umana, vi furono uomini che svestirono le forme umane per farsi impostori, cioè preti, dacché vi furono preti nel mondo, vi furono torture.

Volendo costoro mantenere tutti gli uomini nell'ignoranza, quando emergeva alcuno che avesse ricevuto da Dio tanta intelligenza da capire le loro menzogne, quell'intelligente era da questi demoni torturato, acciò confessasse che la luce era tenebra, che l'eterno, l'infinito, l'onnipotente, era un vecchio dalla barba bianca seduto sulle nubi; che una donna, madre d'un bellissimo maschio, era una vergine e che un pezzetto di pasta che voi inghiottivate era il creatore dei mondi che vi passava per le vie digestive, e poi e poi!!!

Quando si pensa che una gran parte del popolo ci crede ancora e che in questo secolo in cui l'intelligenza umana ha pur partorito delle grandi cose, il prete la fa ancora da padrone; quando si vedono i reggitori delle nazioni fingere (perché è finzione ed iprocrisia) di proteggere e mantenere con ogni rispetto l'istituzione diabolica del pretismo, c'è veramente da impazzire, e non si capisce se ci sia più malvagità dalla parte dei potenti e degl'impostori o più stupida imbecillità da parte di chi li tollera.

In molti paesi, come l'America, l'Inghilterra, la Svizzera, la tortura è realmente abolita, né colà il progresso è vana parola.

In Roma pure non se ne parla, è vero: ma chi riesce a penetrare nei reconditi recessi di quei pandemoni, che si chiamano claustri, seminari, conventi? in quei covili ove un'assoluta reclusione isola l'individuo dall'umana famiglia, ove l'essere maschio o femmina che appartiene alla confraternita è legato da giuramenti tremendi ed appartato per sempre dal consorzio del resto degli uomini: massime se vi sia sospetto ch'egli non sia intieramente corpo ed anima consacrato all'istituzione ove il despotismo è assoluto, irresponsabile, potente!

Sì! in Roma, ove siede il vicario del Dio di pace, del redentore degli uomini, v'è la tortura come ai tempi di S. Domenico(22) e di Torquemada!(23) ed in questi giorni di convulsioni politiche e di paure pretine la corda e la tenaglia erano all'ordine del giorno negli orridi sotterranei di Roma.

Povero Dentato! il bravo sergente de' dragoni che facilitò l'evasione di Manlio. Dentato era messo alla tortura mattina e sera per strappargli di bocca la delazione dei complici!

Io risparmierò ai miei lettori l'orrido quadro dei patimenti inflitti a quel prode romano straziato colla corda, attanagliato, ridotto a una massa informe, abbandonato in un canto del suo carcere segreto, spirante, ed implorando la morte come un beneficio. Quello ch'io non posso tacere è che il prete non si contenta di martoriare, di avvilire il corpo. Egli vuole insudiciare l'anima, e quando il sofferente svenuto pei patimenti articola un'indistinta parola, egli la raccoglie e l'interpreta a modo suo, spargendo la vergogna e l'infamia sul capo dell'infelice torturato.

Il povero Dentato così scontava il suo amore per l'Italia e per Roma nelle unghie dei luciferi umani, e non era il solo! In quei giorni di paura e di rabbia, furono numerosi gli arresti ed i torturati, ed anche rinvenuto dal terrore il prete si dava alle sevizie, condizione essenziale per riconoscere i codardi. I tiranni più crudeli, i più sanguinari di tutte le epoche, furono vili e pieni di paura.

Infelice Dentato! i suoi carnefici rapportavano ch'egli aveva confessato complici e quindi nuovi arresti, nuovi tormenti, e nuove torture!

Ecco! come da tanti secoli è trattato questo nostro povero paese, ed il mondo tollera questi carnefici, li protegge, li impone all'Italia! Non si sa se più scellerati i preti e chi li sorregge o più stupido questo miserabile popolo che li soffre nel suo seno e non fulmina, non annienta questi istrumenti del suo servaggio, delle sue miserie e delle sue umiliazioni.

CAPITOLO XXIII I BRIGANTI

Lasciamo per un momento queste scene di desolazione e d'orrore, quest'atmosfera infetta dal fiato prestilenziale de' carnefici e seguiamo sulla strada di Porto d'Anzo le graziose nostre viaggiatrici, meste, perché il loro cuore rimaneva in Roma co' loro cari ma finalmente respirando l'aria libera della campagna in quella stagione purissima.

La campagna romana, un dì sì popolata e fertile, è oggi, lo ripeto, un deserto seminato di macerie e coperto di paludi e di macchie. L'ammiratore della natura selvaggia trova pascolo colà all'esaltata immaginazione e forse è difficile rinvenire un altro lembo di terra sulla superficie del globo che presenti alla memoria tante ricordanze di peripezie, di grandezza e di miseria.

Il cacciatore vi trova selvaggina d'ogni specie, dalle quaglie al cignale, ed alimento del corpo e dell'anima vi trova colui, che alla infezione della capitale, alle sue lussurie, preferisce la quiete del deserto.

Pochi, lo abbiamo detto, sono i proprietari di quelle feraci ed immense pianure e tutti son preti, ingolfati nei vizi della metropoli, che non hanno mai veduti questi loro possessi e vi tengono al più qualche mandra di bufali e pecore.

Ma nella campagna romana si trova qualche altra cosa.

La pianta brigante è inseparabile dal governo dei preti, ed è naturale; essa non può non prosperare accanto ad un governo codardo, servito da mercenari imbelli ed abbrutiti. Quindi il ladro, l'omicida o il compromesso politico, trovandosi questa immensa campagna vicina ove loro non mancherà rifugio ed alimento, vi si gettano e molti vi passano l'intiera lor vita.

Le statistiche assicurano essere gli omicidi in Roma più frequenti che in alcun'altra parte, e non può essere altrimenti coll'educazione corruttrice dei preti e la miseria prodotta dal loro infame governo. Quindi necessariamente la campagna è popolata da molti di questi fuorusciti delinquenti od innocenti, tutti conosciuti sotto la denominazione di briganti.

A questa non piccola famiglia di briganti per necessità vanno aggiunte le numerose e terribili bande assoldate dai preti stessi contro il presente governo italiano, bande abbastanza note e che tante stragi commisero in questi ultimi anni.

Eppure, con tutto questo, io ho simpatia dei briganti!

Le mie simpatie non si stendono certo alle iene assetate di sangue che mutilano i loro prigionieri prima di trucidarli, che bruciano, devastano, distruggono per selvaggio istinto di distruzione. No! costoro mi mettono orrore!

Ma quei briganti che odiano un governo scellerato come quello dei preti, o simile, che piuttosto di sottostare ai soprusi ed alle umiliazioni a cui ogni giorno il cittadino è esposto, preferiscono la vita vagante della foresta, senza macchiarsi con furti o con omicidi, quelli là hanno la mia simpatia.

Quando poi all'onesta indipendenza aggiungono l'indole coraggiosa del leone e si battono valorosamente contro chiunque cerchi sopraffarli, allora non solo simpatia, ma ammirazione si meritano, e francamente, nell'abbassamento presente della nostra gloria militare, io sovente insuperbisco tra me stesso, pensando che pochi italiani (ispirati da falso principio è vero) combattono contro polizie, carabinieri, guardie nazionali, esercito, un mondo di nemici, senza che questi giungano mai a vincerli o domarli.

Comunque sia, tolte le crudeltà commesse dai briganti assoldati dai preti, quella classe di gente, ha mostrato in questi ultimi tempi una tenacità ed una bravura degna di miglior causa; il che prova che gli stessi uomini sospinti dall'amor di patria e ben guidati sarebbero una barriera insuperabile contro qualunque invasione straniera.

Fatalmente quei poveri ma coraggiosi contadini sono sempre stati coi preti e da loro sono forviati. Per questo li vediamo armati contro l'unità nazionale.

E quanto tempo ci vorrà ancora per portarli sulla buona via?

Che i briganti non sieno tutti assassini lo prova Orazio, il valoroso Romano che tutti in Trastevere, specialmente le donne, ammiratrici sempre della bravura, credevano discendente dal famoso Coclite, che da solo difese il ponte contro l'esercito di Porsenna. Egli aveva questo di particolare, oltre il valore che lo ravvicinava all'antico eroe: gli mancava un occhio che nell'infanzia, in una rissa aveva perduto. Un giovinetto della sua età, ch'egli aveva battuto, per vendicarsi gli piantò una canna nell'occhio sinistro e glielo svelse.

Orazio aveva servito con onore la Repubblica romana. Ancora inerbe, egli fu tra i primi che nel glorioso 30 d'aprile caricarono e fugarono gli stranieri invasori. A Palestrina riportò onorevole ferita di palla alla fronte. A Velletri, dopo aver freddato un ufficiale di cavalleria napoletano col suo archibugio, lo spogliò delle armi e le portò in trionfo a Roma.

Ventura sarebbe stata per Giulia e le sue compagne, se fossero cadute in potere di un tal brigante; ma non fu così: altre bande della peggior natura da noi descritta incontrò la gentile comitiva mentre si avvicinava alle spiaggie del mare, ed una fucilata uscita da un bosco circostante, che rovesciò il cocchiere dalla banchina, diede indizio agl'infelici della situazione loro.

Caduto il cocchiere, Manlio, con un'intrepidezza ed una agilità superiore all'età sua slanciossi sul davanti della carrozza, ed impugnò le redini, ma inutilmente; quattro masnadieri armati di tutto punto, si precipitarono ai freni dei cavalli e li fermarono.

"Non vi movete o siete morto" gridò con voce imperiosa uno della banda che avea apparenza di comando, e veramente inutile sarebbe stata la resistenza d'un solo e inerme contro quattro armati e di quella specie!

Manlio rimase immobile sulla banchina ove era salito. Alle donne si ordinò di scendere con certo piglio poco galante dapprima, ma scese che furono, abbarbagliati da tanta bellezza, i malviventi rimasero muti e per un pezzo stettero a considerare Clelia e Giulia con aria mista d'ammirazione e di rispetto.

Finalmente predominati dalla fiera e malvagia natura, il capo della banda così si espresse: "Signore, se voi vi decidete ad accompagnarci di buona voglia, io vi assicuro che non vi sarà torto un capello, ma se non condiscendete a quanto io vi chiedo potete essere certe che la vostra vita non è sicura, e cominceremo a darvene prova, col fucilar subito quell'uomo lassù che vi accompagna" e accennava Manlio.

Lascio pensare l'effetto dell'ultime parole sulle povere donne.

Silvia cominciò a singhiozzare, e così Aurelia, che non potè trattenersi dal farle riscontro. Clelia si sentì un brivido nelle ossa, ed impallidì alla minaccia di ucciderle il genitore; Giulia sola colla impavida freddezza caratteristica della sua nazione, essendo già ne' suoi viaggi meglio delle compagne assuefatta alle peripezie della vita mostrò forte e maschio contegno.

"Non potreste - disse Giulia avanzandosi verso il masnadiero - prenderci quanto possediamo, e noi ve lo diamo senza difficoltà (così dicendo trasse fuori la sua borsa e gliela porse) lasciandoci andare per la nostra via".

Lo scellerato, cui il peso dell'oro che teneva in mano, in luogo di soddisfarlo, sembrava aver risvegliate altre libidini, sorrise al discorso della seducente Inglese rispondendo: "Oh! Signora! fortune come questa d'oggi non capitano tutti i giorni a noi miseri perseguiti, e la fortuna, se non la si piglia pei capelli quando arriva, fugge e sovente per non più tornare. Crede lei che possano giungere ogni giorno tanti gioielli?".

E il furfante così dicendo facea l'occhietto girando lo sguardo dall'una all'altra delle due giovani.

Giulia non si scosse dinanzi alla gravità del pericolo ma andava ruminando nella mente la possibilità di un tentativo per liberarsene mantenendosi intanto fredda e silenziosa. Non così Clelia, che al brivido d'orrore provato alla minaccia d'uccisione del padre, sopravveniva lo sgomento pel suo onore minacciato dalle parole dell'assassino.

Percorse in un lampo colla meridionale sua immaginazione tutto l'orrore della loro situazione e la disperazione succedendo ad ogni altro senso si ricordò del pugnaletto, lo impugnò ed avventossi come una furia sul ladro procace. Giulia, non meno coraggiosa, vedendo l'eroica risoluzione della compagna, assalì il nemico con eguale trepidezza, e certo, se avessero avuto da fare con lui solo, il brigante era spacciato. Ma il più vicino dei malandrini afferrò e tenne salda Giulia in guisa che la povera Clelia trovossi sola a lottare col nerboruto avversario il quale, benché ferito in varie parti, era ben lunge dal potersi dire vinto ed atterrato.

Le cose erano a tal punto: Giulia veniva portata via dal brigante verso la macchia, le due donne mature minacciate da un altro che le teneva sotto la bocca della sua carabina a due colpi; seguivano Giulia, Manlio, che aveva ricevuto ordini dal terzo di scendere dalla banchina, seguiva la comitiva sotto la stessa minaccia, ed ultima Clelia, trascinata dal capo, da cui invano cercava di svincolarsi, veniva alquanto più in dietro.

A un tratto un colpo, come di clava, cadde sul cranio del rapitore di Clelia e la coraggiosa fanciulla nello stesso momento si sentì sciolta e vide lui rovesciato nella polvere quasi colpito dal fulmine.

CAPITOLO XXIV IL LIBERATORE

Il nuovo attore comparso su quella scena di violenze non era un gigante, solo di alcuni pollici soprastava all'ordinaria statura. Però alla robusta disposizione d'un corpo svelto ed elegante, alla quadratura delle spalle, ai movimenti tutti della persona, tu dicevi: "costui ne vale una dozzina!".

La capigliatura d'ebano gli scendeva innanellata sulle spalle e l'occhio nero, quando era fiso nel tuo occhio ti facea l'effetto del raggio di sole allorché, uscito improvvisamente dalle nubi, ti colpisce lo sguardo e ti abbarbaglia.

Com'è bello il valoroso che si slancia in soccorso del debole! Come la sua energia è raddoppiata, massime quando il debole ha il volto di Clelia!

Rovesciato il capo-brigante con un pugno sul cranio, il nuovo arrivato spianò la sua carabina prima sul guardiano di Manlio, poi su quello delle donne, ed egli, che metteva una palla nell'occhio del cignale a dugento passi di distanza, appena curossi della caduta dei due, gettando invece un colpo d'occhio sulla perla di Trastevere. Ma questa, non curante del simpatico significato di quell'occhiata, "avanti!" gli gridò: segnandogli il sentiero, per il quale Giulia ed il suo rapitore erano scomparsi.

Quasi mosso da un elettrico impulso, il liberatore, che sembrava tanto agile, quanto forte, si avventò sulle traccie del fuggente ed in pochi minuti ritornava lieto con Giulia verso gli amici. Il brigante quando sentì la tempesta venire sulle sue traccie aveva abbandonata la preda, mettendosi in salvo fuggendo.

Il vittorioso campione, ricaricata la carabina, disse a Manlio di armarsi: le armi che restavano sul suolo e sui cadaveri depose nella carrozza, raccogliendo i cavalli occupati a pascolare, ad onta del freno, sull'orlo della strada.

La comitiva ammirava stupefatta il coraggioso liberatore mentre egli, come assorto in contemplazione di cosa che stesse sopra gli oggetti materiali presenti, pareva col pensiero lontano da quella scena di sangue.

Una delle più belle qualità della donna è l'apprezzamento squisito del bello e dell'eroico. Siate pulito, valoroso, sprezzatore della morte, generoso, e certo avrete non solo il plauso, ma l'affetto della bellezza! Io non dubito che questa simpatia del bel sesso non sia il principale motore dell'incivilimento umano.

L'uomo si fa pulito, elegante, cortese per piacere alla donna. Egli ha lo stesso incentivo nel suo slancio verso le grandi azioni. In generosità, in coraggio, in eroismo quindi si può considerar la donna vera educatrice dell'uomo, prima agente del creatore, per migliorare questa razza burbera e di testa dura.

Le donne dunque volgevano il loro sguardo sul brigante (mi ripugna di dargli questo titolo ma pure era così chiamato dai preti e per loro era un vero brigante) e curiosamente lo fermavano su quel corpo così ben fatto, su quella capigliatura d'ebano, su quella fronte spaziosa così graziosamente ornata da un... da un buco tondo tondo, che il piombo straniero vi aveva forato. Pareva non potessero distogliere gli occhi da quella persona, vero modello della forza e del coraggio. Il difetto dell'occhio spento era, oppure sembrava, in quell'istante quasi impercettibile.

Bisogna confessarlo, in quel momento i nostri cari, non men belli e non men coraggiosi, Attilio e Muzio, furono dimenticati dalle nostre eroine. Così è più forte di noi questa nostra debole natura umana.

Lo stupore dei viaggiatori si accrebbe ancora quando il brigante uscito dalla sua posizione contemplativa, si avanzò graziosamente verso Silvia, le prese la mano, gliela baciò commosso, lasciandovi cadere sopra una lagrima.

"Voi non mi riconoscete, Madonna? - egli le disse. - Guardate un poco questo mio occhio sinistro che per cura vostra gentile e materna non mi costò la vita!".

"Orazio! Orazio! - gridò la matrona abbracciandolo e spargendo un torrente di lagrime. - Orazio! mio figlio, figlio della migliore amica mia!.

"Sì, Orazio! che voi raccoglieste morente, che curaste con affetto di madre, ed a cui porgeste un pane nella sventura quando fu orfano!" soggiungeva egli, e la buona Silvia, quasi fuori de' sensi, si abbandonava nelle braccia del suo robusto antico protetto.

"Qui non v'è tempo da perdere - disse finalmente Orazio, rivolgendosi a Manlio, con cui aveva pur ricambiato mille segni di reminiscenza e di gratitudine. - Questo luogo è pieno zeppo di malviventi e quel fuggito potrebbe ricondurre una banda più numerosa".

Pigliando dunque i cavalli per i morsi invitò la comitiva a rimontare in carrozza e mettendosi egli stesso al posto del cocchiere, s'incamminò velocemente verso la marina secondo i voti dei viaggiatori.

Giunti alla spiaggia, l'aria balsamica del Mediterraneo sembrò ravvivare i nostri stanchi amici, e l'effetto apparve sorprendente sulla bella Giulia. Figlia della regina del mare ella, come tutti coloro che nascono sulle sue sponde, ne era innamorata. Lontani lo sospirano, al rivederlo, par loro rivedere una persona amata.

L'effetto prodotto sui dieci mila Greci di Senofonte al rivedere il mare dopo lungo e pericoloso viaggio pedestre a traverso la Persia, si comprende facilmente. E le grida di gioia e l'inginocchiarsi a salutare Anfitrite liberatrice, come il mare fosse la patria loro, non hanno d'uopo di spiegazioni.

CAPITOLO XXV LO YACHT

"Dondola, o graziosa Naiade, gli eleganti tuoi fianchi sull'onda Mediterranea. Io ti rivedo commossa con tutto l'affetto dell'anima mia!

E perché non amerei te come un'amica? Te, a cui devo tante emozioni, tanti piaceri sublimi!

Io ti amo! Quando l'Oceano fatto specchio riflette ogni oggetto esistente con magica somiglianza, come è bello veduto dalla tua tolda! E come è bello quando increspato dalla brezza, dolcemente tu gonfi l'eburnee tue ali quasi danzando, scherzando e sogghignando dinanzi all'umile sdegnosetta forza dell'Espero(24).

Ti amo perdutamente quando simile allo indomato corsiero del deserto, spumando dalle narici infocate(25), ti slanci impavida sull'onda irritata e la soperchi, la schiacci e procedi infiammata dagli ostacoli che la tempesta accumula sul tuo cammino glorioso!

Ti amo graziosa Naiade perché so che tu ti chiamerai Clelia per l'avvenire, in onore della bella e cara mia compagna, in onore della coraggiosa fanciulla che affrontò un demone quasi certa di perder la vita, per non soggiacere al vituperio!".

Così, con enfasi sclamava Giulia, e veramente dal momento in cui ella avea veduto Clelia slanciarsi sul masnadiero con tanta intrepidezza diventò di lei entusiasta e le giurò nel fondo dell'anima sua un affetto imperituro. Tali sono gl'istanti delle anime grandi. La bassa, la volgare gelosia non vi attecchisce mai. Così da una parte l'ammirazione e dall'altra l'ammirazione e la gratitudine strinsero queste due bellissime fanciulle d'un amore indissolubile per tutta la vita.

Giulia, non potendo condurre l'intiera comitiva a Porto d'Anzo ove si potevano risvegliare le apprensioni di quelle sospettose autorità pontificie, condusse seco Manlio come cocchiere ed Aurelia come cameriera, lasciando Silvia e Clelia ad una certa distanza nel bosco che tocca la sponda del mare sotto la custodia di Orazio.

Eran ben custodite di certo. L'Orazio Romano le avrebbe difese contro un esercito e si sarebbe lasciato fare a pezzi per loro.

Il Capo d'Anzo a mezzogiorno e Civitavecchia a tramontana sono i limiti di quella spiaggia inospitale e pericolosa che si chiama "la spiaggia romana". Il navigante nella stagione d'inverno si tiene al largo in alto mare per non esser sorpreso dai venti di Libeccio che vi soffiano impetuosi e vi cagionano non pochi naufraghi.

L'imboccatura del Tevere che si trova quasi nel centro di questa spiaggia è praticata nella sola foce di Fiumicino da legni che non pescano più di quattro o cinque piedi d'acqua e nella sola stagione primaverile essendo pestifero il luogo, a cagione delle febbri, la state, e pericolosissimo d'inverno per i venti di mare.

Sulla sponda sinistra del Tevere, verso Capo d'Anzo e Monte Circello, abitavano anticamente i bellicosi Volsci, che tanto da fare diedero ai Romani per sottometterli. Di Arde loro capitale, città cospicua, sussistono tuttora le rovine e attestano la prosperità di quei popoli antichi. Oggi, sotto il governo dei preti, quel paese è deserto.

Il Capo d'Anzo, adunque, forma col suo promontorio il porto che piglia il suo nome. Porto capace soltanto di piccoli legni ed in questo stava ancorato l'elegante Yacht della nostra Giulia pronto a' suoi ordini.

L'arrivo di Giulia nel porto se non fu una festa per le autorità pretine, sempre nemiche degli Inglesi, ai quali imputano il doppio delitto di eretici e di liberali, ben lo fu per l'equipaggio della Clelia verso il quale la nostra eroina era sempre gentile, e a cui era carissima.

L'uomo di mare, esposto quasi tutta la vita a pericoli, ha molti titoli alla benevolenza della donna sempre propensa, come già dicemmo, ad apprezzare i coraggiosi; e la donna trova pure grandi predilezioni tra i rozzi, ma leali e generosi marinai. Giulia poi aveva troppi meriti perché non fosse adorata dall'intero equipaggio!

Giunta sulla tolda, la bella inglese dopo d'avere corrisposto ai saluti affettuosi de' suoi concittadini discese nella camera, chiamò il capitano Thompson e con lui conferì sul da farsi per levare le compagne dal punto ove le aveva lasciate e condurle in luogo sicuro.

"Aye, Aye!" esclamò il bravo marinaio stanco d'esser rimasto per tanto tempo nell'ozio e altero di poter obbedire la sua giovane padrona in qualunque impresa fosse anche a pericolo della vita.

In meno d'un'ora da che erano saliti a bordo i nuovi personaggi la Clelia aveva già levato l'ancora e con tutte le vele spiegate, usciva dal porto con debole brezza da Greco che la spingeva.

CAPITOLO XXVI LA TEMPESTA

Ricorderanno i lettori che siamo nella seconda quindicina di febbraio e questo mese, lo dico ora, è il peggiore di tutti per coloro che corrono il mare, specialmente il Mediterraneo. "Febbraio corto, peggio d'un turco" dicono i marinai italiani a cui la rima, come si vede, non è troppo famigliare.

Il capitano Thompson, ardente di obbedire al desiderio della padroncina, s'era perfino scordato di consultare il barometro; ed il barometro abbassava furiosamente, ed in questi mari la caduta del mercurio è segno infallibile di forti venti da Libeccio.

Come dicemmo, la Clelia usciva con tutte le vele spiegate dal porto d'Anzo ed orzando a maestro(26) con piccola brezza da Greco, cominciava a graziosamente dondolarsi con un po' di mare a traverso. Dico "graziosamente" per il capitano Thompson o per un osservatore dalla spiaggia, non per il nostro Manlio né per la povera Aurelia, che ambedue per la prima volta gettati loro malgrado sull'elemento infido cominciavano a risentire le nausee del mal di mare.

Era durante la notte che lo Yacht doveva avvicinarsi alla costa ove si trovava Orazio con le due donne, a circa tre miglia a tramontana di porto d'Anzo. Giulia aveva dato ordine al capitano di fare in guisa di trovarsi appunto la notte al luogo determinato; con Orazio era convenuto che dovesse segnalare la sua presenza accendendo un fuoco; e il romano ed il capitano inglese non erano uomini da mancare al loro dovere. Il temporale fu quello che decise altrimenti.

Il lieve Greco che aveva spinto la Clelia fuori dal porto a due miglia calmò intieramente: nuvoloni neri neri si avanzavano da Libeccio e, peggio di tutto, il mare da quella via veniva ingrossando spaventosamente: il vento dapprima temuto dai nostri Argonauti era ora ardentemente desiderato poiché lo Yacht privo di quell'aiuto si vedeva spinto verso la spiaggia senza governo ed in pericolo quasi certo di dare contro alla costa e perdersi.

Cadeva la notte, la costa co' suoi pericoli era vicina e Thompson alla disperazione avvertì la signora che il solo rimedio per evitare un naufragio era quello di dar fondo all'àncora.

Giulia, coraggiosissima in terra come in mare, avvolta in un ampio scialle, si teneva sulla tolda osservando il movimento e delle nubi e del mare e del povero legno, che somigliante a persona travagliata, gemeva sbattuto dalle onde crescenti che lo spingevano senza posa verso le scogliere della costa.

L'osservazione del capitano di dar fondo era giusta, ma in quel paraggio, che bastimento potrebbe tenere all'àncora contro la traversia? Pure altro rimedio non v'era, e Giulia acconsentì. Già i marinari dalla prora stavan col serrabozze(27) nelle mani per lasciar andar l'àncora quando un grido della nostra eroina fece sospendere l'opera incominciata.

Un primo soffio di Libeccio avea sfiorato la guancia di Giulia e in quel soffio ella intravvide l'inutilità e il pericolo della intrapresa manovra. La Clelia infatti, aveva contemporaneamente rigonfiate le vele e cominciava a prendere una posizione più stabile a sentire il timone, e ad orzare alquanto sulla sinistra. La prora, che senza governo aveva vagato da tramontana a maestro prendendo il mare a traverso cominciò ad avvicinarsi verso il ponente maestro e n'era ben tempo! Essendosi il legno colla deriva avvicinato ai bassi fondi della costa, un colpo di mare nell'atto che cominciava ad orzare, quasi quasi lo sommerse. La terribile traversia delle spiagge romane non si fece aspettare lungamente.

La bufera veniva a man dritta; vele, manovre, scotte, alberi, tutto cigolava, strideva, minacciava rovina. La parte destra della Clelia in pochi minuti fu sommersa dal mare ma l'agile legno saltava sui marosi spumanti come un delfino. Il bravo Thompson colle voci succinte ed energiche del comando inglese ordinava all'equipaggio di tenersi sulle drizze(28) ma di non ammainare nulla.

Orzando in fuori con quella valentia che hanno le navi di questa specie, presto si sentirono meno i frangenti, ed ingrossando il vento il comandante ordinò che si diminuissero le vele. In circa mezz'ora furono presi tutti i terzaruoli alle due rande(29) alla trinchettina(30) e ritirato il fiocco(31), continuandosi ad assicurare ogni oggetto contro la violenza del mare.

La Clelia proseguì colle mure alla sinistra(32) e prima delle dieci essa lottava contro una decisa tempesta.

"Quel colpo di mare tremendo - disse Thompson a Giulia la quale non aveva voluto ancora lasciare la tolda - ci ha portato via il nostro John!".

"Povero giovane!" rispose Giulia, con un profondo sospiro.

Lo Yacht era orientato(33), i boccaporti chiusi ermeticamente. Il capitano, afferrato alle sartie di maestra del vento(34), aveva presso di sé quasi tutto l'equipaggio, ognuno fortemente tenuto per non essere portato via dal mare; i timonieri (poiché due erano al timone) erano anch'essi legati a metà corpo(35). Il capitano finalmente potè ottenere dalla sua signora che scendesse in camera, il che fece, piuttosto per aver contezza de' suoi amici che per riguardo al proprio pericolo.

A Giulia, entrando nella camera, si presentò uno spettacolo, dinanzi al quale non potè a meno di scoppiare in uno scroscio di risa.

Aurelia, che forse lo stesso colpo di mare il quale aveva portato via il povero John slanciava come un sacco sulla parete di sottovento, ove già trovavasi Manlio spintovi da analogo impulso, si teneva disperatamente a lui avviticchiata. La povera donna che per la prima volta si trovava vittima d'una tempesta di mare credette venuto il finimondo, e trovandosi al contatto di un corpo umano vivente, vi si era abbarbicata con quella forza che dà la disperazione.

Invano Manlio gridava non lo strangolasse, invano, che anzi quando conobbe la voce amica dell'artista per impulso di simpatia gli si strinse intorno ancor più fortemente. Lo scultore assuefatto a muovere dei massi in marmo sarebbe pervenuto a svincolarsi da quegli abbrancamenti ma uomo buono e primitivo com'era, e un po' fiaccato da quelle maledette nausee altro non faceva che sforzarsi col miglior modo possibile a respingerla tanto da evitare la soffocazione.

In questa posizione tragicomica trovò Giulia i suoi compagni di viaggio. Dopo essersi abbandonata all'irrefrenabile ilarità ella chiamò un domestico e col suo aiuto pervenne a collocare gli amici in situazione più conveniente.

La Clelia lottò ancora tutta la notte colla tempesta e ben le valsero le superiori sue qualità marine per non essere soperchiata e non le valse meno l'intrepidezza del suo coraggioso equipaggio.

All'alba il temporale rallentò alquanto del suo furore ed avendo il vento girato all'ostrolibeccio si pensò di far correre(36) per Porto Ferraio o Longone onde riparare le sofferte avarie che non erano poche.

I due palischermi erano stati strappati e portati via dal mare; delle murate, da poppa a prora, non esisteva più un sol pezzo e di quanti oggetti si trovavano sulla coperta, nulla vi era rimasto.

Poco prima di giorno un maroso gigantesco come una montagna s'infranse sul trinchetto, lo sfondò e dié così agio alla bufera di continuare la sua opera di distruzione.

Quando il capitano Thompson era d'avviso di cercare un porto per ripararsi voleva dire che la necessità era estrema non essendo lui, come la maggior parte de' suoi connazionali, propenso a cedere alle prepotenti velleità dell'Oceano.

CAPITOLO XXVII IL DESERTO

Torniamo alla bella omonima del superbo e valoroso Yacht ed ai suoi compagni di solitudine. Orazio, siccome era convenuto con Giulia, accese un bel fuoco sulla spiaggia appena fu notte e con molta ansietà stette per un pezzo osservando se compariva il palischermo che doveva condurre le donne a bordo. Ma l'arrivo istantaneo della bufera e l'agitazione conseguente dell'onde lo persuasero ben tosto che era inutile pensare all'imbarco durante quella notte.

Orazio inoltre, benché non fosse uomo di mare, s'era accorto prima ancora dell'imbrunire che lo Yacht ch'egli non aveva perduto di vista dopo uscito dal porto si trovava tutt'altro che in istato d'inviare imbarcazioni alla costa; anzi coll'imperversare della tempesta egli temette per la salvezza del legno.

Dopo aver cercato un ricovero alle donne nelle rovine d'una vicina torre(37). Orazio si mise a percorrere in su ed in giù la spiaggia con l'intento di prestar aiuto se ne fosse stato d'uopo a qualche naufrago. E non fu invano. Fregandosi gli occhi acciecati dagli sprazzi del mare e dalla pioggia che gli flagellavano il volto parvegli scorgere sulla cresta di un maroso che brillò un istante nell'oscurità qualche cosa di scuro che si sforzava di tenersi a galla. Questa scoperta spinse Orazio ad avvicinarsi vieppiù verso l'onda e nell'andirivieni di questa finalmente ei giunse ad afferrare un corpo umano che si moveva a stento. Era il povero John che si dibatteva contro la morte, dopo aver lottato con sovrumani sforzi co' flutti imperversanti.

Colse Orazio nelle robuste sue braccia il giovane Inglese e lo trasportò verso le donne situate in un canto della torre, dove d'accordo si sforzavano ad alimentare un fuoco preziosissimo in quella disastrosa notte.

Era John una di quelle simpatiche fisonomie di giovine marinaro inglese, dagli undici ai dodici anni, però sviluppato e forte. Lascio pensare con che amorevolezza lo accolsero le nostre Romane. Lo spogliarono, lo asciugarono, lo coprirono dei loro abiti asciutti; mancava il grog(38) per il piccolo John, ma un fiasco d'Orvieto di cui Orazio aveva provvisto le viaggiatrici vi supplì dovutamente e John dopo due ore coi suoi abiti asciutti, rifocillato ed in sì bella compagnia, avea dimenticato Yacht, tempesta, il mondo e russava colla testa sopra un sasso ed i piedi vicini al fuoco, come se fosse in un letto di piume.

Orazio dopo aver percorso la spiaggia un gran pezzo ad onta dell'infuriante tempesta col timore e la speranza di poter essere utile a qualch'altro disgraziato, tornò alla torre e procurò anch'egli d'asciugarsi i panni e rifocillarsi.

Clelia accantucciata colla madre in un angolo col capo appoggiato in grembo di lei, avea pur essa ceduto alla stanchezza ed alla gioventù, beandosi in un profondo sonno.

Silvia non dormiva, sonnecchiava. Coll'indole sua delicata e gentile essa era stata troppo scossa dalla sequela di così terribili avvenimenti. Madre affettuosissima, sosteneva il caro peso della sua Clelia e stava immobile per timore di svegliarla; un pensiero affannoso le annuvolava la fronte piena di mestizia: "Che sarà del mio Manlio in questo finimondo?". E poi, quasi un rimorso la colpisse di consacrare i suoi pensieri unicamente allo sposo, aggiungeva: "e la povera Aurelia?!". E sonnecchiava affannosamente!

Non così il Romano. Egli sapeva d'esser troppo vicino alle volpi pretine di Porto d'Anzo perché s'abbandonasse al riposo. Seduto sopra un gran sasso delle ruine ch'egli avea avvicinato al fuoco, lo alimentava di quando in quando vigilando.

Il suo mantello lo avea lasciato alle donne che se ne coprivano; tutti i pezzi delle vestimenta bagnati nelle sue escursioni sulla spiaggia erano stati asciugati l'un dopo l'altro e rivestiti; la sua cartucciera di cuoio maestrevolmente lavorata, cingeva alla cintura. Due revolver pendevano ai suoi fianchi nelle rispettive fonde, il suo pugnale a larga lama da potersi usare come arma di guerra e coltello da caccia, sporgeva obliquamente dalla cartucciera ov'era immerso per metà e la fida carabina ch'egli avea minutamente ispezionata pria di sedersi, posava adagiata alla sua sinistra.

Era vestito di velluto oscuro con bottoni inargentati. Le uose affibbiate fino al ginocchio coprivano un piede comparativamente piccolo e ben fatto e contornavano graziosamente la polputa sua gamba. Al collo cingeva una cravatta di seta nera ed un elegante fazzoletto di raso rosso sciolto circondava le sue magnifiche spalle annodato sul petto. Un cappello nero di forma quasi calabrese un po' inclinato sulla destra copriva il capo di cui si sarebbe onorato Marte, e compieva l'abbigliamento.

Quando il chiarore della fiamma da lui ravvivata risplendea sull'abbronzata e maschia fisionomia del liberatore, un maestro dell'arte del bello chi sa cosa avrebbe dato, per poter ritrarre in quel marziale aspetto il simbolo della forza, del coraggio e dell'eroismo!

E qual delitto era se la sensibile Silvia, sonnecchiante, tra una beccata e l'altra contemplava il suo protettore con occhi spalancati e dimenticava per un momento solo il suo caro Manlio battuto dalla tempesta e forse in quell'istante non troppo dolcemente stretto dalle braccia d'Aurelia?

Dican pur ciò che vogliono gli ermafroditi moderni inginocchiati davanti al menzognero simulacro d'una teocrazia buffona o dinanzi ai gradini del trono d'uno spergiuro straniero, brutto di sangue concittadino e nostro! Chiamino pure briganti come il prezzolato dal prete il mio Orazio Coclite. Ove il suo brigantaggio si confini a voler l'Italia una e sia sempre pronto a menar le mani contro l'impostura e contro lo straniero io dirò sempre: Ecco il mio uomo! Ecco il mio eroe! Ecco l'Italiano com'io lo sogno e come diverrà quando non sia più educato dai settari di Lojola.

"Signora! - disse Orazio con una voce che fe' rimescolare ancor più la nostra buona Silvia tanto essa era dolce e filiale - Signora! il giorno non deve trovarci in queste macerie e subito che vi sia tanta luce da poter mettere il piede sicuro sul sentiero della foresta noi dobbiamo internarci allontanandoci dalla sede dei nostri nemici". "E Manlio, Aurelia, e Giulia?" disse la donna volta dolorosamente col pensiero a quei cari.

"Essi - rispose Orazio - sono probabilmente lontani in alto mare e speriamo fuori di pericolo. Nonostante pria d'internarci nel bosco ricercheremo la spiaggia ove è meglio che non si trovino".

"Dio li liberi! - esclamò la donna colle mani giunte e gli occhi rivolti al cielo - Dio li liberi! d'esser stati gettati alla costa da sì furioso uragano!".

Un silenzio assoluto succedeva a queste parole. Orazio che non cessava di spiare l'apparire dell'alba, quando s'accorse che le donne ci potevan vedere tanto da non mettere in fallo il piede sul terreno si alzò e disse: "È tempo di porci in viaggio".

Silvia scosse dolcemente la sua Clelia; col calcio della carabina fu destato John ed in pochi minuti i quattro con Orazio alla testa uscivan dalle macerie dirigendosi verso tramontana e seguendo l'orlo della macchia non lontani dalla costa.

La tempesta aveva rimesso della sua furia ma non abbastanza perché le donne non ne fossero disturbate nel procedere; per buona sorte la pioggia avea cessato ma i frangenti del mare inviavano i loro sprazzi sul volto dei viaggiatori in guisa da incomodarli assai. Pur bisognava scoprire il lido pria di addentrarsi nel bosco ed Orazio salito su d'un monticello di sabbia con dietro John spingeva l'acuto suo sguardo su tutta l'estensione del litorale già abbastanza rischiarato dal giorno. Fortunatamente nulla scoprì che dasse indizio di naufragio in quello sconquasso spumante dell'onde infuriate sulle deserte e desolate spiagge romane.

Tornati alle donne, ch'erano rimaste in una specie di avvallamento del terreno, Orazio disse: "I nostri amici sono fuori di pericolo, tocca ora a noi a fare altrettanto". Così dicendo prese a destra per un sentiero a lui conosciuto e s'internò nel deserto accompagnato dalla silenziosa comitiva.

CAPITOLO XXVIII LA RITIRATA

Dopo l'avvenuto nelle Terme di Caracalla, la posizione d'Attilio, e de' suoi amici divenne ben pericolosa. Il traditore avea pagato il fio con la sua vita; i cagnotti del Governo avevano avuto la peggio, ma la polizia era sulle tracce della cospirazione e certo ne conosceva, od almeno ne sospettava i capi.

Se gli amici di fuori fossero stati pronti come lo erano i romani, nella stessa notte del 15 febbraio si poteva farla finita coi preti e lo si poteva in qualunque altro giorno. Ma i moderati sempre paurosi ed indissolubilmente legati al carro dei potenti non volevano saperne di menar le mani e volevano a qualunque costo aspettare la manna dal cielo, e dal beneplacito dello straniero, la libertà della patria.

Che importava loro del decoro nazionale? del sogghigno beffardo di tutte le nazioni Europee, di provincie compre coll'oro, e coll'oro vendute? Essi, avviticchiati ai lucri ed agli impieghi, eran sordi a qualunque proposito generoso che potesse compromettere l'Eldorado(39) a loro consegnato dalla Rivoluzione, che altro per sé non volle che il bene e l'unità nazionale. Quindi l'Italia da tanti secoli divisa, depredata, avvilita, corrotta da quella caterva di iene in sottana, si trova oggi ancella ringiovanita, riportata all'altare del sacerdozio di Satana a rinnovare l'antico bacio della pantofola.

I porporati, assoldatori di briganti, tornarono alle grasse prebende, il popolo alle solite miserie ed i valorosi che bagnarono del loro sangue tutte le terre italiane obbligati a ripigliare la via dell'esilio, ad errare nelle foreste per sottrarsi alle vendette dei preti.

Tale era la condizione di Roma nei primi mesi di quest'anno 1867 in cui si vedevano mercenarii stranieri sostituiti da altri mercenarii ancora peggiori impossessarsi della città nostra; si vedeva l'Italia prostrata ai cenni di un devoto assassino rinnegare Roma e le sue glorie per compiacergli e potendo viver bella, rigenerata, rigogliosa, sorta colla superba aureola di libertà e d'indipendenza sì caramente acquistate per virtù de' suoi figli, la si vedeva ravvoltolarsi spudoratamente nel fetido brago dei corruttori e persecutori del genere umano.

Ma torniamo indietro al nostro racconto,

Una sera dei primi di marzo in una stanzuccia sul di dietro della casa di Manlio in Trastevere s'eran riuniti, Attilio, Muzio e Silvio per conferire sul da farsi. Dal 15 febbraio eran rimasti in Roma per tentare la fortuna; ma la fortuna di Roma era intricata in un labirinto tale che tutto il generoso patriottismo dei nostri giovani eroi e de' loro trecento bellicosi compagni, non poteva trovarne l'uscita.

"Oggi, - diceva Attilio, - non v'è più merito a dar la vita per il proprio paese quando è santificato il principio del non fare per non disturbare il bell'andamento di cose ordite dal moderantume. I nostri amici di fuori sonosi rappattumati vergognosamente con questi nemici d'Italia, ma noi!... come lo potremo mai? Potremo noi vivere in famiglia e concordi cogli scellerati, che ci venderebbero cento volte allo straniero, che corruppero, che depravarono questa nostra città e la prostituirono come solo loro sono capaci di prostituire, che arsero i nostri padri, che stuprarono le nostre vergini, che fecero della nostra Roma, un bordello! una cloaca!!!".

Attilio fuori di sé alzava la voce oltre misura, onde Silvio più pacato gli disse: "Parla sommesso, fratello! Tu sai come siamo perseguiti e non è difficile che nei dintorni di questa casa vi sieno sgherri appiattati. Qui già non si può più stare, lasciamo Regolo incaricato delle cose nostre in città e prendiamo la campagna. Là, non mancano amici, i coraggiosi vivono dovunque. Lasciamo che Italia si stanchi d'essere ludibrio di queste sue mignatte in maschera liberale, di questi mercanti di uomini tra l'impostura e il dispotismo! Andiamo! - continuò Silvio dopo un istante di pausa, durante la quale pareva che un'ignota forza volesse collocarsi fra lui e il suo divisamento. - I nostri nemici ci chiameranno briganti, avventurieri, come ci chiamarono nella gloriosa spedizione di Marsala. Che importa? come allora, noi tuteleremo la libertà di questa nostra patria infelice e marceremo alla riscossa quando essa voglia devvero emanciparsi dalla tirannide".

CAPITOLO XXIX LA FORESTA

Dopo aver camminato per circa due ore nella foresta, per sentieri ove in molti luoghi mancavano le traccie dell'uomo e somigliavan piuttosto ad aperture dovute alle corna del bufalo. Orazio che era sempre alla testa della comitiva composta di Silvia, Clelia e John, e che adoperavasi a sbarazzare il sentiero da piante cadute, e dai rami che lo attraversavano, fermossi finalmente in uno spiazzato, ove il bosco aprivasi per lasciare il posto ad un ameno praticello.

Il tempo s'era rasserenato, alcune raffiche di vento, resto della notturna tempesta, colpivano ancora le cime delle secolari piante ma nel sito ove si trovavano i nostri viaggiatori appena se ne sentiva il soffio.

"Signora Silvia, - diceva Orazio: - voi con Clelia, adagiatevi qui in questo luogo e riposatevi che ne avrete molto bisogno. Io con John m'allontanerò per poco a cercar da mangiare". Così dicendo distese il mantello sull'erba e facendo un segno a John che lo seguisse s'imboscò con lui per una nuova direzione nella foresta e entrambi scomparvero.

Silvia era stanca veramente. Clelia giovane e di costituzione più robusta lo era meno, però anch'essa trovò ben piacevoli alcuni momenti di riposo in quel sito ameno e appartato dal mondo ove altra traccia di creatura umana non si distingueva che quella da loro stessi solcata sull'erba.

Dopo un momento di riposo la nostra eroina cedendo alla vivacità dell'età sua ed avendo scoperto che il praticello era variopinto di fiorellini alzossi e si mise a raccoglierne un mazzolino da presentare alla mamma. Tornata a Silvia, e sedutasi accanto, nel mentre che porgeva il mazzo, un tiro di carabina s'udì a non molta distanza e l'eco della foresta lo ripetè più volte.

Silvia fu scossa dal rimbombo della scarica e certamente per la sua delicata natura, quel tuonare subitaneo in quella silenziosa solitudine ebbe qualche cosa di straordinario. Clelia però accorgendosi dell'effetto provato dalla madre disse sorridendo: "ma questo è uno sparo del nostro amico; sta pur sicura, mamma, che presto noi lo vedremo qui di ritorno con della selvaggina". Un abbraccio amoroso alla sua Clelia fu la risposta di Silvia ed ambe s'intrattennero a ricordare i loro cari, le straordinarie vicende che le avean divise da loro, ed a pascersi della speranza di poterli rivedere presto.

Non tardarono Orazio e John a raggiungere le loro compagne portando a stanga un giovane cignale che la carabina del Romano aveva atterrato.

"Clelia, - disse Orazio, - fate capire all'Inglese di raccogliere legna secca per far fuoco"; e Clelia che conosceva un poco quella lingua ed era stata l'interprete del giovin marinaro glielo spiegò. John si accinse colla miglior voglia del mondo a spezzare rami, ad ammassarli, ed in pochi minuti un magnifico fuoco scoppiettava allegramente in mezzo ai nostri viaggiatori.

L'arte del macellaio è disprezzata e veramente quell'imbrattarsi di sangue d'altra creatura e sminuzzarne le carni ripugna, ha del selvaggio, e per indurito che sia il cuore dell'uomo egli non può a meno di risentirsene. Io, per esempio, mi sarei volentieri conformato alla vita dei Pittagorici(40) e più crescon gli anni, più aumenta in me la ripugnanza degli eccidi animali e, devo confessarlo, cacciatore una volta, io soffro oggi nel vedere anche un uccello ferito.

Non so se lo stesso sentimento provasse Orazio, il coraggioso figlio della foresta; ma repugnante o no, come avrebbe egli potuto vivere senza la caccia, obbligato com'era a tenersi lontano dall'abitato? Per quella volta intanto, egli con molta grazia distese la sua preda sull'erba, trasse il suo coltello pugnale, fece in pezzi il cignale, acconciò a guisa di spiedo un virgulto di legno verde, v'infilzò la carne, ed in poco tempo presentò ai suoi compagni affamati un arrosto da invogliarne anche un moderato.

L'appetito servì di condimento alle vivande, e non mancarono durante il pasto motti graziosi, massime sul conto del piccolo John che, eccitato dalla Clelia a parlare italiano principiava, com'era naturale, col dire spropositi che mettevano la compagnia in una cordiale ilarità.

Il marinaro poi è un essere più allegro degli altri quando è a terra e da lungo tempo egli non l'ha toccata. Questo non era veramente il caso del nostro John ch'era rimasto molti giorni in Porto d'Anzo ed avea visitato coll'Yacht la maggior parte dei porti d'Italia; ma, comunque fosse, in questo nuovo mondo della foresta, egli si trovava perfettamente e non invidiava punto i suoi compagni nel tempestoso Tirreno. Poi Clelia era così bella! così gentile! ed Orazio uno di quei tipi che affascinano la gioventù, ed era inoltre il suo salvatore!

Terminato il pasto frugale, la comitiva si rimise in viaggio, seguendo all'incirca la stessa direzione tenuta nel venire e dopo aver camminato a lungo, giunse verso sera alla vista di quegli edifizi antichi che il tempo sembra avere rispettato, simili all'immortale Panteon a cui non posso pensare, senza tributargli un pensiero di rispetto e di ammirazione.

Erano i nostri sul limitare della foresta, ove il sentiero metteva in un ampio prato quasi circolare. Secolari querce erano sparse con certa regolarità su tutta la superficie del circolo e le reliquie di quelle antiche figlie della terra, cadendo per secoli al loro piede, identificate col piedestallo delle naturali colonne, vi avean formato dei graziosi tumuli, recessi di verdura, che invitavano gli stanchi viaggiatori al riposo.

"Riposatevi qui per un momento", disse Orazio alle donne, e mettendo alla bocca un piccolo corno ch'ei portava a tracolla ne trasse dei suoni che sembravan sproporzionati alla piccolezza dell'istromento. Un suono simile rispose da una capanna di guardia, situata sopra uno dei detti tumuli, capanna che Orazio certo doveva conoscere e della quale i suoi compagni non si erano accorti.

Un individuo vestito alla foggia d'Orazio uscì dalla capanna, gli si fece incontro con aria di rispetto ed una stretta di mano dei due accennò che non si trovavano per la prima volta. La sentinella (perché tale era lo sconosciuto) dopo breve colloquio, facendo segno alle donne di alzarsi, incamminossi precedendole verso l'edifizio.

CAPITOLO XXX IL CASTELLO

Il periodo di grandezza e di gloria durante il quale la capitale del mondo maggiormente rifulse si chiuse colla Repubblica, e la maestà del sistema Repubblicano con gli Scipioni. Dopo la battaglia di Zama(41), quando Roma non ebbe più nemici potenti, e facile divenne mettere le mani su ciò che v'era ancora da conquistare dei paesi sconosciuti, i Romani impinguati delle spoglie dei vinti dieronsi alle gare interne e ad ogni sorta di lussuria da cui furon trascinati poi all'ultimo stadio di degradazione a diventare gli schiavi dei loro schiavi. E fu giustizia che così avvenisse: Dio li pagò della stessa moneta con la quale essi avevano trattate le nazioni.

Ma l'ultimo periodo della Repubblica ha in sé qualche cosa di grande. Prima di morire, quella schiatta di giganti (parlo degli ultimi Repubblicani), presenta alla storia un complesso di uomini tali da far giustamente meravigliare. Lucullo, Sertorio, Mario, Silla, Pompeo, Cesare son tali uomini, tali generali, uno solo dei quali basterebbe per illustrare i fasti guerrieri d'una grande nazione.

Se la perfezione fosse possibile all'uomo e Cesare alle sue qualità avesse unita l'abnegazione di Silla, io direi come l'autore della Grandezza e Decadenza dell'Impero romano "Cesare è il più grande di tutti i grandi uomini del mondo".

Di Silla in fatti strenuo generale anche lui questo racconta la storia. Dopo aver voluto correggere i Romani e sottrarli alla corruzione con mezzi terribili sino ad ordinare l'eccidio di ottomila cittadini in una volta, un bel giorno radunò il popolo nel Foro e sedendo in mezzo alla adunanza al posto di dittatore, rimproverò ai Romani i loro incorreggibili vizi, quindi disse loro: "Tenni la dittatura colla speranza di migliorarvi. Oggi mi son convinto che non lo posso. Ritorno privato cittadino, pronto a dar ragione del mio operato a chi me lo chieda". Così dicendo scese dalla tribuna, e si confuse nella folla tranquillo ed altero, mentre dei Romani non uno gli chiese conto di un torto.

E sì a molti dei presenti egli avea ucciso congiunti, amici, fratelli.

Cesare non sanguinario al pari di Silla ma d'un'intelligenza a lui superiore, non seppe imitarne l'abnegazione, si lasciò cullare dalla propria ambizione, e sognò di poter cingere la fronte d'una corona. I pugnali degli ultimi Romani distrussero il suo sogno trafiggendolo a morte.

Sulle rovine della Repubblica sorse l'Impero.

Fra gl'Imperatori ve ne furono dei meno tristi come Trajano, Tito Antonino e Marco Aurelio. La maggior parte però furon mostri che non contenti delle immense ricchezze che possedevano nelle loro condizioni supreme, cercavano ancora usurpare le sostanze altrui, e guai al ricco Romano ch'essi potevano depredare con uno od altro pretesto!

I cittadini che possedevan grandi ricchezze procuravano d'allontanarsi da Roma. Alcuni cercavan rifuggire in paesi stranieri, altri in siti reconditi ove non vi fosse probabilità di venire molestati. Tra questi ultimi un discendente di Lucullo sotto il regno di Nerone era andato a stabilirsi nel luogo ove all'estremità della foresta i nostri viaggiatori avevano scorto un antico monumento. Colà egli si credette di trovarsi al sicuro dalle carezze di quel pezzo di galantuomo ch'era l'incendiario di Roma(42).

Il sito adunque ove Marco Lucullo edificò il suo castello era lo stesso in cui noi lasciammo la nostra Clelia coi compagni e forse alcuna fra le quercie che ne adornavano il parco ricordavasi del figlio di quel vincitore dell'Asia(43).

L'architettura del castello era superba e superbamente conservata. Le facciate esterne dell'edificio erano ricoperte d'edera ingigantita dai secoli, ma, l'interno ripulito accuratamente dai moderni abitatori, se non presentava tutti gli agi che si possono aspettare in una casa moderna, offriva buon numero di sale e stanze ben conservate e spaziosissime.

Privo d'abitatori per molto tempo, oltre all'edera che lo tappezzava, il castello era pure nascosto dalle piante gigantesche che lo circondavano, e questa circostanza lo rendeva acconcio ai bisogni d'Orazio e dei suoi compagni di proscrizione. Di più, come tutte le abitazioni edificate in quei tempi di sospetto, il castello aveva i suoi sotterranei in cui non solo era agevole il nascondersi, ma a traverso i quali si poteva percorrere immenso tratto di paese nel seno della terra.

Chi avesse chiesto qualche cosa ai pochi pastori il cui gregge pascolava nei dintorni della foresta avrebbe udito rispondersi, che nel centro di quella v'era un castello abitato dagli spiriti cui nessuno aveva mai potuto avvicinarsi perché de' più coraggiosi che lo tentarono non se n'ebbe mai più notizia.

Raccontavano ancora, che una figlia del ricco principe I..., che con la famiglia s'era trovata ai bagni marini di Porto d'Anzo, essendosi avvicinata colle sue damigelle all'orlo del bosco, era stata, a' loro occhi veggenti, portata per aria dagli spiriti e più nulla se ne era saputo ad onta delle minute indagini fatte praticare dal padre in tutti gli angoli della foresta.

Ecco, in quel paese di meraviglie capitò la comitiva condotta da Orazio.

CAPITOLO XXXI LA BELLA IRENE

Sul peristilio del castello ove giungevano i nostri quattro viaggiatori scorgevasi una giovine donna, il cui aspetto indicava la matrona romana forse un po' più delicata del tipo antico.

Ai suoi vent'anni, al vederla si avrebbe potuto aggiungere un lustro di più perché al suo sorriso angelico corrugavansi alquanto le bellissime guancie. Neri gli occhi e la capigliatura il suo portamento era incantevole e maestoso.

Avvertite le donne, con un inchino graziosamente le salutò, mentre Orazio le diceva: "Irene, ti presento Silvia e Clelia, la sposa e la figlia del nostro celebre scultore Manlio", e allora con un bacio cordiale Irene accolse le ospiti.

Il piccolo John incantato di trovare tanta bellezza e tanta grandezza ove aveva supposto di non trovar altro che solitudine e deserto fu più sorpreso ancora quando, seguendo la compagnia nell'interno del castello, s'accorse che in uno splendido salotto stava preparata una ancor più splendida mensa riccamente e copiosamente imbandita di ogni specie di vivande.

"Tu m'aspettavi dunque stasera?" disse amorosamente Orazio ad Irene.

"Oh sì! me lo diceva il cuore, che non avresti passata un'altra notte fuori", e un nuovo amplesso dei due amanti chiudeva il breve colloquio.

Clelia, la bella Clelia fu ben lungi dall'esserne gelosa. Ella era già troppo affezionata a quei due esseri e in quella vece il suo pensiero ed il suo cuore corsero ad Attilio. Credo non affermare cosa che il lettore non abbia indovinato aggiungendo che la buona Silvia mandò un sospiro pel suo povero Manlio.

John coll'appetito di dodici anni, stimolato da una passeggiata ben lunga per un povero tar(44), all'aspetto della mensa imbandita non ebbe pruriti d'amore, ma di sincerissima fame.

Una nuova scena di lì a poco colpì la madre e la figlia, e più di queste John, che ancora se ne stava a bocca aperta. Avendo Orazio dato di piglio a quel suo magico corno, comparvero come per incanto, l'uno dopo l'altro, quindici nuovi ospiti e tutti poco più, poco meno, vestiti alla foggia d'Orazio, ed armati.

L'ora già tarda, e la sala poco illuminata fecero più solenne sulle prime quella comparsa, ma venendo accesi i lumi le aperte, maschie e gentili fisonomie dei nuovi arrivati, guadagnarono loro l'ammirazione e la fiducia universali. Orazio allora "a tavola" gridò, facendo sedere Silvia alla sua destra, alla sinistra Clelia e dopo lei Irene. I compagni d'Orazio, sedute che furono le donne ed il loro capo, per cui mostravano gran rispetto, presero posto a tavola, mentre John s'era già collocato allato a Silvia.

Un bicchiere di wermuth brindato "alla libertà di Roma" iniziò il pranzo, che continuò poscia con molta alacrità per parte di tutti i commensali.

Terminato il pranzo, le donne si ritirarono nelle stanze d'Irene e mentre una serva di lei, conformandosi agli ordini ricevuti, preparava i letti per le nuove arrivate, esse con Irene contraccambiarono quattro paroline, siccome è uso del bel sesso, sulla reciproca loro storia.

Di Silvia e Clelia noi già lo sappiamo e ne resta a sapere ciò che la bella castellana raccontasse sul conto suo alle nuove amiche e il suo racconto fu il seguente:

"Sono figlia del principe T... che credo voi conosciate in Roma, famoso per le sue ricchezze, splendidamente educata da mio padre, a me non mancò nessuna specie d'istruzione, ma cosa singolare!, invece di propendere a studi che sembrerebbero più adatti al nostro sesso come la musica, il ballo ed altri femminili passatempi ed occupazioni, mi sentiva attratta verso gli studi seri e d'indole più grave che alle donne forse non si convenga. Quando venni allo studio della nostra Roma me ne appassionai in un modo strano, ed in quella stupenda storia della Repubblica sì piena di grandi fatti, di leggende e d'eroismo la mia giovine fantasia s'esaltava al punto da divenirne pazza.

Paragonando poi quei tempi eroici con gli obbrobrii dell'impero e della decadenza e in ispecie colla più moderna storia dei preti, così avviluppata in un caos di umiliazioni, di prostituzioni, di miserie, sentii tutto il peso d'una mortificazione inesprimibile. Studiando concepii un immenso disprezzo, un odio profondo per il Clericume, istrumento principale dell'abbassamento e del servilismo del nostro popolo. Con indole tale e tali sentimenti, vi persuaderete facilmente che le occupazioni e i divertimenti principeschi della mia casa, gli sterminati omaggi dell'aristocrazia Romana serva del prete e dello straniero, non potevano avere le mie predilezioni. Non tra le cortigianesche passeggiate, le feste, i balli e le dissipazioni vane, ma tra le splendide ed immense ruine di cui è seminata la nostra Metropoli, io trovavo le mie delizie, e cavalcando o a piedi, quasi ogni giorno, passavo alcune ore tra quei superbi avanzi della grandezza Romana. Giunta all'età di quindici anni, più dell'ago, dei ricami e delle mode, mi erano famigliari i capi d'opera dei maestri dell'arti belle, le macerie del Foro e quelle sparse nella deserta campagna intorno a Roma.

Soleva fare le mie escursioni lontane a cavallo accompagnata da un vecchio e fido domestico di casa. Una sera, di ritorno da una di quelle passeggiate, mentre traversavamo Transtevere alcuni soldati stranieri ubbriachi, i quali avevano attaccato rissa in una osteria uscirono colle sciabole perseguitandosi. Il mio cavallo si spaventò, prese il morso coi denti e di carriera precipitandosi per la via mi trasportava colla celerità del baleno rovesciando quanto gli si parava davanti, non potendo io rallentarne il corso per quanti sforzi facessi.

Era forte in sella e coloro che senza pericolo mi vedevano correre ammiravano, ma finalmente il corsiero continuando la sua furia la lena venne a mancarmi ed ero lì lì per lasciarmi cadere. Certo cadendo, mi sarei fatta in pezzi sul selciato, o contro qualche ostacolo della via, quando un giovane coraggioso lanciatosi dal marciapiedi come un lampo attraversa la via, getta la sua mano sinistra alle briglie e mi cinge robustamente colla destra mentre già mi abbandonavo sfinita. Allo strappo violento della mano del mio salvatore il cavallo fa un mezzo giro a sinistra, inciampa e va a fracassarsi il cranio contro il muro di una casa. Io era salva, ma svenuta e quando ripresi i sensi mi trovai nel mio letto, in casa mia, attorniata dalle mie donne. E chi era stato il mio salvatore? a chi chiederlo? Feci chiamare il domestico che mi accompagnava ma tutto quanto egli mi seppe dire era: che seguendomi da lontano giunse sul luogo della catastrofe quando io era già trasportata in una casa vicina da dove, palesando il mio nome mi fece trasferire subito nel mio palazzo. Altro non seppe dirmi del mio salvatore se non che egli era un giovine e che s'era ritirato dopo avermi consegnata alle donne di quella casa.

Però la mia ardente immaginazione aveva indovinato o distinto anche in mezzo a tale pericolo i lineamenti atletici di quell'agile e robusto giovine.

I suoi occhi avevan lampeggiato un solo istante nei miei ma quel lampo si era indelebilmente trasfuso ed impresso nel mio cuore. Io non potei più dimenticare quella sua fisionomia che ricordava gli eroi Romani scolpiti nell'anima mia. Oh! lo riconoscerò ben io se lo rivedo, dicea tra me, fosse egli romano! se è romano dev'essere della schiatta de' quiriti, del mio popolo ideale! del mio culto!

Una sera (voi conoscete l'uso in Roma di visitare il Colosseo al chiarore della luna), una sera, dico, accompagnata dallo stesso domestico io usciva da quel gigante delle ruine per tornare a casa. Ad una certa distanza essendosi diradata la folla, nel girare il canto della via che dal Tarpeo mette al Campidoglio ed all'ombra di quell'immenso edificio, un colpo di bastone rovesciò il mio domestico e due malandrini afferrandomi per le braccia cominciarono a trascinarmi violentemente verso l'arco di Severo(45). In quel punto le svelte forme dell'uomo che io aveva scolpito in cuore si delinearono nel chiaroscuro delle ruine: una lotta corpo a corpo s'impegnò tra i tre, ed in meno ch'io nol dico, i due assassini erano rovesciati nella polve. Vedendo il domestico rialzarsi e venire a noi, lo sconosciuto mi prese la mano, la baciò ed allontanossi frettolosamente.

Io era rimasta così attonita da tanti e sì subitanei avvenimenti che non ebbi la presenza di spirito di articolare una sola parola.

Mio padre, amorevolissimo, (io non aveva conosciuta mia madre) soleva nella stagione estiva andare ai bagni di mare in Porto d'Anzo forse più per compiacermi che per desiderio proprio, sapendo che io amava il mare e soprattutto amava di allontanarmi dalla società aristocratica della Metropoli per la quale non avevo la più lieve simpatia.

Fuori di Porto d'Anzo, a poca distanza verso il settentrione e non lontana dal mare, vi era una villa proprietà di mio padre da noi abitata nelle nostre escursioni estive.

Io amava la vista del mare, quivi vivea più volentieri che a Roma, ma vi era un vuoto nella mia esistenza, una smania nell'anima mia che mi turbava, che mi rendeva inquieta e malinconica. Io sentivo di amare perdutamente lo sconosciuto mio liberatore.

Sovente passava delle ore al balcone del mio appartamento, gettando lo sguardo in tutte le direzioni e su tutti i passanti, cercando le sembianze dell'uomo de' miei pensieri. Se scorgeva un palischermo, una navicella sul mare, puntava il mio binocolo su quel punto, non per altra brama che di scoprire fra la ciurma o tra i passeggeri l'idolo del mio cuore.

Una sera era già tardi ed io seduta al balcone della mia stanza in balìa ai mesti miei pensieri, quasi involontariamente stava contemplando l'astro della notte che spuntava sul lontano orizzonte delle pianure Pontine. Il tonfo d'un corpo che pareva piombare dall'alto del muro della villa mi trasse dalle mie contemplazioni: il cuore cominciò a battermi, non di paura però, e mentre l'astro notturno alzavasi ed aumentava il chiarore mi sembrò discernere tra le piante qualche cosa che s'avvicinasse. Poi mi parve distinguere una persona. Quando l'ombra o la persona uscì dal folto delle piante e si trovò all'aperto, un raggio di luna, che quasi orizzontale la illuminava, mi fece palesi le fattezze di colui che io aveva cercato invano per tanto tempo. Un grido di sorpresa e di gioia m'uscì incontanente dal petto e, lo confesso, tutto il mio pudore di donna bastò appena per trattenermi dal corrergli incontro e gettarmi nelle sue braccia. Il mio carattere solitario e sdegnoso de' costumi della Capitale mi aveva mantenuta in una innocenza eccezionale ed io, prole di principi appartenente alla più corrotta delle corti del mondo, era rimasta una semplice ed ingenua figlia della natura.

Irene! - mi disse una voce che mi scese nel più profondo dell'anima. - Irene! potrei avere la fortuna di dirvi due parole là o qua giù, come a voi piace?

Scendere mi sembrò più conveniente che introdurlo nelle mie stanze, e scesi! Ei mi prese quasi timidamente la mano, poi mi condusse verso il bosco e là ci sedemmo sopra un banco campestre l'uno accanto all'altro, all'ombra delle piante. Egli avrebbe potuto condurmi seco fino agli estremi confini della terra: io mi sarei lasciata guidare dove a lui meglio piaceva.

Stemmo un pezzo silenziosi; finalmente rompendo il silenzio egli mi disse: Irene! voi perdonate il mio ardimento, non è vero? Io non risposi, ma senza resistenza lasciai che traesse a sé la mia mano che egli baciava fervidamente.

Voi saprete, continuava egli, ch'io sono un plebeo. Irene, un orfano!, i miei genitori perivano entrambi alla difesa di Roma contro gli stranieri: su questa terra altro non mi rimane che il braccio ed un animo consacrato all'Italia ed a voi.

Predisposta com'era ad amarlo fin da quando egli non era per me che una creazione della fantasia che dava una forma al mio liberatore, potete immaginarvi se in quel momento, in cui l'essere fantastico della mia immaginazione, e del mio affetto aveva presa forma viva, che ne udiva la maschia ma affettuosa e soave voce io mi trovassi veramente beata.

Sentivo di esser sua ed egli avrebbe potuto disporre di me come d'una schiava; tale era il fascino che esercitava sopra la mia volontà.

Irene! - egli continuava - è d'uopo ascoltiate ancora, che sappiate che io non solamente sono un povero orfano, ma sono proscritto, condannato a morte, obbligato a vivere nelle foreste, perseguitato dagli sgherri del Governo, inseguito come le belve.

Un presentimento, un intuito della generosa indole vostra, non lo dico per vantarmene, credetelo, diceva al mio cuore che voi mi amavate e che quell'amore vi faceva infelice. Per questo sono venuto, o Irene!... e sono venuto... a dirvi... che voi non potete esser mia!

Dopo un istante di pausa, rinfrancatasi la voce, ch'era andata grado grado abbassando eì proseguiva: Voi dovete dimenticarmi, Irene, io sono già pago del poco che ho potuto fare per voi. Me ne sento superbo, quindi a me non dovete gratitudine e se mai fossi tanto fortunato da spendere questa povera vita per voi, oh!, credo che allora il mio sogno sarebbe compiuto! Perdonatemi!... Irene!... - Così dicendo, egli si alzava, con voce sicura mi diceva addio e lasciando andare la mia mano che aveva tenuta nella sua, si allontanava...

Io era rimasta tutto quel tempo assorta in tanta estasi da dimenticare me stessa, il mondo intero! Non udiva, non sentiva più nulla! ma la parola Addio quasi scintilla elettrica m'infiammò, corsi a lui, e "fermati!", dissi, prendendolo per il braccio e riconducendolo al sedile. "Tu sei mio! tu devi essere mio, gridai, ed io tua!... per tutta la vita! Sì! io voglio essere tua in eterno!" e mi abbandonai così dicendo nelle braccia di lui.

Dopo pochi giorni di preparativi io seguiva Orazio in questa foresta e qui dimoro da più anni. Non dirò, per essere esatta nella mia storia, che sono perfettamente felice. No! provo un'afflizione, l'unica, quella di aver forse accelerata la morte del mio vecchio ed amoroso genitore". Qui una lacrima rigava la guancia bellissima della regina della foresta.

Silvia, quantunque stanca, non aveva potuto a meno di prestare attenzione all'interessante istoria dell'amabile ospite, Clelia non ne aveva perduta una parola. Quante volte durante la narrazione non era essa stata sul punto di esclamare: il mio Attilio anch'esso è bello, valoroso, degno d'essere amato di un simile amore! Sì! il mio Attilio!, mio! essa ripeteva a sé stessa, intanto che Irene guidava alla loro stanza le due nuove amiche.

CAPITOLO XXXII GASPARO

La storia del Papato è storia di briganti.

Dai condottieri del medio evo che quel governo debole e demoralizzatore assoldava per mantenere l'Italia in uno stato normale di dissidenze e di guerre intestine per dominarla ai briganti che ai nostri giorni mantiene per impedirne la ricostituzione, io lo ripeto!, quella storia è una storia di brigantaggio.

Chi ha visitato Civitavecchia nel 1849, avrà senza dubbio inteso parlare di Gasparo, famosissimo capo-brigante, parente del cardinale A.... Molti stranieri giungevano espressamente in quella città per vedere quell'uomo straordinario.

Gasparo alla testa della sua masnada avea sfidato la potenza del governo pontificio: sostenuti molti scontri e coi gendarmi e colle truppe e il più delle volte le truppe ed i gendarmi erano stati da Gasparo messi in fuga.

Non potendo il governo avere quel valoroso bandito colla forza, si provò a pigliarlo coll'astuzia.

Come abbiamo detto, Gasparo era parente di uno dei cardinali più autorevoli della Corte, e siccome entrambi erano nativi di S.... ove avevano parenti comuni, così questi furono intermediari fra il governo ed il brigante, portando al bandito le splendide offerte del porporato congiunto.

Gasparo fidatosi delle promesse fattegli, licenziò la banda. Arrestato e condotto in catene nelle prigioni di Civitavecchia, vi si trovava nel 49, cioè al tempo della Repubblica ed allora noi potemmo vederlo.

Il principe C...., fratello della nostra Irene, avea per i racconti de' pastori avuto sentore d'una bella abitatrice della foresta; dai connotati e dalle circostanze aveva dedotto che essa non poteva essere che la propria sorella.

D'accordo col cardinale A..... egli divisò di trarla a qualunque costo da quella che egli chiamava una prigione, ed era un nascondiglio.

Appoggiato dal governo, ed autorizzato a marciare alla testa del reggimento di cui aveva il comando, il principe non era sicuro per mancanza di pratica dei luoghi chiusi da foltissimi boschi di poter riuscire, laonde chiese al cardinale A.... se gli volesse dare come guida il suo vecchio parente, prigioniero in Civitavecchia.

"Ottima scelta! - rispose il cardinale, - Gasparo vi condurrà nei più reconditi siti della foresta più facilmente che a traverso le vie di Roma. Egli è tal uomo che prendendo un pugno di fieno e odorandolo, anche a mezzanotte, vi saprà dire precisamente ove si trova in qualunque parte di quei deserti. Badate che è vecchio ora ma per coraggio lo credo ancora buono ad affrontare il demonio".

Quando Gasparo nelle carceri di Civitavecchia seppe che dovevano condurlo in Roma si tenne per ispacciato e tra sé stesso diceva: "Meglio così, bisogna pur finrla una volta! sono già stanco della vita. Un solo dispiacere porto meco nella tomba, - aggiungeva picchiandosi la fronte il vecchio Gasparo, - di non potermi vendicare del tradimento di questi cani in sottana".

Due compagnie di gendarmi, una a piedi, l'altra a cavallo, condussero l'antico principe dei briganti in Roma. Il governo avrebbe bensì desiderato ch'ei viaggiasse la notte ma di notte v'era pericolo di fuga o di rapimento perché i vecchi compagni di Gasparo non erano ancor morti. Bisognò dunque acconciarsi a tradurlo di giorno: e di giorno la popolazione correva sullo stradale affollata per contemplare il famoso bandito. Il passaggio del Papa non avrebbe attratta tanta gente.

Condotto in Roma alla presenza del Cardinale A. e del principe C. con molte promesse ed oro, lo impegnarono a coadiuvarli nella proposta distruzione dei briganti libertini(46) e nel ricupero della principessa.

Gasparo assentì non volendo perdere sì bella occasione di prendere il largo e vendicarsi di chi lo aveva sì scelleratamente tradito.

CAPITOLO XXXIII LA SCOPERTA

Eran vari giorni che Clelia, Silvia e John abitavano il Castello di Lucullo ospiti d'Orazio e d'Irene e non si accorgevano di starvi male. Fra i compagni d'Orazio ve n'erano di ricchi, di nascosto dal governo ricevevano sussidi dalle famiglie di Roma e quindi potevano provvedere la loro nuova dimora di quanto abbisognava; l'abbondante caccia della foresta forniva ogni specie di selvaggina e la galanteria dei nostri giovani romani, specialmente verso la perla di Transtevere, non era poca e, mi perdoni il bel sesso per cui vecchio come sono conservo una vera adorazione, benché afflitta dall'assenza dell'amante che ella ama con tutta l'anima, la donna un po' di galanteria l'accetta sempre volentieri, s'intende bene senza far torto al lontano suo prediletto.

Clelia sarebbe stata felicissima d'avere seco il suo Attilio, anche a patto di star tutta la vita nella foresta; Silvia, la buona Silvia talora sospirava incerta del destino del suo Manlio, e John? Oh! John poi era l'essere più felice di questa terra. Orazio lo aveva armato di una delle carabine prese ai briganti che assaltarono la carrozza di Giulia e di più lo teneva come compagno inseparabile in tutte le sue escursioni di caccia.

Un giorno Orazio e John si trovavano nella foresta cacciando un cervo. John doveva fare la battuta ed allontanossi seguendo le istruzioni del suo compagno. Orazio rimase alla posta. Le disposizioni d'Orazio furono efficaci, poiché dopo circa mezz'ora un grande cervo venne a pascere sulla sua posta. Col primo tiro lo colpì, ma l'animale non cadde; allora Orazio lasciò andare il secondo colpo e la belva diede un lamento e stramazzò.

Aveva appena Orazio scaricato i due tiri della sua carabina quando un movimento dei cespugli lo fe' accorto che qualche cosa s'avanzava verso lui dalla parte più folta del bosco. Non poteva essere John, egli era troppo lontano ancora. Un sospetto balenò alla mente d'Orazio ed un brivido involontario lo percorse nel sentire le due canne della carabina vuote.

Non s'era ingannato: appena aveva posto il calcio dell'arme a terra per ricaricarla, un ceffo molto più somigliante a quello d'una tigre che d'un uomo sbucò dalla macchia a pochi passi di distanza.

Sui valorosi ancorché colti all'improvviso il timore non ha forza, e col pugnale alla mano il nostro Coclite s'avanzava impavido contro l'apparizione quando questa gli gridò: ferma!, con tanta autorità e sangue freddo che ne fu sorpreso il nostro prode Orazio e fermossi.

Armato da capo a piedi il nuovo venuto aveva un aspetto veramente straordinario. Un cappello puntato alla calabrese copriva il suo capo irsuto di folta capigliatura bianca come la neve. La barba bianca, sprizzata qua e là di qualche ciocca del primitivo colore ed irta come quella d'un cignale, copriva l'intero volto ad eccezione degli occhi. Eretta e posata su poderosa spalla gli anni non eran stati capaci di piegare quella testa maestosa e selvaggia. Sul largo suo petto teneva affibbiato un giustacuore di velluto stretto al cinto dall'indispensabile cartucciera. Di velluto oscuro era pure il resto del vestito e dal ginocchio in giù, uose calzava elegantemente affibbiate.

"Io non ti sono nemico Orazio - disse Gasparo (poiché era egli stesso) - anzi io vengo ad avvisarti di un pericolo che ti sovrasta e che potrebbe essere la tua e la rovina de' tuoi compagni".

"Che non mi sei nemico - rispose Orazio - lo prova il tuo contegno; tu avresti potuto uccidermi se lo fossi pria ch'io mi trovassi in istato di difesa, e so di più: che Gasparo sa servirsi assai bene della sua carabina".

"Sì, - rispose il bandito - vi fu un tempo in cui di rado mi occorreva di tirare un secondo colpo al cervo ed al cignale ed oggi stesso, benché gli occhi miei comincino a fallirmi io non starò indietro ad alcuno, quando si tratti di assalire un nemico. Ma sediamo, devo narrarti cose importanti".

Seduti sul fusto di una vecchia pianta rovesciata, Gasparo cominciò a favellare dei disegni della corte papale coadiuvata dal Principe C. Narrò che lui stesso era stato inviato dal Principe per scoprire ove potevano trovarsi i liberali ed infine che egli, Gasparo, bramoso di vendicarsi del governo dei preti offriva invece il suo concorso ad Orazio colla sola condizione di esser accolto nella banda liberale.

"Ma voi avete molti delitti, mio povero Gasparo, se è vero ciò che si racconta di voi e noi non potremmo accogliervi in nostra compagnia".

"Delitti! - rispose altiero il bandito. - Io non ho altro delitto che di aver purgato la società d'alcuni prepotenti e dei loro sgherri, il delitto d'aver soccorso gli oppressi ed i bisognosi. E credete voi che se io fossi un miserabile delinquente, il governo dei preti avrebbe di me tanta paura e che io sarei così generalmente amata dalle popolazioni?

Il Governo mi teme perché sa che io non temo di lui come glielo provai in tanti incontri. Il governo mi teme perché sa d'avermi vigliaccamente ingannato e tradito e s'io ritorno alla testa de' miei coraggiosi compagni egli sa che gli farò pagar caro la sua malafede ed i suoi tradimenti. Sì, alcuna volta io mi son servito dell'avvocato Carabina per far giustizia ed ho la coscienza d'averlo sempre fatto conformemente ai dettati del diritto. Posson dire lo stesso i preti?".

Qui giungeva John, ed Orazio pensò bene di marciare colla preda ed il nuovo compagno verso il castello, per provvedere agli avvenimenti che si preparavano.

CAPITOLO XXXIV L'ASSALTO

Avendo il Principe riconosciuto per relazione di spie più fidate di Gasparo che i liberali trovavansi nel castello preparossi a dargli l'assalto dopo avere disposto la sua gente in modo da circondare il castello ed impedire da ogni parte l'uscita ai rinchiusi.

Ma simile a molti generali che sprecando e disseminando la loro gente per eccesso di precauzioni su troppi punti, con sentinelle, picchetti, distaccamenti, osservazioni, ecc. finiscono a rimanere con poche forze sotto mano e sono bene sovente sconfitti, il Principe più che al vincere, parve provvedere ad assicurarsi la vittoria.

Da' suoi esploratori egli avea avuto un'idea della situazione del castello, ma inesatta. Avea mandato anche Gasparo in esplorazione, ma questi non compariva onde impaziente egli dispose la sua gente, che ammontava a circa un migliaio d'uomini, in vari distaccamenti. Li inviò in diverse direzioni a fine di chiudere ermeticamente il nemico e quindi avanzare restringendo il cerchio per finalmente assaltare la posizione.

Successe per l'appunto ciò che doveva succedere con tante precauzioni e movimenti combinati. La parte verso Roma, da tramontana, ove il Principe stesso comandava, seguì veramente la sua marcia diretta verso il castello; ma gli altri distaccamenti un po' per incuria, naturale ai soldati del Papa, un po' per colpa dei pratici, anche loro poco vogliosi di venire a combattimenti, invece di seguire vie praticabili, s'intricavano nel folto del bosco ove, chiama di qua rispondi di là, vi volevano delle ore per intendersi, e si finiva qualche volta, dopo d'aver faticato molto, col tornare al punto di partenza.

Il Principe avendo tenuto seco circa dugento uomini dei più fidi, giunse verso le 4 pomeridiane alla vista del castello, ove s'accorse che v'erano già preparativi di difesa. Contando sulla bravura de' suoi e sulla cooperazione degli altri distaccamenti, egli da prode com'era veramente, la sciabola alla mano, fece spiegare la metà della sua gente a modo di tiratori, l'altra metà tenne in colonna ed ordinò alle trombe la carica.

Orazio co' suoi giovani Romani, avrebbe potuto scansare il combattimento scendendo colla sua gente giù pe' sotterranei. Ma sdegnando una ritirata prima di misurarsi coi mercenari della Corte papale fu deciso di tener fermo. Perciò si costrussero prontamente della barricate a tutte le porte del Castello si aprirono feritoie, ed infine si tenne pronta ogni cosa per la difesa.

L'ordine dato da Orazio alla sua gente era di non tirare da lontano, aspettare il nemico a bruciapelo ed allora dovesse ciascuno col suo tiro abbattere il suo uomo. E così si fece. Gli assalitori avanzavano con passo ardito verso il castello, e già la catena di tiratori era giunta a toccare quasi il peristilio dell'edilizio, quando una scarica generale di quei di dentro distese sul terreno tanti papalini quanti furono i tiri. Quell'improvvisa scarica scosse alquanto i primi arrivati. Vi furono alcuni che vedendo i compagni caduti volgevano indietro per fuggire ma il Principe, alla testa della sua colonna, veniva sui talloni dei tiratori e giunse infatti al castello poco dopo loro.

Orazio, da capitano avveduto, avea fatto preparare cariche quante armi si trovavano nel castello ed alle donne, aveva lasciata la cura di ricaricarle insieme ad alcuni domestici, a misura che si sparavano. John avea sdegnato rimanere colle donne come volea lasciarlo il suo protettore, impugnò la sua brava carabina, si pose a fianco d'Orazio e lo seguì durante il combattimento come fosse la sua ombra.

Giunto il Principe al coperto della barricata del peristilio e vedendo la strage che s'era fatta della sua gente in poco tempo capì con che nemici avea da fare, vide dipinto sulla fisionomia dei suoi il timore. Ma poiché la ritirata era morte sicura, dovendo percorrere di nuovo lo spazio avanzato sotto il fuoco micidiale di tali tiratori com'eran quei di dentro e pungendolo di più la vergogna di una ritirata che avrebbe somigliato a una fuga risolvette di tentare l'assalto della barricata.

Passò l'ordine ai migliori ufficiali che gli stavano vicini diede comando alle trombe di suonar la carica, saltò per il primo sull'orlo della barricata, superolla e si lanciò fra i pochi difensori di quella, menando sciabolate da disperato.

Uno dei difensori all'aspetto del Principe rimase immobile e come di sasso. Era Orazio! Egli aveva ravvisato sulla maschia fisionomia del nemico le care sembianze della sua Irene.

Orazio aveva una canna della sua carabina carica e poteva ammazzarlo ma non si mosse. John all'incontro senz'altre cerimonie spianò la sua arma al petto del nemico e lasciò andare il colpo ma il braccio robusto di Orazio deviò l'arma, che andò a ferire uno degli assalitori che varcava allora la barricata.

Pochi furono i seguaci del Principe che gli tenner dietro e quei pochi o sulla barricata o già dentro furono spacciati dai valorosi campioni della libertà di Roma.

Finalmente, una circostanza inaspettata liberò del tutto il castello dai suoi assalitori, che sparvero in tutte le direzioni come la nebbia al vento.

Dalla parte orientale del bosco mentre la truppa era tutta raccolta sotto le barricate e gli officiali la incoraggiavano a seguire il Principe s'udì un grido spaventoso d'una decina d'armati e si videro questi dieci leoni (che potevano esser cento, pensarono i soldati) precipitarsi sul fianco destro della truppa e sbaragliarla e disperderla come fosse stato un branco di pecore.

Da prima i soldati li avevan creduti dei loro e rimanevano in osservazione, quando però alla foggia del vestire ed alle busse che menavano riconobbero essere i liberali, colla paura che già avevan nelle ossa pel numero degli uccisi a gambe se la diedero e lasciarono il campo di battaglia interamente in potere dei coraggiosi che gli avevano assaliti.

Il Principe, rimasto solo, avendo notato l'atto generoso del suo nemico, pensò esser oramai inutile il combattere e rimise la sua spada ad Orazio. Questi la ricevè e vedendo che ormai non v'eran più nemici, condusse il suo prigioniero ad Irene.

CAPITOLO XXXV UN ACQUISTO PREZIOSO

Dobbiamo confessare essersi fatti degli immensi progressi in questo ultimo secolo. Non parlerò di quelli delle scienze fisiche e meccaniche, veramente portentosi, ma dei progressi morali specialmente.

L'emancipazione del popolo dal prete è un gran fatto non interamente avverato, ma che cammina a passi di gigante al suo compimento.

Quando si pensa che la distruzione del pretismo è proprio opera degli stessi preti!

Chi può calcolare quale consolidamento avrebbe ottenuto il Papato se Pio IX continuava nel sistema di riforme iniziato e se identificava la causa sua con quella della Nazione italiana disposta di darsi al diavolo purché il diavolo la costituisse? Eppure la Provvidenza accecò quel vecchio tentenna per il bene di questo povero popolo, e lo lasciò sulla perversa e miserabile via de' suoi antecessori a patteggiare cioè collo straniero, vendendogli vilmente il sangue de' suoi concittadini.

La Nazione italiana vide alla luce del sole il ceffo deforme degli impostori, marciare col crocefisso in mano alla testa delle masnade straniere(47) suscitando dovunque quel brigantaggio che devasta ancora le nostre province meridionali con ogni specie di orribili delitti per tentare la dissoluzione dell'unità nazionale sì felicemente costituita.

Un altro fatto che attesta grandemente il progresso umano della nostr'età è l'avvicinamento dell'aristocrazia al popolo.

Vi sono bensì ancora dei baroni, più o meno duri, più o meno forti e coperti di ferro, che affettano ancora l'alterigia e le prepotenze de' bei tempi del diritto della coscia(48). Ma questi sono pochi e la maggior parte dei nobili e i veramente nobili d'animo si avvicinano a noi, ed accomunano le loro alle aspirazioni nostre.

Di tal tempra era il fratello d'Irene. Egli avea bensì fatto l'ultimo tentativo da noi riferito per liberare la sorella che credeva in mano d'assassini, ma quando conobbe che erano tutt'altro gli uomini coi quali aveva combattuto, e Romani, egli sentì orgoglio di tanta bravura de' suoi concittadini. Poi egli doveva la vita a quel magnifico e valoroso soldato della libertà ch'era Orazio e venne a conoscer esser lui lo sposo legittimo di sua sorella, ch'egli teneramente amava.

Allora cambiò concetto. E tutte le suddette considerazioni militarono in favore della nostra Irene quando, riconosciuto il fratello, essa diede un grido di sorpresa e si precipitò ai suoi ginocchi stringendoli fortemente e dirottamente piangendo commossa nel rivederlo, anche perché la presenza di lui richiamavale il genitore perduto che il fratello maggiore rappresentava per l'aspetto e per l'autorità.

Il Principe sollevò Irene gentilmente ed ambi rimasero per più minuti abbracciati, spargendo lacrime di commozione. Orazio, commosso lui pure sino al fondo dell'anima, prese la spada del Principe, per la punta e presentandogli l'elsa gli disse: "Un valoroso non deve essere privo dell'arma". Il Principe l'accettò con gratitudine, e strinse affettuosamente la mano abbronzata del duce della foresta.

E Clelia non l'aveva essa riconosciuto il suo Attilio nel ruggito che avevan mandato agli assalitori? Oh sì! quando il grido di quei dieci fece risuonar le volte del castello e tanto spavento suscitò nell'anima dei papalini, Clelia abbandonò un'arma che aveva allora terminato di caricare e volò a un balcone da dove potè osservare la scena. Essa vide per un istante il volto che portava scolpito nel cuore ma bastò quell'istante per farla felice.

Ed era veramente il nostro Attilio con Muzio, Silvio e sette altri compagni che avevan così bravamente caricate e fugate le masnade del papa.

Silvio conosceva perfettamente il castello di Lucullo e spesso era stato ospite d'Orazio non solo, ma compagno, ed era lui il veicolo di comunicazione tra i liberali di dentro e quelli della campagna. Egli dunque, quando in Roma per parte dei capi liberali si prese la determinazione di pigliare il campo e riunirsi alla banda d'Orazio si pose alla lor testa per guidarli e come s'è veduto, giunse felicemente in tempo per dar l'ultimo colpo alle truppe papaline.

Lascio pensare qual fu la gioia nel castello all'arrivo dei nuovi amici che sì potentemente avean contribuito alla liberazione dei fratelli.

Quante interrogazioni! quanti abbracciamenti, quante richieste di parenti, di fatti, di speranze, di delusioni!

"Mio! mio!" ripeteva Clelia a sé stessa, mentre Attilio, per la prima volta, coglieva un bacio sulla fronte dell'adorata vergine. "Mio! a dispetto della trista caterva dei chercuti e del mondo!".

"Eh! signorina! l'odore della polvere ed il fragore della battaglia vi hanno esaltato alquanto la testolina. Ma ve la passiamo". L'amore vero, sublime, eroico, l'amore che si portavano quelle due angeliche creature, non è egli la vita dell'anima, il fomite di quanto s'opera di grande, l'incivilitore dell'umana razza?

Un bell'acquisto l'avean fatto davvero i liberali nella persona del principe E. Trasformato dalle scene che noi abbiamo descritte, si trovò un altr'uomo intieramente, perché egli, generoso e prode per natura, sentiva nell'anima l'umiliazione della patria ed ardeva di vederla liberata da' suoi oppressori stranieri e chercuti. Educato fuori di Roma ed in condizioni diverse da quelle dei giovani che tenevan nelle mani la trama della rivoluzione Romana ad onta del suo carattere e de' suoi sentimenti v'era rimasto estraneo. Poi per condiscendere al desiderio del padre egli aveva accettato un posto nell'esercito pontificio e si comprende di leggeri che un tale impegno lo allontanava ancora più dai nostri amici.

Ora dai suoi occhi era caduta la benda e senza quell'impaccio egli potè arditamente contemplare tutta la grandezza dell'avvenire italiano. Una nazione sminuzzata in tante parti, e perciò esposta al disprezzo e al ludibrio del mondo vide costituita in un corpo solo, potente, rispettata, come lo fu nei bei tempi di Roma, come la sognarono i grandi italiani di tutte le età.

Appena intravveduta la vita nuova il principe si sentì attratto verso di lei, innamorato de' suoi nuovi compagni e così deciso a rifarsi del tempo perduto, che fece sacramento a sé stesso di vivere e morire per la causa santa del suo paese.

Ricco e potente come egli era e generoso, diventò nel futuro il più forte sostegno dei proscritti, i quali dal canto loro non ebbero che a rallegrarsi d'aver collocata la loro fiducia in quel nobile carattere.

CAPITOLO XXXVI IL MIGLIORAMENTO UMANO

Orazio dopo aver accolto e lodato i nuovi amici e fratelli pensò di provvedere alla sicurezza generale. Chiamò a sé Attilio ed il Principe, ormai consacrato corpo ed anima alla causa nazionale, e parlò loro così:

"Noi fummo felici nell'ultimo incontro, è vero; credo però esser questo sito ormai troppo noto ai nemici, e quindi per noi pericoloso. Il Governo farà di tutto, impiegherà ogni mezzo per snidarci e distruggerci: di questo non c'è dubbio. Esso è capace di mandare qui tutto il suo esercito e con la sua artiglieria rovesciare queste antiche mura. Io non consiglio una subita ritirata perché anche il Governo abbisogna di tempo per fare i suoi preparativi. Ma da qui innanzi, fa mestieri usare tutta la vigilanza possibile, per conoscere le mosse del nemico e non essere sorpresi.

Voi, Principe, dovete tornare a Roma. La vostra presenza qui non è necessaria per ora, mentre là, potete esserci utile, credetemi, di un'utilità somma. Potete dire che vi abbiamo posto in libertà sotto il vincolo della vostra parola d'onore, di non combattere contro di noi. Dimettendovi dal servizio voi non potete temere di essere molestato".

Rispose il Principe. "Il vostro consiglio è savio ed io farò quanto voi dite. Comprendo che più utile vi potrò essere in Roma e vi dò la mia parola d'onore che sarò con voi per la vita e per la morte!".

Attilio fu della stessa opinione, quindi soggiunse che per le relazioni sulle mosse del nemico bisognava far capo a Regolo, e Regolo darebbe avviso di tutti i movimenti delle truppe papaline. Poi, avendo il Principe desiderato un mezzo sicuro per restare in relazione con loro, Attilio, su d'un pezzettino di carta tanto piccolo da potersi inghiottire al bisogno, scrisse a Regolo una linea di riconoscimento pel Principe.

Il resto della giornata fu impiegato a seppellire i morti, che non eran pochi, ed alla cura dei feriti, sì gli uni come gli altri quasi tutti papalini. I liberali ebbero tre feriti soli, e questi non gravemente perché nella pugna i valorosi pericolano meno e se si desse un colpo d'occhio alla statistica di tutte le battaglie, si vedrebbe sempre che i fuggenti hanno perduto un numero immensamente maggiore di uomini che i vittoriosi.

Nella notte il Principe partì per Roma e sapete con che guida? con Gasparo, il Cesare dei banditi di tutte le età, divenuto anche lui uno sviscerato liberale, siccome lo avea provato nell'ultimo combattimento facendo prodigi coll'infallibile sua carabina.

Io sono di natura tutt'altro che pessimista e quindi credente nel miglioramento umano sotto tutte le forme e se l'umanità non migliora con sensibile progresso la maggior colpa l'hanno i governi. Coi buoni trattamenti e le carezze si dominano, si addomesticano le belve e se ne migliora l'indole feroce.

Cosa volete sperare da un popolo ridotto alla miseria dalle vostre esazioni, dalle vostre imposte, dalle vostre tasse? Egli sa che queste tasse, imposte ed esazioni non sono, come voi dite, per la difesa dello Stato e per mantenere l'onore nazionale, ma per ingrassarvi ed ingrassare la sterminata caterva di parassiti, qualunque sia la loro denominazione, parassiti che sono pel popolo quel che gl'insetti per il corpo, i vermi pel cadavere, atti soltanto ad immiserirlo e divorarlo.

Chi negherà che le popolazioni dell'Italia meridionale non fossero migliori, perché meglio governate, nel 1860 che non lo sieno al giorno d'oggi?

Allora, appena si sospettava il brigantaggio e non v'eran prefetti, non gendarmi non birri. Oggi all'incontro con quell'immensità di satelliti, che minano le finanze dell'Italia esiste nella parte meridionale della penisola, l'anarchia, il brigantaggio e la miseria. Povere popolazioni! Dopo tanti secoli di tirannide e dopo la brillante rivoluzione del 60, esse speravano un Governo riparatore, un'era di riposo, di progresso e di prosperità e non l'ottennero!

Sì! Gasparo si era battezzato alla vita dei liberi col sangue degli oppressori. Egli fu accolto dalla giovine brigata con indulgenza, con entusiasmo ed ebbe l'importante missione di guidare il Principe I.... fuori della foresta, fin sulla via di Roma.

Le previsioni d'Orazio sugli apparecchi del Governo papale si avverarono. Dopo il rovescio del castello di Lucullo i mitrati decisero in consiglio d'inviare a quella volta tutto il loro esercito con artiglieria e giacché, pensarono con ragione, i liberali, non staranno molto tempo ad aspettare la tempesta, bisogna mettere il disegno immediatamente in esecuzione.

E non soltanto i soldati papalini ma si divisò d'impiegare in quell'ardua impresa tutta la truppa straniera, che si trovava al servizio del Papa. Un generale straniero di gran fama fu chiamato a dirigere la grande campagna e tutto si preparò con alacrità per giungere in tempo che il famoso attacco cadesse nel santo giorno di Pasqua, generalmente propizio ai preti, poiché in quel giorno grasso essi satollano meravigliosamente la pancia, loro divinità principale, alla barba dei divotissimi fedeli.

Orazio ed i suoi compagni non dormivano frattanto. Informati da Roma di quanto vi accadeva e degli strepitosi preparativi che vi si facevano i quali, benché il governo cercasse di tenerne segreto lo scopo, erano senza dubbio al loro indirizzo, dapprima i nostri amici eseguirono una minuta esplorazione dei sotterranei conosciuti da Orazio e da taluno de' suoi, particolarmente dal vecchio Gasparo, già tornato dalla sua missione col Principe.

CAPITOLO XXXVII I SOTTERRANEI

Fra le meraviglie che si trovano nella gran metropoli dell'orbe, le catacombe e i sotterranei non sono le meno notevoli.

I primi cristiani, perseguitati dal governo imperiale di Roma, allora pagano, con atroce accanimento, si rifuggivano nelle catacombe, per salvezza sovente e sovente per potersi adunare, consigliarsi, istruirsi nella nuova loro religione.

Quei sotterranei furono pure indubitatamente il rifugio dello schiavo e di quanti infelici cercavano sottrarsi a quel sistema tirannico, che fu l'impero a Roma, che produsse i mostri i più abbominevoli della terra: quali Nerone, Caracalla, Eliogabalo, ecc.

Di quei sotterranei ve ne sono di diverse specie. Alcuni scavati e costrutti col divisamento di conservarvi i cadaveri, altri per il servizio d'acquedotti che dovevano portare fiumi d'acqua dolce nell'immensa capitale, quando la sua popolazione ascendeva a due milioni. Famoso è quello della Cloaca Massima che da Roma conduceva al mare e finalmente di molta considerazione erano quelli che particolari(49) ricchissimi facevano scavare con grandi spese per sottrarsi alle depredazioni di quei grandissimi ladri che si chiamavano Imperatori, ed in tempi meno antichi alle persecuzioni ed alle stragi dei barbari,

Il terreno sui cui Roma è edificata, come quello de' suoi dintorni, offre facilità alle escavazioni, essendo un composto di tufo Vulcanico, facile a scavare e sufficientemente solido ed impermeabile da poter formare abitazioni sicure. Io ho veduto molte mandre e mandriani alloggiati in quelle caverne.

Colle esplorazioni nei sotterranei si pensò pure ad inviare i feriti più gravi, accompagnati da quelli che lo erano meno e sotto la custodia dei vicini pastori, verso Roma.

Dei liberali, come dicemmo, non v'eran gran feriti e dei papalini molti chiesero di rimanere e seguire la sorte dei proscritti, poiché non v'è milite per poco onorevole che egli sia (degli italiani s'intende), che serva volentieri i preti. Quando l'ora suoni di liberar l'Italia e Roma da quell'immondizie non vi sarà un soldato che resti con loro, meno alcuni mercenari stranieri.

Inviati i feriti, introdotta ogni cosa migliore ed utile del castello nel sotterraneo, con provviste d'ogni specie per vari giorni, i liberali colla maggiore pacatezza aspettarono l'oste numerosa che doveva giungere coll'ordine preciso di sterminarli. I nostri non mancarono di prendere tutte le misure necessarie di precauzione, distendendo una rete di sentinelle e di esploratori in tutte le direzioni ad onta della precisione degli avvertimenti che ricevevano da Roma su tutte le mosse del nemico.

La comitiva s'era accresciuta in questi ultimi giorni. Colla venuta d'Attilio e de' suoi compagni, coll'accettazione d'alcuni soldati romani, che non volevan più sapere di preti e col l'arrivo da Roma di vari giovani, che la notizia della recente vittoria aveva esaltati, si componeva di circa sessanta individui, senza contare le donne.

L'autorità d'Orazio sulla banda crebbe invece di diminuire coll'aumento del numero. Attilio, quantunque fosse stato alla direzione delle cose di Roma, e comandante dei trecento, era quello che mostrava maggiore docilità agli ordini del bellicoso e prode fratello d'armi.

In quattro legioni suddivise Orazio la banda; e queste furono comandate da Attilio, Muzio, Silvio ed Emilio, l'antiquario, che era stato secondo in comando prima dell'arrivo dei nuovi amici.

Emilio tenne ad onore di cedere la sua posizione di secondo comandante al capo dei trecento, ma Attilio non volle accettarla e già una generosa gara s'era iniziata tra loro e non sarebbe finita senza l'interposizione d'Orazio il quale assicurava Attilio non ritenere egli per sé il primo comando se non coll'assoluta condizione accettasse lui il secondo.

Tale era l'abnegazione di quei militi della libertà di Roma. Liberare la patria o morire! era il loro proposito, e poco loro importava di gradi, ciondoli e decorazioni che stimavano mezzi adoperati dal dispotismo a corrompere la metà della Nazione, per avvilire ed incatenare l'altra.

CAPITOLO XXXVIII L'ANTIQUARIO

Era la vigilia di Pasqua, tutto si trovava in ordine nel castello ed i proscritti che non eran di guardia stavano con Orazio, Attilio e le donne nella vasta sala da pranzo. Là dopo una cena lieta ed alcuni brindisi patriottici, per rallegrar la serata poiché bisognava tenersi desti e stare sull'avviso per qualunque cosa potesse succedere, Emilio l'antiquario chiese permesso al suo comandante di narrare una sua istoria alla brigata. E così cominciò:

"Giacché noi dovremo viaggiare per sotterranei e catacombe, vi voglio raccontare un fatto che accadde proprio a me, or fan pochi anni, nelle vicinanze di Roma.

Voi ricordate il superbo Mausoleo di Cecilia Metella, eretto dal padre in onore della figlia morta dodicenne. Anche quel mausoleo, voi sapete, è l'orgoglio delle rovine e con il Pantheon è una delle meglio conservate. Ciò che voi non sapete forse, si è l'esistenza dell'immensa catacomba, che comincia nell'interno del monumento e non si sa dove vada a finire.

Un giorno io mi proposi d'investigar da me le latebre di quell'immenso sotterraneo; mi sembrò che facendolo accompagnato avrei menomato il merito dell'impresa; quindi nel mio orgoglio giovanile ed inconsiderato mi accinsi ad eseguirla da solo. Provvisto di un voluminoso gomitolo di filo, un mazzo di torcie, pane in sacoccia ed un fiasco di vino a tracolla, mi avventurai di buon mattino nel seno della terra, legai un capo del filo all'entrata della catacomba e cominciai il mio misterioso viaggio.

Cammina cammina, sotto quelle tetre volte, più avanzavo e più cresceva in me la curiosità di scoprire.

Pare impossibile come l'essere umano destinato da Dio alla superficie della terra, godendone i frutti e la luce benedetta del sole, si sia condannato a quelle tenebre eterne e vi abbia lavorato tanto per costruirsi, simile alla talpa, un'abitazione sicura ma spaventosa! Dovevano essere ben infelici e fieramente perseguiti coloro che si procuravano questa terribile dimora a furia di tante fatiche! E molto ricco doveva essere chi pagava l'esecuzione di opere sì gigantesche.

Mentre questi pensieri mi passavano per la mente, io camminava al chiaror del mio cero, scioglievo il filo del gomitolo e procedevo procurando di seguire la direzione indicata dalla ristretta linea dell'imboccatura. Ma coll'andare innanzi il sotterraneo si dilatava e presentava tra le colonne di tufo, che ne sostenevano l'immenso tetto, vari anditi che conducevano in direzioni diverse e un po' fantastiche e fuori di simmetria, come se l'architetto avesse voluto gettare nell'inganno il visitatore raggirandolo in una specie d'inestricabile labirinto.

Tutte queste viste ed osservazioni m'inquietavano alquanto, e dico il vero: qualche volta mi sentivo fallire il coraggio. Ero sul punto di tornare indietro ma l'amor proprio mi gridava: vergogna! a che tanti preparativi per fare un fiasco? e allora mi adontavo contro me stesso per la mia paura. Poi non avevo in mano il filo salvatore, che doveva ricondurmi a rivedere il cielo?

E cammina, e cammina, sgomitolando il mio filo ed accendendo un nuovo cero a misura che si consumava l'acceso!

Giunsi finalmente al termine, non del sotterraneo ma del mio filo e con mio dispiacere riscontrai che non avevo nella mia impresa scoperto altro che la terribile solitudine che mi stava ancora davanti. Stanco, forse alquanto scoraggiato di dover rifare sì lungo tratto di strada, me ne stavo lì, preoccupato dalla vanità delle ricerche e dalla noia della mia posizione. Stringevo il filo che temevo di perdere e contemplavo il lume che temevo di spegnere. Credo che dovessi essere alquanto istupidito quando uno strascichio, come di veste di donna, si fece udire dietro di me e mi destò quasi di soprassalto. Curioso, sorpreso, impaurito mi volgo verso la parte dove mi pareva aver udito il fruscio. Ma nell'atto di volgermi un soffio spegne il lume, il filo mi viene strappato di mano, robuste braccia cingono e stringono le mie in modo da stritolarmi le ossa ed un panno mi viene avvolto intorno alla testa forse per bendarmi gli occhi, ma in guisa da impedirmi quasi la respirazione.

Il presentimento del pericolo spesso è peggiore del pericolo stesso: ed io che veramente era stato colpito da timore al primo segno dell'avvicinarsi di qualcuno, come fui in potere di quel qualcuno, sentendomi condotto per mano come un bambino, il timore si dileguò e camminai francamente dietro la guida.

Benché cogli occhi bendati m'accorsi che un nuovo lume era stato acceso: dal tocco e dai passi che io udiva accanto a me conobbi ch'ero guidato da esseri viventi, non da spiriti, ma le mie scoperte rimasero lì, ed in tal guisa procedetti per vari minuti.

Finalmente la benda mi fu levata e allora i miei occhi poterono vedere che ero stato condotto, con mio grande stupore, in un salotto magnificamente illuminato, in mezzo al quale stava una mensa imbandita ed intorno una ventina di gioviali e festosi commensali".

Durante il racconto dell'antiquario un sorriso di compiacenza, velato d'una tal quale mestizia, sfiorava la ruvida guancia di Gasparo. Quando il primo ebbe finito, il vecchio si levò, avvicinossi, lo prese per la mano, la scosse e con voce commossa: "quelli erano bei tempi, amico caro! - sclamò, poi dirigendosi alla brigata: - Io allora abitavo - continuò - le catacombe colle mie bande e gli sgherri di Roma pria di avventurarsi in questa immensa campagna erano soliti a far testamento.

La donna che vi spense il lume, e che poi fu ben gentile con voi, come lo era con tutti, era la mia Alba, morta non è molto dal dolore de' miei patimenti e della mia prigionia".

"Oh! - sclamò alla sua volta l'antiquario, - eravate dunque quello seduto in capo alla mensa e tenuto in tanto rispetto dai vostri che un sovrano non potrebbe esser di più?".

"Era io - rispondeva dolorosamente il bandito. - Gli anni hanno corrugata questa fronte e s'è imbiancato il pelo tra i ferri e le sevizie di quegli scellerati che si chiamano ministri di Dio. La mia sola coscienza è rimasta pura! Io ho trattato ogni creatura infelice benignamente e lo potete attestar voi se vi fu torto un capello, se alcun danno v'incolse tra noi. Certo! ho voluto abbassare quei superbi sibariti, che vivono nel vizio e nella lussuria a spese dell'umanità sofferente, come ora coll'aiuto vostro e di Dio, vecchio come sono, io non dispero di vedere la mia patria libera da quei mostri".

"Sì, - rispose l'antiquario affettuosamente - io fui trattato con gentile cortesia dalla vostra donna e da voi e lo ricorderò tutta la vita con gratitudine". Poi rivolto ai compagni, proseguì: "Scosso dalla fatica del viaggio, forse dalle commozioni dell'incontro, rimasi due giorni febbricitante in quel sotterraneo e in tutto quel tempo ebbi cordiali affettuosissime cure da quell'amabile Alba, la quale non solo di ogni cosa necessaria mi provvide ma assiduamente mi visitava al mio capezzale.

Dopo due giorni, rinvigorito, appena ne feci richiesta, fui condotto per una nuova via che mi parve lieve alla luce del sole che io aveva creduto sulle prime di non più rivedere. La nuova uscita delle catacombe si trovava nella foresta. Data la mia parola d'onore di mantenere il segreto sulla mia involontaria scoperta, uno della banda mi scortò sulla via di Roma".

CAPITOLO XXXIX L'ESERCITO ROMANO

"Ora ci si fa davanti la bella regione in cui l'uomo crebbe più grande che in qualunque altra contrada del mondo, e vi operò portenti di energia e di senno: entriamo nella sacra terra da cui venne la luce che illuminò l'universo. Anche qui alla rigogliosa vita d'un tempo è succeduta la morte; e in molti luoghi non trovi più che macerie in mezzo a vasto deserto, a solitudine desolata, a silenzio d'essere umano. Caddero le città dei dominatori del mondo ma i rottami dei monumenti che ingombrano il suolo, mandano ancora una voce eloquente che rompe il silenzio dei secoli, e dice della grandezza degli antichi abitatori nelle campagne latine, comecché desolate tutto è magnifico.

L'austera natura accresce solennità alle rovine delle città e dei sepolcri e alle grandi memorie. In mezzo al deserto, ad ogni passo, sono le vestigie di una potenza che ti sgomenta il pensiero. Spesso nel medesimo luogo e sul medesimo sasso, ti è dato di leggere i ricordi, gli affetti, i dolori di età fra loro lontanissime. Qui tu trovi le colonne dei templi, dai quali gli antichi ciurmatori coi loro oracoli ingannavano le turbe per renderle schiave: e più in là incontri ciurmadori moderni che la religione fanno stromento di sozza tirannide: tristizie antiche e nuove, memorie di prepotenza e prepotenze viventi.

Se ti fa fremere il grido lontano dei miseri che la fiera aristocrazia precipitava dalle gemonie, fremito più profondo ti desta il grido vivente che esce dalle prigioni piene delle vittime del furore papale: e scavando la terra, puoi trovar le ceneri dei difensori del popolo antico, miste a quelle dei martiri che all'età nostra in nome di Dio e del popolo dettero il sangue alla nuova Repubblica, e caddero protestando contro il barbaro dominio sacerdotale. E dal meditare sulle memorie recenti ed antiche, trarrai coll'afflitto animo qualche conforto vedendo che per volger di secoli, e per imperversar di tirannide, i lontani figli non perderono l'energia dei primi padri, e su questa terra degli augurii prenderai lieti presagi alla nostra povera patria, che le antiche fortune ha ormai scontate con troppo lunghe sventure"(50).

Questo superbo squarcio di poesia patria del grandissimo scrittore dell'Italia antica io ho voluto addurre per sorreggermi nella troppo, per me, ardua impresa di descrivere la Roma dei tempi eroici e la non morta virtù degli abitatori del Lazio moderno. E dovendo narrare di quell'accozzaglia di gente nostrana e straniera, che oggi si chiama Esercito Romano io desidero che si consideri cosa ponno essere uomini che si consacrano al servizio di un governo come quello del Papa, il quale non può ispirare che disprezzo.

Giova ripetere ciò che già dissi: solo il prete poteva cambiar nell'ultimo popolo della terra, questo "che nacque in una regione ove l'uomo crebbe più grande che in qualunque altra contrada del mondo". L'esercito romano è composto di Romani che sono sotto la vigilanza di soldati stranieri, e di soldati stranieri e romani custoditi da birri, sotto il nome di gendarmi. Mercenarii tutti poiché qual uomo d'onore e non spinto dalla sete dell'oro potrebbe adagiarsi su tale letamaio?

Il nome di soldato del papa è schernito. Lo straniero, per malandrino che sia, giungendo a far parte di questo esercito crede nobilitarlo. Disprezza quindi lo straniero, i soldati romani, e di qui le botte tra romani e stranieri, quasi sempre con la peggio degli ultimi, perché gli indigeni malgrado tutto lo studio dei preti per corromperli ed imbastardirli conservano ancora qualche avanzo dell'antico valore.

Ecco lo stato del moderno esercito romano, ed ecco perché i nostri proscritti informati d'ogni cosa se ne stavano tranquillamente aspettandone le mosse, mentre le mosse tardavano perché la confusione e la discordia regnavano in quella parodia d'esercito.

Gli stranieri, sprezzatori dei romani, volevano la destra nell'ordine di battaglia; e questi non temendo gli stranieri e giustamente credendosi migliori di loro non volevano cederla. Le sottane, impotenti a metter ordine in quella ciurmaglia, si rodevano d'impazienza, di rabbia e di paura.

Il giorno di Pasqua destinato allo sterminio dei briganti poco mancò non segnasse la distruzione dei mercenarii e se le malve(51) italiane di fuori non avessero gridato "alla moderazione, all'ordine!" era questo il momento di farla finita con quella canaglia, morbo e disonore del nostro paese.

Regolo e con lui la maggior parte dei trecento, dinanzi al veto che era giunto di fuori "di non tentare nulla per allora a favore di Roma", non vollero rimanere inoperosi, e per molestare l'eterno nemico presero queste determinazioni. Si arrolarono nelle truppe pontificie indigene; e catechizzarono i soldati in modo che nell'ordinanza di marcia, col pretesto che lor toccava la destra si ammutinarono. Gli ufficiali che volevano usare la loro autorità furono bastonati ed avendo il Generale D. mandato alcune compagnie straniere per metterli all'ordine cominciò una di quelle zuffe peggiori di una battaglia campale il risultato della quale fu che gli stranieri volti in fuga riguadagnarono le loro caserme.

Uno degli instigatori principali della sommossa era stato il nostro sergente di dragoni, Dentato.

Uscito dalle torture dell'inquisizione che avea sostenute con uno stoicismo degno de' tempi antichi avea giurato di vendicarsi alla prima occasione e non l'avea perduta. Alla testa de' suoi dragoni, col suo sciabolone alla mano, egli era stato visto caricare nel più folto di un gruppo straniero dove avea fatta strage di mercenarii.

Terminata la zuffa, sapendo quale premio gli serbavano i preti per le sue sciabolate, senza smontare da cavallo si avviò coi compagni fuori di Roma in cerca dei proscritti che lo accolsero fraternamente. Narrò loro i successi della capitale e con grande ilarità di tutti ne fu udito il racconto.

CAPITOLO XL IL MATRIMONIO

Il più santo dei vincoli che esistano nell'umana famiglia è il matrimonio. Lega per la vita due esseri e li fa felici se veramente meritano d'esserlo.

Dico "se lo meritano" poiché quell'atto solenne deve essere contratto coll'intendimento reciproco di rendersi felici, e base dell'unione deve essere il vero amore, l'amore celeste!(52)

A questa base, a questo amore, un calcolo mercantile è macchia, il sentimento materiale lo riduce al termine di pretta brutalità.

L'amoreggiamento che precede il matrimonio ha già aggentilito gli amanti, poiché essi vogliono piacersi reciprocamente e lo devono, altrimenti c'è il pericolo di rifiuto.

Il sentimento d'essere felici fa poi migliori i coniugi. L'amore che portano alla prole li ingentilisce e li rende umani verso gli altri, colla speranza che i loro figli godano il ricambio della gentilezza altrui.

L'infedeltà è sciaguratamente fedele compagna di molti matrimoni moderni. Ma coloro stessi, d'un sesso o dell'altro, che son venuti meno al dovere, ove non siano induriti nel vizio, provano tale rimorso che se potessero tornare indietro alla primitiva loro purezza sarebbero per l'innanzi ben forti contro la tentazione.

Oh! se sono giovani i miei lettori, badino al mio consiglio, tengano la fedeltà in pregio, come un impegno d'onore, si risparmieranno afflizioni pungenti per l'innanzi e godranno il vero paradiso sulla terra ancorché la loro condizione non sia delle più brillanti. I disagi stessi, passati in comune, sono alleggeriti dalle cure amorevoli del consorte e lasciano di sé cara e non dolorosa ricordanza.

Ma anche nel matrimonio la prava istituzione pretesca semina e diffonde una diabolica influenza. Il morbo pretino, si sente in tutti i matrimoni dell'orbe in ragione diretta del numero di coloro che vengono congiunti da quegli esseri maleficamente parassiti. S'immagini poi quello che deve accadere in Roma, ove i preti, sono tanti, ricchi, sovrani, onnipossenti?

Ho già detto che Roma è la città del mondo che conta più nascite illegittime, e ciò deriva naturalmente dalla prostituzione delle nubili. Su questo dato, benché non pubblico nelle conseguenze, quale sarà la prostituzione nel matrimonio?

Tiriamo un velo sulle turpitudini e mi perdoni chi legge se per avventura lo scandalizzai. Ma quando penso ad un governo, che si disse riparatore e che per interesse e per compiacere ai libidinosi capricci di un despota s'inginocchia davanti a quel corrotto e corruttore fantoccio supplicandolo quasi di non disertare la terra che desolò per tanti secoli, il popolo grande che umiliò all'ultima delle degradazioni umane, allora non so frenarmi, e voi mi potete perdonare, potete concedermi uno sfogo di rammarico al pensiero delle miserie e delle vergogne del mio povero paese!

Pur mi si dirà: voi lamentate l'intervento dei preti e lo credete dannoso; ma fino a ieri, chi consacrava il matrimonio se non il prete, ed il prete esclusivamente?

Pur troppo è vero! La nascita e la morte, ogni più importante atto della vita, l'educazione della gioventù, tutto fu monopolio dei preti, perfino il mondo futuro che offrono agli altri, tenendosi caro per sé il presente.

Dacché la società umana ebbe impostori, sorsero preti, se già i primi non furono essi. Certo però i maggiori, i più astuti, i più fortunati impostori del genere umano furono sempre i preti. Più furbi degli alchimisti e dei ciarlatani essi posarono le basi della loro scienza in parte ov'era difficile che la luce giungesse a smascherarli.

L'alchimista cercò la formazione di pietre preziose e dell'oro con elementi di poco costo e morì, lasciando l'eredità del desiderio insoddisfatto accanto al vero tesoro delle esperienze, dalle quali partendo, i moderni chimici hanno fatto portenti.

I ciarlatani, spaccianti balsami ed elisiri miracolosi sono scomparsi, ma prepararono il posto all'utile e matematica chirurgia moderna.

Il prete dura e il suo nebuloso edifizio continua a star ritto. Non monta che le antiche rivelazioni tentennino all'urto del senso comune; il prete dura benché i ciechi soltanto non s'accorgono che egli è il primo a farsi beffe delle favole che spaccia.

Vuol dire che il prete è più astuto d'ogni altro e che i non-sensi e le assurdità più grandi hanno il privilegio di una più tenace resistenza.

Non indignazione ma nausea mi sento veramente nel vedere i miei concittadini inginocchiarsi davanti a quei simulacri dell'impostura! davanti a quei detrattori di Dio!

"La crepa dell'intonaco, palesa che crolla il muro". "Basta un primo passo". "Il pugno di neve crea la valanga". E ce n'è voluto per osare questo primo passo!

Or ora appena si è compreso che il prete è impostore e non degno di celebrare l'atto più importante della vita: il matrimonio. L'autorità municipale, che deve sapere ogni cosa dei cittadini e registrarne gli atti, presiederà a questo atto solenne. Questo è il primo passo, poi in luogo dell'autorità cittadina verrà la paterna, i genitori, che sono l'autorità più legale e secondo natura.

A quest'ultimo partito si attennero Clelia ed Attilio.

"Mio! mio!" avea detto Clelia, al racconto d'Irene ed ora che quel suo caro era lì, ai suoi piedi, beandosi dell'atmosfera benefica che la circondava, adorandola! Perché essa doveva negarsi alle oneste sollecitudini dell'amante? "Sì" disse ella finalmente ad Attilio. "Sì, chiedimi a mia madre e sarò tua per tutta la vita".

Silvia per vero avrebbe voluto avere il suo Manlio accanto per consultarlo sulla sorte dell'adorata fanciulla, ma benché un po' timida di carattere, era troppo savia e piena di buon senso, da non capire la necessità dell'unione dei due amanti, massime nelle circostante presenti di proscrizione e di solitudine e si teneva sicura dell'assentimento del marito.

Anche Silvia non era amica dei preti. Municipio lì non ve ne era, né altra autorità all'infuori di quella dell'onesto lor salvatore Orazio e la propria per supplirvi. Non fu difficile quindi convincerla che la più legale autorità era questa, la più naturale e più semplice di ogni altra.

La celebrazione del matrimonio de' nostri cari fu una vera festa per tutti nel castello e per Irene sopra ogn'altro. Pratica del matrimonio silvestre, ch'essa aveva celebrato alcuni anni prima, superba di fare da sacerdotessa per amici che amava teneramente, essa improvvisò un altare al piede della più maestosa delle quercie coll'aiuto della sua ancella e di John, il quale ebbe occasione di fare gran pompa delle sue capacità ed agilità marinesche arrampicandosi e saltellando per i rami dell'immensa figlia della terra, docile però sempre agli ordini dell'amata sua protettrice. In poco tempo fasci di verzura e ghirlande di fiori silvestri adornarono un magnifico tempietto coperto dalla gran cupola dell'albero ed illuminato dal maggiore degli astri, figlio primogenito di Dio.

La cerimonia non fu lunga ma semplice, patriarcale, al cospetto della maggior parte di quei prodi romani, che facevano corona alla bellissima coppia.

Irene, collocatasi dinanzi agli sposi, colle seguenti brevi parole ne sancì l'unione sacra:

"Giovani cari e avventurosi, l'atto da voi compiuto in questo giorno vi unisce con vincoli indissolubili del corpo e dell'anima. Voi dividerete per la vita, il bene e la sciagura. Ricordatevi, che nell'amore e nella fiducia reciproca, troverete sempre felicità duratura e che, quantunque qualche volta questa felicità possa essere alterata da afflizioni, queste saranno sempre menomate o dome dall'amor vostro reciproco. Dio benedica l'unione vostra! e così sia".

Silvia, piangendo amorosamente, pose ambe le mani sul capo de' suoi cari, e ripetè: "Dio vi benedica!" senza poter articolare altra parola.

L'atto di matrimonio, anticipatamente scritto, fu presentato da Orazio alle firme degli sposi, poi a quelle dei testimonii, dopo averlo firmato egli stesso.

Così ebbe fine quest'atto solenne colla maggiore semplicità possibile. Celebrato nel vero tempio dell'Onnipotente, rischiarato dall'universale luminare, non fu per la sua semplicità men sacro, né men fedeli per tutta la vita si mantennero l'uno all'altro i nostri sposi.

Dall'altare la comitiva festosa si diresse al castello, ove splendida mensa l'aspettava.

Dopo il pasto, in mezzo alla universale letizia si fecero brindisi, si cantarono inni patriottici e sino il piccolo John riscaldato dal calore della festa volle regalare i suoi amici coi patriottici e simpatici canti della tua terra: il "God save the Queen" ed il "Rule Britannia"(53).

CAPITOLO XLI IL BATTESIMO

Come si vede, l'esercito di Serse, ossia del Papa, avea concesso tutto questo bel tempo ai proscritti senza sturbarli ed essi conoscendone le condizioni, davansi poca briga di allontanarsi.

A noi però, durante questa sosta, converrà tornare ad alcuni personaggi principali e cari della nostra storia, che abbiam pur troppo lasciati in dimenticanza; voglio parlare di Giulia e de' suoi compagni così prodigiosamente scampati dal tempestoso Tirreno.

Dopo due giorni dalla sua partenza da Porto d'Anzo, la Clelia entrava con vele e bandiere spiegate a Porto Longone.

Appena ancorata i nostri amici videro scendere da Capo Liberi, piccolo villaggio che domina il porto, un gruppo di gente che giunse alla marina, imbarcossi in un palischermo e si diresse verso lo Yacht. Giulia accolse gentilmente la comitiva, composta di persone d'ambo i sessi, e l'invitò ad asciolvere nella camera della nave ciò che gli ospiti accettarono volentieri.

Seduti a tavola con davanti un bicchierino di Marsala, vino col quale gli inglesi amano sempre adornare le loro mense, i nuovi arrivati, volgendosi a Manlio, che credettero padrone del legno accennarono di voler parlare. Quindi con accento toscano, non maschio come il romano e robusto ma più dolce, simpatico e comunque sia coll'accento d'un dialetto cui l'Italia deve la maggior parte del suo risorgimento perché in quel dialetto sta uno dei più saldi fondamenti dell'unità nazionale italiana:

"Signore! - disse l'anziano della comitiva - in Capo Liberi v'è l'uso che nascendo un bimbo contemporaneamente all'arrivo d'una nave si preghi il capitano a voler essere padrino al nuovo nato. Vorreste esser tanto buono di concederci l'onore d'avervi per compare e comare con questa vostra gentile signorina?".

Manlio sorrise a tale richiesta e tutti ammirarono la facilità con cui lo straniero può nell'Elba imparentarsi cogli isolani, poi rispose: "Io sono qui un semplice ospite come voi, la signorina è la padrona del legno, ed essa deciderà su quel che sia da fare".

Giulia, la bella viaggiatrice, l'antiquaria, l'artista, l'amica della libertà italiana, fu incantata di trovare tanta semplicità di costumi in quella buona gente e: "per me accetto volentieri la gentile vostra offerta - soggiunse - e siccome odo da voi che il padrino deve essere il capitano della nave lo consulterò e se consente, saremo a disposizione vostra".

Chiamato il capitano Thompson, Giulia spiegò la cosa al bravo marinaio, al che Thompson rise graziosamente e rispose con garbo alla sua signora che sarebbe ben onorato di poterla accompagnare tanto più colla prospettiva d'aver a diventare suo compare.

Detto fatto! Dopo che Thompson ebbe dato i suoi ordini al Muto(54) s'imbarcarono tutti, dirigendosi a Capo-Liberi,

Qui mi toccherebbe dir qualche cosa ancora dei preti, ma ne risparmierò il tedio al lettore. È una fatalità, che ad onta dell'invincibile antipatia che essi mi suscitano, io me li debba sempre trovar sulla via. Ma questa volta passiamocela netta a questo di Capo Liberi, il quale non è che un curato. Meno male!

La festa per essere più semplice che nella capitale non fu meno splendida e più lieta per la cordiale e patriarcale semplicità di quei buoni abitanti. Tutti parevan contenti e felici e il capitano Thompson, benché un po' confuso, era in un vero paradiso. Onorato del braccio di quella cara e bellissima creatura ora divenuta comare sua egli più nulla udiva, né vedeva, tanto che incespicò lungo la scabrosa via del villaggio che conduce alla chiesa e senza l'aiuto efficace del braccio di Giulia, egli certamente andava ad infrangere il suo bompresso(55) sul lastrico d'irregolari macigni che ivi formavano mosaico.

Per buona sorte Giulia non era confusa come il nuovo compare e col contegno suo freddo ma dignitoso, rimise alla via(56) l'andatura del capo marino il quale dappoi, temendo qualche nuova secca da prora(57) e per non ripetere il grottesco primitivo scappuccio contava camminando tutti i ciottoli della via. Così si giunse al tempio.

Quivi Thompson fece buona figura: Un po' noiato dalle superflue cerimonie egli non dié segno d'impazienza e la noia in parte gli venne compensata dal piacere di sorreggere il suo nuovo figlioccio, un grosso e ben formato bimbo, che nelle robuste braccia del capitano sembrava però leggiero come una piuma.

Terminata la cerimonia, la brigata riprese la via della casa del compare, ove un lauto banchetto stava preparato e dove l'eccellente vino di Capo-Liberi era destinato a riportare i maggiori e ben meritati onori.

Il capitano Thompson si contentò di farne gli elogi perché dovendo ricondurre la signorina a bordo, e ricordandosi di quella tale inciampata, credette indispensabile il mantenersi moderatissimo.

Un altro motivo, diciamolo pure, trattenne il capitano Thompson da certe indulgenze che la professione sua qualche volta permette: ed era, il desiderio di piacere alla Aurelia. Quella buona signora, benché non più sul fiore degli anni, si manteneva abbastanza fresca e grassetta, poi piena di gratitudine alle attenzioni che il capitano le avea prodigate in quel finimondo di tempesta pareva corrispondere un po' ai segni di simpatia non cortigianeschi, ma leali ed aperti dell'inglese il quale ripeteva tra sé stesso un adagio spagnolo imparato a Cadice:

Tiempo d'hamhra no hai pan duro(58).

E tutto andò perfettamente per i nostri quasi-naufraghi della Clelia, giacché, per lupo di mare che uno sia, la terra co' suoi divertimenti, ed i suoi agi è sempre preferibile ad una tempesta marittima. Giulia andava in estasi dinanzi alla semplicità antica di quegli eccellenti ospiti; Manlio, meditava il concetto di un gruppo in marmo per il suo arrivo in Roma, che rappresentasse la bellissima Giulia sostenente il suo compare barcollante e in procinto di dare del naso in terra. Aurelia e Thompson avean dimenticato la natura intiera tormentati da certo pizzicore, le cui espressioni erano occhiate incendiarie. Così retrocedevano a bordo, accompagnati dall'intiero villaggio con suoni ed evviva generali.

CAPITOLO XLII LA SOLITARIA

Nell'arcipelago italiano, che comincia al mezzogiorno colla Sicilia, e termina a tramontana colla Corsica, trovasi un'isola quasi deserta. Composta di puro granito, le sue sorgenti d'acqua dolce sono stupende benché non siano in estate abbondanti. L'isola è ricca di vegetazione, non d'alto fusto, non concedendolo le buffere, che la spazzan via senza misericordia. Il guaio dei venti quasi continui e troppo forti vi produce il beneficio della salubrità dell'aria. I cespugli surti nell'interstizio de' massi, sono tutti aromatici; e se ospite su questa terra deserta tu accendi il fuoco senti la fragranza dei rami bruciati imbalsamare l'aria.

Il poco bestiame che pascola, vagando per i dirupi, è basso di statura, ma robustissimo. Così i pochi suoi abitatori, i quali vivono non splendidamente ma in un'abbondante agiatezza, coi prodotti della pesca e della caccia, un po' coll'agricoltura, e molto mercé la generosa provvidenza d'amici che dal continente inviano il necessario.

Il numero ristretto degli abitanti rende superflui Governo e Polizia. L'assenza dei preti è la maggior benedizione dell'isola. Dio vi si adora come si deve, col culto dell'anima, senza sfarzo, nel grandioso tempio della natura che ha il cielo per volta e gli astri per luminari.

Il capo della famiglia, che primeggia in quell'isola, è un uomo come gli altri, colle sue fortune e i suoi malanni. Ebbe la sorte di servire qualche volta la causa dei popoli servi come qualunque mortale, ha la sua dose di difetti. Cosmopolita, egli ama però svisceratamente il suo paese, l'Italia, e Roma, con idolatria. Odia i preti, come istituzione menzognera e nociva, ma il giorno in cui spoglino il lor carattere, malignamente buffone, e tornino uomini, egli è pronto ad accoglierli e perdonare i loro errori passati. Professa idee di tolleranza universale e vi si uniforma, ma i preti, come preti non li accetta perché egli non intende siano tollerati malfattori, ladri e assassini; e considera i preti quali assassini dell'anima, peggiori degli altri.

Egli ha passato la sua vita colla speranza di vedere nobilitata la plebe e ne ha propugnato dovunque i diritti e sempre. Ma con rammarico confessa pure che egli è rimasto in parte deluso poiché il plebeo innalzato dalla fortuna a più alto stato, ha patteggiato col dispotismo ed è diventato peggiore forse del patrizio.

Per questo non dispera del miglioramento umano; si duole soltanto di vederlo progredire lentamente.

Per lui, i peggiori nemici della libertà dei popoli, sono i dottrinari democratici o repubblicani, che hanno predicato e predicano le rivoluzioni per mestiere e per avanzamento proprio e ritiene sian stati loro che hanno rovinato tutte le Repubbliche, non solo, ma screditato il sistema e il nome repubblicano. Cita ad esempio le grandi e gloriose Repubbliche Francesi, quella dell'ottantanove particolarmente, la cui memoria s'adopera dal despotismo come spauracchio contro coloro che predicano la bontà e l'eccellenza di una tal forma di reggimento.

Quanto a lui, crede che Repubblica sia: "il governo della gente onesta" e lo prova: accennando alla caduta delle Repubbliche quando i cittadini sprofondandosi nel vizio, hanno cessato di esser virtuosi. Non crede però alla durata del governo Repubblicano composto da cinquecento individui.

Egli è d'avviso che la libertà d'un popolo consista nella facoltà di eleggersi il proprio governo. Questo governo, secondo lui, dev'essere dittatoriale, cioè d'un uomo solo. A questa istituzione dovette la propria grandezza il più grande dei popoli della terra.

Sventura però a chi in luogo di un Cincinnato elegge un Cesare!

Vuole poi limitata a tempo determinato la Dittatura, e solo in caso straordinario, come quello di Lincoln nell'ultima guerra degli Stati Uniti, consentirebbe la proroga. In nessun caso accorderebbe ereditario il potere.

Egli però non è esclusivo: pensa che il sistema del Governo veramente voluto dalla maggioranza della Nazione, qualunque esso sia, equivalga alla Repubblica, come avviene, per esempio, del Governo Inglese.

Giudica il sistema presente Europeo un bordello e i Governi tutti colpevoli dello scandalo perché tutti, anzi che cercare la prosperità dei popoli non fanno altro che assicurarsi nella loro posizione di despotismo mascherato od aperto. Di qua gl'immensi eserciti stanziali di truppe, d'impiegati e di birri che divorano la produzione del paese senza faticare, con rinascente appetito e senza produrre altro che corruzione.

E la parte più improduttiva e prava della Nazione non si contenta di consumar per uno co' suoi vizi, le sue lussurie ed il suo sfarzo, ciascuno vuol consumare per cinquanta.

Così la parte laboriosa del popolo è caricata d'imposte e priva della miglior gioventù che si strappa dai campi e dagli opifizi per l'esercito col pretesto della difesa della patria, ma in realtà per sostenere un sistema di Governo mostruoso. Le campagne abbandonate e sterili e le popolazioni malcontente ed immiserite ne sono il finale risultato

Prova che l'Europa è scelleratamente governata, si è pure lo stato di guerra quasi continuo in cui essa si trova sotto uno od altro pretesto. Colpa e vergogna questa poiché se i popoli fossero ben governati non avrebbero bisogno di uccidersi reciprocamente per intendersi.

Date un'Unione europea delle nazioni con un rappresentante per ciascuna e uno statuto fondamentale il cui primo articolo suoni: "La guerra è impossibile" ed il secondo: "Ogni lite fra le Nazioni sarà liquidata dal Congresso". Ecco veramente la guerra, flagello e vergogna umana, divenuta impossibile. Allora non più eserciti permanenti ed i figli del popolo che si guidavano al macello, coi boriosi nomi di patriottismo e di gloria resi alle loro famiglie ed ai campi, che fecondati col lor sudore, contribuirebbero davvero a migliorare la condizione generale delle nazioni.

Ecco quali sono le credenze del solitario, e confesso anche la mia.

Quest'isola era il luogo di rifugio, che Giulia avea scelto, d'accordo con Manlio, per i fuggitivi suoi amici. Ma poiché erano rimaste Clelia e Silvia senza poter raggiungere lo Yacht, essa avea modificata tale decisione a questo modo: si visiterebbe cioè l'isoletta per prendervi parere ma si tornerebbe sul continente per aver notizia del resto della famiglia.

CAPITOLO XLIII IL SOLITARIO

Era una di quelle aurore che ti fan dimenticare ogni miseria della vita per rivolgerti tutto intiero alle meraviglie colle quali il Creatore ha fregiato i mondi. L'alba primaverile che spuntava dall'orizzonte, così graziosamente tinta dei bellissimi colori dell'Iride, t'incantava. Gli astri minori impallidendo erano scomparsi nella brillante atmosfera di luce del grandissimo benefattore della natura, e l'aura mediterranea che appena increspava l'onde, ti dilatava il cuore.

Con tinta cenerognola usciva l'Isoletta dall'onda all'Occidente, e la Clelia spinta da leggerissima brezza da Levante, lentamente s'avvicinava.

Partito il giorno antecedente da Porto Longone lo Yacht aveva avuto un traversata felice e breve, con molta soddisfazione dei passeggieri romani in ispecie ed in quella bellissima mattinata primaverile esso spuntava dalla punta settentrionale dell'isola già a vista degli abitatori.

L'arrivo dello Yacht della bella Giulia era sempre una festa per gli abitanti della Solitaria, che già lo avevano veduto altre volte e lo conoscevano perfettamente. Tutti corsero alla marina festosi ad accogliere la cara ospite, seguiti pure dal vecchio capo della famiglia che per gli anni e i malanni divenuto lento seguiva da lontano la giovine e svelta brigata.

Giulia con Aurelio e Manlio scesero sulla spiaggia, ed ebbero oneste e liete accoglienze da ognuno. Giulia presentò ai suoi amici gli ospiti Romani e tutti insieme salirono verso l'abitato.

Giunti in casa - e dopo qualche riposo - il Solitario impaziente chiese a Giulia:

"Ebbene, quali nuove dalla nostra Roma? Sono gli stranieri fuori? Ed i preti quando lasceranno respirare quelle infelici popolazioni che tormentano da tanti secoli?".

"Le loro miserie non son finite ancora", - rispose la bella Inglese - "e chi sa quando lo saranno! Gli stranieri si sono ritirati veramente, ma altri stranieri peggiori dei primi si assoldano ed il Governo del vostro paese spudoratamente si accinge a sostituire soldati italiani a soldati stranieri nell'infame incarico di mantenere nel servaggio del prete gli infelici Romani".

E riprendendo, Giulia continuava: "io, Inglese di nascita, ma italiana di cuore, mi vergogno nel dirvelo: Roma non sarà più capitale d'Italia! Il governo vi rinuncia ed il Parlamento sancisce quest'atto nefando per compiacere alle voglie liberticide del Bonaparte".

"Oh! vituperio dell'età moderna - esclamò il Solitario - Italia! un dì emporio di tutte le glorie! oggi di tutte le vergogne! Giardino del mondo un giorno, oggi cloaca! Oh! Giulia! un popolo disonorato è popolo morto! Io quasi dispero dell'avvenire di tal gente!". Ed una lagrima rigava la guancia arrugata del vecchio avanzo di molte patrie battaglie.

CAPITOLO XLIV IL 30 APRILE

Sull'albeggiare del 30 Aprile 1848 un sergente straniero era condotto in prigione alla presenza del comandante il Gianicolo. Caduto in un'imboscata di romani, durante la notte, quel soldato, cui i preti avevano dato ad intendere che i difensori di Roma eran tanti assassini, giunto che fu alla presenza del capo s'inginocchiò, e chiese la vita per amore di Dio(59).

Il comandante porse la destra al giovine straniero e lo sollevò di terra, lo confortò amorevolmente, quindi "Buon augurio!" esclamò il guerriero italiano, rivolto ai circostanti. "Buon augurio! la burbanza straniera prostrata davanti alla maestà romana, è indizio certo di vittoria!".

E veramente, quell'esercito straniero, che sbarcato a Civitavecchia, se ne era con fraude impadronito, e col fallace titolo d'amico, s'avanzava su Roma, beffandosi della credulità come della bravura del nostro popolo, ben caramente ebbe a pagare le sue millanterie, e rotto in fuga dai militi cittadini della Metropoli, dovette ripigliare vergognoso la via del mare.

Il 30 Aprile, giorno glorioso per Roma, non era dimenticato sui sette colli ma come festeggiarlo in presenza di tanta sbirraglia? Né in Roma soltanto, ma in tutte le città ancora soggette al Papa, rinasceva costante il desiderio di festeggiare l'anniversario della propria liberazione. A Viterbo, dove sappiamo che al tempo del nostro racconto non c'erano truppe, la popolazione avea divisato di festeggiare il 30 Aprile, come anniversario della cacciata dello straniero, e preparativi acconci furono fatti. Ma, se non v'eran truppe, non mancavano spie ed il Governo di Roma fu informato d'ogni cosa.

Il Comitato Viterbese per la festa avea fissato un programma che stabiliva: dopo il meriggio i lavori fossero sospesi, la gioventù in abito di gala si riunisse sulla piazza della Cattedrale con nastro tricolore al braccio sinistro, di là movesse in processione verso la porta Romana, per ivi dare un saluto alla vecchia matrona dell'orbe ricordando il valore de' suoi cittadini in quel giorno glorioso.

Il governo di Roma, spaventato dalla notizia di tale avvenimento, diede ordini ad un corpo di nuovi soldati stranieri, da poco tempo al soldo dei preti, di marciare in fretta su Viterbo, per reprimere la dimostrazione a qualunque costo.

Or, mentre il paese festoso, quasi dimentico del lungo servaggio, si abbandonava alla gioia, e la gioventù dopo aver fatto solenne saluto di porta Romana, a dispetto delle autorità pretine passeggiava in buon ordine preceduta dalla banda che suonava inni patriottici; mentre le signore, sempre più ardenti degli uomini quando si tratta d'atti generosi, acclamavano dai balconi, e sventolavano graziosamente fazzoletti tricolori ai passanti; mentre infine la città intiera, che i preti come tutte le altre avean tenuta nel lutto, si destava alla gioia di un ricordo glorioso dalla stessa porta Romana, spuntava la testa di colonna del corpo straniero, e con baionetta in canna, e a passo di carica invadeva la via principale della città, ove ancora si trovavano viterbesi festanti.

Un delegato di polizia, che con alcuni birri precedeva i mercenarii impose al popolo di ritirarsi. A quell'intimazione risposero fischi solenni ed alcune pietre ben dirette fecero fuggire il delegato ed i suoi compagni, che rannicchiandosi fra la soldatesca, gridavano a squarciagola: "caricate quella canaglia! Fate fuoco per Dio!". Il comandante di quella ciurmaglia, che voleva guadagnarsi qualche cindolo e sapeva che facendo macello del popolo si metteva sulla vera via per ottenerlo, persuaso ancora che giovasse aizzare i suoi cagnotti contro i cittadini, acciò che l'odio reciproco tra loro non si raffreddasse, ordinò tosto la carica alla baionetta.

I Viterbesi, che come tutte le popolazioni Romane, avevano ordine dai comitati rivoluzionari di non muoversi e quindi non eran preparati alla pugna. Si dispersero per le vie traverse, il che venne loro facilitato dalla incipiente oscurità della sera, e dal subitaneo spegner dei lumi, che le donne come per incanto, eseguirono dovunque.

La carica dei mercenarii non ebbe sfogo che contro alcuni cani e somarelli di campagna che si ritiravano a casa e non s'udiva altro che un grande abbaiare dei primi ed un urlar dei secondi, perseguiti colle baionette alle reni dai valorosi campioni delle sottane.

Eran circa le 10 della sera e tutto era tranquillo in Viterbo. La truppa aveva formato i fasci sulla piazza principale, riposandosi sugli allori dalle fatiche e vittorie del giorno. Dei cittadini, ritirati nelle loro case, non se ne incontrava uno solo per le strade. Al grande Albergo della Luna il campanello chiamava a raccolta i commensali alla gran tavola rotonda. Circa cinquanta posti erano preparati, con quel lusso che nelle odierne locande si suole spiegare.

Verso l'istessa ora, una carrozza a quattro cavalli giungeva alla porta della locanda, e vi scendeva una donna in abito da viaggio, che alla sveltezza del passo e alla scioltezza d'ogni movimento si scorgeva essere giovane. Il maestro di casa, dopo aver introdotto in una delle più eleganti camere dell'albergo la forestiera, le chiese se desiderava rifocillarsi senza uscire di stanza; ed essa rispose che volentieri sarebbe scesa alla tavola rotonda, non piacendole di pranzar sola.

La sala era già affollata, e la maggior parte degli astanti erano ufficiali stranieri del corpo recentemente arrivato. Il resto erano forestieri italiani e cittadini di Viterbo.

All'apparire della viaggiatrice, tutti gli occhi si rivolsero su lei con ammirazione ed era veramente ammirabile in quella sera la nostra Giulia, perocché la nuova venuta era lei.

Tutti fecero largo quando traversò la sala, gli italiani assunsero un'aria di gentile stupore, gli ufficiali affilarono i baffi, dilatarono il collo e rigonfiarono il torace in aria di conquistatori.

A capo della tavola s'assise il padrone di casa, elegantemente vestito, e pregò la bella inglese di sedersi alla sua destra. Gli ufficiali sollecitamente si affollarono verso il capo della tavola per mettersi accanto alla signorina e così i primi posti in un batter d'occhio furono occupati da loro. Giulia vedendosi un mercenario alla destra, si pentì di avere accettato l'offerta, ma era già troppo tardi e, mentre con aria contrita, girava lo sguardo sui commensali, i suoi occhi s'incontrarono con due occhi, che la colpirono come folgore. Erano gli occhi di Muzio! di Muzio che si trovava all'altra estremità della mensa, collocato fra Attilio ed Orazio niente meno!

Assuefatta a vedere il suo diletto col mantello, poco abituata alla fisionomia d'Orazio che aveva veduto un sol momento armato da capo a piedi nella selva, e d'Attilio, che in Roma usava il semplice vestito dell'artista, rimase incerta ed esitante e vedendoli tutti e tre in cilindro, e con abito da viaggiatori stranieri, veramente sulle prime non li riconobbe. Quando fu ben sicura che erano loro, proprio loro, rimase mortificata di trovarsi accanto a tal vicino. Ma come fare? Come alzarsi, avvicinarsi, chieder loro mille cose che essa bramava sapere senza destare sospetti, senza comprometterli, mentre sovr'essa lampeggiavano cinquanta sguardi d'uomini affascinati dall'incantatore suo volto?

E Muzio! il medico, il capo della contropolizia Romana, l'uomo che come il suo omonimo(60) avrebbe posto per Giulia, non la mano, ma la testa sui carboni ardenti; Muzio, vedeva l'astro della sua vita lì, accanto ad un soldato straniero, che egli odiava come vile strumento della tirannide. Lì! la sua Dea! il suo tutto! obbligata ad accettare le gentilezze d'una mano contaminata o da contaminarsi forse nel sangue de' suoi concittadini.

Oh, voi! innamorato d'una donna, avete mai pensato, mai compreso quanto valete alla sua presenza, quando un profano tenta di rapirtene il possesso? Voi, se in quell'atto non valete dieci uomini, se in quell'atto non siete capace di dar dieci vite siete un codardo e la donna di codardi non ne vuol sapere!

Siate pur delinquente! Essa vi perdonerà; ma la donna non perdona che ai prodi! E Muzio era degno dell'amore della britanna vergine e guai allo straniero! Se Muzio avesse dato ascolto alla sua smania di vendetta! Quegli avrebbe veduto una lingua di fuoco lampeggiare nell'aria, avrebbe sentito la fredda lama di un pugnale penetrargli nelle viscere!

Giulia avea letto nell'occhio dell'amante la tempesta del suo cuore e lo sguardo di lei, indovinato da lui solo, placava l'anima vulcanica del Romano.

Fra una portata e l'altra, com'è naturale, gli ufficiali stranieri non mancavano d'intavolare discorsi sulle faccende di Roma e della giornata: e come al solito con poco rispetto per il popolo Romano, che erano avvezzi a disprezzare.

Giulia, infastidita dall'indecorosa conversazione, s'alzò con contegno altero e dimandò di ritirarsi. I nostri tre amici, che Dio sa quanto erano bramosi di baciarle la mano, s'erano già mossi per alzarsi anche loro quando uno scoppio di risa generale degli ufficiali stranieri li tenne curiosamente fermi al loro posto.

Era stata cagione della risata una facezia insolente d'uno di essi sul fatto della giornata che suonava così: "Io credevo di venire a Viterbo per menare le mani contro degli uomini e invece vi abbiam trovato conigli, che si son rintanati al solo nostro apparire. Ove diavolo si sono appiattati questi liberali che menan tanto romore?".

L'ultima frase aveva fatto ripigliare i loro posti ai tre proscritti e, fatto un gruppo dei tre guanti, Attilio con piglio sdegnoso lo scaglia contro il viso del maldicente, senza articolare parola.

"Oh! Oh! - esclamò il provocato - che affare è questo!" e pigliando il gruppo dei guanti li sciolse e continuò: "dunque sono sfidato da tre!... bravi! ecco un nuovo saggio del valore italiano: tre contro uno! tre contro uno!" e se la rideva sgangheratamente insieme coi compagni.

I tre lasciarono passare il nuovo clamore e quando fu finito Muzio con voce stentorea gridò: "Tre contro tutti! signori insolenti!".

L'effetto di queste parole fu magico, poiché all'accento di Muzio i tre amici s'erano alzati fulminando coi loro sguardi or l'uno or l'altro ufficiale e presentando nelle loro teste scoperte quell'insieme alla Michelangelo che abbiam descritto, quel bello e marziale aspetto che natura qualche volta prodiga ad un individuo colla sua capricciosa e maestra mano: capriccio, forse ingiustizia relativamente ai molti che non ricevono tale favore, ma dono che noi ammiriamo sempre con piacere nella persona amata, con odio, nel caso contrario.

E tale fu l'effetto prodotto sulle due fazioni, che stavano assise alla stessa mensa. Gli italiani ne furono edificati e con aspetto ilare e plaudente contemplarono i tre campioni dell'onore nazionale con ammirazione e gratitudine, mentre gli stranieri rimasero stupefatti per un pezzo e non poterono a meno di restare sorpresi dalla maschia bellezza dei tre e dal loro fiero contegno.

Passato quel momento, il sarcasmo straniero tornò in campo ed uno dei più giovani esclamò: "Amici un brindisi", e poiché tutti si alzarono col bicchiere in mano: "io bevo, - egli disse -, alla grande nostra fortuna, d'aver incontrato finalmente dei nemici degni di noi in questo paese".

Orazio rispose: "Io bevo alla liberazione della nostra Roma da ogni immondizia straniera!".

Le parole d'Orazio sembrarono troppo insultanti agli ufficiali e la maggior parte si levò portando minacciosamente la mano sull'elsa, ma uno fra loro più maturo di età tranquillandoli, disse: "Amici! non conviene turbare la quiete della città, dove sapete che siamo venuti per rimetter l'ordine. All'alba ci troveremo co' tre nostri provocatori; solamente bisogna assicurarsi che questi signori non vadano via nella notte, e ci privino dell'onore d'uno scontro".

"Troppo fortunata è l'occasione che a noi si presenta di combattere i nemici del nostro paese, - rispose Attilio -; perché ce la lasciamo sfuggire. Se vi garba staremo insieme tutti sino all'alba per movere uniti al luogo della pugna".

Gli stranieri chiesero della carta per scrivere i loro nomi e tirare a sorte chi dovesse combattere; tra i pacifici commensali italiani se ne trovarono tre che si offrirono di servire da secondi ai loro concittadini e quanto alle armi, siccome v'era insulto manifesto, da ambe le parti, si chiese il duello ad oltranza. A quindici passi: e al segnale dei padrini i combattenti marcerebbero ad incontrarsi, sciabola e pugnale.

I tre campioni dei preti usciti dall'urna, ossia da un cappello, ove erano stati deposti i nomi, furono un francese legittimista, uno spagnuolo carlista ed un austriaco. Il primo si chiamava Goulard, il secondo Sanchez ed il terzo Haynau.

I padrini nel resto della notte si occuparono a visitare le armi per fare in modo che le condizioni dei combattenti si trovassero pareggiate sul terreno.

CAPITOLO XLV LA PUGNA

L'alba del primo maggio spuntava appena dall'alto della selva Cimina, oggi Monte di Viterbo; quando per la via montana che la accavalla s'internavano nella selva dodici individui, avviluppati nei loro mantelli.

Procedevano tutti in silenzio, ma quando furono su di un poggio, che domina parte della foresta, Attilio disse:

"Qui, in questa selva, si rifugiarono gli ultimi avanzi dell'indipendenza Etrusca, battuti e perseguitati dai padri nostri, i Romani, e qui in un'ultima battaglia sparì dal novero delle genti italiche il più antico, il più celebre ed il più civile dei popoli della penisola".

Il capitano Goulard, che sapeva abbastanza d'italiano per capire il discorso d'Attilio e che credette fosse a lui indirizzato: "Credo che non lungi di qui, - soggiunse -; i miei antenati Galli dessero delle famose sconfitte ai vostri padri Romani e senza le oche, a cui si raccomandarono, sarebbero scomparsi allora dalla terra".

Attilio, stizzito, ma con calma, rispose: "Quando i vostri antenati camminavano su quattro gambe per le foreste della Gallia i nostri padri, i Romani, li trassero fuori, li piantarono su due piedi, e dissero loro: "siate uomini! a loro dovete la vostra civiltà moderna e la poca gratitudine verso di essi...".

"Che mi parlate di gratitudine? - intervenne il legittimista. - Dovreste ricordarvi, che senza la Francia, questa vostra Italia una non sarebbe esistita mai e poca gratitudine dimostrate voi per tanti generosi francesi, che han seminato le loro ossa sui piani della Lombardia".

"Oh! - ripigliò Attilio con veemenza. - Noi sappiamo distinguere la Francia generosa, ed i suoi prodi, pronti sempre a spargere il loro sangue per la libertà del mondo, dalla Francia Napoleonica che si è fatta propugnatrice del dispotismo dovunque, conculcando le giuste aspirazioni dei popoli". Ma soggiunse poi dopo un istante di pausa: "del resto noi siamo venuti per combattere e non per disputare".

Il luogo che i dodici avevano raggiunto era uno di quei prati ameni che natura si compiace lasciare senza ingombro d'alberi nelle foreste e che sembra di nascosto compiacersi ad ornare con prodigalità di tutto lo sfolgorante suo lusso. Quel prato incantevole doveva servire a scene di furore, ed essere imbrattato di sangue.

Il sito era scelto, misurate le distanze, i sei padrini sgombrarono dal centro, dopo aver gettato un'occhiata agli antagonisti; pronti a corrersi addosso. Il primo e il secondo segnale erano dati e si aspettava con ansia il terzo quando uno squillo di tromba che suonava la carica si fece udire improvviso dalla stessa via percorsa dai duellanti. Quasi simultaneamente si vide una compagnia di soldati stranieri del papa seguiti dal delegato Sempronio ed alcuni de' suoi fidi ribaldi avanzarsi sul luogo della pugna.

Qui conviene confessare che, quantunque mercenarii, gli ufficiali stranieri parvero mortificati e quasi sul punto di prender parte alla difesa dei loro avversarii. Certo poi li avrebbero consigliati ed aiutati a mettersi in salvo, se la truppa guidata dal delegato avesse dato tempo a riflessioni e non fosse venuta caricando impetuosamente alla baionetta la parte italiana.

Contro gente comune, quella carica sarebbe stata decisiva e una fuga precipitosa, se fosse stato possibile fuggire, ne sarebbe stato il risultato inevitabile; ma i nostri romani erano tali da sostenere qualunque assalto per ineguale che fosse il numero. Al primo squillo essi gettarono un colpo d'occhio sugli avversarii, e riscontrarono con soddisfazione che non eran complici della sorpresa. Poi, facendo fronte agli assalitori, si ritirarono in ordine, senza precipitazione, senza sgomento, verso la selva, col revolver alla mano.

La truppa, giunta sul luogo, vedendo che tra la gente che era venuta per assalire c'erano dei suoi ufficiali rimase perplessa senza sapersi che fare. Ma Sempronio che era prudentemente rimasto indietro, vedendo l'inutile risultato di ciò che chiamava il suo piano di battaglia, inferocì, gridando a tutta gola: "fuoco! fuoco! da quella parte! da quella parte!" segnando a dito i suoi concittadini del cui sangue aveva sete, e che vedea lentamente ritirarsi verso la foresta e raggiuntala far fronte alla truppa.

I soldati, come abbian detto, esitarono un momento; ma i birri che accompagnavano il delegato fecero fuoco sugli italiani, i quali sebbene fossero coperti dalle prime piante del bosco ebbero due padrini feriti, ma leggermente. Il revolver d'Attilio fece immediata vendetta dei compagni feriti e la sua palla andò diritta al naso di Don Sempronio (poiché egli era un prete, vestito da birro) e gliene portò via una metà.

Fu quello un colpo da maestro; perché Sempronio con grida e lamenti che destavano le beffe, non la compassione negli astanti se la diede a gambe verso Viterbo lasciando ad altri l'esecuzione del suo famoso piano di battaglia.

Non tutti gli ufficiali stranieri erano vergognosi della brutta figura che facevano in questa circostanza: parendo evidente, che per paura di scontrarsi sul terreno cogli italiani, essi avessero preparato la sorpresa della truppa. La sorpresa era dovuta ad un maneggio del delegato di polizia che dalle sue spie, aveva conosciuta la presenza dei tre capi proscritti ed avea preso le sue misure per assicurarne la cattura, sperando con questo di meritarsi un berretto di cardinale.

Ma, come dicemmo, non tutti gli ufficiali erano scrupolosi come i sei duellisti (e non lo era certo il capitano Tortiglia, comandante la compagnia di spedizione, carlista sfegatato). Allettato da un'impresa che credeva facile, contro pochi proscritti, si accinse ad inseguirli nel bosco col maggiore accanimento.

Fin che durarono le cariche, i nostri amici che avevano pregato i due feriti d'inselvarsi, tennero testa agli assalitori; ma scarichi i revolver, furono obbligati a ritirarsi davanti ai soldati, che il comandante eccitava, spingeva, trascinava alla difficile impresa. Il capitano Tortiglia ripetendo ad ogni istante dei "Voto a Dios! e dei Caramba!"(61) continuava tenacemente l'inseguimento e giurava impadronirsi di quei malviventi, cattura che sperava gli avesse a fruttare non piccola onorificenza dal governo dei preti. Però, Orazio, si ricordò che aveva seco l'inseparabile corno, lo trasse fuori e cominciò a ripetere alcune note che già udimmo al suo arrivo al castello di Lucullo. Non appena aveva egli cessato di suonare, che da ogni parte della selva s'udì un fracasso come di torrente che si fa strada fra i diruppi e le piante a precipizio.

Erano i compagni di Orazio e parte dei trecento che riuniti nella selva Ciminia dopo i fatti accaduti nella campagna di Roma stavano in attesa dei loro Capi, allontanatisi per alcuni giorni con missioni importanti.

Chi precedeva la banda or giunta sulla scena d'azione e la capitanava erano, niente meno che Clelia e Irene, or nuove amazzoni in cerca della pugna. Al loro fianco stava l'intrepido John, bramoso di menar le mani in sì bella compagnia.

I proscritti non fecero fuoco, ma, innestate le baionette alla punta delle loro carabine, cacciarono i mercenarii stranieri al grido di Viva l'Italia! spingendoli rovinosamente dinanzi a sé, con furia uguale a quella di montano torrente che seco travolge ciotoli e rottami. I soldati impauriti dall'irrompente tempesta, se la diedero a gambe, non curando le minacce e le sciabolate dei loro ufficiali, che invano cercavano di trattenerli.

Il capitano Tortiglia non mancava di coraggio e poiché s'era spinto alla testa de' suoi era ora rimasto l'ultimo. Convien dire puranco ad onor suo ch'egli era mortificato e sdegnoso di fuggire correndo, quando fu raggiunto da Attilio, il quale gli intimò la resa.

Tortiglia, gridò, morrebbe prima di arrendersi, onde l'italiano allora attortigliatosi il mantello al braccio sinistro, allontanò con quello la spada del capitano e gli si avventò addosso col pugnale nella destra. Lo spagnuolo, che era piccolo di statura ma agile e svelto, lottò, dimenossi per un pezzo; ma l'artista lo sollevò da terra e stizzito dalia resistenza di quel fantoccio che ei non voleva uccidere lo gettò con impeto contro il suolo, come fosse un sacco di stracci. Fu ventura per Tortiglia che il suolo era erboso se no, l'arte d'Esculapio non sarebbe bastata ad accomodargli le ossa sconquassate.

Non oltre il limitare della selva i proscritti perseguirono la truppa, salutandola con alcuni tiri per toglierle la voglia di voltarsi indietro, poi, medicati alcuni feriti d'ambo le parti, inviati a Viterbo sotto la scorta dei soldati prigionieri, gli stranieri feriti, internarono nella selva i propri. Il capitano Tortiglia trattennero solo, più per ostaggio che come prigioniero.

Clelia e Irene furono festeggiate da tutti per la loro bravura e Muzio, dopo avere baciato loro la mano con affetto, manifestò la propria riconoscenza ed i propri sentimenti in questa guisa: "Coraggiose e degne figlie di Roma, siate benedette per l'esempio che avete dato non a questi prodi compagni che non ne abbisognano, ma agli infingardi d'Italia che aspettano la manna dal cielo e dai nemici la loro libertà. Essi non si vergognano di piegare dinanzi alle esigenze di un tiranno straniero, di rinnegare la loro Roma, Metropoli naturale d'Italia, votata Capitale dal Parlamento, e voluta dalla Nazione; e non si vergognano di lasciarvi quel pandemonio di preti, flagello ed onta del genere umano.

Alle donne! sì alle donne toccherà di lavare tanta vergogna, giacché gli uomini non ne sono capaci".

Era giunto Muzio a questo punto del veemente suo discorso in onore del bel sesso, quando un'apparizione di donna, come discesa dal cielo, col volto e col portamento di un angelo, apparve agli occhi suoi sul sentiero di Viterbo e a quella vista tutta l'eloquenza del giovane romano svanì ed egli rimase come una statua contemplando l'adorata sovrana del suo cuore.

Ma la stupefazione di Muzio, fu meno osservata della corsa precipitosa di John verso la bella sua padrona. Questi, lasciata andare per terra la sua preziosa carabina, che non avrebbe abbandonata per tutto l'oro del mondo in altra circostanza, correndo e saltando, in un istante raggiunse Giulia, le prese la mano, la coprì di baci e lagrime di gioia si videro sgorgare dai suoi occhi. Poverino! In quella carissima donna si riassumevano per lui mille affetti e ricordi di famiglia, d'amici e di patria!

Giulia amorevolmente baciò in fronte il giovane inglese, poi Clelia e Silvia l'abbracciarono con singolare espansione, e la presentarono ad Irene di cui Giulia non ignorava la romantica storia e tanto desiderava di conoscerne l'eroina.

I prodi militi della libertà di Roma, obbliando un momento la disciplina, si affollarono intorno alla bellissima figlia d'Albione e se non la coprirono di carezze almeno poterono bearsi nella sua contemplazione.

CAPITOLO XLVI LA QUERCIA ANTICA

Dopo le accoglienze d'Attilio e d'Orazio, il suo forte liberatore, Giulia si occupò un poco anche del suo amante, che in tanta confusione era rimasto alquanto eclissato e confuso.

Muzio anche da mendico avea sempre tenuto quel decoro e quella pulitezza della persona, che il ricordo de' suoi natali gì'imponevano, pur nondimeno Giulia lo complimentava ora sulla sua eleganza, complimento che non aveva potuto fargli all'albergo della Luna, per le circostanze da noi conosciute.

Veramente la condizione dell'ultimo rampollo della famiglia Pompeo, s'era migliorata assai in questi ultimi tempi. Siccio, quel fedelissimo ed amoroso servo che lo aveva raccolto bambino, salvato e nutrito con tanto affetto, era morto ed avea, pria di morire, trasmesso al cardinale F... zio la storia e una copia dei titoli del suo giovine padrone. Il prelato avea tosto dato ordine al suo procuratore di mettersi in relazione con Muzio, fornirlo di quanto abbisognava e procurare di tirarlo all'ovile. Il cardinale lo aveva incaricato pure di fargli sapere che nel suo testamento lo avrebbe fatto padrone degli immensi suoi beni e rimesso anche in possesso di quelli del padre, fraudolentemente passati nelle ugne dei Paolotti avoltoi.

Tutto questo rasserenarsi dell'orizzonte del nostro mendico, era dovuto poi al cambiamento di temperatura politica, occorso verso la fine del 1866, in cui gli Italiani, sebbene in modo indecoroso, rientravano in possesso di casa loro. Non era indifferente per il cardinale A... il poter dire "anch'io ho un nipote liberale(62) e di prim'ordine" e per questo cercava l'amistà di quel nipote.

Giulia contemplava la trasformazione degli abiti di Muzio con commozione. Pure ella che tanto lo aveva amato mendico avrebbe quasi desiderato fosse rimasto lo stesso. Muzio non favellò, ma prendendo la mano di Giulia, v'impresse un bacio, nel quale versò tanto affetto e tanto cuore che la penna non potrebbe descrivere e solo donna innamorata può comprendere.

Clelia ed Irene alla lor volta erano pur felici nel riabbracciare i loro cari, e la gioia era dipinta su tutti quei giovani volti.

È forza confessarlo. Nemico del sangue come io sono pure trovo che il giorno d'una vittoria è inebbriante e, come ogni altro, io stesso ne ho assaporato la selvaggia letizia. Poco importano, il terreno seminato di cadaveri, le grida dei morenti e la spossatezza propria. "Siam vincitori! Abbiamo fugato il nemico!" e tutti i crocchi s'incontrano, si stringono allegri la destra e si fan festa.

"I fratelli hanno ucciso i fratelli"(63) ma che importa in quel momento se siamo vincitori?...

Bisogna che i popoli diventino assolutamente fratelli.

Sotto una quercia annosa, sulle vergini, verdeggianti zolle della foresta, sedevano i capi e con loro quelle preziose donne che la sorte come per incanto avea riunite così attraenti, così belle, spiranti gioia ed amore, diffondendo intorno un'atmosfera balsamica di paradiso.

Oh! Manlio perché non sei qui a bearti nell'adorazione de' suoi cari? tu ne abbozzeresti il gruppo, che l'arte tua, lo scalpello vivificante, animerebbe ma non potrebbe uguagliare.

Silvia fu la prima a rompere il silenzio, dimandando con titubanza a Giulia:

"E Manlio, ove l'avete lasciato?". "Manlio, - ripose la bella inglese -; trovasi col Solitario e l'ho lasciato in florida salute colla promessa di recargli presto notizie vostre".

"E qual è l'opinione del Solitario circa alle cose di Roma?" chiese Attilio.

"Egli, - rispose Giulia -, approva il nobile contegno dei pochi romani che mantengono il decoro del paese molestando il Governo dei preti e protestando dinanzi al mondo: che quell'abbominazione non è più possibile, né con temporale né con morale autorità. Egli applaude alla longanimità con cui avete sin'ora sofferto e taciuto per non turbare l'andamento dell'unità nazionale e non dare agli stranieri pretesto a creare degli imbarazzi. Nello stesso tempo egli è dell'opinione che, ove il Governo Italiano continui a stare in ginocchio ai piedi del despota della Francia e si ostini per fargli piacere a rinnegare la capitale d'Italia e mantenervi i preti tocchi a voi a decidere la questione colle armi, persuaso che ogni uomo di cuore in Italia vi debba sostenere".

"Sì - disse Muzio, che ruminava tra i denti da un pezzo la parola longanimità. - Si! la pazienza è la virtù del somaro e noi Romani per averne avuto troppa siamo stati e siamo bastonati. Ed è una vergogna avere tollerato per tanto tempo la più degradante delle caste! e d'averla tollerata padrona!".

"Ed è lontana quell'isola solitaria? Non ci potremmo andare noi stessi a passare alcuni giorni?" disse la buona Silvia ricordando il caro compagno della sua vita e solleticata forse da un geloso pizzicore rispetto all'Aurelia.

"Niente di più facile", rispose Giulia, a cui era diretta la domanda. "Vicini alla frontiera come siamo noi potremo varcarla, dirigerci a Livorno ove stanzia la Clelia e di là veleggiare per l'isola che non è lontana.

"Io devo parteciparvi poi" (e questo riuscì gradito alla Silvia) "il matrimonio del capitano Thompson con Aurelia celebratosi nella Solitaria con semplice e patriarcale cerimonia perché là non vi son preti".

"Per la grazia di Dio!" interruppe Orazio, come in un soliloquio; poi sollevandosi su tutta l'atletica persona gettò lo sguardo verso l'estremità del bosco dal lato di ponente ed esclamò: "ma qui abbiamo gente nuova". E veramente si vedeva avanzare verso il loro gruppo un agile e robusto giovane, accompagnato da una donna a un di presso dell'età sua ma sulla cui fisionomia, malinconicamente bella, scorgevansi le traccie di patite sventure.

I nuovi arrivati eran Silvio e la sua Camilla. Il nostro cacciatore, dopo che la banda decise d'abbandonare la campagna Romana per passare a tramontana della Metropoli, volle dare un ultimo addio all'infelice sua donna che egli non poteva ristarsi dall'amare. Tornò dunque alla casa Marcello, fu accolto al solito da Fido e da Marcellino e trovò ancora la Camilla inginocchiata sulla tomba del genitore.

"Un delitto altrui può dunque così precipitare nell'afflizione per tutta la vita una povera creatura?" pensava tra sé Silvio addolorato, contemplando la prostrata giovane. "Oh Dio! rendimi la stella della mia vita!" quasi istintivamente egli esclamava fissando lo sguardo al cielo; e lei volgendosi all'esclamazione che fece vibrare le più intime fibre dell'anima sua fu in un momento nelle braccia di Silvio. Ambedue col volto nascosto nel seno l'uno dell'altra, piansero dirottissimamente ed a lungo senza poter scambiare una parola.

CAPITOLO XLVII L'ONORE DELLA BANDIERA

I nuovi arrivati furono accolti amorevolmente e le donne che conoscevano le sventure della giovane la colmarono di carezze.

Camilla conservava ancora qualche cosa di solenne, resto dello stato di demenza in cui era rimasta tanto tempo, ma pure era tornata in senno. Un rivolgimento miracoloso, operato dall'apparizione subitanea dell'uomo del suo cuore, quell'esclamazione di Silvio a cui accennammo sopra, e finalmente quella piena di commozioni e d'affetti risentita nell'amoroso abbracciamento, avean trasformato in un essere nuovo e risanata la povera giovane.

"Io sono passato per Viterbo" disse finalmente Silvio ad Orazio, "e vi ho veduto un finimondo, che è impossibile esattamente descrivervi: I cittadini che gli affari o la necessità fanno uscire di casa non camminano più, ma vanno correndo per le strade, e cercano rifugio quando s'imbattono nella soldatesca. Le truppe, rinforzate da forte distaccamento venuto da Roma, hanno smessa la paura che li trasportò fuggendo dalla selva Ciminia e vogliono infilzare quanti italiani vi sono sulla superficie della terra. Per attuare il loro bellicoso disegno, hanno cominciato a saccheggiare alcune botteghe e magazzini di vino ove si sono ubbriacati a morte. Le autorità pretine che volevano arginare quel torrente di canaglie furono prese a calci di fucile e fugate verso Roma coi loro sgherri che non torneranno per un pezzo"

"I nuovi rinforzi arrivati, gridano: che l'onore della bandiera è stato macchiato e che bisogna lavarlo".

L'onore della bandiera! ciò mi ricorda la velleità di certa nostra vicina Repubblica, che dopo aver violato infamemente il nostro territorio, impadronitasi per inganno del principale nostro porto di mare, attaccata proditoriamente la nostra capitale e ricevute delle meravigliose botte, gridava: al tradimento! ed al macchiato onore della bandiera!

"Infine, - ripigliava Silvio - : quel tramestio mi ha facilitato il poter indagare innosservato ogni cosa e il potermela svignare verso di voi. Soltanto, aggiungeva, mi è successo un episodio curioso e che ben poteva impedire la mia venuta. Mentre passavo davanti all'Albergo della Luna, da una carrozza scendevano alcuni ufficiali nuovamente arrivati da Roma ed in tanta confusione non trovando domestici per portare il loro bagaglio uno di loro venne a me e gridandomi: coquin! e non so che altro mi prese per il petto e voleva trascinarmi verso la vettura.

Per fortuna, io avevo fatto un segno a Camilla di precedermi. Il primo pensiero, fu quello di metter mano al pugnale. Ma mi trattenni e, strappando la sua mano dal mio petto, gli aggiustai sul muso tale un pugno che andò a ruzzolare tra le ruote del veicolo senza più articolar parola. Come ben capite, io non rimasi a raccogliere gli allori della vittoria e con quel passo che ben conoscete raggiunsi la mia compagna e senza voltarmi indietro presi la via della selva".

L'ilarità dell'uditorio e qualche "bravo, Silvio!" fecero eco al racconto del cacciatore, che riprese ancora dicendo:

"Badate che non dobbiamo rimaner qui con troppa sicurezza, giacché non dubito che domani al più tardi avremo sulle braccia la intiera masnada degli stranieri".

"Qui in questa selva - disse Orazio - noi terremo testa all'intero esercito del Papa. Qui gli antichi Etruschi dopo essere stati disfatti in battaglia campale dai Romani nella pianura, fecero fronte per molto tempo ancora alle legioni vittoriose.

Non pensano certo gli assalitori, - egli soggiunse - : che non siamo più in pochi, e che abbiamo giù le nostre donne da proteggere!".

"Ehi!? che donne da proteggere? - esclamò Irene con ironia - avete scordato presto, signor Rodomonte che queste stesse donne oggi hanno protetto voi!".

E lì uno scoppio di risa ed un affettuoso bacio sulla mano della sua cara dal coraggioso sovrano della foresta.

Intanto l'ombra lunga ed opaca dei giganti della selva stendendosi verso levante annunciava il tramonto ed il sole nel suo glorioso variopinto manto stava per nascondersi oltre le onde del Tirreno quando Clelia rivolta a John che col predominio della bellezza, della bontà e della dolcezza aveva reso docile ed obbediente, e prima di sedersi l'avea incaricato delle vivande, gli disse in inglese: "Eh! amico mio, tutti questi eroi da romanzo, pare non si curino della cena e se non ve ne occupate voi credo che anche questa notte andremo a letto senza".

"Aye! Aye!" rispose l'allegro figlio dell'Oceano: ed in due salti egli arrivava a venti passi di distanza, ove gli assistenti avevano scaricato due muli che col bagaglio dei Capi portavano pure qualche cosa da mangiare.

CAPITOLO XLVIII LA CENA CAMPESTRE

Chi è che non parteggia per la civiltà in confronto del barbarismo e della vita selvaggia? Chi non preferisce gli agi di una buona casa, fresca di state ben riscaldata d'inverno, con ogni comodo e buone vivande, un po' di superfluo alle intemperie della campagna, ai disagi e alle privazioni?

Quando si pensa: essere sì pochi coloro che godono o per meglio dire monopolizzano i benefici della società incivilita e che tanti sono i sofferenti, non si può fare a meno di dubitare: se veramente la classe povera ritrae molto profitto dalla civiltà presente. Egli è lecito chiedersi ancora, se essa può qualche volta, questa classe che pure è la maggioranza, desiderare la condizione selvaggia dei primitivi abitatori della terra tra i quali se non v'eran palazzi e cuochi, e mode, ed abiti e vivande raffinate. Non v'eran preti, birri, prefetti, esattori di tasse; non v'eran carichi insopportabili di balzelli e d'imposte, non vi prendevan i figli a servire i capricci di un despota, più o meno mascherato da liberale, col pomposo pretesto di servire la patria e di lavar le macchie delle bandiere non contaminate!

Comunque sia, una cena frugale nella foresta sulla magnifica verdura, non ancora calpestata dal piede profano e desolatore dell'uomo, seduti sui tronchi delle vecchie piante che, più del sedile, vi danno un fuoco stupendo e vivificatore, accanto poi a creature, come Clelia, Giulia ed Irene; oh! per Dio! io sono per una cena nella foresta s'anco non mi presentasse altro che frutta e caccia come qualche volta ho veduto.

Ma quella sera li c'era ben altro. Gasparo, comandante del bagaglio, e John - che ambi s'occupavano della somministrazione dei viveri - giunsero in mezzo al crocchio dei capi con una cesta ben fornita, tagliarono dei freschi ramoscelli che distesero sulle zolle verdeggianti, e vi sparsero delle vivande fredde che avrebbero fatto gola ad un Lucullo.

Alcuni fiaschi di Montepulciano e d'Orvieto fincheggiavano le vivande che condite dall'appetito, di cui erano dotati i proscritti dopo una giornata laboriosa, sparivano con una celerità sorprendente.

Giulia era in estasi! Essa per la prima volta divideva quella scena campestre in mezzo a quei cari e simpatici compagni che erano il bello ideale della sua immaginazione romantica e cavalieresca. Lì era il suo Muzio, che ella aveva indovinato sotto le vesti del mendico, che mendico essa avea amato ed ora trovava il discendente d'una nobilissima famiglia e forse il più ricco erede di Roma.

Quel sentimento dell'anima che la ravvicina come per elettrico influsso all'anima amata, innamorata! che attrae come calamità, teneva Muzio accanto alla donna del suo cuore e la custodiva e la provvedeva d'ogni cosa gradita e la beava con quello sguardo che invano l'arte cerca d'imitare e non può essere descritto che da chi ama con amore squisito, celeste, insuperabile.

Giulia trovava nuovo diletto in udire nella sua bella lingua la conversazione di Clelia e d'Irene col loro beniamino John, sempre gioviale ed interessante. Vedendo l'amica star sospesa ai loro discorsi, stuzzicarono a raccontare gli episodi della sua giovine vita di mare: le tempeste, i pericoli trascorsi, massime nel suo lungo viaggio nelle Indie ed in China che egli aveva cominciato a cinque anni.

La descrizione di John, degli uomini in China che fanno ogni servizio di donna in casa, mentre le mogli vanno in barca remando e portando in un panno dietro le spalle i bambini, faceva ridere smodatamente le belle interlocutrici e tutta la comitiva quando la traduzione ne veniva fatta da una di esse.

"La nautica professione è quella a cui il mio paese deve la sua grandezza - diceva Giulia - ed i miei concittadini l'apprezzano sopra ogni altra e l'onorano. Là, non solo nei paesi del littorale marittimo vi si fanno continue esercitazioni della gioventù, remando, addestrandosi e pericolando, ma anche nei paesi interni dell'isola, ovunque ci sia un fiume o un lago. Di lì quel semenzaio di uomini di mare che son pervenuti a signoreggiare gli Oceani. Io ho veduto, in Francia ed in Italia, i giovani destinati a divenire ufficiali di marina, passar la miglior parte della gioventù alle scuole tecniche in terra, e giungere poi a bordo oltre l'età di quindici o diciotto anni. A quell'età lo stomaco non si fa più al mare, i giovani ne soffrono le nausee e sono disprezzati dai marinai.

In Inghilterra la cosa è diversa. La gioventù destinata al mare, va a bordo all'età di cinque anni e vi fa lunghissimi viaggi, compie i suoi studi a bordo e dà al suo paese la prima ufficialità del mondo. I ricchi non ammassano moneta per contemplarla(64), ma la impiegano e pochi ve ne sono che non possiedano qualche barca grande o piccola per darsi all'esercizio di un'arte che fa la gloria e la prosperità del paese.

In Italia voi avete marinai non secondi ai migliori di qualunque nazione ma vi mancano gli ufficiali che stieno al paragone. Aveste sempre ministri di marina che non s'intendono di mare, e quindi incapaci di stimolare una professione che può fare dell'Italia una delle più importanti e prospere nazioni dell'orbe".

L'argomento trattato da Giulia era un po' estraneo ai nostri Romani ignari delle cose di mare, essendoché i loro istitutori-preti, avendo trovato pesante il remo e le reti degli apostoli, s'eran piuttosto dati al buon tempo delle gozzoviglie per la maggior gloria di Dio.

"Anche Gasparo, il valoroso principe dei banditi, potrà contarci qualche cosa della sua vita avventurosa", disse Orazio: ed il vecchio che forse ruminava qualche reminiscenza della sua vita passata rispose: "Avventure di mare io non potrei contarne veramente, perché pochissimo vi sono andato ma in terra ne ho passata la mia parte e se non vi dà noia l'udirmi vi racconterò cose da far rabbrividire".

CAPITOLO XLIX IL PARRICIDA

L'uomo nasce più grande in

questa terra ne sono

una prova i grandi delitti

che vi si commettono

(Alfieri)

"Nacqui nella piccola città di S.... nello stato pontificio non lungi dalla frontiera napoletana. I miei genitori furono gente onesta, dediti alla pastorizia, al servizio del cardinale B. Di buon'ora, custodendo le mandre di vacche, di buffali, di pecore, quasi sempre a cavallo, io, forte di costituzione, come mi vedete ancora, divenni robustissimo e destro cavaliere.

Fino all'età di diciott'anni rimasi un vero figlio del deserto non conoscendo altro affetto, che quello del mio cavallo, del mio laccio e delle mie armi, con cui ero divenuto formidabile ai cervi ed ai cignali delle foreste romane. Appassionatissimo per la caccia, esercizio confacente alla mia natura, ero capace di passare delle notti intiere in agguato del cignale nelle paludi ove esso ama avvoltolarsi nel fango; conoscevo la posta del cervo e bene spesso tornavo a casa portando sulle spalle uno di quei superbi corridori.

Un giorno, avendo lasciato il mio cavallo a certa distanza, stavo nascosto nel bosco alla posta del cervo quando un rumore si fece udire sul sentiero che dietro di me conduceva al paese. Sulle prime pensai, potesse essere una belva e tenni pronta la mia carabina; ma a misura che il rumore si avvicinava, mi sembrò udire una voce umana. Mi tenni più celato allora e attesi, finché mi comparve alla vista un giovane prete che aveva vedute alcune volte nelle mie rare escursioni alla città, il quale trascinava per mano una fanciulla sui sedici anni.

Il prete, circa ventenne, alto di statura e robustissimo, mancava d'una carabina, d'un cappello puntato e del giustacuore di guerra, per sembrare un vero e magnifico masnadiero.

La fanciulla!... perdonatemi la commozione! - e le pupille del vegliardo s'erano inumidite, - la fanciulla era un angiolo! Non so come non fui scoperto, poiché vedendola fui invaso da un'emozione, da un palpito dell'anima, sì delizioso, sì nuovo per me, che mi spinse ad involontaria esclamazione. Ma troppo erano affacendati i nuovi venuti per poter udire la mia voce nella selva. Il prete, col volto di bragia, stringeva col braccio destro la fanciulla e con tutta la sua forza cercava di trascinarla avanti, ad onta degli sforzi di lei per non avanzare.

Giunta finalmente a quei modo a venti passi dal mio nascondiglio, la coppia fermossi ed io udii distintamente la ragazza piangendo, esclamare: "Giacomo, per l'amor di Dio, lasciami! non hai vergogna di usar violenza alla tua sorella?".

"Alba - rispondeva lo sciagurato - non mi parlare così, non chiedermi l'impossibile. Alba! mia bella Alba! così bella e che io amo tanto! l'anima mia, vedi, brucia come il cratere di un vulcano!". Così dicendo la stringeva nelle nerborute sue braccia e cercava carpirle un bacio. La giovane, robusta anch'essa e animata dall'ira, si svincolava dagli osceni abbracciamenti come un'anguilla. Così durarono un pezzo ma finalmente il perverso essendo giunto ad atterrarla con uno sforzo supremo, e tenerla ferma al suolo, con un fazzoletto le andava legando le mani ad onta del pianto e delle lamentazioni dell'infelice. Né qui è tutto - continuò il vecchio corrugando terribilmente la fronte; - quel demonio trasse fuori di tasca una funicella e colla fredda e spietata tranquillità del carnefice che applica la tortura assicurò alle verdi piante le membra della vittima a cui intanto ripeteva: "Vedi Alba! che ora ti tengo?".

Alba non rispondeva perché la misera era svenuta.

Io là, a venti passi, l'ebbi più di dieci volte quell'assassino sotto la mira della mia carabina e non so perché non mandai l'anima sua all'inferno. Non avevo ancora versato sangue umano e, lo confesso, mi repugnava il cominciare.

Ma quando lo svergognato tentò andare oltre, feci un salto da tigre per raggiungerlo ed il calcio della mia carabina, come fosse una clava, lo stese sul terreno senza movimento.

Slegai la fanciulla svenuta, la presi nelle mie braccia e la portai accanto ad una corrente che non era lontana, spruzzai con acqua fresca quel volto d'angiolo, ch'io tengo qui scolpito nell'anima mia ed essa rinvenne. Rinvenne, mi strinse la mano in segno di gratitudine guardandomi commossa, esterrefatta. Da quell'istanze fu deciso il destino della mia vita, ed io amai Alba come si può amare la divinità stessa.

Il terribile sacerdote di lucifero tornando in sé ripigliò la strada di S.... imprecando e giurando vendetta contro tutto il genere umano. Chiese contezza di me e lascio pensare in quale esecrazione poi mi tenne. Forte come lui, e con anima diversa, poco lo temevo.

Ma contro di me non doveva sfogarsi la rabbia di quel mostro, bensì contro il vecchio suo genitore, testimonio più immediato de' suoi turpi tentativi. La prima vittima fu lui. Ingiuriarlo, maltrattarlo, batterlo, era poca cosa: un giorno il vecchio fu trovato col cranio fracassato sul lastrico del cortile interno di casa sua. Sarà caduto? o precipitato dal terrazzo? Il cadavere non rivelò il parricida!

Che importa al prete un delitto, s'ei lo può coprire? Non ne commette uno grandissimo, quello di mentire, dicendosi ministro di Dio coprendo quell'enorme delitto coll'ignoranza del prossimo, ch'ei deride?

La professione del prete è questa: godere e far credere alle moltitudini stupide ch'egli soffre di privazioni e di disagi.

Povero prete! Ricordo d'aver veduto un quadro in America che rappresentava un prete nella sua sala da pranzo a tavola. Vivande d'ogni specie erano imbandite sulla mensa e molteplici le bottiglie di vini prelibati. Accanto al prete stava la polputa e rubiconda sua Perpetua che egli carezzava amorosamente.

Alla porta dell'abitazione di quel gaudente giungeva un povero contadino irlandese, colla moglie che teneva un bambino sulle spalle. Tutte e tre le povere creature si vedevano sparute ed in miserabile stato. Il marito metteva una moneta nel bussolo del prete sul quale era scritto: "Fate l'elemosina pel povero parroco".

Non è questa la genuina storia del prete? Da una parte il godimento, l'ipocrisia e la menzogna, dall'altra l'ignorante credulità e la miseria!

Godere dunque, per chi non deve godere per legge e per i giuramenti suoi è delitto! Quindi si copra il delitto ed incesti, infanticidi ed ogni scelleraggine, ogni bruttura si tenga celata.

Io so d'un prete che vive colla sorella in termini matrimoniali e un altro ne conobbi che con maltrattamenti e battiture cagionò la morte del padre suo. E ripeto, questi sono delitti che giungono a notizia della gente. Gl'infiniti che rimangono sepolti nei penetrali della casa, nei sotterranei del chiostro e nei sepolcri chi li novera?

Una sera - continua Gasparo: - io ero seduto nel mio abituro campestre, di ritorno dalla caccia. Avevo veduto Alba la notte antecedente poiché dal giorno fatale in cui risparmiai all'umanità un incesto e che vidi per la prima volta quella stella della mia vita, raramente passavo una notte senza vederla, ad onta di tutte le precauzioni dell'innamorato suo cerbero.

Da quando seppi da Alba prevedevo bensì una catastrofe ma non così subitanea come la precipitò il parricida, mostro di lussuria, in quella terribile notte.

Ero dunque seduto nel mio abituro ed appena entrato quando si spalancò la porta ed Alba scapigliata e fuori di sé precipitossi nella stanza stramazzando ed esclamando: Parricida! Parricida!".

CAPITOLO L IMBOSCATA

"Le parole di Alba mi avevan svelato come un lampo l'orribile delitto. La raccolsi svenuta, l'adagiai sul mio lettuccio e per la prima volta potei contemplare tranquillo tutta la soave bellezza di quella sovrana dell'anima mia! Per Dio! sentii quasi menomare il mio aborrimento per l'assassino incestuoso, parricida, alla vista di sì bella creatura! forse cagione innocente di tanto delitto!

Alba risensando non mi svelò l'autore della morte del padre, né mi favellò del fratello ed io per non svegliare in lei reminiscenze dolorose scansai sempre d'interrogarla.

Il prete però, credendomi consapevole del suo misfatto, coll'odio immenso che già mi portava e la gelosia per l'amore d'Alba, mise in giuoco tutte le trame di cui è capace un demone, per annientarmi. Non ardì accusarmi apertamente della morte del padre, ma insinuò tale sospetto tra i suoi intimi, mi tese quante insidie egli potè e mise a disposizione di sicarii per uccidermi, quanto possedeva.

Al mio aspetto benché oppresso dagli anni e da' malanni voi potete congetturare ch'io dovea essere un giovane svelto, e capace di tener testa a dieci preti. Eppure quel lucifero fu tanto astuto da tendermi un'imboscata nella quale poco mancò ci lasciassi la vita.

Invano egli aveva grassamente pagati vari sicari per farmi la pelle. Io, che sapevo di quanto era capace il mio nemico, dormivo con un occhio aperto e quando uscivo di casa avevo meco due amici fedeli, il mio Lione e la mia carabina, con tutti gli accessori. Lione a cento passi sentiva il rumore d'un uccelletto e cominciava a muovere la coda ed appuntava gli orecchi. Povero mio cane! egli fu vittima dell'affetto che mi portava! - e il cuore intenerito del povero vecchio l'obbligò ad una pausa finché la commozione fosse superata. - Sì, quei mostri in una mia passeggiata a S.... pervennero ad avvelenarlo.

Fra S.... e il mio abituro esistevano certi folti, certe macchie nella selva idonei ad imboscate e i sicarii vi si eran nascosti qualche volta, ma frustrati dalla mia vigilanza ed impauriti dalla mia carabina eran fuggiti al mio avvicinarsi e confessarono al prete che volean desistere dall'impresa. Così però non l'intendeva Don Giacomo: eccitati con lauti pasti e vino abbondante e guadagnati con molto denaro, una sera condusse seco i tre malandrini e venne ad imboscarsi vicino alla mia casetta, in una macchia che dava sul sentiero che io doveva percorrere.

Il mio Lione era sepolto e, ad onta delle mie precauzioni, io fui sorpreso. Quattro scariche quasi simultanee partirono dalla macchia e rimbombò un furioso grido di muori! degli assassini che mi corsero addosso credendomi ferito. Ma non era così: quasi per miracolo, le quattro palle mi colpirono, ferendomi molto leggermente essendo la ferita più grave quella che mi portò via questo pezzo di orecchio sinistro. Un'altra palla colpì nel davanti del mio cinto di cuoio e fracassò alcune cartuccie, la terza mi forò il cappello radendomi la testa e la quarta mi sfiorò la spalla destra cagionandomi una semplice graffiatura.

Il primo che venne a me fu il prete, con la carabina nella sinistra, e la destra armata di pugnale. Sembrava un energumeno, ma il mio tiro riuscì più efficace dei loro. Il malnato, rotolò ai miei piedi, dando un grugnito da cignale. Ne rovesciai un secondo coll'altro tiro e i due ultimi, veduta la sorte dei loro compagni e scorgendomi colla pistola in mano, pronto a scaricarla, se la diedero a gambe.

La uccisione di un prete e d'un altro assassino, in difesa della mia vita, furon le mie prime colpe. In un altro paese, facendo valere i miei diritti d'assalito, avrei forse potuto scamparla perché, sebbene non avessi testimoni, la cosa era così evidente, che difficile non mi sarebbe stato provare la mia innocenza. Sotto il governo clericale, trattandosi della morte d'uno de' suoi, era altra cosa ed io pensai bene di tenere la campagna. Allora cominciò la storia del mio così detto brigantaggio; però, vi giuro, che la morte dei tanti sgherri d'ogni specie da me spacciati fu sempre una necessità per la mia difesa.

Molti, come me maltrattati dal clericume, mi seguirono, ed in poco tempo formai una banda formidabile al punto che il governo papale trattava con me, come si suol dire, con potenza costituita e riconosciuta. Assassini e ladri di mestiere meco non ne volli mai. Gli infelici d'ogni specie eran da noi soccorsi e se si assaltavano qualche volta le autorità pretine ciò accadeva per insegnar loro a non commettere infamie ed ingiustizie.

Così vissi per molti anni, sovrano della campagna romana, più di colui che siede al Quirinale, finché i coccodrilli di quella corte astutissima, vedendo che nulla potevano colla forza, ricorsero agli inganni, e quella buona lama del cardinale A.... mio degno parente, che Dio maledica, contribuì più d'ognuno alla mia cattura, avendo io avuto la debolezza di fidarmi a lui. Così rimasi per quattordici anni in ferri.

La giustizia di Dio stenderà finalmente la sua mano su quella setta di malvagi, vero flagello del genere umano.

Nelle galere pontificie, io seppi di voi. Orazio, della coraggiosa vostra resistenza ai cannibali del Vaticano e, vi assicuro, pregavo Dio, che pria di morire volesse concedermi d'esservi compagno. La mia preghiera fu esaudita, ed altro non bramo, che dar questo resto di vita per la santa causa che voi e i vostri nobili compagni, propugnate".

Giulia, incantata dal racconto del bandito, era lì lì per chiedere un cenno della vita avventuriera d'Orazio ma girando lo sguardo sugli astanti s'avvide che la stanchezza universale e l'ora tarda facevano necessario il riposo e si astenne e contemplò curiosa i preparativi dei letti da campo.

Le verdi frasche della selva in un momento distese sulla parte più piana del sito, coperto dal secolare gigante della natura, formarono un magnifico letto per le donne, che vollero dormire insieme, ravvolte con parte dei mantelli dei loro cari. Muzio con cenno supplichevole, offerse il suo alla bella inglese, e la pagò con uno sguardo di gratitudine per averlo accettato. Frattanto Orazio ed i compagni fecero un giro d'ispezione alle guardie e sentinelle avanzate, e diedero ordini di dare la sveglia prima dell'alba.

Lì, tra quelle piante, distese sulla terra, dormivano le speranze di Roma, il risorgimento da diciotto secoli di sonno e di vergogna, l'avanzo illustre dei vecchi conquistatori del mondo anelanti d'essere accolti nella grande famiglia umana!

CAPITOLO LI L'INSEGUIMENTO

Dio ebbe proprio a decidere così delle cose umane, che la somma delle grandezze dovesse venir ridotta al più basso delle umiliazioni. Così quella ciurmaglia che si chiama esercito romano doveva tenere il posto, e il nome e calpestare il terreno dove un giorno il vero ROMANO ESERCITO dominò il mondo conosciuto. Solo il prete, lo ripeto, potè produrre tale mostruosa trasformazione.

Il generale romano, cioè straniero, al servizio del papa, giunto in Viterbo con quante forze aveva potuto raccogliere, chiamò a consiglio nel palazzo municipale gli ufficiali superiori del suo esercito pigmeo. Tra questi ultimi si trovava un maggiore, col naso enfiato, come un cocomero e coperto di striscie di cerotto. Era il famoso pugno con cui il nostro Silvio lo aveva capovolto tra le ruote della carrozza.

Costui, col volto infiammato dal vino di cui egli aveva bevuto copiosamente per coprire la sua vergogna, consigliava di marciare subito all'assalto dei briganti. Ma il generale più pacato opinò, che meglio sarebbe stato, muovere all'alba non essendo sicuro a quell'ora tarda di poter raccogliere i soldati, quasi tutti ubbriachi. Dopo alcune discussioni, si deliberò di seguire il parere del capo.

All'alba i campioni dell'altare e del trono suonarono a raccolta, ma ci vuol altro per mettere insieme quei coraggiosi adoratori del fiasco italiano, una parte stanchi dalla marcia forzata da Roma a Viterbo e della vergognosa scappata degli altri dal Ciminio.

Il sole già si presentava sulle vette dell'Appennino, quando l'esercito principiò le sue mosse complicate al solito di combinazioni difficili ad eseguirsi in una selva montuosa ove il capo ignorante era obbligato di servirsi di guide indigene che mal volentieri lo servivano.

I proscritti all'incontro, praticissimi, s'eran mossi all'alba e quando il sole spuntava, già dominavano il vertice del monte e potevan di là scoprire il nemico da qualunque parte si fosse avvicinato.

Orazio, cui nessuno contendeva il comando, aveva disteso circa cento dei suoi, comandati da Muzio in bersaglieri, tra i massi ed il bosco che dominavano il monte dalla parte ove si vedeva il nemico avanzare. Il resto, circa dugento, era in colonna dietro lo stesso vertice, pronti a caricare al primo cenno.

Avendo così disposto i suoi trecento, il capo fece chiamare a sé il capitano Tortiglia, e gli chiese degli Ufficiali che conducevano la colonna nemica e che si vedevano ascendere il monte, benché ancora lontani. "Chi comanda la vanguardia - disse Tortiglia - e viene avanti risolutamente è il maggiore Rascal, coraggioso ufficiale, ma un Rodomonte di prima categoria".

"Oh! se non m'inganno, - disse Silvio, che aveva puntato il binoccolo, - quegli è lo stesso che voleva ieri farsi portare il bagaglio da me; lo riconosco al suo naso impiastricciato di cerotti".

"E quell'altro? - dimandò Orazio - che viene a cavallo alla testa credo del corpo principale?".

"Prestatemi il binoccolo, - disse Tortiglia, e dopo averlo puntato sull'individuo accennato: - Oh per Dio! - egli esclama, - quegli è proprio il Generale in Capo dell'Esercito; e vedete che spunta anche il suo stato maggiore a cavallo".

"Ed il suo nome?".

"Il suo nome, è Conte de la Roche... de la Roche-Haricot. Questi legittimisti francesi, rappresentanti del feudalismo, hanno certi nomi, quasi tutti di Roche e che per noi della lingua del sì sono ben difficili a pronunciarsi".

"Ma anche voi siete della lingua del sì signor spagnuolo?" gli disse Orazio un po' stizzito.

"I Como nò, - articolò in spagnolo il capitano - siete forse voi soli figli degli antichi latini e soli possessori di quella universale lingua? sappiate che v'è tanta differenza tra la lingua italiana e la spagnuola e portoghese quanta tra il volto di un Calabrese e quello di un Andaluso o d'un Lusitano, che si somigliano come fratelli".

"Bravo capitano Tortiglia" disse Attilio giunto in quel momento dal corpo di battaglia che comandava. "Voi siete un vero erudito, e noi Romani educati dai preti a baciamani, a inginocchiarci, e servire la messa, nulla sappiamo di ciò che avviene fuori dalle mura di Roma".

Ma l'esercito papale avanzava ed Orazio da esperto capitano ne misurava il progresso, senza turbarsi ma con quell'ansia che non può a meno di risentire chi ha la responsabilità di un corpo di militi in presenza del nemico ed in procinto di venire alle mani. Uno degli inconvenienti della guerra per bande e che più preoccupa il capo è il dover spesso abbandonare i feriti, o affidarli agli abitanti per lo più paurosi e che temono di compromettersi.

Tale considerazione e l'ineguaglianza delle forze spinsero il prode Orazio a decidersi per la ritirata, non però senza mostrare ai mercenari del prete che i liberi italiani non li temono, anche nelle circostanze più sfavorevoli.

Ordinò a Silvio, che comandava la retroguardia, di collocarsi in posizione vantaggiosa per proteggere la ritirata ed il cacciatore, colla sagacia che lo distingueva, collocò i suoi cinquanta uomini con tale maestria come se li avesse destinati alla posta del cervo o del cignale.

Avendo comunicate tali disposizioni ad Attilio ed ingiuntogli che non s'impegnasse fortemente ma eseguisse l'ordine di ritirata in scaglioni, Orazio andò verso Muzio già pronto a ricevere il nemico che si avvicinava celeramente.

Scambiate alcune parole col comandante della squadra, il capo supremo ascese il punto più alto della posizione donde poteva distinguere ogni cosa accompagnato da soli due aiutanti.

Il Generale Haricot, che non mancava di una certa bravura, degna di miglior causa, assaliva francamente le posizioni dei liberali colla sua vanguardia in catena, sostenendola lui stesso con piccole colonne in massa.

In un combattimento od in una battaglia, il comandante supremo deve collocarsi in posizione da poter vedere il campo di battaglia più che sia possibile, il che gli verrà sempre fatto più facilmente, ove egli possa tenersi tra le sue prime truppe impegnate.

Dovendo avere informazioni di quanto accade nella pugna, se il generale in capo è lontano dall'azione ha il pregiudizio della perdita di tempo, dell'inesattezza dei rapporti e ciò che più importa, non può con un colpo d'occhio discernere le parti del suo esercito che abbisognano di un pronto soccorso o, quando sia vittorioso, lanciare in perseguimento del nemico quei corpi leggeri di cavalleria e fanteria che possono compiere la vittoria.

Tale non fu qui il torto dei due capi, che comandavano le forze opposte. Haricot, giustamente baldanzoso per la superiorità delle sue forze, le spingeva all'attacco senza riguardo ed Orazio, deciso a ritirarsi per l'inferiorità del numero, disponevasi a dare al nemico una lezione che lo facesse guardingo e meno furioso nel suo inseguimento.

La scabrosità del terreno e le folte piante avevano permesso a Muzio di collocare i suoi al coperto in vantaggiosa posizione. Egli aveva ordinato d'assaltare il nemico a bruciapelo, di scaricare a colpo sicuro e ritirarsi poscia dietro la linea degli altri scaglionati. Così fecero i suoi valorosi. Quella prima scarica seminò il terreno di cadaveri nemici e di feriti. La vanguardia dei mercenari ne fu rovesciata ed i sostegni condotti avanti dall'intrepido loro capo, rallentarono il loro progresso e diedero tempo agli italiani di compiere la loro ritirata in buon ordine.

Quando Cortez sbarcato al Messico abbruciò le navi, quando i mille di Marsala sbarcando in Sicilia abbandonarono i loro piroscafi al nemico, si tolsero ogni speranza di ritirata e tale risoluzione fruttò il contegno trepido delle due spedizioni. Ma la vicinanza di frontiere amiche è stata spesso causa di defezione nelle fazioni degli italiani. Io ho veduto tale scandalo in Lombardia nel 1848 per la vicinanze della Svizzera e disgraziatamente nell'agro romano per essere il territorio regio troppo vicino.

Così successe al corpo dei trecento, nelle circostanze qui raccontate. Benché composto d'uomini coraggiosi, si sciolse come la nebbia al toccare la frontiera italiana non pontificia e dopo avere ricordato ai militi che schiava ancora rimaneva la loro terra e che era dovere di tutti di prepararsi a muover di nuovo pugna per liberarla, i soli quattro capi, che noi ben conosciamo, con Gasparo e John, presero la via della Toscana per recarsi a Livorno ove dovevano trovare lo Yacht e notizie dei loro cari e dove li lasceremo godere un po' di riposo per rivederli sovra nuove scene e in mezzo a nuove avventure.

FINE DELLA PARTE PRIMA

PARTE SECONDA

CAPITOLO LII LA PEREGRINAZIONE

Il solitario è sul continente ove lo chiamarono i suoi amici. Egli ha lasciato la sua dimora per compiere un dovere verso quella Italia a cui egli ha dedicato l'intiera sua vita.

Egli deve fare una peregrinazione di propaganda in molte parti della penisola e principiare dal Veneto.

Lo scopo è d'illuminare sulle elezioni politiche le popolazioni, non solo, ma di seminare il germe dell'emancipazione della coscienza che può portare l'Italia ad un nuovo primato, ad una nuova iniziativa che conduca l'umanità alla distruzione di quel tabernacolo d'idolatria e d'impostura che si chiama Papato, guidandola sulla via della religione del Vero.

Noi ne seguiremo le orme tra il clamore delle moltitudini entusiastiche, festanti, alla vista dell'uomo del popolo, plaudenti alle sue dottrine d'insofferenza di dominio straniero e di umiliazioni e soprattutto esultanti alle schiette sue manifestazioni sulle turpitudini clericali e sul connubio liberticida tra il Papato e le volpi di Corte che governano l'Italia.

"Io seguo la religione di Dio! - egli dice - non la religione del prete.

Dio, padre dell'umanità intiera, vuol tutti gli uomini fratelli e felici. I preti dividono gli uomini in cento sette diverse, che reciprocamente si maledicono.

Essi attizzano gli uni contro gli altri popoli a sbranarsi, trucidarsi, distruggersi e condannano senza pietà alle pene dell'inferno i novecento milioni d'esseri umani che non appartengono alla loro bottega.

Non seguo la religione del prete io, perché il prete degrada Dio, ne fa un essere materiale, passionato, coi difetti stessi che offuscano questo misero insetto chiamato uomo, a cui fa mangiare Dio, lo fa digerire! e poi!... Anatema all'impostore che si chiama ministro di Dio! e che così lo deturpa e lo prostituisce!

Il prete che insegna Dio è un mentitore, poiché nulla egli sa di Dio.

Egli, sacerdote dell'ignoranza, persecutore della sapienza, insegna Dio! Ma se Dio avesse voluto rivelarsi all'uomo lo avrebbe fatto ai Kepleri, ai Galilei, ai Newton, non a questi miserabili adoratori del ventre.

E fu veramente una scintilla divina che illuminò quei grandi nelle vie celesti, quando essi scorsero sotto l'etereo padiglione rotare i mondi e ne manifestarono alle nazioni attonite i moti, le leggi e l'armonia a loro impressa dell'Onnipotente. Il prete, sacerdote delle tenebre, colpito nelle sue miserie e nelle sue menzogne, trascinò il più grande degli italiani, Galileo, sull'altare dell'impostura, e con torture orribili volle fargli abiurare la grande dottrina del vero!

Ed i preti passeggiano sulla terra di Galileo da padroni; e l'Italiano porge le impudiche sue labbra all'umiliante, vergognoso baciamano!

La fratellanza umana è impossibile coi preti.

Il cattolico danna all'inferno l'umanità non cattolica. Il dervis, prete dei turchi ci chiama, infedeli, maledetti, ed eccita le plebi a lapidarci. Il bonzo e tant'altra canaglia impostura fa lo stesso. E voi non potete passeggiare per le vie di Stamboul e di Canton perché la vostra vita è messa in pericolo da quei fanatici.

La maggior parte delle guerre, e le più sanguinose, furono, e sono fomentate dai preti.

La recente guerra di Crimea, ove perirono tante migliaia d'uomini e dove s'inghiottirono immensi tesori, fu suscitata dai preti. In una chiesa di Gerusalemme chiamata il Santo Sepolcro celebravano la messa un prete greco e un prete cattolico. Un bel giorno quegli oziosi litigarono sulla preminenza, uno volendo dir messa prima dell'altro. La lite fu portata davanti gli imperatori di Francia e di Russia; ne seguì la guerra e vi presero parte l'Inghilterra e l'Italia e se ne ebbe per risultato l'immenso macello.

L'Inghilterra è oggi in angustie per l'insurrezione dell'Irlanda suscitata dai preti. Dio salvi il mondo da una simile insurrezione negli Stati Uniti ove su trentatré milioni d'abitanti quasi la metà è di cattolici fanatici e compatti sotto la dittatura d'un vescovo, mentre le altre sette sono divise e si odiano cordialmente".

In questa guisa parlava il solitario alle moltitudini che lo richiedevano d'una parola e le moltitudini applaudivano a quelle verità sacrosante e piangevano e baciavano le falde del mantello del popolano e giuravano di essere con lui a qualunque cimento.

Alla mattina, la maggior parte di quella folla che avea pianto e giurato di seguire i precetti del solitario era ammassata nel peristilio d'una bottega ove si vende l'indulgenza di Dio a contanti, ove l'idolatria, sotto le forme della creatura, ha eretto il simulacro vano e mentitore dell'onnipotente.

Tale è il popolo e tale sarà forse per molto tempo ancora. Terribile nelle sue ire suscita sovente il cataclisma delle rivoluzioni e più sovente è guidato con un fil di seta dall'impostura e dall'astuzia quasi sempre da chi è men degno di guidarlo e tende a profittare del frutto delle sue fatiche e del suo sangue.

Socrate, Gesù, Rienzi, Masaniello, i Gracchi, tribuni coraggiosi del popolo, sacrando ad esso la loro vita, son rinnegati e crocifissi! E la sorte dei tribuni moderni, sarà essa più fortunata? Che importa! Cos'è la vita? tanto sotto il saio come sotto la rossa camicia può battere la coscienza del giusto!

In fine i Cesari ed i Napoleoni vengono a scialacquare il frutto del cruento eroismo delle nazioni, ma un pugnale o il tedio delle nequizie rovescia talora nella polve anche que' simulacri della grandezza e dell'ingiustizia.

CAPITOLO LIII VENEZIA

Parata a festa, la regina della laguna accoglieva su d'un Buccintoro moderno il suo simpatico visitatore, colui che per due volte (1848-1849) aveva voluto partecipare ai disagi, ai pericoli ed alle battaglie di lei. Egli la prima volta, già col piede sul legno che dovea trasportarlo a Venezia, fu chiamato alla difesa della pericolante metropoli delle nazioni e pugnò contro i discendenti di Brenno; e tinse del suo sangue il granito del ponte ove Coclite avea da solo sostenuto l'urto dell'intiero esercito di Porsenna.

Sulle alture di Preneste e di Velletri egli vide in fuga il tiranno, padre del tirannello che poi abbandonò il trono ai valorosi suoi mille e così fu rovesciato nella polve quel governo prima negazione di Dio.

Dio gli dia vita per contemplare i frantumi del secondo governo, negazione più impudente di Dio che il primo e più fatale all'Italia, la Negromanzia.

Ma Roma cadeva sotto i colpi del dispotismo Europeo, spaventato dal rivivere della padrona del mondo e dal terribile incubo della repubblica, e capitanato dalla grande repubblica di Francia condannata a morte per questo suo orrendo misfatto.

Il Bonaparte, nemico di tutte le libertà, e protettore di tutti i tiranni, volle, come per saggio, provare le sue armi contro Roma ove approdò sulle ali della menzogna e, consumato quel delitto di lesa-nazione, rovesciò i suoi inganni ed i suoi satelliti sul popolo credulo di Parigi e ne fe' macello per le strade senza distinzione di età e di sesso.

Dio rimeriti l'assassino del due dicembre e della libertà del mondo!

Cessata la difesa di Roma, non disperando delle sorti dell'Italia, il solitario ne uscì con pochi seguaci, decisi a tener la campagna ma ci vuol altro ai popoli per liberarsi! Un pugno di prodi all'Italia non manca mai; ma contro quattro eserciti, un pugno di prodi non basta!

È vero, che in questi giorni lo spirito nazionale è innalzato e il pugno di prodi accresciuto, ma in quegli infausti giorni le popolazioni guardavan passare stupite ed impaurite considerando perduti irremissibilmente quegli avanzi della difesa di Roma. Non un sol uomo venne ad accrescere le loro file. Al contrario, ogni mattina una quantità d'armi sparse sul terreno attestava il numero dei fuggiaschi. E quelle armi si caricavano sui muli e sui carri che accompagnavano la colonna e la colonna a poco a poco, avea più carri e muli che individui. E a poco a poco la speranza di sollevare quel popolo di servi svaniva nell'anima dei fedeli e coraggiosi superstiti.

A San Marino, vedendo che non v'era più volontà di combattere uscì un ordine del giorno del Solitario che congedava i militi rimandandoli alle loro case.

Quell'ordine del giorno diceva: "tornate alle vostre case, ma ricordatevi che l'Italia non deve rimanere serva". I più presero la via del ritorno. Ma v'erano non pochi disertori dell'Austria e del governo papale soggetti alla fucilazione e questi vollero accompagnare il loro capo nell'ultimo tentativo di guadagnare Venezia.

Qui comincia una storia più dolorosa ancora. Anita, compagna inseparabile del solitario neppure in questo terribile estremo consentì ad abbandonarlo. Invano lo sposo si affaticava a persuaderla di rimanere a San Marino: incinta, spossata, inferma, non vi fu verso di persuaderla. La coraggiosa donna non volle udire ammonizioni e rispondeva al suo diletto: ch'egli voleva abbandonarla!!

Attorniato da corpi di truppe austriache, cacciato dalla polizia papalina, dopo una marcia di notte, delusi i persecutori, quello stanco avanzo dell'esercito Romano giunse alle porte di Cesenatico allo spuntare della mattina.

"Scendete e disarmateli!(65)" esclamava il solitario ai pochi individui del suo seguito a cavallo e stupefatti i soldati delle guardie austriache si lasciarono disarmare. Poi si svegliarono le autorità e si richiesero loro pochi viveri e alcuni bragozzi(66) per imbarcare la gente.

Non si può negare, la fortuna era stata favorevole al solitario in varie difficili imprese; ma qui, doveva cominciare per lui un infausto episodio di difficoltà, di contrarietà e di sciagure. Un nembo da Bora, scoppiato nell'Adriatico in quella stessa notte, aveva imperversato sul mare e la stretta bocca del porto di Cesenatico era un frangente. Immensi furono gli sforzi che si fecero per uscire dal porto co' bragozzi carichi di gente, in numero di tredici! Ma solo all'alba vi si riuscì ed all'alba gli Austriaci rinforzati e numerosi entravano in Cesenatico.

Si veleggiò, il vento spirò favorevole ed all'alba dell'altro dì, quattro dei bragozzi, uno dei quali col solitario, Anita, Cicerovacchio e i figli, con Ugo Bassi, sbarcarono nelle foci del Po. Anita nelle braccia dell'uomo del suo cuore sbarcò morente! Gli altri nove bragozzi s'erano arresi alla squadra austriaca, che al chiarore del plenilunio, scoperti i piccoli legni, li avea fulminati di cannonate.

Come segugi in traccia delle fiere gli esploratori nemici inviati a perseguire i fuggenti, gremivano la spiaggia. Anita giaceva poco lontano in un campo di frumento, e vicino a lei il solitario che le sorreggeva il capo. Leggiero(67), l'unico compagno, gli rimaneva, spiando tra gli interstizi degli steli i maledetti bracchi che cercavano preda di sangue. Cicerovacchio, Bassi e nove compagni che avevano prese direzioni diverse per sfuggire al nemico, perché così erano d'intesa con me, furono arrestati tutti dagli Austriaci e fucilati come cani.

Eran nove; a forza di bastonate si condussero nove contadini a scavar nove fosse nella sabbia ed una scarica del picchetto di stranieri soldati spacciò gli infelici. Il più giovane figlio del tribuno romano(68) si moveva non ben morto dopo la fucilazione ma il calcio del fucile d'un austriaco gli fracassava il cranio.

Bassi ed il suo compagno Pizzaghi ebbero la stessa sorte a Bologna.

Lo straniero ed il prete gozzovigliarono nel più puro sangue italiano e la iena di Roma rimontava il suo trono contaminato sui cadaveri dei cittadini suoi fatti sgabello!

Ecco la storia secolare del papato che il despotismo cerca di eternare in Italia!

Serva agli italiani questo esempio di freddo eccidio de' loro onesti e prodi concittadini e possa insegnar loro a non più lasciare la patria terra in preda allo straniero ed ai preti suoi manutengoli, assuefatti a servirsene di villeggiatura, poi devastarla e prostituirla!

Il solitario, col caro peso della compagna sua, vagò addolorato tra le valli del basso Po sino a che non gli rimase che a chiuderle gli occhi e pianse sulla fredda salma di lei lacrime di disperazione. Vagò, vagò per foreste e per monti, incalzato dovunque dalla sbirraglia del Papa e dell'Austria. Ma la sorte lo serbava a nuove fatiche ed a nuovi pericoli. I tiranni dell'Italia lo troveranno sul loro sentiero, sul loro sentiero imbrattato di sangue e di delitti e guai a loro! perché, codardamente fuggenti, gli lasceranno le loro mense imbandite ed i tappeti de' loro superbi palagi porteran per un pezzo l'impronta del suo rozzo calzare!

Intanto egli è a Venezia per cui tanto aveva sospirato. Le lagune coperte di gondole salutano tripudianti la camicia rossa senza macchia e senza paura, simbolo del riscatto nazionale, ma puro, ma con ferro italiano!

CAPITOLO LIV ROMA IN VENEZIA

Eran le undici della notte. Le gondole ingombravano i canali di Venezia e la piazza S. Marco, illuminata a giorno, era sì affollata di gente, da non potersi distinguere un palmo solo del suo lastricato. Dal balcone del palazzo Zecchin, parte dell'antica Procuratia che limita la piazza a tramontana, il solitario aveva salutato il popolo e quel saluto al popolo redento, alla grande mendica, all'antico baluardo della civiltà europea, alla venduta di Campoformio, era corrisposto freneticamente dalla moltitudine esultante e commossa.

Ed anche il solitario era commosso e tra sé pensava: "i solchi che il despotismo lascia impressi sul volto umano, anche qui possono distinguersi. Gli antichi dominatori del mondo furon trasformati dallo straniero e dal prete mago, la cui verga tuffata nella melma d'inferno, è solo atta a cambiare il bene in male, l'oro in immondizie e le nazioni le più prospere, le più potenti, in una turba di mendichi e di sagrestani. Questa stirpe, che si dice figlia della romana, fu pure invilita, degenerata!". E lui, che tanto ama il popolo, ne piangeva nell'anima addolorata!

Il solitario era commosso ma non per questo lasciava di gettare uno sguardo scrutatore sulla folla circostante. L'esperienza di cui non doveva mancare a sessantanni di una vita di tante prove lo avvisava di star cauto rispetto alla natura delle folle e degli assembramenti popolari ove nelle moltitudini si nasconde facilmente il ladro, l'assassino, la spia ed il prete, generalmente occulto sotto mentita veste. E veramente: in quella povera Venezia, surta appena dalla tirannide straniera, formicolava ancora gran parte di quella canaglia, che rende il despotismo possibile, vendendo l'anima a quattrini e molta se ne poteva distinguere da occhio esperto frammischiata al buono ed onesto popolo.

Girava dunque il suo sguardo sulla popolazione affollata il solitario quando un picchio leggiero sulla spalla lo fece accorto di Attilio. "Non vedi, - gli disse il suo amico, - quel ceffo camuffato col berretto alla veneziana frammischiarsi fra quei buoni popolani veneti? Egli è facile il riconoscerlo, come la vipera tra le lucertole, la tarantola velenosa tra le formiche. Quando cotesti rettili serpeggiano nelle moltitudini non è senza scopo. È un inviato di Roma, e certo c'è del nuovo per noi. Colui è Cencio. Addio!".

I nostri lettori ricorderanno l'agente subalterno di Don Procopio, per cui Gianni aveva affittata una stanza in vista dello studio di Manlio. Costui dopo la impiccatura del padrone era stato promosso a maggiori uffici ed era agente principale di S. E. il cardinale A.... primo ministro del papa.

Cencio, una volta liberale e traditore poi avea fatto tesoro delle cognizioni acquisite tra i democratici di Roma e perciò era reputato prezioso come agente segreto dalla curia cardinalesca. Vedremo ora qual era la sua missione in Venezia.

In un salone di casa Zecchin, affollato di visitatori, risplendevano sulle venete bellezze, le tre bellissime eroine nostre, Irene, Giulia e Clelia. La gioventù veneta assuefatta a contemplare le vezzose figlie della regina adriaca rimaneva ammirata all'aspetto delle tre romane, dico: tre romane poiché Giulia, che avea sposato il suo Muzio, benché figlia affettuosa della sua bella patria, vantavasi e si compiaceva dell'adottiva sua terra chiamandosi ella pure romana.

Irene, la più attempatella delle tre, conservava ancora tanta freschezza da nascondere sotto il maestosissimo portamento gli anni che aveva di più delle compagne. La sua bellezza era tale da poter servire di modello all'artista cui piacesse ricordarci le antiche e severe matrone della Roma dei Cincinnati.

Il matrimonio nulla avea tolto alle bellissime più giovani compagne e le tre, formavano un ornamento tale nel Veneto salone da tenere, come dissi, quella gioventù sospesa in ammirazione.

Accanto a Clelia stava Muzio e la buona Silvia con lui, talché delle nostre donne mancava solo l'Aurelia. Gettata in una vita romanzesca e di avventure che mai non avea sognato, quest'ultima finì con l'avvinghiarsi al buon capitano Thompson come l'ellera alla quercia. Benché un pochino repugnante da quelle certe tempeste il cui saggio tanto l'avea malconcia, pure col suo caro leone di mare a lato i marosi le sembravano assai meno spaventevoli.

Orazio e Muzio stavano insieme in un canto del salone conversando sugli avvenimenti del giorno quando Attilio, giungendo vicino ai due amici, partecipò loro la sua scoperta ed i tre s'incamminarono giù per le scale verso Piazza S. Marco.

Non furono pochi gli sforzi dei tre amici per rompere la moltitudine ammassata sulla piazza e penetrare sino all'oggetto della loro ricerca, ma vi pervennero alfine e mentre il solitario richiamato dal popolo al balcone gettava gli occhi verso il punto accennatogli prima da Attilio potè scorgere i suoi giovani amici che accerchiavano il finto popolano di Venezia.

La mano di ferro di Orazio strinse il polso dello sgherro come una tenaglia; Muzio con quel certo accento già noto al malvagio, fissandogli negli occhi i suoi occhi fiammeggianti:

"Con noi, Cencio - gli sussurrò - e tosto". Il familiare dei preti, il traditore delle Terme di Caracalla, tremò da capo a piedi, cambiò il rubicondo suo volto in quello di un cadavere e senza articolare parola seguì la via indicata da Muzio in mezzo agli altri due romani che lo spingevano avanti irresistibilmente.

CAPITOLO LV IL GOVERNO RIPARATORE

Quando si pensa all'unificazione di questa nostra Italia ed a coloro che l'ebbero a reggere sulla spinosa via che ella percorse, e che percorre ancora, non si può a meno d'inchinarsi davanti ai decreti della provvidenza che veramente volle aiutarla fino a costituirsi in nazione.

Io sovente, meditando sulla sorte di questa bella, grande ed infelice nostra patria, nell'immaginazione mia, me l'ho figurata: un carro tirato avanti a stento dalla parte generosa del popolo cui è unica meta il bene generale e che segue la sua stella provvidenziale come faro salvatore. Poi, addietro attaccata, immaginai la turba malvagia de' reggitori coll'immensa coda de' loro satelliti scapigliati e spossati ma pure disperatamente intesi a far forza per trascinare indietro il veicolo dello stato anche a rischio d'infrangerlo. Il popolo, impoverito, umiliato da quella ciurmaglia grassa e nuotante nel vizio si ferma pacato, tranquillo nelle sue miserie, sgombra volonteroso gli ostacoli accumulati sulla sua via di redenzione e procede e procede ingenuamente fiducioso in un avvenire di riparazione.

Riparazione!? e da chi verrà la riparazione? Povero popolo!... dai restauratori del clericume, del gesuitismo, dell'impostura, ricondotti nel tuo seno, a spese delle tue sostanze per mantenerti nell'ignoranza e nella miseria?

Ai molti mezzi di corruzione impiegati dai potenti per tener in servaggio le popolazioni si aggiunge oggi il più scellerato, quello della setta nera, moltiforme, ricca, sostenuta dalla forza della nazione in mani infami. E questa è la riparazione che tu aspettavi, popolo infelice! paria!, ilota delle nazioni!

Riparazione!? Da chi riparazione? da chi s'inginocchia ogni giorno, ogni ora, a piedi del sacerdozio della menzogna?

Intanto uno degli agenti di cotesto sacerdozio camminava a capo basso attanagliato nei polsi da Orazio e da Attilio mentre Muzio apriva la via, non facile ad aprirsi, in mezzo a quella moltitudine. Finalmente giunsero i quattro in un'osteria situata in una viuzza che metteva nella Riva degli Schiavoni.

CAPITOLO LVI DECRETO DI MORTE

Passiamo presto, e sulla punta

dei piedi quel mucchio di limo

e di sangue che si chiama Popolo.

(Guerrazzi)

Non è molto tempo trascorso che l'idra sacerdotale del Vaticano innalzava i suoi roghi nei chiostri della capitale del mondo cattolico ed all'aria aperta tra parecchie delle infelici nazioni che avevano la disgrazia d'essere ammorbate dalle sue dottrine come ad esempio la Spagna. Nei tempi moderni codesti errori non si tollerano più, ma l'idra dalle mille teste satolla ancora le sue libidini di sangue in molte altre guise: ferro, veleno, brigantaggi ed assassinii d'ogni specie.

Nella Curia romana una sentenza di morte, era stata pronunziata contro il principe T., fratello della nostra Irene, e Cencio con otto sicari della santa sede a' suoi ordini, doveva eseguire l'atroce mandato, profittando della confusione in cui si troverebbe Venezia all'arrivo del solitario.

Gli otto complici dell'ex-liberale erano in parte stati appostati nei dintorni dell'Albergo Vittoria, in tutti gli sbocchi da dove poteva capitare la vittima. Quattro di loro tenevansi in agguato in una gondola ben pagata, con istruzione segreta, di sbarazzarsi anche del gondoliere a cose finite per non avere indiscreti testimoni, che potessero deporre contro di loro. Cencio, si era riserbato, non l'azione principale dell'omicidio ma quella del segugio che si doveva tenere ostinatamente sulle calcagna del principe. Per fortuna del nobile romano la cabala fallì perché il segugio era stato tolto dalla pesta e non solo si trovava al sicuro nelle ugne dei tre amici ma doveva fare i suoi conti anche con un quarto personaggio che valeva ciascuno dei primi e questo quarto era niente meno che il nostro vecchio e ben noto Gasparo.

Gasparo, dopo i fatti da noi raccontati nei capitoli precedenti, toccato il suolo non pontificio, s'era offerto a servire da domestico il principe T., che ben volentieri lo prese seco. Con lui venne a Venezia e mentre il padrone s'intratteneva nei saloni del palazzo Zecchin, il poco paziente domestico, che s'era fermato sull'ingresso del palazzo a godersi le scene del popolo festante, vedendo i tre romani, che amava come figli fendere la folla con tanta precipitazione volle seguirli e così anche lui si trovò all'osteria sulla Riva degli Schiavoni alle calcagna di Cencio.

Descrivere lo stupore e la paura del mercurio clericale in mezzo ai quattro è cosa ben difficile. Essi Io condussero nella stanza più recondita dell'osteria in un piano superiore, dissero al cameriere che portasse loro da bere, e poi li lasciasse perché dovevano trattare d'affari, chiusero l'uscio a chiave, ordinarono allo sgherro di sedersi contro il muro, presero posto su di una panca collocata al di qua della tavola e cogli occhi fissi sul malvivente rimasero in attitudine di giudici inesorabili.

In altre circostanze forse il malandrino avrà sentito rimorsi, e si sarà pentito de' suoi tradimenti ma in questa vi assicuro che egli ne avea ben d'onde.

I quattro amici, freddi e tranquilli, come chi ha la coscienza della forza e dell'anima intemerata, contentavasi di fissare i loro occhi in quelli del perverso e questi fuori di sé, colla bocca e gli occhi spalancati sforzavasi di articolare delle voci che non volevano uscirgli dalla strozza, riuscendo penosamente a balbettare: "signori... io non..." ed altre parole mozze.

Fu un po' barbara la tranquilla pacatezza dei quattro romani e chi avesse potuto contemplare quella scena certo coll'immaginazione sarebbe corso al paragone del sorcio sotto l'inesorabile sguardo del gatto, che ne spia ogni minimo movimento, per lanciarvisi sopra e stritolarne le ossa sotto i denti. Se un pittore avesse potuto trovarsi presente a quel muto consesso ne avrebbe tolto il soggetto di un bellissimo quadro.

Già abbiamo descritto i primi tre, veri tipi degli antichi romani, di bellezza, di forme veramente artistiche.

Gasparo era, e con ragione, una di quelle figure che un romanziere francese avrebbe pagato a peso d'oro per poterne fare il suo "Brigant Italien" e fotografato da Bernieri(69) il suo ritratto, avrebbe prodotto assai maggior lucro all'artista, che quello di qualunque sovrano d'Europa.

Era veramente una gran bella figura di brigante quel vecchio Gasparo, ma di buon brigante, di quelli che l'hanno a morte coi birri, ma che non si macchiano con azioni infami come quei mostri assoldati dai preti che commettono eccessi da far inorridire una tigre.

Anche il successore di Gianni, avrebbe fatto un'idonea comparsa in un quadro caratteristico e certo per rappresentarne la paura in tutta la sua bruttezza, nessuno avrebbe potuto servir meglio di lui. Inchiodato al muro cui appoggiava le spalle egli lo avrebbe rovesciato, forato, se la forza fosse stata pari alla volontà, coll'intento di potersi allontanare un po' più da quei quattro tremendi osservatori lì davanti a lui, fissi, impassibili, e che pure meditavano la sua rovina, forse il suo esterminio.

La voce austera di Muzio, dell'antico capo della contropolizia di Roma, fu la prima che s'udì rompere quel sepolcrale silenzio. "Dunque: - disse egli - io ti voglio contare una storia o Cencio, forse da te conosciuta come Romano, e che imparerai se per caso non la conosci; sta attento:

Un giorno i nostri padri, stanchi delle prepotenze del primo re di Roma che fra le altre amabili imprese, aveva ucciso con un pugno il fratello Remo perché si divertiva per scherzo a saltare il fosso di cinta fatto da Romolo, i nostri padri dico, in un senato consulto decisero di sbarazzarsi del loro re, un po' troppo manesco e con disposizioni un po' troppo dispotiche. Detto fatto! gli saltano addosso colle daghe sguainate e Romolo, benché valorosissimo, dovette cadere sotto i loro colpi. L'affare era fatto, ma al popolo romano alquanto innamorato del suo re guerriero, per non avere de1 guai, bisognava contare qualche fandonia su quella morte e l'avviso d'un vecchio senatore prevalse su quello degli altri sul da farsi.

- Noi conteremo al popolo - disse il vecchio: - che Marte padre di Romolo disceso tra noi, dopo averci rimproverato d'essere un po' troppo ladri e quindi indegni d'aver a capo il figlio di un Dio, se l'ha preso seco e trasportato in cielo.

- E cosa faremo del corpo? - soggiunsero più voci di senatori.

- Del corpo? - disse il vecchio. - Niente di più facile che provvedervi - e sguainando la sua daga cominciò a tagliare a pezzi il cadavere. Quando ebbe terminata tale anatomia - ognun di voi, ora - disse - prenda uno di questi pezzi, lo nasconda sotto la toga e vada a gettarlo nel Tevere. Prima di domattina, i mostri marini avranno dato degna sepoltura a questi avanzi del fondatore di Roma.

Che te ne pare, Cencio? Senza essere re di Roma, né figlio di Dio, una morte cotale non ti parrebbe onorevole? per te che altro non sei che un miserabile traditore?".

"Per l'amor di Dio!..." gridò il satellite esterrefatto e piangente come un fanciullo e le lacrime per un pezzo gli soffocarono la voce. Alla fine alquanto sollevato dallo stesso pianto, ripigliò: "Io farò quanto mi chiederete, ma per l'amore che portate ai vostri amici, alle vostre donne, alle vostre madri, non mi fate soffrire una morte così crudele!".

"Parli di morte crudele!? Ma per uno sgherro, una spia, un traditore c'è forse morte troppo crudele?" rispondeva Muzio con quella impassibilità che Io distingueva. "Hai forse scordato quando vendevi la gioventù romana ai preti che poco mancò non la facessi crudelmente trucidare tutta dai loro carnefici?".

Nuovo pianto! nuovo pianto ancora scorreva dagli occhi del codardo.

Muzio: "Ora poi, la tua venuta a Venezia, bel soggetto! cosa significa? Chi t'ha inviato? A che sei venuto qui, perverso?".

"Vi racconterò tutto" era la risposta del malandrino. E l'altro: "Conterai tutto, vedremo! e nulla ti resti in fondo di quel sacco di malizie e di tradimenti che tieni al posto della coscienza".

"Tutto! tutto!" gridava Cencio come un energumeno. E come dimentico di quanto doveva narrare e sopraffatto ancora da immensa paura non sapeva da dove cominciare.

"Saresti più lesto nelle tue delazioni al Sant'Ufficio, boccone da forca", sussurrava Gasparo, col suo vocione. "Avanti!" esclamarono Orazio ed Attilio, rimasti pazientemente silenziosi sino a quel punto.

Un momento d'assoluto silenzio seguì quel primo atto un po' tempestoso, e Cencio principiava a narrare così: "Se vi è cara la vita del principe T....". "Del principe T.? il fratello d'Irene", sclamò Orazio varcando d'un salto la tavola ed afferrando il traditore per la gola!

Cencio, tra l'ugne di una tigre o tra gli abbracciamenti del re delle foreste avrebbe corso meno pericolo che non tra le mani del principe della campagna di Roma, che l'aveva agguantato al collo. Ma Attilio, con modo gentile: "Fratello, - disse ad Orazio, - abbi pazienza, lasciamolo parlare".

Veramente spacciato Cencio, addio rivelazioni. Ciò era chiaro come il sole, onde la suggestione del capo dei trecento di Roma fu capita da Orazio e sciolse dalla gola di Cencio le sue mani frementi.

"Se vi è cara la vita del principe T. - ripigliava il malvagio - andiamo insieme a farlo avvisato che un agguato di otto emissari del Sant'Ufficio lo apposta nei dintorni dell'Albergo Vittoria, ove egli sta d'alloggio".

CAPITOLO LVII MORTE AI PRETI

Morte ai preti! Morte a nessuno! gridava il solitario dall'alto del balcone alle moltitudini rispondendo alla terribile loro esclamazione!

Morte a nessuno! "Eppure, chi è più meritevole di morte che la setta malvagia la quale ha fatto dell'Italia un paese di morti(70), un cimitero? O Beccaria! le tue dottrine sono sante! io ripugno dal sangue! ma non so se l'Italia potrà liberarsi da' suoi tiranni dell'anima e del corpo senza distruggerne, senza annientarne sino l'ultimo rampollo!".

Queste considerazioni passavano per la mente dell'uomo del popolo e lo distraevano.

Frattanto quella parte di popolo che non avea potuto udire la voce che partiva dal balcone Zecchin ma solo il grido di morte che mille infocate voci avevano esclamato, quella parte di popolo dico, più distante dal solitario, ma più vicina al palazzo principesco del Patriarca, s'avanzava come l'onda d'un torrente che precipita dalle montagne ed assaltava il vestibolo del palazzo suddetto rovesciando quanti ostacoli si opponevano alla sua furia.

In pochi minuti ogni salone, ogni stanza del maestoso palazzo erano invasi e per le finestre si vedevano svolazzare tutti que' simulacri d'idolatria con cui i preti sì spudoratamente beffeggiano le ingannate moltitudini.

Molti artisti innamorati del bello avrebbero potuto gridare allo scandalo, al sacrilegio! in quel rovinìo d'ogni oggetto d'arte e per vero dei ben preziosi capolavori sotto forme di santi o di madonne andaron travolti ed in pezzi nel generale esterminio.

Tra le astuzie dei sardanapali pretini, ricchissimi com'eran furon sempre mercé la stupidità dei fedeli, non ultima fu quella d'impiegare gli artisti più eminenti nell'illustrazione delle loro favole. Quindi i Michelangeli ed i Raffaelli d'ogni età, furon da loro assoldati ed il popolo anche persuaso della vanità delle proprie credenze, e dell'impostura dei leviti di Roma rispetta ancora i simulacri della sua prostituzione perché sono capi d'opera di molto pregio.

Ma il primo capo d'opera d'un popolo non è la libertà? non è la dignità nazionale? E tutti quei portenti dell'arte, benché portenti che gli rammentano il suo servaggio e la sua degradazione, oh!, non sarebbe meglio che ei li mandasse all'inferno?

Comunque fossero, opere preziose o volgari, il popolo rovesciava, e precipitava sul lastrico ogni cosa, e tutto mandava in frantumi.

Ed il Patriarca!? guai a lui se fosse caduto nelle mani della turba furente! Ma la pelle è cara ai discendenti degli Apostoli! ai campioni della fede! Essi edificarono veramente la loro baracca sul martirio degli antichi seguaci di Gesù e su quello del Nazzareno, ma di martirio questi grassi epuloni, non ne vogliono sapere nemmen per sogno!

L'Eminenza sua al primo ruggito della tempesta popolare, se l'era svignata e per un uscio segreto avea guadagnato una delle sue gondole e con essa si era posto al sicuro.

Intanto la voce del solitario che esclamava: "Morte a nessuno!" era ripetuta nella moltitudine e giungeva fino agli assalitori del Patriarcato. Quella voce amata e rispettata dal popolo, calmò il fremito delle turbe, ed in pochi momenti la tranquillità venne interamente ristabilita.

CAPITOLO LVIII IL PRINCIPE T....

Nei bei tempi del diritto della coscia(71) i principi non avevano bisogno di correre dietro ad una forosetta per implorarne il favore e ben fortunate eran quelle cui capitava di poter fissare per un momento lo sguardo de' loro sultani,

Oggi le cose corrono alquanto diverse: benché vi siano dei principi con tanta autorità quanta ne avevano gli antichi, anzi molti con più, perché il loro despotismo si copre con maschera liberale, pure ne vediamo nei giorni che corrono parecchi conformarsi a più moderate pretensioni ed aspirare anche all'adorazione di qualche divinità plebea. Così la pensava il nostro povero principe T.... obbligato a rimanere lontano da' suoi beni e bersaglio a tutta la rabbia pretina, tanto più accanita in quanto che giovinetto lo avevano iniziato ai segreti più intimi della Corte di Roma.

Giovane ancora ed avvenente della persona, il principe prevenuto della reputazione meritamente stabilita delle venete bellezze, non mancava di certo prurito, di certo desiderio di voler fare una conquista. Dobbiamo a giustificazione del giovane principe notare, che quel suo prurito è pure comune anche ai vecchi, il che sia detto senza mancar loro di rispetto.

Egli trovavasi dunque sul vestibolo del palazzo Zecchili ammirando le graziose visitatrici che per pura curiosità donnesca giungevano a vedere il solitario.

In mezzo alla calca dei saloni era arduo poter contemplare le fisonomie e massime il portamento della persona ma da quella parte del vestibolo sulla prima gradinata ove s'era collocato il romano l'osservazione riusciva più facile ed abbracciava quelle che entravano e quelle che passavano senza entrare.

Dall'interna folla, sguizza traversando il sottoportico del Cappello una di quelle figure che basta vedere una volta perché vi restino impresse nell'anima tutta la vita. Le ciglia, gli occhi, i capegli d'ebano il più pulito e brillante adornavano un volto che avrebbe potuto servire a Tiziano per dipingere le sue Veneri famose. Il tipo di quella donna era veramente l'ideale della veneta bellezza.

Il principe sino allora impassibile dinanzi al gran numero di passeggieri che formicolavano in un andirivieni continuo fu colpito da uno sguardo dell'incantatrice la quale sembrava adocchiare ogni cosa, ogni persona, senza fissarne alcuna. Colpito da questa apparizione, il principe precipitossi sui passi della sconosciuta i cui piedi sfioravano il suolo, in quella guisa che il Colibrì(72) sfiora i fiori eterni della zona torrida. Precipitossi sui suoi passi. Ma altro era il volere, altro il potere. La graziosa e bellissima fanciulla o più svelta o più assuefatta a scivolare fra la folla nelle calluzze della sua città era già seduta in fondo alla sua gondola, e già aveva comandato al gondoliere di andare, quando il T.... giunse alla riva del canale.

Che fare? Precipitarsi nell'onde, ed aggrapparsi all'orlo della barca, come un forsennato chiedendo per pietà d'esservi ammesso, fu la prima e matta sua idea. Un bagno di marzo, nell'acqua fresca della laguna poco spaventava il nostro affascinato, ma presentarsi alla donna de' suoi pensieri così grondante, e forse senza cappello in testa, non è cosa che soddisfaccia nessuno e meno poi un principe. Egli dunque si attenne al più savio consiglio, imbarcossi in altra gondola e così pensò inseguire la sconosciuta.

"Voga - egli disse al gondoliere - e se raggiungi quella gondola là, guadagnerai una buona mancia".

"Lasci fare" rispose il gondoliere, quindi "Tita, comio!"(73) gridò al compagno di prora e rialzando su ambe le braccia la camicia rossa (poiché molti gondolieri la portavano in quei giorni per onorare l'ospite di Venezia) si accinse al maneggio del remo con quella grazia e vigore non superati da altra gente marinaresca del mondo.

"Voga, voga, elegante gondola, segui e raggiungi la scivolante fuggitiva che porta seco l'anima mia! E perché non sarà essa l'anima mia quella fanciulla leggiadra, quella bellezza adriaca, che io sognai mille volte quando le lagune erano schiave come lo è la mia Roma?

Perché? perché non la vidi che un solo istante? ma essa mi saettò con quel suo occhio di fiamma che mi vinse, e mi fé' suo per l'eternità? Però non feriva essa colle sue luci tutti i circostanti egualmente! Non spargeva essa una atmosfera di balsamo che se inebbriò me doveva anche inebbriare gli altri?

È questo poi amore? È questo quel passatempo che i mortali succhiano come l'arancia e scaraventano poi nel letamaio? oppure è quell'amore celeste! sublime, che avvicina la creatura al creatore, che trasforma i disagi di questa misera vita... i pericoli... la morte in delizie indescrivibili?

Potente della terra, vieni a toccarmi questa mia donna ch'io amo d'amore che non posso descrivere. Vieni col tuo esercito di sgherri, fossero essi mille volte più numerosi. Vieni! e tocca soltanto il lembo della sua veste; questo pugnale s'immergerà nel codardo tuo seno come la lingua del Coral, la più velenosa delle americane serpi, nelle latebre dell'infame tua vita!"

"Voga! Voga! - gridava ancora il principe impaziente di raggiungere il fuggente tesoro. - Voga, e se non basta un marengo(74) ne avrai dieci. Voga!"

"E se fosse una plebea? - ruminava ancora nel suo soliloquio il principe. - Che plebea d'Egitto? Ha forse Dio creato dei plebei e dei grandi? Non sono la malizia e la prepotenza che imposero alle moltitudini i despoti ed i tiranni?

E non era Gesù un plebeo?...

E se quella fanciulla sì bella! sì affascinante! fosse contaminata! fosse una di quelle!... Oh! profano al celeste amore non pronunziare sacrilegi!

Come potrebbe il volto di una simile donna arieggiare l'angelico viso della mia sovrana?".

Ed era precisamente plebea l'Annetta: gli scalini della modesta sua casa ove approdò la gondola ben lo accennavano.

Non atrio, non peristilio con colonnato ma semplici scalinate al di dentro e al di fuori. Non tappeti sulle scale o ornamenti di ricchi vasi e d'esotici fiori. Alcuni vasi di fiori potevano scorgersi sulle finestre perché anche Annetta amava i fiori quanto una principessa ma piccoli esemplari, non dirò miseri perché cari come erano alla giovinetta, essi valevano un tesoro.

Una donna attempata che di giorno avrebbe attratto l'attenzione di tutti tanto era l'ansia espressa sulla sua fisionomia avea aspettato sin a quell'ora, circa le undici della sera, la sua amatissima Annetta, che curiosetta avea voluto anch'essa vedere da vicino l'uomo del popolo e che non potendo essere accompagnata da Mario, unico fratello, assente, l'avea la madre affidata a Nane, il gondoliere di casa.

Quando Rosa si fu accertata che era la propria gondola che giungeva, lasciò il balcone ove era stata spiando con ansia indescrivibile e con un lume in mano scese rapidamente la scala a ricevere l'adorata figliuola.

Erano nelle braccia l'una dell'altra, come se un secolo le avesse divise, quando il principe sopravvenne e profittando della porta rimasta aperta e della distrazione delle due donne, via, dentro anche lui coll'audacia di un soldato in paese di conquista.

Sciolse dall'affettuoso amplesso, mentre la madre con dolce rimprovero cominciava: "Annetta? ma perché sei rimasta tanto fuori?" ambedue misero un grido di sorpresa vedendosi in presenza di uno straniero.

Il principe, avventurato in un'impresa così ardita, comprese che doveva mantenersi in corrispondente contegno, quindi avanzandosi verso la giovine, che al chiarore della lucerna le sembrò ancora più bella di quanto se l'aveva figurata, volle prenderle la mano per baciarla e per ispirarsi ad alcune parole convenevoli di discolpa e di ammirazione.

Ma una mano ferrea, in quell'istante stesso, colto di dietro il pugno del principe con una scossa che fece traballare l'intera persona, lo distaccò dalla donna.

Da una terza gondola approdata poco dopo le prime, era disceso svelto e risoluto un nuovo e giovine attore su questa interessante scena.

Alto di statura, nerboruto e bellissimo della persona, il nuovo arrivato vestiva la camicia rossa e sulla parte sinistra dell'ampio suo petto portava il distintivo dei prodi, la medaglia dei mille.

Morosini era l'amante riamato di Annetta e sul volto della fanciulla l'osservatore attento avrebbe letto un mondo di espansioni affettuose alla vista del suo diletto, espansioni alle quali tenne dietro subitaneo timore quando la voce di lui maschia e sonora, rivolta al principe lo incalzava con queste parole:

"Credo che vi siate ingannato, signor damerino, non troverete qui ciò che cercate. Vi prego dunque di rifar la via e andare altrove alla cerca".

La scossa ricevuta e le austere parole che la seguirono sollevarono nel principe un certo orgasmo di dispetto e poiché alla indignazione univa il coraggio, rispose sullo stesso tono al suo interlocutore.

"Non venni qui ad insultare, signor insolente ma ad ossequiare, e del vostro insulto se siete gentiluomo, me ne darete ragione. Eccovi la mia carta e sarò all'Albergo Vittoria ai vostri ordini sino al meriggio di domani".

"Io non vi lascerò aspettar tanto", fu la risposta del Morosini.

CAPITOLO LIX IL DUELLO

Il contadino non persegue la pernice nel folto delle boscaglie ma, dopo avere coperto le acque delle fonti circostanti, l'aspetta a quella fonte che unica lasciò scoperta e lì la caccia col vischio, colla rete o col piombo micidiale in quell'ora che la povera innocente vi cerca rifugio e ristoro alla sete.

Così nelle ore meridiane il bifolco aspetta imboscato i renitenti al giogo da cui rifuggono.

Ed il corsaro, che invano si cercherebbe sugli immensi spazi dell'Oceano, si aspetta al varco de' suoi nascondigli, ove deve condurre le prede, e là si cattura.

Analoga fu la risoluzione dei nostri quattro romani per rinvenire il principe T. che inutilmente avevano cercato in ogni via. Dopo d'aver riconosciuti e mandati a casa, col mezzo di Cencio i cagnotti del Sant'Ufficio si posero loro in agguato nei dintorni dell'Albergo Vittoria aspettando la comparsa del T. il quale verso mezzanotte arrivò, e fu seguito nella sua stanza dagli amici suoi che gli palesarono la trama dei porporati ed ogni loro scoperta.

Era troppo nobile d'animo il principe per mettere i suoi amici a parte dell'imminente duello. Orazio specialmente il cui animo ardente ei conosceva e che non avrebbe concesso ad altri la parte di secondo. Pure d'un secondo egli abbisognava e profittando d'un momento di calda discussione tra gli amici, con un'occhiata chiamò Attilio al balcone, e lo richiese di fermarsi con lui per quella notte.

Orazio, Muzio e Gasparo si congedarono, ed Attilio rimase col pretesto d'affari particolari.

Alla prima alba, un giovine in camicia rossa picchiava alla porta della stanza N. 8 dell'Albergo Vittoria e presentava al principe T. un cartello firmato Morosini espresso in questi termini: "Io accettai la vostra sfida e vi sto aspettando alla porta dell'albergo nella mia gondola. Ho meco delle armi ma se non vi convenissero, portate le vostre. I padrini stabiliranno le condizioni del duello".

Alzatosi il principe e fatto chiamare Attilio lo presentò al secondo di Morosini ed in pochi minuti le condizioni furono fissate.

Armi: pistole. Distanza: venti passi. Facoltà di marciarsi incontro, sparando a volontà.

Il sito era dietro i murazzi, ove i contendenti potevano recarsi subito, essendo tale il piacimento dello sfidato.

In verità se s'ha a morire od ammazzare è meglio si faccia subito poiché anche alle anime più risolute tanto una cosa che l'altra ripugna e quindi si desidera abbreviare il termine della decisione.

Cosa diavolo dirò del duello? Io fui sempre d'avviso che fosse vergognoso il non potersi intendere senza uccidersi ma d'altra parte, tocca a noi, iloti ancora dei prepotenti della terra, paria dell'Europa, a predicare la pace individuale e generale? a noi, il perdono dell'oltraggio! a noi! così oltraggiati da tutti! a noi cui è vietato di passeggiare sulla nostra terra!? di fregiarci delle nostre glorie!? A noi calpestati nei nostri diritti, nella nostra coscienza e nel nostro onore dalla più vile scoria della nazione nostra!? A noi, che per vivere, per essere considerati, protetti, ci bisogna prostituirci!? Via! non duelli quando saremo costituiti, ben governati e godremo nei nostri diritti all'estero ed all'interno ma di fronte alla prepotenza, all'arbitrio e al privilegio no! non si può patrocinare la pace.

Intanto vogano verso i murazzi le gondole che portano i contendenti. Uscite da Malamocco costeggiano per un pezzo l'argine immenso costrutto dalla Repubblica, contro le furie dell'Adriatico e sbarcano finalmente alla spiaggia esterna e deserta che fuori dei murazzi è a secco quando gl'impetuosi bora o scirocco stanno in riposo. Saltarono sulle sabbie, scelsero un sito a proposito, e dopo aver misurato i venti passi i secondi porsero le pistole agli avversari che si collocarono sui due segni marcati nell'arena. Attilio doveva batter tre volte palma a palma ed alla terza i combattenti potevano avanzare e far fuoco a volontà.

Già i due colpi eran battuti e le mani erano alzate per il terzo segno quando una voce dal lido, ove si trovavano le gondole gridò: "Fermi!" ed i quattro volgendo lo sguardo videro uno dei gondolieri, canuto e di aspetto venerando, che si affrettava correndo verso di loro. "Fermi!" ripeteva ancora il vecchio venendo avanti e non si fermò se non giunto che fu tra i due armati. Allora cominciò con voce alquanto tremante ma maschia e sonora, tanto che pareva incompatibile col mucchio d'anni indicato dalla sua canizie: "Fermi! figli d'una stessa madre, l'atto che voi siete per compiere, macchierà l'uno dei due col sangue d'un concittadino! Non potrebbe essere versato invece a prò di questa terra infelice, cui tanto ancora resta a fare, per raggiungere la indipendenza a cui agogna da secoli. Tra voi, il vinto morirà senza una parola d'affetto, una benedizione de' suoi cari: il vincitore rimarrà coll'aspide del rimorso nel cuore tutta la vita! Oh voi! che ai lineamenti gentili io conosco nati su questa terra di pianto. Non ha l'Italia molti nemici ancora, e non abbisogna essa di tutte le braccia de' suoi figli per scuoter le secolari catene? Cessate dalla lotta fratricida, ve lo chiedo, ve lo impongo in nome della madre comune! Cessate! non rinnovate le gare antiche, retaggio fatale degli incauti, scellerati padri vostri, che precipitarono questa bella patria in tanta abbiezione! Tornate amici. Tornate fratelli! Domani voi proverete allo straniero che tenterà ancora di strapparvi le vostre sostanze e le vostre donne, chi dei due sia più valoroso".

Le onde dell'Adriatico infrangevansi contro gli scogli granitici che arginano i murazzi con più effetto delle parole patriottiche ed umanitarie del vecchio sull'ostinata risoluzione di quei due assetati di sangue ed il principe, con certo piglio di dispetto, che chiariva l'aristocratica origine intimò al vegliardo: "ritiratevi".

Si ripresero da capo i segnali, le battute di mano si seguirono, ed alla terza gli avversarii marciarono ad incontrarsi colla pistola armata nella destra e coll'occhio fisso l'uno sull'altro senza battere palpebra col meditato intento dell'omicidio.

A dodici passi sparò il principe e la palla sfiorò passando la parte destra del collo di Morosini: lo ferì e ne sgorgò il sangue, ma fu ferita leggera. Il soldato di Calatafimi, più freddo dell'avversario, s'avvicinò di più a forse otto passi. Sparò ed il fratello della nostra Irene si aggomitolò cadendo sul terreno come uno straccio. La palla gli avea traversato il cuore.

Il Sant'Ufficio dal Vaticano sorrise di quel sorriso infernale con cui si rallegrò ogni volta che un olocausto di sangue sparso dal pugnale della discordia bagnava questa terra infelice. E chi lo versò quel sangue italiano? Una mano italiana, consacrata alla redenzione del suo paese.

CAPITOLO LX ROMA

Il due dicembre il despota della Senna, l'Imperatore-menzogna(75), il nemico di tutte le libertà, il protettore di tutti i tiranni, dopo diciassett'anni di perverso dominio colla stessa ipocrisia con cui la tenne schiava, liberò la Niobe delle nazioni, la vecchia metropoli del mondo, la dominatrice, la martire, la più grande delle glorie umane!

Egli fu il continuatore della vendetta universale.

Totila alla testa delle feroci sue orde conquistava Roma, la distruggeva, ne sterminava la popolazione ed era questa giustizia di Dio! "Morrà di ferro chi uccide col ferro!" Perché i romani vollero dominare il mondo? perché dalle fertili contrade assegnate loro dalla natura vollero scorrere tanta parte di mondo aggiogando sino le nazioni le più remote derubandole, disertandole?

I popoli della terra portarono per contraccambio ai loro tiranni servitù, rovine, miserie.

Il continuatore degli Attila e dei Totila non men depredatore di loro gettossi lui pure sulla facile preda e palpitò di gioia il fallace suo cuore mentre la stringeva tra le ugne!

Che bell'appannaggio al crescente principino!... Parodia del gran zio. Ci vuol altro! Alle grandi opere, si richiede un alto cuore; ed il figlio dell'ammiraglio olandese(76), sortì cuore piccino, e codardo! Eppure in tutti gli atti della sua vita, si scorge la presunzione d'imitare lo zio ma nello stesso tempo si vede la mancanza di energia, di genio per l'esecuzione.

I barbari antichi conquistarono e fecero un mucchio di rovine della superba conquistatrice, il moderno barbaro, il devoto camuffato da gesuita, non distrusse, non ruinò, ma considerò roba propria la grande preda. Poi, indebolito dalle lascivie e dagli anni, scosso sino alle fondamenta l'insanguinato suo trono dalle fallite imprese americane ove avea tentato, il malvagio, di dare il colpo di grazia al santuario della libertà del mondo, alla grande Repubblica, edificando alle sue porte un impero austriaco per farsi perdonare dai coronati, la sua origine plebea, l'apostata della Rivoluzione, mutò in parte pensiero.

Distruggere la libertà sulla superficie della terra per ottenere la concessione d'un posticino al banchetto della tirannide!! Povera Francia! a che fosti ridotta!

E il governo Italiano ha accettato l'eredità dell'imperatore-menzogna. Far il birro al Negromante del Vaticano, obbligarli a soggiacere al governo del S. Uffizio. Rinunziare alla capitale d'Italia, proclamata dallo stesso Governo Italiano, votata e sancita dal suo Parlamento: ecco l'opera del Governo.

Io credo che governo più codardo sia impossibile trovare nelle storie antiche e moderne e bisogna che sia proprio destino dell'umanità che si debba trovare accanto al bene tanto male, tante umiliazioni, tanta perversità!

Ho detto "accanto al bene" poiché non si può negare essere l'unificazione italiana un miracolo di bene, ad onta degli sforzi fatti da governi e da sette più o meno nere, per trattenere, e far retrocedere questo povero paese, impoverendolo, pervertendolo con ogni modo di depravazioni e di menzogne.

Governo! si può egli chiamar governo quest'agenzia di corruzione!?

Grazie ad essa il popolo è ridotto: ad una metà comprata per aggiogare l'altra, tenerla nel servaggio e nella miseria!

Salve! valoroso popolo del Messico! Oh! io invidio la tua costanza e la tua bravura nella liberazione del tuo bel paese dai mercenari del despotismo!

Accettate, coraggiosi nipoti di Colombo, dai vostri fratelli d'Italia, un saluto alla vostra libertà redenta!

A voi s'imponeva la stessa tirannide e la spazzaste come la fantesca spazza le immondizie. Noi soli!... garruli, pieni di preterizioni, vani, millantando glorie, libertà, grandezze!... e legati per il collo... imbavagliati! troppo liberi per le ciarle ma inetti a compiere quella ricostituzione politica che sola può darci il diritto di sedere accanto alle libere nazioni.

Tremanti dinanzi al despotismo d'un abbietto tiranno straniero, noi non osiamo, per paura che ci castighi, passeggiare per casa nostra, dire al mondo che siamo padroni di noi, strapparci dal fianco il dardo che perfidamente ci ha conficcato.

E più umiliante, più degradante ancora è la condizione che il despota straniero ci ha imposta, lasciò la preda che l'anatema del mondo gli vietava e ne disse: Codardi! guardatela, fate da birri in vece mia, ma non la toccate!

Oh! Roma! patria dell'anima! tu, sei veramente la sola! l'eterna! Al disopra d'ogni grandezza umana anche oggi... sotto qualunque degradazione! Il tuo risorgimento non può esser che una catastrofe da mettere a soqquadro il mondo!

CAPITOLO LXI VENEZIA ED IL BUCCINTORO

Le macchie del servaggio e le rughe della miseria il popolo alla fine le lava e le spiana col suo sangue. La classe intelligente e ricca dovrebbe una volta, capirlo e risparmiare all'umanità quelle orgie di macelli, che la deturpano e la riconducono sovente alla primitiva barbarie.

In altri tempi Venezia, seguendo l'impulso della sorella lombarda, lavava nel sangue molti anni di umiliazioni e di servaggio. Non così ora. Essa sorge dalla dominazione straniera, non per propria, ma per altrui virtù.

Oh! fosse almeno la libertà sua raggiunta per opera, per coraggio dei fratelli, pazienza! Ma chi la redime sono vittorie di stranieri. Sadowa, gloria Prussiana, ha liberato Venezia! e la nazione italiana a niuno chiede ragione di tanto sfregio!

Eppure le nazioni, come gli individui, abbisognano di dignità per vivere e più della vita dell'anima abbisognano che non della vita del ventre a cui ci vogliono condannare i reggitori nostri.

Un giorno la regina dell'Adriatico portava il suo superbo leone nel lontano oriente, rintuzzava il conquistatore Ottomano e vi dettava la legge. I monarchi dell'Europa, collegati e sorretti dalle gelose italiane repubbliche, movevan compatti contro le lagune ed eran respinti dai coraggiosi repubblicani. Chi riconosce oggi quei fieri concittadini di Dandolo e dei Morosini? Per liberarsi, abbisognano dello straniero. Liberi si gettano nelle file delle raschiature di Seiano(77), setta propensa a tutte le umiliazioni! a tutti gli obbrobrii!

Come la tirannide trasforma le più nobili creature in abietti ermafroditi! e non siete soli o veneti! Tali ho pur veduto i discendenti di Leonida e di Cincinnato.

La schiavitù imprime sulla fronte dell'uomo un marchio tale d'infamia e di depravazione da renderlo irriconoscibile da confonderlo coi beati abitatori delle foreste.

Eppure, umiliato come fu ed è ancora, il popolo italiano non dimentica i suoi divertimenti, le sue feste. "Pane e giuochi" esso grida ai nuovi tiranni come già gridava agli antichi. Ed il prete in ispecie per compiacerlo, per ingannarlo e corromperlo, si è ravvolto in un ammasso di pompe e di cerimonie da oltrepassare tutto quanto ci narra la storia dello sfarzo in cui gli impostori dell'antichità si avviluppavano.

Non parlate di politica, non ci pensate! pagate e spogliatevi di buona grazia per grassamente mantenere i vostri scorticatori. Poi, di giuochi, di divertimenti, di prostituzioni ve ne lasceremo a dovizia.

Le sponsalizie del mare erano delle cerimonie predilette del popolo di Venezia, quando questo popolo era padrone di sé, aveva un governo proprio e questo governo era presieduto dal Doge.

Nel giorno prefisso per la festa il Buccintoro, la più splendida galera della repubblica, mirabilmente adorno e imbandierato, risplendente di arazzi e di dorature con a bordo il Doge, la maggior parte dei membri del Governo, gli ambasciatori stranieri e le più cospicue tra le belle signore di Venezia in gala, moveva al suono della musica dal palazzo di S. Marco e s'avviava verso l'Adriatico.

Facevan corteo al Buccintoro altre molte galere ed un numero immenso di gondole, tutte parate a festa e portanti la maggior parte della popolazione.

Eri pur bella in quei giorni fatata regina! quando i tuoi Dandoli, i tuoi Morosini, seppellivano nel seno di Anfitrite l'anello maritale e la dichiaravano sposa propiziandola agli arditi navigatori delle lagune!... Oh! salve! Repubblica di tredici secoli, vera matrona delle Repubbliche! Oh! se alle pompe de' tuoi sponsali avessi associato un fraterno banchetto colle altiere tue consorelle italiane lo straniero all'erta sulle vostre discordie non vi avrebbe certo calpestate tutte e ridotte in servaggio!

Cancellate le cicatrici delle vostre catene, spianate le rughe che la miseria impresse sulla vostra fronte, non dimenticate ringhiose! le umiliazioni per cui siete passate e rammentate che unite potrete sempre sfidare ogni prepotenza straniera.

Il solitario, appoggiato ad un balcone del palazzo Dogale che dava sulla laguna, in compagnia delle nostre belle romane, di Muzio, Orazio e Gasparo, ascoltava un vecchio Cicerone che gli narrava le antiche glorie della Repubblica e dopo aver parlato d'ogni cosa, giungendo alla descrizione della festa del Buccintoro, esprimeva il rammarico di non aver più nemmeno la speranza di rivedere una di quelle feste ed accennava al sito ove dal molo partiva il legno famoso.

Seguendo la direzione del dito, l'occhio di Muzio si fermò su di una figura ben conosciuta che si teneva in piedi in una gondola col gomito appoggiato al felze e stava per approdare ai gradini della piazza.

Sparì Muzio e in un lampo comparve al cospetto di Attilio che scendendo strinse la mano dell'amico ed appena potè articolare la mesta parola "morto!".

"Dunque era destino, che questo resto di grandezza romana venisse qui a finire" mormorò l'ex mendico avendo in parte inteso e parte indovinato la fatale storia. "Egli morì da prode" disse il capo dei trecento. E molti italiani sanno morire da prodi, pensava Muzio, ma fosse almeno contro i loro oppressori!

"Io torno alla comitiva, disse Muzio, m'intenderò col solitario acciocché devii la passeggiata per altra parte perché Irene ed Orazio non abbiano ad abbattersi nella salma del loro caro. Ti raggiungerò poi con Gasparo".

CAPITOLO LXII LA SEPOLTURA

Un sasso!

Che distingue le mie dall'infinite

Ossa che in terra e in mar semina morte.

(Foscolo)

Io, idolatra del Carme dei sepolcri del grandissimo poeta, sono per l'onoranza ai morti e veramente, credo, che onorare la virtù nei defunti serva d'incentivo ai viventi per imitarli. Ma quando si pensa alle smodate cerimonie con cui il pretismo accompagna il viaggio finale della salma d'un potente non si può a meno di deplorare le spese e lo sfarzo.

La morte! quel tipo vero dell'uguaglianza che distrugge inesorabilmente ogni superiorità mondana e confonde in un ammasso di putredine gli avanzi dell'imperante e del mendico! la morte deve stupire di tanta differenza fra i funerali del povero e quelli del ricco! Deve stupirsi di tanto apparato alla sepoltura d'un cadavere, ridere direi (se la morte potesse ridere) per tante fandonie di lutto che sovente altro non è che gioia nell'animo del vorace erede e nei più, indifferenza.

E i piagnistei per moneta non sono cose da far compassione? Io ho veduto in Moldavia (e lo credo uso d'altri paesi) all'accompagnamento del cadavere d'un Bojardo una frotta di donne pagate per piangere.

E che pianto! e che grida, mandavano quelle sciagurate! Del dolore che ne risentivano, lascio giudicare i miei lettori.

Colesti piagnistei li ho ricordati qualche volta, alla lettura delle discussioni parlamentari, ove certa gente pagata o che spera d'esserlo si sfiata ripetendo dei bravo, bravissimo alle insulse e sovente liberticide ragioni di questo o di quell'altro primo ministro.

Il feretro del principe T. fu seguito da molta gente perché si seppe egli essere un principe e nella massa degli uomini che accompagnavano il titolo per altro colla maggiore indifferenza, si distinguevano pure alcune fisonomie meste e queste erano i veri amici del defunto: Attilio, Muzio e Gasparo. Quest'ultimo si vedeva chiaro avere gli occhi gonfi dal pianto.

La fiera natura del vecchio sovrano della campagna di Roma era stata scossa dalla perdita del suo amico e padrone a cui s'era affezionato sinceramente il che provava la buona indole dell'uno e l'eccellente cuore dell'antico proscritto.

Piangeva egli il principe? No! egli piangeva l'amico, il benefattore!

Quanti amici potrebbero avere i grandi della terra ed a poco costo se volessero aprire l'anima loro alla beneficenza e far sentire men dura l'ingiustizia della sorte a coloro cui fu matrigna.

Molti io conosco tra i grandi benefici, anzi angeli di bontà tra il sesso vezzoso, ma sono pochi in paragone delle moltitudini sofferenti e la maggioranza dei favoriti della fortuna non solo è indifferente pei tapini ma li sprezza, li scaccia da sé, li scortica in mille modi.

Cura di governo dovrebbe essere quella di migliorare la condizione del povero e non è così sventuratamente. I governi pensano alla propria conservazione e per consolidarsi corrompono gran parte del popolo col fine d'avere dei satelliti e dei complici.

La massa dei benestanti potrebbe in gran parte correggere questo capitale difetto dei governi sorreggendo i miseri e migliorandone la sorte ma non lo fanno. Pure loro sarebbe facile! se soltanto volessero privarsi d'una parte del loro superfluo. Il povero manca del necessario per sostentarsi e il ricco nuota tra le copiose vivande e gli squisiti e variati vini il più delle volte nauseato dell'abbondanza e dalla penosa sazietà.

"A che tanto dolore per la perdita d'un nostro nemico, signor Capitano?" Queste parole furon precedute da un picchio sulla spalla destra dato a Gasparo da una figura singolare che gli veniva dietro nel funebre convoglio. Il vecchio voltossi, stette un momento a considerare il famigliare suo interlocutore, e poi con una esclamazione poco convenevole alla santità della circostanza e con sorpresa dei vicini "Accidenti ai settandue!(78) Ma sei proprio tu Marzio?!" "E chi ha da essere altro che il tuo luogotenente, mio venerabile comandante!".

Oh Dumas! Oh romanzieri francesi! che magnifica scena per voi! Qui, avevate veramente il tipo del brigand italien.

Il vegliardo, in molti mesi di vita principesca, avea alquanto ripulita la sua fisionomia brigantesca, ma Marzio conservava il feroce aspetto del masnadiero romano. Alto della persona e quadrato, era difficile sopportare senza un brivido di timore lo sguardo tagliente che due nerissimi occhi vi lanciavano saettandovi. La sua chioma, nera e pulita come l'ala del corvo contrastava colla lunga barba dello stesso colore brizzolata di grigio in molte parti. Le sue vesti eran forse poco diverse da quelle portate, quando spargeva il terrore per le romane campagne ma alquanto più pulite. Il famoso farsetto di velluto nuovo, non mancava, e se non si vedevano al di fuori di quell'indispensabile accessorio del brigante pistole o daghe. Un coltello-pugnale era di certo religiosamente nascosto dalla parte di dentro. I cappelli sono portati in diversa foggia anche dai briganti e Marzio portava il suo un po' inclinato sulla destra, però di forma somigliante ad un cappello d'operaio. Le ghette di cuoio erano state abbandonate da Marzio ed il suo abito di color azzurro con ampie saccoccie non offriva oltre l'ampiezza alcun'altra singolarità.

La circostanza non era opportuna a lunghe espansioni.

Si leggeva però su quelle due straordinarie fisonomie un vero e mutuo sentimento di piacere e di simpatia.

Tant'è; io sono innamorato dei briganti e se fossi una donna chi sa, che non diventassi una brigantessa.

In questi tempi ove la gloria e l'onore italiano hanno avuto certi spiacevoli sfregi, dico il vero: quel pugno d'uomini chiamati briganti che per sette anni si sostiene contro un esercito numeroso altri due eserciti di carabinieri e di guardie di pubblica sicurezza un quarto esercito di guardie nazionali ed un'intiera ostile popolazione; quel pugno d'uomini dico: chiamateli come volete, sono almeno uomini di grande coraggio. E se voi signori governanti in luogo di mantenere la scellerata istituzione prete vi foste adoperati all'istruzione del popolo quegli stessi briganti in luogo di essere stromenti di reazione pretina sarebbero oggi nelle file nostre dandovi l'esempio del come si combatte, uno contro venticinque.

Dunque: Viva i briganti! meno gli assassini, s'intende.

E ancora una parola all'orecchio, signori alto-locati che m'intend'io! Quando voi assaltaste le mura di Roma (per devozione lo si sa) foste voi meno briganti derubando e sgozzando un povero popolo che vi credeva amici. Voi, non solo siete briganti, ma per di più traditori!

Ma mi direte: quelli erano repubblicani, gente infesta al mondo. E cosa eravate voi, signor Menzogna? non repubblicano certamente, perché per esserlo bisogna essere onesto. E... quanto ad onestà vi lascio metter la mano sulla coscienza... se pure ne avete una.

E a Castelfidardo, a Gaeta, non erano republicani che assaltavate! Con che legalità, con che diritto di genti? né più né meno di quello che vanti un brigante sulla strada od in casa colla sola differenza, che il brigante spoglia, e non sempre uccide, e vi siete imbrattate le mani nel sangue innocente.

Chiedo perdono al lettore d'averlo piantato per tanto tempo nel poco piacevole funerale d'un principe per disgredire favellando di grande e piccolo brigantaggio.

Giunto il convoglio al camposanto e sepolto il cadavere non una voce vi fu che in suo onore dicesse una parola di orazione funebre. Il povero principe con tutta la sua volontà di fare il bene n'era stato impedito da prematura morte.

E che cosa si sarebbe potuto dire di bontà, d'eroismo o d'altre qualità commendevoli non avendo egli avuto il tempo d'esercitarle?

CAPITOLO LXIII IL RACCONTO

Noi lasceremo i nostri amici occupati a consolare l'afflitta Irene per la perdita del fratello che sinceramente amava.

Ultimo rampollo dello splendido suo casato, il principe ne troncava colla sua morte la prosapia; e questa idea, sono certo, non mancava di martellare il cervello della nostra bella matrona la quale, sebbene non repugnasse da un'alleanza plebea, come abbiam veduto, ci teneva al titolo onorevole della famiglia paterna.

Alla immensa fortuna che la morte del fratello lasciava in sua balia non pensò punto, essendo troppo generosa di carattere da anteporre l'interesse alla vita del suo caro. Poi i beni di casa T... sul territorio Romano, erano stati confiscati da quelle perle di servi di Dio, i cui beni non sono di questo mondo.

Ritornati dal funerale, Attilio e Muzio si erano consultati col solitario sul modo di comunicare alla sorella l'avvenimento fatale ed egli chiamato Orazio e la sposa nella propria stanza aveva data loro la ingrata e dolorosa notizia.

Gasparo, di tutti il più addolorato, dopo Irene, avea col racquisto del luogotenente trovato refrigerio al suo dolore e si sentiva mosso dalla smania di udire le avventure di lui che credeva perduto per sempre.

Ecco dunque i due ex-banditi riuniti a stretto colloquio nell'Albergo Vittoria nella stanza di Gasparo. Dopo un mondo d'interrogazioni e di risposte, per lo più a monosillabi, non essendo l'oratoria Io studio prediletto dei briganti, gente più manesca che ciarlona, il luogotenente così cominciò:

"Dopo che voi mi diceste, mio caro capitano, che eravate annoiato della vita brigantesca e disposto di ritornare privato, dal che vi sconsigliai se ben ricordate, io continuai le solite scorrerie senza però mai allontanarmi dai saggi vostri precetti. Spogliare i potenti e sollevare i miseri. I nostri compagni, formati alla vostra scuola, pochi motivi mi diedero di reprimerli; quando qualcheduno però mancava io lo castigavo senza misericordia e così si visse colla grazia di Dio per vari anni.

L'affetto per la donna fu sempre lo scoglio del brigante e ben lo sapete voi vecchio corsaro".

Gasparo, a quegli accenti agrodolci affilava colle dita i suoi mustacchi color di neve ricordando senza dubbio più d'un'avventura galante nella carriera sua pericolosa mentre l'altro ripigliava: "Voi ricordate Nanna, quella fanciulla per cui tante persecuzioni ebbi da' suoi parenti. Non vi fate a credere che quell'adorabile creatura mi tradisse. No! l'anima sua, era, e fu pura come quella d'un angiolo! E perdonate se mi asciugo una lagrima pensando alla donna che tanto amai". Ed il ruvido capo dei masnadieri si metteva il fazzoletto agli occhi.

"Essa è adunque morta" esclamò Gasparo con affetto.

"Morta! Morta!" ripigliava il compagno e i due amici stettero un pezzo in silenzio.

Alla fine Marzio continuò: "Un giorno la mia Nanna, un po' indisposta s'era fermata a passare la notte in casa Marcello presso la povera Camilla impazzita, come avrai saputo, grazie all'infame cardinale S. Io quel dì mi dovetti allontanare colla banda per un'operazione importante. Nella notte la casa fu assaltata e portato via il mio bene in Roma.

Puoi immaginare la mia disperazione, puoi immaginare quante ricerche facessi per conoscere il nascondiglio della Nanna. Finalmente dai nostri amici di Roma seppi trovarsi la fanciulla nel convento di San Francesco, ove l'avean condannata a servire le suore e a non vedere mai più la luce.

La mia donna, al servizio delle suore! destinata a servire quella turba di giovani donne ingannate e di rantolose vecchie volpi! Ve la darò io, dissi tra me, una serva di quella tempra e, per Dio!, questa volta il diavolo si porta via il vostro convento e quante vecchie pettegole racchiude.

La notte, che tenne dietro al giorno in cui conobbi la dimora della Nanna entrai in Roma solo: solo, perché mi sembrava vergognosa codardia farmi accompagnare in una impresa ove si trattava di me solo.

Presi meco un fascio grandissimo di frasche secche, comprato in piazza Navona, lo depositai in un'osteria, ed aspettai che si facesse tardi. Verso le undici, prima che si chiudesse l'osteria, presi il mio fascio e via verso S. Francesco. Chi può impedire a un povero diavolo di portarsi un fascio di legna a casa? Poi, la nostra Roma ha questo di buono, poche persone passeggian le vie durante la notte per paura dei ladri che il liberale governo dei preti lascia liberi quanto vogliono purché non si mescolino in politica.

Giunto al portone di San Francesco, posai il mio fascio, preparai pronto ad accenderlo un mazzo di zolfanelli, calcai le frasche contro il portone e gettai lo sguardo alle due estremità della strada per attendere il momento opportuno.

Era evidente, che bruciando il portone restava la inferriata, la quale mi avrebbe lasciato con tanto di naso e nulla di compiuto. Bisognava fare del chiasso, far accorrere gente di dentro e di fuori. Pertanto dopo aver accomodato ogni cosa traversai la piazzetta e mi nascosi nel vano di una porta saldo ed immobile quale una cariatide aspettando che gente venisse, foss'anco una pattuglia di birri, per me faceva lo stesso. Né ebbi ad aspettar molto, che dopo dieci minuti mi giunse all'orecchio precisamente il suono de' passi misurati d'una pattuglia. Allora, colla velocità che tu sai".

E qui Gasparo interrompendo: "Corpo di Dio! se la conosco, esclamò. Ricordo ancora quel tal Monsignore che, sulla strada di Civitavecchia, avendoci scorti retrocedeva fuggendo a gran galoppo verso Roma ed in men ch'io nol dico tu eri al muso de' cavalli e fermavi la carrozza".

"E che presa fu quella, comandante mio! ci fu da scialacquare per molto tempo colla povertà cristiana di quel discendente degli apostoli! Ma torniamo al racconto. Quando fui certo che la pattuglia veniva innanzi, corsi al fascio, lo accesi e rapido tornai al mio nascondiglio.

In pochi minuti, una fiamma d'inferno divampava dinanzi al portone del convento e lo stesso portone poco dopo infiammandosi mostrava uno spiraglio di fuoco simile al cratere di un vulcano.

E i birri? Dovunque la più trista canaglia del mondo in nessuna parte arrivano alle tristizie di quei di Roma, i birri dico, codardi per natura e lenti per la vita infingarda che menano invece di correre sul sito a smorzare il fuoco si misero a squarciagola a far schiamazzo per svegliare il vicinato ed al fuoco non si appressarono se non quando buon numero di vicini, d'ogni parte accorrenti, giungeva sulla scena d'azione.

Tocca ora a me, pensai, e mi precipitai nel vortice di quel tramestio. Le monache potevan stare allegre che un bel liberatore ce lo avevano alla porta e potevano star allegri anche i birri, che avevano acquistato in me un famoso compagno.

Le cose meglio non potevano riuscire. Al clamore di quei di fuori, le monache non tardano a destarsi. Spalancando l'inferriata, giungono anche esse alla riscossa con secchie piene d'acqua e buglioli e catini e quanti recipienti davan loro alla mano le poverette! Dopo aver fatto mostra di smorzar anch'io dalla parte di fuori sempre fisso però il mio occhio di lince verso il di dentro, vedendo la partita ben impegnata mi slanciai nell'interno al soccorso delle suore ed una salva di acclamazioni accompagnò l'atto mio salvatore.

Appena dentro, girai lo sguardo sulla turba delle femmine ivi riunite ed alla più vecchia che mi sembrò essere la badessa: "favorisca" dissi, e in pari tempo la presi per il braccio sinistro, in modo da farle comprendere che il favore di seguirmi lo avrei ottenuto un po' anche colla forza delle mie braccia. Incontrai più resistenza da quel vecchio cataletto ch'io non avrei creduto. Si contorse, s'impuntò, e non volle muoversi che trascinata resistendo con tutte le sue forze, ma inutilmente: poi si mise a gridare onde fui obbligato a levarla nelle braccia e turarle la bocca con un fazzoletto.

Cosi mi allontanai dalla folla e giunto davanti alla porta di una cella che trovai aperta mi misi dentro col mio fardello. Il lume era acceso, il letto caldo, deposi la vecchia sul letto e chiusi la porta a chiave.

Era la vecchia attonita ma non impaurita. Non ricordo d'aver veduto mai un demonio di tanto coraggio. "Ov'è Nanna?" le chiesi, mentre mi guardava trasognata, con un certo piglio da scuoterla per benino. Nessuna risposta. "Ov'è Nanna?" tornai a dire un po' più alto di prima. Nessuna risposta. Ah! vi farò trovar io la lingua, brutta strega, esclamai infuriato, tirando fuori dalla cintura questo palmo di lama e facendolo luccicare ai suoi occhi. Eppure niente!".

"Sangue della madonna! interruppe Gasparo, sono tutte così le badesse, tutte energumene. Quando alla difesa di Roma nel 1849 la mia compagnia doveva passare nel Convento del Sacro Cuore per occupare le mura di S. Pancrazio ci fecero stare delle ore alla porta senza volerci aprire e la badessa cui era stato presentato l'ordine scritto del Governo lo fece risolutamente in pezzi e solo, quando si cominciava a buttar giù il portone colle mannaie si persuase ad accordarci l'ingresso(79)".

"E così fece questa - ripigliava Marzio. - Io non burlavo, lo puoi ben credere. Volevo la mia Nanna e cento vite di vecchie non mi avrebbero certamente impedito di portar l'impresa a buon fine. Attortigliati i suoi grigi capelli alla mia sinistra col pugnale nella destra cominciai a tastarle il collo non già colla punta del ferro per timore mi vi scivolasse ma con uno spillo della sua cuffia. Allora m'accorsi che fino al martirio non voleva arrivare la santa donna giacché cominciò a sciogliere la lingua, gridandomi lamentevolmente un: per amor di Dio! La mia Nanna o vi mando all'inferno con tutti i diavoli! rispos'io. Per amore di Dio lasciatemi, ripeteva lei ed io lasciai andare quel capo protervo.

Dopo aver respirato fortemente per assicurarsi che viveva ancora, passatasi la mano sulla fronte. "Chiedete voi conto d'una giovane della campagna Romana, di buona famiglia, che fu collocata or son quindici giorni in questo Convento?". Credo sia dessa, risposi. "Allora io vi condurrò da lei, ma a patto che non facciate scandali in questa casa del Signore".

Altro oggetto non ho fuorché portar via la mia donna le risposi.

Essendosi al quanto ricomposta e discesa dal letto mi disse: "andiamo". La seguitai per un pezzo e giunti ad un'entrata oscura c'innoltrammo in un corridoio, scendemmo varie scale ed al chiarore di un candela che avevo portato meco scoprimmo una porta di ferro sbarrata da un catenaccio. Povera Nanna! dicevo tra me stesso, che delitto avrà mai commesso quella sciagurata fanciulla da essere fitta in questa bolgia d'inferno?

Giunti alla porta ferrata la vecchia mise fuori una chiave, la introdusse nel catenaccio, aprì e mi fece segno di tirare la porta essendo troppo pesante per lei. Io feci quanto mi venne richiesto senza però perder di vista la mia guida la cui compagnia m'era troppo necessaria. Così aprendo la porta misi prima la vecchia dentro ed io dietro. Appena entrato una giovine donna scapigliata mi saltò al collo e vi s'avvinghiò disperatamente... Oh! Marzio, essa esclamò e le lagrime della mia Nanna innondavano il mio volto.

Sono troppo corsaro da non prendere le mie precauzioni in tempo d'urgenza. Fuori di me dalla contentezza per la redenzione della mia fanciulla non mancavo però di adocchiare la megera che senza il mio occhio fulminante non avrebbe mancato di svignarsela.

Passata la prima espansione d'affetto, tenendo la mia cara per mano, richiusi la porta e chiesi a Nanna se esisteva un altro uscio in quella prigione. Essa rispose di no, ma la badessa che avea intesa la mia domanda: "c'è - disse - un altro uscio e per questo vi converrà uscire per non incontrare la comitiva delle suore che saranno in questo momento sulle mie traccie".

Qui una nuova scena ed una nuova fanciulla venne ad interrompere il discorso della badessa. Io avevo veduto veramente muoversi qualche cosa nell'angolo più oscuro del carcere, ma preoccupato com'ero, non v'aveva badato. Quando a un tratto una fanciulla dell'età in circa della mia Nanna si avvicinò a me, con voce commossa: "Oh! voi non mi lascerete sola in questo carcere, caro signore, io seguirò la mia Nanna sino alla morte".

E la Nanna a me: "Sì, Marzio! per carità non lasciamo questa infelice amica mia in questo inferno. Essa era destinata da quella vecchia maga a mia compagna per farmi la spia ed all'opposto è stata per me un angiolo di consolazione. Era incaricata di farmi parlare, sapere di voi, de' vostri compagni, d'ogni cosa e poi rivelare tutto alla badessa".

E così vanno le cose, pensavo fra me stesso in questi laboratori d'ipocrisia e di menzogna!

"Era incaricata di spiarmi, di minacciarmi, di tormentarmi, in caso io rifiutassi di palesare i vostri nascondigli, le vostre riunioni abituali, i vostri disegni ed invece essa mi disse tutto, mi consolò, mi protesse ed assicurò che morrebbe piuttosto che farmi del male.

Essa poi ieri mi salvò puranco dalle disoneste brame di un infame prelato che introdottosi in questo carcere colla connivenza senza dubbio di questa vecchia strega venne a promettermi mari e monti se condiscendevo alle sue voglie malvagie. Mi salvò precipitandosi nel carcere e strillando come un'ossessa.

Invano le promisero la libertà se giungeva a sedurmi per conto della badessa e del prelato, non ne hanno potuto cavar nulla. Di giorno ci destinavano ai più vili uffizi del chiostro, richiudendoci di notte in questa spelonca".

Il pianto innondava ancora il bel volto della mia diletta a queste ultime parole... ed io vi assicuro Capitano che mi corse per istinto la mano sul ferro e divenni sitibondo del sangue della megera. Non so me mi trattenni. Ero furibondo, e avrei stritolato le ossa di quella schifosa creatura come una foglia d'autunno e noi feci, e fu bene, perché senz'essa avrei avuto immense difficoltà a rivedere la luce del cielo.

Ov'è la seconda porta di cui avete parlato?, dissi alla vecchia, e dove conduce?

"Conduce fuori del convento, e ve la mostrerò se scostate il letto di ferro che giace in quel canto". Scostai il letto ben pesante e nulla vidi.

"Provate a levare i mattoni che si vedono con materiale non secco". Dato mano ad una spranga di ferro del letto cominciai a smuovere il pavimento, staccare i mattoni e metterli da parte. Alla fine un anello conficcato nel legno mi diede indizio di una porta orizzontale da sollevarsi e con mio stupore scopersi una nuova scalinata che conduceva a basso.

Qui bisogna ordinare la marcia, pensai tra me, e spinger la vecchia in capo fila. Ingiunsi alle mie giovani compagne di seguire in retroguardia e dando il lume alla badessa senza cerimonia le dissi: Avanti!

Questa è la scala di contrabbando, pensavo io e quanti di quei poveri neri e luridi scorpioni a sottane saranno venuti a sfamare le loro libidini in questi ginecei! E le povere famiglie che credevano d'inviare le loro figliuole in questi asili di purezza per educarle!

Ma pensavo pure: oggi non hanno più bisogno di entrare furtivamente nei sotterranei, oggi quegli scellerati hanno più facile l'ingresso e la sfacciataggine per giungere fino alle loro vittime".

CAPITOLO LXIV SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO

Les cloîtres, les cachots - ne sont point son ouvrage;

Dieu fit la liberté - l'homme a fait l'esclavage.

(Chènier)

"Marciava avanti la vecchia badessa col lume, io seguivo a poca distanza e le giovani chiudevano la marcia.

Scendemmo forse cinquanta gradini, entrammo in un corridoio non molto stretto che dopo pochi passi ci mise in una spaziosissima stanza, dico spaziosissima perché coll'aiuto del lumicino appena se ne potevano scorgere le pareti.

Avevamo fatto circa una diecina di passi in cotesta stanza quando mi sembrò di udire alla mia destra dei lamenti. Mi fermai, per meglio ascoltare quando al termine della mia attenzione di un momento e mentre mi accingevo a muovermi e guardare avanti anche alla mia guida mi trovai nelle tenebre.

Corpo di Dio! dissi tra me e me e mi slanciai innanzi con tale salto che certo non potrebbe di più la tigre quando dal suo nascondiglio della foresta si slancia sulla preda. Ma le tenebre furono la mia preda. Invano volteggiai a mulinello per un pezzo colle braccia tese quanto potevo colla speranza d'incontrare quel demonio in gonna. Mi avventai contro la parete, la costeggiai strisciando a rischio di scorticarmi le mani e non trovai uscio. Finalmente, dopo aver tentennato alquanto e quasi alla disperazione, mi appoggiai fortemente al muro e lo sentii cedere alla mia spinta. Ripresi speranza, ripassai la mano su quella parte di muro ed a mia sorpresa trovai che era legno, di che non m'ero accorto prima nella mia indagine precipitosa. Forzai di nuovo e sentii girare come una porta sui gangheri e nello stesso tempo un'aura, un puzzo cadaverico mi giunsero dalla parte esterna e mi colpirono quasi in modo da togliermi il fiato. Voltai la testa verso le stanze per sfuggire a quell'aria appestata. Il lamento che avevo udito prima mi ripercosse l'udito e quasi calmò il mio sussulto.

Pensai alle compagne e ad alcuni zolfanelli che tenevo in tasca ma che avevo scordato nell'esaltazione della mia mente. Accesi un zolfanello contemplai ciò che avevo creduto una porta e invece trovai essere una ruota(80) e miracolo! ben grato a Dio! a piedi e nel fondo della ruota il mio cero che la vecchia perversa avea lasciato cadere nella fuga.

Riacceso il lume mi trovai accanto le mie povere compagne tremanti come foglie. Coraggio, dissi loro, e mi precipitai nel compartimento attiguo dove mi seguirono una dopo l'altra, colla speranza di poter raggiungere la badessa ch'io non dubitai più essere fuggita da quella parte. Sollecitai il passo ma a poca distanza, Dio mi perdoni!, che orrore! Alle pareti del carname che io percorreva una massa di creature umane incatenate per il collo, alla cintola e per ambe le braccia penzolavano, la maggior parte cadaveri più o meno imputriditi. Un solo era vivo ed era questo un giovane che conservava gli avanzi di bellissime forme. Era divenuto un fantasma e spalancava verso me due occhi nerissimi che sembravano voler saltare dalle loro orbite. Aveva cessato di lamentarsi quando conobbe che io l'avevo scorto e che mi avanzavo verso di lui.

Per quanto fosse urgente il pericolo io non volli lasciare quel sofferente senza tentare ogni mezzo per liberarlo. Mi avvicinai e lo baciai sulla fronte.

Oh! sì! io mi sento attratto verso qualunque creatura che soffre. E questa sarà certo la corrispondenza gentile d'amorosi sensi a cui l'Onnipotente informa le anime che non furono infette dal soffio avvelenatore del prete.

Mi chiamino pure brigante!

Mi avvicinai all'infelice e baciai quella fronte grondante sudore ed ardente come un tizzone. Ma che fare! le radici delle sue catene erano impiombate nel muro e quei massi erano enormi. Mi ravvolsi tra il carname a cercare ferri che mi servissero a scavare nel muro o a rompere le catene. Orrore! dovunque istromenti di tortura! Dovunque, rotelle, eculei, letti di ferro, stirature, tanaglie, corde da laccio, graticole ed altre simili mortificazioni del corpo come le chiamano i preti e che solo questa genia d'inferno poteva inventare per sventura dell'umana famiglia.

Nel breviario Romano approvato dal Concìlio di Trento a pagina 498 sez. IV. Notturno II. (edizione di Venezia anno 1740) esiste una lettera di S. Domenico di Guzman, patrono di Torquemada e di Arbuez, diretta a Papa Onorio III, nella quale, con un cinismo spaventevole, con una crudeltà tanto freddamente calcolata da far inorridire, egli traccia di sé medesimo un ritratto ributtante ed orribile.

Leggetela sino in fondo, se il cuore vi basta, e letta che l'abbiate adorate ancora, se ve ne par degno, S. Domenico di Guzman!

"Beatissimo Padre.

Linguadoca, 7 Aprile 1217

Con l'aiuto del Signore, io e miei compagni non cesseremo mai dallo sbarbicare dal campo della chiesa, quest'erba velenosa che merita il fuoco, prima in questa vita poi nell'altra.

E per consolare la santità vostra dalle cure gravissime dell'Apostolato le accennerò quel poco di bene che con l'aiuto di Dio(81) abbiamo operato in queste infelici provincie tanto desolate dall'eresia. Affrancati dal duca di Monfort già trentasettemila di questi nemici della religione cattolica stanno a bruciare nelle fiamme dell'inferno, e così diradate le nuvole pare che il sole della retta fede cominci a risplendere in queste contrade.

"Il piissimo duca è tanto infervorato dallo zelo cattolico che, dovunque ha sentore si annidino di queste fiere, accorre colle sue truppe e dà loro la caccia. Essi o resistano o fuggano son sempre raggiunti e puniti. Non si usa pietà ai corpi di gente che non ne usò alle anime fedeli, cui uccise col mortifero veleno dell'errore. Egli li sottopone prima a tormenti per costringere la loro ostinazione a manifestare gli aderenti. È impossibile immaginare quanto lo spirito satanico s'impossessi di loro, e li renda fermi nella infernale impenitenza. Non si lasciano fuggire un accento dalla sacrilega bocca che il demonio chiude con una mano di ferro(82). Un vecchio, posto alla tortura, e quasi stritolato sotto ad una macina, rideva ed insultava i santi ministri, i quali gli ricordavano l'obbligo della fede.

Un'altra giovinetta di Belial, alla quale i soldati del Duca in punizione di aver alimentato le carni di un eretico strapparono dall'ossa con una tenaglia quelle carni maledette, sorrideva, metteva dentro le mani alle proprie piaghe e diceva di sentirne refrigerio; sicché i soldati a meglio refrigerarla seguirono per un'ora a rinnovarle quella consolazione senza poterla indurre a manifestare, dove fosse l'iniquo, che essa aveva albergato ed alimentato.

I poveri soldati sono instancabili nell'opera della fede(83) e la sera dopo la preghiera e dopo innumerevoli meriti acquistati, sono da me benedetti con la papale benedizione che V. S. mi concedette di largire nel suo nome santissimo(84).

Io crederei, Beatissimo Padre, che a rimunerare in qualche modo la fede ardente del sig. Duca, V. S. dovesse avere la benignità di conferire o a lui, o a suo fratello Don Rodrigo canonico della cattedrale di Tolosa, la sacra porpora la quale egli si ha già acquistato con le sue escursioni tingendola nel sangue maledetto di quegli sciagurati.

Basta che in questi paesi si senta il suo nome perché gli eretici Albigesi tremino da capo a piedi. Il suo costume è di andare per le corte spacciando in un sol colpo i più arrabbiati. Quanti gliene capitano nelle mani costringe a professare la nostra fede con la formola ingiunta da V. S. Se ricusano, li fa battere ben bene mentre che si accende il rogo(85). Quindi interrogati se si sien pentiti ed ascoltato che no, conchiude: O credi o muori. Li mettono ad ardere a fuoco lento per dare loro tempo di pentirsi, e di meritare l'eterno perdono.

Alcuno di questi miserabili, benché assai raramente, sullo spirare ha dato segni di ritrattazione e di orrore della morte che meritamente subiva; ed io mi consolavo nel Signore osservando quegli atti che potevano essere indizio di pentimento. Quando più essi si dibattevano tanto più noi godevamo nella speranza che quelle brevi pene fruttassero loro il gaudio eterno, dove speriamo di trovarli salvi nel santo paradiso quando al Signore piacerà di chiamarci agli eterni riposi.

Intorno poi agli altri che furono sedotti, e perciò meno rei, non si costuma di condannarli subito ma per esercitare con essi quella carità, che il nostro Salvatore comanda, da principio si risparmia loro la vita ed invece si adoprano alcuni tormenti i quali per quanto siano gravi alla carne sono infinitamente più lievi degli altri riserbati allo spirito nelle fiamme eterne.

Si adoprano rotelle, eculei, letti di ferro, stirature, tanaglie ed altre simili mortificazioni del corpo che secondo la legge del nostro Signor G. Cristo dev'essere macerato in terra per averlo glorioso nella vita eterna.

In altra mia mi farò un dovere di rallegrare il cuore della Santità Vostra, con più minuta narrazione di questa opera che il Signore si compiace di fare per nostro mezzo(86).

Intanto prostrato al sacro piede della S. V. imploro per me e per questi miei collaboratori e compagni, l'apostolica benedizione e mi dichiaro"(87)

Della S. V.

Re dei Re e Pastore dei Pastori

l'ultimo dei servi e figli

DOMENICO GUSMAN

CAPITOLO XLV SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO

"E Nanna e Maria (tale era il nome della compagna di Nanna) s'erano anch'esse avvicinate allo sventurato giovane e si affannavano, ma invano, a sottrarlo dall'orribile supplizio. Per fortuna di tutti la mia Nanna mi scosse coll'esclamare oh! una chiave! e veramente con molta perspicacia, volgendo lo sguardo al giovane, vi avea scoperto la chiave in un buco.

Provata la chiave nei chiavistelli della catena, andava bene, e mentre le arrugginite serrature cedevano alla mia mano d'acciaio, ad ogni crocchiare del ferro il mio cuore si dilatava e mi parea sentirmi alleggerito di un peso.

Ero all'ultimo catenaccio, anche questo aveva ceduto e liberavo le membra intirizzite del giovane quando Nanna mi afferrò per il braccio e timorosa indicommi nella direzione della ruota una luce.

Abbandonai il liberato compagno e fui tosto presso alla ruota. Appena giunto mi compariva innanzi un angiolo custode cioè uno dei birri il quale s'innoltrava girando la ruota colla sua brava lanterna sorda nella mano sinistra ed una pistola nella destra.

Fatto piccin piccino e rannicchiato io lo contemplai in tutta la maestosa sua corpulenza e nella sua apparizione fantastica e quando gli occhi suoi si fissarono spaventati sulla mia fisionomia ben poco piacevole in quel momento avevo già attanagliato la sua destra colla mia sinistra, la mia daga aveva trovato la sede della vita nelle sue viscere ed il corpaccio del birro rotolava cadavere sul terreno.

Voi sapete, Capitano, che io sono nemico del sangue e che solo per difesa personale l'ho versato. Ma là non c'era da burlare, sapevo i nemici non meno di cinque e io ero solo... ma che dico? al capitombolo dello sgherro mi avvidi di non esserlo più. Il mio liberato, rifatto agile dall'urgenza, era già sul caduto, Io spogliava delle armi e se ne armava lui stesso. Le mie valenti compagne da una vecchia graticola di tortura avevano staccato due spranghe e s'erano schierate in serrafila per aiutarmi.

La situazione era cambiata. Il morto, per adagio che lo avessi spacciato, non avea mancato di dar fuori un grugnito straziante e ciò avea insospettito i compagni e veramente io udii battere in ritirata il nemico perché i passi che noi distinguevamo perfettamente rimanendo in silenzio assoluto si sentivano allontanarsi. Lo ripeto, non c'era da burlare, né da far consigli di guerra per pigliare una decisione.

Dalla parte ove eravamo entrati, cercar di uscire sarebbe stata pazzia. E che altra via ci restava? Sapevamo tutti che le nostre romane catacombe, hanno sempre vari usci, la via di scampo non poteva trovarsi che lì, ed anche sta volta non m'ingannai.

Un'occhiata significativa al mio nuovo compagno mi confermò nelle mie congetture e senza aprir bocca toccando colla sinistra il cuore egli mi fé' capire ch'io potevo far assegnamento su lui in un viaggio per quel regno delle tenebre e della morte.

Non v'era tempo da perdere: l'alba dovea essere vicina e molte misure dovevano concertarsi nel convento per assicurare la nostra cattura. Gente armata dovunque allo sbocco di ogni uscita del sotterraneo era il meno che si poteva aspettare di trovare tardando.

L'acquisto di Tito fu per noi tutti prezioso. Egli non solo era pratico del sotterraneo ma a certa distanza alquanto a sinistra egli raccolse parecchie torcie a vento e le distribuì alla comitiva. La precauzione del mio compagno fu ben utile poiché il mio piccolo cero era sul finire e la lanterna del birro non aveva olio sufficiente per continuare un lungo viaggio sotterra.

A destra del punto ov'egli aveva trovato le torcie, Tito mi mostrò un chiarore e mi disse: quell'apertura mette nel giardino del convento e passata che sia, siamo fuori dal pericolo.

Camminammo, camminammo certo ben due ore, per un sotterraneo tagliato a scalpello nel tufo di cui come sapete, Capitano, il sottosuolo romano è composto e ne abbiamo visitate insieme di quelle catacombe ben molte nella nostra misteriosa ed illustre terra.

Catacombe terribili per chi non le conosce poiché ramificandosi per molti versi esse diventano un vero labirinto per chi non ne ha il filo.

Giovani e svelte le due donne eran sempre sulle nostre calcagna. Io chiedevo loro sovente: siete stanche, volete il braccio? ma loro: "Oh! no! Andate pure che vi seguiremo sino alla morte". "Ecco la luce", esclamò finalmente Tito: e veramente davanti a noi comparve come un bagliore che si perdeva nella lontananza.

"Da quell'uscio noi giungeremo nel bosco di Castel Guido, da dove mi trassero per condurmi a Roma in un seminario semenzaio d'immoralità e di turpidini".

Seminario! ove si seminan preti e donde escono i giovani negromanti per l'edificazione di questa nostra povera Italia! Ed il Parlamento li ha conservati questi vivai di malizia e di corruzione! Parlamento nazionale! Rappresentanti del popolo!... Maledizione ai falsarii!

CAPITOLO LXVI SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO

"Giunti all'uscita del sotterraneo, Tito cominciò a spostare alcuni rami di lentischio che ne ostruivano l'entrata ed uscì il primo girando lo sguardo per ogni verso. Salvi! egli finalmente esclamò. Salvi! sin qui non giunsero i nostri persecutori. Uscito colle compagne non potei ristarmi dall'ammirare come un orificio sì angusto ed impercettibile, quando sia ricoperto da' rami potesse dare adito a quella spaziosa ed immensa catacomba!

Castel Guido, io dissi a Tito, ma non lontano dobbiamo avere la tenuta del nostro poeta pastore? Sì! rispose egli: a poche miglia e vi guiderò diritto a quella volta ove potremo trovare un po' di riposo ed un'eccellente ricotta per soddisfare la fame.

Il sole di Marzo era altissimo sull'orizzonte, quando lasciammo il sotterraneo e nella splendida foresta ove ci trovavamo internati, le piante secolari che ricordavano forse le immortali legioni poco accesso davano ai cocenti raggi del figlio primogenito di Dio. I sentieri solcati dalla bufala eran quindi magnificamente ombreggiati e ben piacevole sarebbe stato il passeggiarli meno stanchi ed affamati.

Alla fine sull'orlo del bosco apparve ai desiosi nostri occhi la casipola mentovata e per fortuna sulla soglia scoprimmo il nostro amico che sembrava aspettare qualcheduno.

"Accidenti!" gridò il poeta quando fummo giunti vicino a lui; "non aspettavo quest'oggi voi, Marzio!" e ci stringemmo le destre come vecchie conoscenze.

"Aspettavo birri, come al solito", continuò l'amico "giacché si vociferò che alcuni delle vostre bande si aggiravano in questi dintorni" e con voce bassa trascinandomi alquanto da parte: "Anzi qui a poca distanza v'è Emilie, soggiunse, con due compagni".

In luogo di cacciatori ti giunse adunque la selvaggina, o Lelio, ma poche parole: dacci da mangiare e da bere che noi si muore di fame.

"Entrate, qui nulla manca. Eccovi prosciutto, ricotta, pane ed una foglietta(88) proprio d'Orvieto".

"Mangiate, bevete ch'io vi guarderò le spalle da quei malandrini di Roma. Accidenti(89) a quanti sono!".

Divorammo il frugale ma abbondante e sano pasto e quel primo bisogno soddisfatto, io richiesi da Tito il racconto delle sue avventure il che egli fece in poche parole. "Io, disse, sono di Castel di Guido e di onesta famiglia. Mio padre massaio dell'immensa tenuta del Cardinale M. per consiglio dell'Eminentissimo mi mandò a Roma nel seminario all'età di quindici anni per abbracciare la carriera ecclesiastica.

Eran due anni che contra all'indole mia mi trovavo a dover fare quel maledetto mestiere ed era qualche tempo che il reverendo Petraccio direttore del seminario mi mostrava simpatia ed a dispetto de' miei compagni, gelosi della mia buona fortuna, il reverendo alcune volte mi conduceva seco al passeggio. Le passeggiate con Petraccio, sempre noiose lo sembravan meno quando con lui si entrava nel convento di S. Francesco a visitare le monache. Badessa e monache forse invaghite delle mie forme (ed era veramente bello il nostro Tito) mi carezzavano sempre e mi colmavano di gentilezze. Vi lascio pensare: che traccie di fuoco lasciassero nell'anima mia quelle visite a tante belle creature. La badessa onnipotente sull'animo del direttore ottenne e senza molta difficoltà (almeno io credo) ch'io potessi essere impiegato al servizio divino del convento facendo da secondo ad un vecchio rettore che officiava per le monache.

Non tardai ad accorgermi dello scopo cui mirava la santa matrona ed eccitato come ero per la mia frequenza fra tante donne non fu difficile il farmi peccare.

Vari mesi durò quella tresca e sotto un pretesto o sotto l'altro stavo pochissimo in seminario e coll'appoggio del Direttore potevo fare quanto mi piacea. Il Direttore alla sua volta era retto dispoticamente dalla badessa che lo lasciava liberissimo gallo nel pollaio.

D'indole tutt'altro che da seminario, sin da giovinetto ero stato appassionatissimo per la caccia e per qualunque avventura che richiedesse ardimento. Così nelle mie escursioni pei dintorni di Castel di Guido avevo scoperta l'entrata del sotterraneo che noi abbiamo lasciato e moltissime volte colle mie torcie a vento ne avevo esplorate le parti più recondite.

Io stesso aveva troncato le comunicazioni col convento e me ne servivo per introdurmivi a tutte le ore, e devo confessarlo a detrimento del pudore delle giovani suore dalle quali ero adorato.

Lunga sarebbe la storia delle gelosie della badessa, che furba com'era s'era accorta della mia predilezione per le più giovani e molte volte l'avevo trovata in una irritazione tale da mettermi paura.

Infinite furon le scelleraggini da me vedute commettersi in quella casa di prostituzione durante la gravidanza ed il parto delle infelici sedotte ed il carcame delle creature distrutte appena nate è cosa da far inorridire ogni anima gentile! Dico il vero: io mi ero proposto di allontanarmi da quel luogo maledetto per non tornarvi mai più!

Ma ero destinato a pagare il fio della mia complicità a tanta abbominazione. La megera, la matrona di tante dissolutezze, sembrò aver indovinata la mia risoluzione di fuga e non mi diede tempo di eseguirla.

Un giorno: scendete Tito nel sotterraneo, mi disse, e portatemi alcune delle torce a vento, che mi furon richieste per una processione notturna. Ebbi un presentimento di sciagura, ma ardimentoso come sempre non volli dare ascolto a quella voce del mio cuore. Poi mi era balenata alla mente l'idea di profittare dell'occasione, per allontanarmi per sempre da quella cloaca.

Non avevo ancora terminato di scendere la scala della catacomba che mi sentii agguantato da quattro robusti uomini e trascinato verso il carcame che voi avete veduto e donde miracolosamente fui tratto da voi.

Eran birri, e furono inutili le mie suppliche, le mie promesse e la mia disperazione. Io doveva essere tra le vittime dell'impudicizia e dell'infamia. Ma voi mi salvaste, uomo coraggioso!" e Tito così terminando baciava la mano del suo liberatore".

CAPITOLO LXVII SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO

"Terminato il racconto del povero Tito, io avea voglia di udire qualche cosa della storia di Maria ma rifocillati di buoni cibi e scaldati dall'Orvieto, la fatica (che non era stata poca) della notte e d'una parte del giorno fece sì che i miei occhi e quelli de' miei compagni accennassero a volontà diversa da quella di udire delle storie. Anzi di lì a non molto, tutti come per mutuo consenso, cominciammo a russare al posto stesso ove eravamo seduti.

Io non so quanto tempo rimanemmo in quella posizione, so però che un fischio acuto risuonò nell'abituro e ci fece balzare tutti in piedi.

Ci stropicciavamo gli occhi quando entrò il poeta pastore e disse: - Non vi allarmate; non c'è pericolo, ho risposto ad un fischio di mio figlio Vezio che aveva mandato in sentinella sulla sommità della rovina Petilia da dove si può distinguere chiunque si avvicini alla tenuta. Ora, chi viene è gente nostra, proprio delle tue bande. - E Marzio come non fosse in presenza del suo Capitano ma nella Campagna Romana si lisciava con la destra i nerissimi mustacchi.

Eran proprio dei nostri intrepidi compagni, terrore della birraglia pretesca. Vi lascio pensare. Comandante, qua! gioia reciproca c'inondasse nel ritrovarci. Molte furon le carezze che mi prodigarono quegli uomini che il volgo crede induriti ad ogni misfatto e che sono in sostanza la parte eletta del popolo insofferente di prepotenze ed ingiustizie. Quella parte del popolo che se invece della degradante educazione del prete ricevesse una vera educazione morale patriottica ed umanitaria darebbe all'Italia degli eroi ed al mondo gli stessi esempi di virtù e di coraggio che davano gli antichi padri nostri".

E qui tocca a me di ripetere per la centesima volta, che solo i preti furon capaci di ridurre il più grande dei popoli della terra alla condizione del più umile, del più degradato di tutti i popoli!

"Salvata sì portentosamente la mia Nanna e reduce tra i miei coraggiosi compagni, io avea ragione d'esser contento della mia sorte. Ma ripeterò il vostro adagio favorito, Capitano: "La felicità sulla terra esiste nell'immaginazione della gente, ma non è cosa reale" avete ragione! Troppo presto provai la veracità delle vostre parole.

Vi ricordate quel prete scellerato della Basilica di S. Paolo che fingeva d'essere sviscerato amico vostro ed a cui noi fummo così larghi di simpatie e di favori? Ebbene! il mostro s'era innamorato della mia Nanna e mai mi perdonò l'affetto con cui mi ricambiava quell'angelica creatura. Don Pantano con quell'astuzia infernale che distingue la sua setta malefica era riuscito a guadagnarsi gli animi nella famiglia di Nanna e ad inviperirli. I quattro fratelli di lei come ella mi disse poi, aiutati da altra gente mascherata e consigliati dal prete volpone, avevano essi eseguito il primo ratto della mia fanciulla in casa Marcello. Questa volta, dovendo necessariamente allontanarmi co' miei ed essendo la mia diletta in delicata condizione ed affranta dalle fatiche sofferte, io mi decisi di lasciarla in casa del nostro poeta insieme alla Maria con cui era divenuta si può dire sorella d'affetto cementato dalle sventure e dai pericoli passati in comune.

Inquieto per altro sulla sorte della mia donna e conocendo la malizia del suo persecutore io mi aggirava colla banda d'Emilio intorno alla tenuta di Lelio, come la lionessa quando deposti i suoi piccini, si allontana per cercare alimento, ma circuendo sempre il nascondiglio del suo tesoro. Vi assicuro che ben difficile sarebbe stato ai primi rapitori il portar via la mia Nanna. Nella mia custodia erami Tito di non poco giovamento il quale, pratico di quelle contrade, non aveva voluto più abbandonarmi.

Ma ove non arriva la malvagità di un prete? Il Pantano, sapendo quanto ardua era l'impresa di portar via la sua preda, ideò di distruggerla lo scellerato!...

Vicina al parto, l'infelice giovane, sola, colla Maria inesperta in tali faccende seguì l'innocente consiglio di Lelio, di chiamare da Castel Guido la levatrice di quel paese sino allora tenuta per onesta. Onesta!... ma chi può fidare sull'onestà delle donne ove signoreggia il negromante? Corruzione! Prostituzione! ecco il codice dei sacerdoti della menzogna! Chi non lo crede vada a passare alcuni mesi in quel covile di serpenti mitrati ove un dì nacquero i Cincinnati e gli Scipionì.

Quanti delitti non si possono far commettere da una creatura assicurandola che essa compie la volontà di Dio! ch'essa ode la parola di Dio!

Parola di Dio! sacrilegio che solo un prete può pronunciare! Eppure ogni festa, metà almeno del mondo cattolico va ad udire la parola di Dio! in seno alla sposa di Gesù Cristo, la Chiesa!

Veleno! Veleno! si amministrò alla mia Nanna. Capitano mio! ed il veleno mi portò via donna!, prole!, ed ogni felicità sulla terra!

Fui arrestato sul freddo cadavere di lei inconscio della vita. Seppi poi, che s'impiegò al mio arresto tutto l'esercito di mercenari papalini, che i nostri bravi si batterono disperatamente per liberarmi ma sopraffatti dal numero e quasi tutti feriti si ritirarono in buon ordine.

Istupidito chiesi a più riprese la morte. Invano! il gran trionfo di quel prode esercito era più splendido se mi avevan vivo ed incatenato.

Dalla galera di Civitavecchia fui inviato a Roma dopo pochi mesi e liberato, col giuramento di assassinare il principe T...

Giuramento!... avete capito Comandante, Giuramento! quella viltà degradante della dignità umana con cui il despotismo ed il prete credono di vincolare la gente!... Giurare di servir fedelmente un impostore od un tiranno!... di obbedirgli... ancorché si dovesse assassinare il padre e la madre!...

Ed io giurai, vi dico il vero, ma giurai di far loro una guerra a morte per quanto dura questa vita d'inferno ove non abbiamo altra alternativa: che morire o ammazzare!".

CAPITOLO LXVIII PREDICAZIONE DEL SOLITARIO

Addio Venezia! non ultima gloria d'Italia! Il tuo popolo come il resto dei popoli della penisola, passato sotto le verghe dello straniero, ha perduto la gloriosa impronta di grandezza che lo distingueva ai tempi di Venier e di Dandolo. Come i suoi fratelli si è intisichito d'anima e di corpo e come a loro non gli resta che la millanteria dei tempi passati.

Pare impossibile! a qual punto le nazioni sono corrose dal despotismo e dal prete. Guardate il fiero Yankee(90) bello, franco, eretto che nulla trova di arduo nel mondo e grida sempre Avanti! nelle imprese più arrischiate.

Tale è l'inglese e tale è anche lo svizzero.

Paragonate quei liberi popoli coi discendenti di Leonida e di Bruto e questi troverete curvi sotto l'abitudini del servilismo e del continuo timore che fan pesare sovr'essi i due papi di Stamboul(91) e di Roma.

Io ho veduto greci in Costantinopoli inchiodati per un orecchio alla porta della loro bottega e lo straniero passando sogghignare con disprezzo chiamandoli truffatori e ladri ed eran veramente ladri e truffatori condannati al chiodo per falsificazioni e furti.

Il romano mendico sotto i colonnati dei suoi templi ha forse qualche cosa di men disgustante del Romeo(92) di Stamboul, men depresso, ma è altrettanto vizioso e degenerato.

E Venezia!, come Roma, come altre sorelle italiche è degenerata! La mia comparsa in quella città predicando i principii santi di libertà e del vero riuscì di poco frutto. Grida sfrenate vi si udirono al mio passaggio ma i fatti poco o nulla corrisposero alle grida. Invece di deputati che io raccomandai buoni furono inviati quasi tutti servili. I preti che io dipinsi quali erano, colle loro turpi malvagità, passeggiano insolenti e riveriti come prima.

A Padova ebbi il caro spettacolo degli studenti di quella celebre università e l'animo mio fu ringiovanito dal loro fervido amore di patria e dell'umanità.

Vicenza, Treviso, Udine, Belluno, Feltre, Conegliano, mi accolsero calorosamente e serberò tutta la vita grata memoria di quelle care popolazioni.

CAPITOLO LXIX CAIROLI COI SETTANTA COMPAGNI

I popoli ben governati e contenti non insorgono. Le insurrezioni, le rivoluzioni, sono la risorsa degli oppressi e degli schiavi e chi le fa nascere sono i tiranni.

Vi sono, è vero, delle eccezioni, ma queste hanno generalmente la loro origine in cause che potrebbero aver nome diverso dalla tirannide ma che in sostanza sono sempre il prodotto di tirannide morale o materiale.

La Svizzera, l'Inghilterra, gli Stati Uniti ebbero pure ed avranno forse ancora delle insurrezioni benché quei paesi sieno i meno mal governati.

La Svizzera ebbe il suo Sonderbund e l'Inghilterra ha i suoi Feniani per cagione dei preti cioè per la tirannia morale esercitata dalla negromanzia sulla parte ignorante delle popolazioni.

Gli Stati Uniti ebbero in questi ultimi anni la loro terribile rivoluzione e ne fu cagione la tirannide materiale che i ricchi coloni del Sud esercitavano sui loro schiavi e che avrebbero voluto estendere negli altri Stati dell'Unione. Morale o materiale, è dunque sempre Tirannide la causa delle rivoluzioni. Ed in Roma chi negherà non ci sia materiale e morale tirannia?

Schifosa tirannide è quella del prete! che prostituisce l'Italia allo straniero e la vende per la centesima volta! La più depravata delle tirannidi!

Era una notte d'Ottobre umida, oscura, ventosa. La pioggia avea cessato di grandinare sulla superficie rilucente ed increspata del Tevere. Le sponde del fiume fangose e solcate dagli scoli dei campi dove ogni fosso s'era fatto torrente non presentavano approdo, o ben difficile.

Erano settanta in varie barche armati di revolver e pugnale con alcuni cattivi fucili. Il loro abbigliamento era più semplice assai che non lo comportava la notte fredda e piovosa ma i settanta sentivano il calore dell'eroismo!

In quella notte Roma doveva insorgere. Nella città si erano introdotti molti dei più coraggiosi d'ogni provincia italiana. I nostri vecchi amici Attilio, Muzio, Orazio, ecc., erario al loro posto per capitanare la gioventù romana.

Invano la sbirraglia pretina si travagliava a scoprire i congiurati, arrestare a destra e sinistra chiunque potesse darle il minimo sospetto. Invano! Roma era gremita di generosi pronti a spendere la loro vita per la sua liberazione; e i settanta trascinati dalla corrente del Tevere gonfio dalle pioggie si avanzavano velocemente in soccorso dei fratelli.

All'ombra del monte S. Giuliano approdarono i valorosi sulla mezzanotte tra il ventidue e il ventitré Ottobre 1867.

"Alle quattro a. m. (23) si dovrà marciare su Roma" disse il prode dei prodi, Enrico Cairoli, ai suoi eroici compagni.

"In questo casino della Gloria(93) riposeremo le membra stanche aspettando le relazioni dei nostri di dentro per assaltare simultaneamente i nemici.

Intanto sento il dovere di ricordarvi che l'impresa è difficile quindi degna di voi. Se alcuno però, piagato nei piedi o indisposto, non si sentisse di seguirci, torni. Noi non gliene faremo un addebito; gli diremo: a rivederci in Roma".

"Nella vita e nella morte, noi vi seguiremo" risposero ad una voce quei tortissimi ed uno solo non se ne trovò che volesse tornare indietro.

"Non vedo la guida che dovea condurci a Roma, né alcuna credo sia venuto di là, a darci notizie dell'insurrezione" diceva Giovanni Cairoli al fratello al ritorno d'una perlustrazione. Ed albeggiava, ed erano proprio in bocca al lupo, cioè inoltrati fra gli avamposti dei papalini e col pericolo d'essere assaliti ad ogni momento.

"Che importa! - dicea l'intrepido Enrico. - Noi siamo qui venuti per pugnare e non torneremo senza aver adempiuto il nostro dovere".

A mezzogiorno un messo da Roma annunziava: il moto della sera avanti essere rimasto dubbio e attendersi notizie ed ordini sul da fare.

Il messo fu rinviato per sollecitare l'azione interna e annunziare la presenza dei settanta pronti a correre in aiuto. Ma nessuna risposta venne ed alle cinque p. m. scoperti da due compagnie di papalini ed attaccati i settanta si prepararono a vincere o morire.

Il valoroso Giovanni Cairoli, che alla testa di ventiquattro dei nostri faceva da vanguardia, in una casa rustica della villa, fu il primo ad essere attaccato e ad onta della superiorità de' nemici, sostenne senza piegare l'urto dei papalini. Ma, temendo che il numero finisse col soverchiare quel pugno di valorosi, il fratello suo Enrico caricò alla riscossa in aiuto dei venticinque e fece piegare co' suoi risoluti compagni i mercenari imbaldanziti che respinti dai coraggiosi italiani si diedero alla fuga. Ma altre forze nemiche, numerose e fresche accorsero a sostenere e raccogliere i fuggenti pigliando posizione dietro le alture del monte S. Giuliano, donde spaventosamente facevan fuoco colle loro armi superiori.

I Cairoli, coi loro intrepidi compagni, per l'inferiorità delle armi, avendone molte che non facevano fuoco, ebbero ricorso alle baionette e fecero una di quelle cariche che decidono sempre della sorte di un combattimento.

I mercenari volsero le spalle e lasciarono sul campo buon numero di morti e parecchi feriti, ma i valorosi soldati della libertà perdettero il loro eroico capo, il di lui fratello, ed ebbero non pochi gravemente feriti.

La notte mise fine a quella pugna di giganti!

CAPITOLO LXX CUCCHI E COMPAGNI

E dentro Roma che faceva Cucchi con tutti i patrioti Romani e delle provincie consacrati alla liberazione della città od alla morte?

Cucchi, da Bergamo, una delle più squisite individualità che la rivoluzione abbia dato all'Italia, bello, giovine, ricchissimo e d'una delle prime famiglie di Lombardia, Guerzoni, Bossi, Adamoli e tanti altri, tutti disprezzando le torture dell'inquisizione e mille altri pericoli dirigevano l'insurrezione romana sotto il comando dell'arditissimo bergamasco.

Il povero popolo di Roma era docile alla direzione di quei forti e domandava armi e d'armi ne erano state inviate molte da ogni parte d'Italia ma questo Governo di Firenze, esperto in ogni umiliazione e malvagità ed espertissimo nel fare il birro, avea avuto lo scellerato talento di fermarle tutte, in guisa che di pochissime quei di dentro potevano disporre.

Si aggiunga il tradimento che si preparava a questo popolo infelice: istigandolo a fare alcuni tiri di fucile anche all'aria poiché sarebbe bastato, si diceva, per far volare l'esercito italiano dalle frontiere e si avrà un'idea dell'infernale perversità con cui da Firenze s'ingannava il popolo di Roma e gli eroici suoi amici.

E i tiri di fucile li fecero i poveri Romani e si batterono senz'armi per le strade contro l'immensa soldatesca ben armata e birri e preti e frati pure in armi e fecero saltare una caserma di zuavi con una mina e col solo coltello pugnarono da disperati contro la famose carabine dei mercenari.

In Trastevere s'eran riuniti i nostri vecchi conoscenti, Attilio, Muzio, Orazio, Silvio e Gasparo, e con loro tutti quelli dei trecento su' quali la polizia non aveva ancora posto le mani(94).

Il popolo avea trovato capi atti a guidarlo e vi fece il suo dovere.

Alcune delle vecchie carabine da noi conosciute nella campagna di Roma facevano atto di presenza nelle robuste mani di Orazio e de' suoi compagni e servivano d'efficace aiuto al nudo coltello dei trasteverini.

Birri, carabinieri, zuavi, dragoni, in un fascio, colpiti da tegole, stoviglie e arnesi gettati dalle finestre popolane, dalle coltellate del popolo e da alcune poche carabine e fucili, precipitavano la loro fuga nella Lungara verso Ponte S. Angelo e vi furono spinti persino oltre il ponte. Ma questo era infilato da una batteria di cannoni, sostenuta da un reggimento intiero di zuavi e quando il popolo frammischiato ai nemici che inseguiva si affollò sul ponte, il comandante dei clericali, degno seguace di Torquemada, ordinò il fuoco e le sei bocche della batteria e i fuochi di linea della fanteria concentrati sul ponte fecero un vero macello di popolo e di birri.

Che importavano a Sua Santità le membra sparse de' suoi fedeli e compri scherani? Il denaro dei traditori d'Italia era pronto per comprarne degli altri, quel che sommamente importava, era di ammazzare il maggior numero possibile di ribelli.

E molti ribelli pagarono colla vita il loro nobile slancio su quel ponte fatale, tanto più che nella sublimità dell'entusiasmo il popolo tornò per tre volte all'assalto e per tre volte venne respinto dalla grandine fitta di mitraglia e di palle da carabina che vomitavano i difensori del negromantismo.

Chi fosse alla testa del popolo nell'assalto del ponte si può indovinare. I nostri cinque, ruggendo come leoni, dopo aver consumate le cariche, avevano spezzate le loro armi sul cranio della sbirraglia e raccoltene di nuove sugli uccisi trascinavano seco il popolo e coll'esempio e la parola lo spingevano all'eroismo.

Il primo dei coraggiosi capi che morde la polvere fu l'anziano, il venerabile principe della foresta, Gasparo. Egli cadde collo stesso sangue freddo con cui si poneva a sedere all'ombra dell'antica quercia che gli servì di padiglione per tanti anni. Aveva il sorriso sulle labbra ed era beato d'aver potuto dare la vita per la causa santissima del suo paese e dell'umanità.

Un biscaino(95) lo aveva colpito nel cuore e la bella morte fu istantanea e senza dolori.

Silvio cadeva accanto a Gasparo, colle due coscie trafitte. Orazio ebbe l'orecchio sinistro portato via da un pezzo di mitraglia e un altro gli sfiorò l'omero destro.

Muzio fu colto da una palla nel petto che lo avrebbe spedito senza il robusto orologio inglese, regalo della bella Giulia, che andò in frantumi, ma gli salvò la vita al prezzo soltanto di una forte contusione.

Attilio ebbe sfiorata la coscia destra, la guancia sinistra e sul cranio un'incannellatura quale fa la corda sull'orlo del pozzo.

Troppo era l'eccidio del popolo, troppi i caduti e dopo tre cariche consecutive quella brava gente fu costretta di retrocedere.

Orazio caricatosi Silvio sugli omeri lo trasportò nella prima casa accanto al ponte ma giuntavi la soldatesca, il prode amante di Camilla vi fu trucidato e fatto a pezzi.

Ugual sorte ebbero donne e bambini e molta gente inerme caduta nelle mani di quei degni soldati dei preti.

Nella Lungara v'è un lanificio nel quale erano occupati molti lavoranti. Quanto sieno nobili gli istinti dell'operaio appare nei casi solenni e di rivoluzione. In simili circostanze l'operaio salva la roba e non la ruba, salva la vita agli inermi, agli arresi, e non uccide mai col barbaro cinismo del mercenario. Si batte poi come leone disarmato contro gli armati, uno contro dieci.

Di quel lanificio di Lungara molti operai si trovavano già cogl'insorti e solo i più vecchi erano rimasti nello stabilimento.

Quando però quei buoni vecchi scorsero il popolo ed i loro compagni perseguiti da birri e da mercenari, spalancarono le porte, introdussero dentro i fuggenti o gran parte e poi spianarono stanghe, mannaie ed ogni istromento di ferro o di legno che potesse servire a difesa e ad offesa contro gli odiati stranieri e i birri persecutori.

Ne nacque un parapiglia indicibile all'entrata del lanificio ove il vantaggio rimase alla gente onesta ed ove non pochi della sbirraglia ebbero le cervella fracassate a colpi di stanga e la pelle forata da coltelli. Fu d'uopo che i birri imprendessero un regolare assedio, pigliassero posizione nelle case di fronte e nelle circonvicine e così continuassero la pugna. I nostri asserragliati e barricati nel lanificio e ne' suoi dintorni, radunate alcune armi da fuoco tenner testa, e continuò con varia fortuna accanitissimo il combattimento.

I superstiti nostri tre amici, feriti, avevan combattuto e combattevano da leoni. Gli insorti, animati dai loro capi, s'eran pure portati valorosamente, ma le munizioni mancavano e colonne di mercenari si avanzavano in sostegno dei loro.

La notte favoriva i figli della libertà che quantunque privi di munizioni e pochi non cessavano di resistere. Eran le sette pomeridiane, quando rallentati i fuochi degli insorti, una colonna di papalini si accinse all'assalto prendendo di mira il gran portone dell'edificio che gl'insorti avevano barricato ma non chiuso.

Orazio e Muzio dopo avere barricato il portone del lanificio armati ciascuno d'una mannaia, collocati i più giovani romani e più arditi a destra e sinistra del portone alla difesa, si tenevano pronti a resistere disperatamente ed a vendere cara la loro vita.

Attilio s'era incaricato di distribuire il resto della gente negli usci interni dello stabilimento, fatti barricare nel miglior modo possibile collocando buon numero di operai alle finestre del piano superiore donde dovevano scagliare sugli assalitori quanti oggetti pesanti potevano loro venire alla mano. Egli, armato della sciabola d'un gendarme ucciso da lui stesso nella giornata, scendeva poi a raggiungere gli amici al posto più pericoloso.

L'aspetto dell'interno del lanificio già era straziante. Molti cadaveri di coraggiosi popolani morti alla difesa dello stabilimento, erano stati portati ed ammassati nell'angolo più oscuro dell'ampio cortile. Molti feriti giacevano qua e là negli altri angoli e nelle stanze terrene e un solo lamento non si udiva da que' valorosi figli del popolo.

L'immensa tavola con un candelabro nel mezzo occupava il centro di un vasto salone a sinistra dell'ingresso e su quella tavola si vedevano ammonticchiate bende, fascie, filacce e panni di varie specie che la causa aveva potuto fornire pel servizio dei feriti. Bottiglioni, bottiglie, fogliette con vino non mancavano. Una conca grande d'acqua stava a' piedi della tavola, forse refrigerio più utile ai sofferenti feriti sia per mantenere, bagnandole, le loro ferite umide e fresche, sia per appagare la sete che le ferite generalmente cagionano.

CAPITOLO LXXI LE TRE EROINE

Tre donne di rara bellezza sopraintendevano alla cura dei feriti ed al nobile e gentile loro aspetto, noi riconosciamo le nostre eroine: Clelia, Giulia ed Irene. La povera, la derelitta Camilla inconscia ancora della perdita del suo Silvio e coi segni in volto delle passate sventure, aiutava macchinalmente le tre pietose.

Tutte avevano fatto parte di quel popolo che per un pezzo vittorioso, aveva inseguito i mercenari sino al ponte S. Angelo e tutte si erano precipitate nel lanificio quando il popolo respinto si rifugiò e si trincerò in quello stabilimento.

Altre donne del popolo aiutavano pure e portavano ai feriti quel soccorso che la circostanza permetteva.

"Ebbene, principe della campagna romana, - diceva Attilio ad Orazio - ne hai già vedute molte, ma questa pugna che stiamo digerendo sta notte è certo delle più ardue. Mi consola però che questi nostri Romani mostrano ricordarsi de' tempi antichi.

Guardali. Nessuno impallidisce. Tutti sono pronti ad affrontare la morte, comunque essa venga".

"Anzi, - rispondeva Orazio - essi mangiano, bevono, e tripudiano come se fossero a una passeggiata al Foro a vuotarvi la foglietta".

"Eppure, - ripigliava il valoroso marito d'Irene, - essi avranno dura impresa a sostenere contro tanta canaglia che ci attornia e che aspetta il momento propizio per assaltarci.

Dall'aspetto di coloro che abbiamo a fronte e la cui baldanza aumenta sempre dal fuoco infernale che ci fanno contro e dai loro sguardi ed applausi che volgono verso il ponte S. Angelo, v'è da dedurre ch'essi non tarderanno a muoversi contro di noi colle truppe fresche che ingrossano di continuo".

"Non dubitare, - soggiungeva Muzio, - il ferro di questo fucile sarà ben vermiglio prima che quei briganti saltino qui dentro".

"Diamo un sorso d'Orvieto a questi nostri prodi", esclamò Attilio. E dopo aver tutti rinfrescata la gola con un bicchiere corroborante un grido unanime e solenne di "Viva l'Italia" risuonò strepitoso nella folla accalcata dei nobili difensori di Roma.

CAPITOLO LXXII I MONTIGIANI

Mentre si pugnava disperatamente in Trastevere, i Montigiani, guidati da Cucchi, Guerzoni, Bossi, Adamoli ed altri generosi non se ne stavano colle mani alla cintola.

Lo scoppio della mina nella caserma degli zuavi era convenuto dovesse essere come il segnale del loro moto. E la mina scoppiò e quei prodi mossero con eroica risoluzione alla testa di tutta la gioventù romana che si potè radunare.

Quanti birri, impauriti dallo scoppio della mina si trovarono sul passaggio del popolo, furono disarmati od uccisi quelli che vollero resistere.

Però la mina avea fatto molto fracasso e poco danno, vuoi perché fosse la polvere insufficiente o pure mal collocata. I giornali clericali e i governativi italiani (che vuol poi dire lo stesso) assicurano: che solo la musica dei zuavi, composta d'Italiani era volata per aria e che gli stranieri, specialmente raccomandati alle efficaci preghiere di Sua Santità, erano stati miracolosamente salvi. Forse perché gli Italiani, hanno la fortuna di non essere più l'oggetto delle preci della negromanzia!

Il fatto sta, che pochi furono i mercenari morti e gli altri, usciti dalle caserme ed ordinatisi, incominciarono un fuoco d'inferno contro il popolo inerme.

Sulla caserma si dirigeva Cucchi coi suoi luogotenenti Bossi ed Adamoli ed alla loro voce e col loro esempio la gioventù romana si precipitava furibonda contro i mercenari stranieri. Era una lotta a corpo a corpo di gente per la maggior parte inerme, che s'avvinghiava ai soldati di mestiere e cercava di strappar loro le armi. Ma i mercenari erano molti. L'oro e i sussidi del Bonaparte erano stati potenti. Un gran numero di soldati francesi, sotto l'assisa degli zuavi pontifici da molto tempo per Civitavecchia aveva presa la via di Roma.

I mezzi che i paolotti, gesuiti, reazionarii avevano inviato al papa da tutte le parti del mondo erano immensi. Si aggiunga a tutto ciò gran numero di fanatici, preti e monaci che coll'abito di mercenari(96) frammischiati ai soldati papalini, li eccitavano all'eroismo delle carneficine promettendo loro in ricompensa la gloria del paradiso oltre alle ricompense di molto oro e quant'altro potevano desiderare.

Povero popolo di Roma!

E chi dobbiam contar noi sotto quella denominazione quando si sia detratto tutto quanto v'era di popolo pretino? Togliete Papa, cardinali, monsignori, preti, frati, accumulati lì, dell'intiero globo, con donne, con servitori, con cuochi, con cocchieri e con parenti di cuochi, di servi, di serve, delle loro donne e con una massa di popolazione operaia vivente alle spese di questa ricchissima ciurmaglia, ciò che resta meritevole del nome di popolo, che non appartiene al negromantismo, sono alcune famiglie oneste del medio ceto, pochi barcaiuoli e pochi mendichi.

Nella campagna, ove l'ignoranza mantenuta dal pretismo ha gettato ancor più forti radici, la gente parteggiava per il clericume in tutta l'Italia, massime nella campagna di Roma ove tutti i padroni son preti od amici potenti dei preti.

Mentre Cucchi co' suoi prodi compagni sosteneva alla testa del popolo un'eroica ma disuguale pugna nei dintorni della caserma degli zuavi, Guerzoni e Castellazzi, guidando un drappello di giovani aveano assaltato porta S. Paolo, disarmato alcune guardie ed incamminanvansi fuori ove dovevasi trovare un deposito d'armi. Le armi vi erano veramente ma padroni di quelle armi si trovavano già forti nerbi di truppe e birri pontifici con cui i nostri valorosi amici dovettero pure sostenere un disugualissimo combattimento e finalmente disperdersi perseguiti dall'accanita sbirraglia.

CAPITOLO LXXIII CORRUZIONE DELLE GENTI

Quando si pensa alla depravazione a cui hanno condotto le genti questi due ultimi abbominevoli governi d'Italia coll'oro del popolo e della reazione mondiale, è cosa da fare spavento!

Dalla posta vi arrivano le lettere insignificanti dopo d'esser state aperte dalla polizia, ma nessuna di quelle che contengano ombra di politica giunge fino a voi. I segreti di famiglia e d'amicizia difficilmente rimangono inviolati dalla gran calca di spie, coll'abito sacerdotale o laico, che infestano questa società corrottissima.

In fine si potrebbe asserire senza pericolo di allontanarsi dal vero: che la metà del popolo vive faticosamente ed a stento pagando le intemperanze e le scelleraggini dei governi.

L'altra metà è pagata grassamente dai suddetti governi per opprimere, combattere e spiare la prima.

Se sieno questi governi conformi alle aspirazioni nazionali verso il bene lo lascio giudicare dalle nazioni che ponno guardare pacatamente dal di fuori all'infelice condizione d'Italia.

CAPITOLO LXXIV IL ROVESCIO

Gli eroici Cairoli ed i loro compagni pagavano col loro sangue il sublime loro patriottismo e la generosa solidarietà cogli insorti Romani. L'alba del 24 ottobre, piovosa, fosca, malinconica, foriera di nuove sventure Italiane, rischiarava la infantile e nobile fisionomia di Enrico, il nuovo Leonida, del fratello suo Giovanni, e di molti altri di quella stupenda brigata. Il primo, morto col sorriso del disprezzo sulle labbra per la bordaglia che gli avea combattuti, dieci contro uno; Giovanni, quasi mortalmente ferito accanto al cadavere dell'amatissimo fratello e tutti gli altri di cui la storia registrerà i gloriosi nomi, morti o malamente feriti

Pochi furono i superstiti dei valorosi settanta e quei pochi lasciarono il campo per riunirsi ad altri fratelli che pugnavano nello stesso tempo contro le orde straniere fuori delle mura di Roma.

L'impresa di Guerzoni per impadronirsi delle armi esistenti fuori di porta S. Paolo da lui condotta coll'intrepidezza spiegata in cento combattimenti era fallita per l'ovvia ragione che la gioventù Romana sotto a' suoi ordini non avendo armi, fu costretta di sottrarsi ai colpi dei mercenari e disperdersi. Lui e Castellazzi dopo molte prove di valore e di risoluzione disperata furono trascinati dallo sbandamento del popolo ed obbligati di appiattarsi per aspettare una nuova opportunità d'insorgere.

Cucchi, Bossi, Adamoli, alla testa del loro nucleo di popolo fecero prodigi di valore, e s'impadronirono di una parte della caserma degli zuavi armati di soli revolver e coltelli. Vi furono delle pugne tra popolani e papalini, ove coi denti, in mancanza di altre armi, furono sbranati i nemici.

Ma qui pure bisognò cedere al numero, alla disciplina ed alla superiorità delle armi e qui pure il chiarore dell'alba del ventiquattro, presentò ai passeggieri impauriti un mucchio di cadaveri e di morenti da far raccapriccio.

Ecco in qual modo si consolidava il trono crollante dell'angelico, raffermato nella strage dei poveri Romani operata dalla schiuma di canaglia di ogni nazione, sostenuta dalle baionette dei soldati di Bonaparte.

CAPITOLO LXXV ULTIMA CATASTROFE

"Pronti ragazzi!" sciamarono quasi ad una voce Orazio, Attilio e Muzio. "Pronti!" e quest'ultima voce non era ancor pronunciata quando una valanga di papalini irrompeva contro il portone del lanificio.

Di dentro s'eran smorzati tutti i lumi in modo che i birri, veduti dai nostri, non potevano scorgere particolarmente nessuno dei figli della libertà. Così i primi che si attentarono di varcare la barricata caddero col cranio fracassato dalle terribili scuri di Orazio e di Muzio, dallo spadone d'Attilio e da altri istromentì di difesa adoperati dai loro valorosi compagni.

Però una perdita ben importante soffrirono i nostri in quel primo assalto benché respinto: una palla di revolver avea trafitto nel cuore il valoroso Orazio mentre, rovesciati colla scure i primi assalitori, disdegnando combattere al coperto aveva sporta la persona al disopra della barricata per raggiungere nuovi nemici.

Il principe della campagna romana cadeva, come la quercia della foresta sotto la scure e la robusta sua destra stringeva ancora la propria arma benché fosse già morto.

"Irene!" fu l'ultimo suo pensiero e l'accento che ultimo uscì dalle sue labbra. Ed Irene sentì l'anima trafitta da quella voce morente!

Quantunque le tre donne non prendessero parte alla difesa del portone pur stavano a poca distanza da coloro il cui palpito batteva nel lor proprio cuore.

Irene giunse la prima, ove la voce del diletto della sua vita la chiamava e, visto Orazio che era rimasto giacente sopra alla barricata, la bella donna, incurante del proprio pericolo, volle salire pur essa, ma cadde colpita nella bellissima fronte da una palla de' moschetti che i mercenari dopo il loro insuccesso sparavano rabbiosamente nel vuoto del portone.

Lascio pensare con che animo i due amici ancor vivi e le loro care facessero trasportare nell'interno quelle salme preziose. Infelici forse più i superstiti che gli amici estinti.

Intanto il lanificio era divenuto un carnaio poiché riuscivano inutili le ammonizioni dei capi ai popolani affinchè si tenessero al coperto.

Vi sono dei momenti di parossismo durante la pugna nei quali la morte perde tutto il suo orrore e ammiri tale che sarebbe fuggito dinanzi ad un cavaliere disarmato, non far caso di una grandine fitta di fucilate che lo prendono a bersaglio.

Accadeva così a quei poveri e valorosi operai. Non vedevano più il gran numero di truppe che li accerchiavano, non la moltitudine di coloro che sparavano contro il portone. Andavano di su e di giù per tutti i versi e senza precauzione, e si facevano miseramente ferire e inutilmente. Così il numero dei difensori diradava ed aumentava quello dei cadaveri e dei feriti.

Attilio e Muzio presentivano il loro fato ed erano risoluti di affrontarlo colla pienezza del loro eroismo. Ma Clelia! ma Giulia! perché dovranno morire anche esse? Così giovani, così belle...?

"Va Muzio, - diceva Attilio, - persuadile finché c'è tempo ad uscire dalla parte di dietro dello stabilimento e mettersi in salvo. Di' loro che noi le seguiremo più tardi".

Colle sue ultime parole il generoso romano mentiva, perché ben sapeva che mai le avrebbe seguite. Egli aveva già assaporata la voluttà del martirio e non l'avrebbe ceduto al prezzo di un impero.

Ma chi è piombato là in mezzo quasi per miracolo arrampicandosi per una finestra come uno scoiattolo? Chi può essere che cerchi di entrare in quel finimondo negli ultimi e luttuosi momenti? il nostro lettore forse lo indovina.

John! il bravo John salvato dal naufragio da Orazio a cui s'era legato con singolare affezione. Avendo avuto parte in tanti successi dei nostri eroi il piccolo John aveva ottenuto il privilegio di lasciare lo Yacht a Livorno, o dove meglio gli piacesse, a dispetto del capitano Thompson ed anche dell'Aurelia e venire a passare alcuni giorni co' suoi amatissimi amici e la sua signora.

Egli era già in Roma durante questi ultimi tremendi avvenimenti e aveva bravamente affrontata la mitraglia sul ponte e s'era poi col popolo ritirato nel lanificio. Di qua però era immediatamente partito, perché Giulia, lo aveva inviato a cercar notizie del come andasse l'insurrezione sugli altri punti di Roma. Ora tornava e noi lo sappiamo con novelle tristissime. Nella sua qualità d'inglese e coll'elasticità che lo distingueva egli aveva assistito a quasi tutte le pugne e coi propri occhi s'era reso certo dei resultati infelici.

Attilio e Muzio ben conoscevano, come dissi, la sorte loro serbata e sapevano pure essere quasi impossibile che le donne potessero uscire dalla parte posteriore del lanificio. Per tentarlo esse avrebbero avuto bisogno della lestezza ed agilità del giovane marino seguendo, nell'uscire, la via aerea ch'egli aveva trovata per giungere nell'interno.

Alle esortazioni che avevagli fatte Attilio così Muzio rispose: "Io dirò alle donne tutto quello che vuoi. Ma credo in prima impossibile che oramai si possano mettere in salvo poi ritengo per fermo che anche potendolo non lo vorranno".

CAPITOLO LXXVI IL SOTTERRANEO

Fra gli operai superstiti che si trovavano alla difesa del portone si scorgeva un canuto. Questi prestava orecchio alla conversazione dei due capi e alle ultime parole di Muzio intervenne, dicendo: "Se vi preme ritirarvi da questo luogo e salvare voi e le donne vostre io conosco un andito segreto che vi condurrà certamente fuori di pericolo".

Un barlume di speranza, la speranza di salvare quelle carissime creature, balenò alla mente dei due amici i quali, non essendovi tempo da perdere giacché i nemici si preparavano ad un nuovo assalto, vollero tosto seguire il provvidenziale consiglio del vecchio operaio.

Muzio si avvicinò a Giulia e Clelia che non erano lontane e mettendo innanzi la condizione, che Attilio e lui le avrebbero seguite nel sotterraneo dove toccava loro come capi a scendere gli ultimi e non i primi, giunse a rimoverle dal loro ostinato diniego. Così fu stabilito che s'inoltrassero nel sotterraneo sotto la scorta del vecchio Dentato e di John. Le altre donne seguirebbero la marcia e per ultimi i nostri amici con quanti restavano ancora dei difensori del lanificio.

E i feriti? Se vi è una circostanza disgustosa, odiosa, terribile in questi macelli d'uomini che si chiamano battaglie, essa è certamente quella di dover abbandonare i propri feriti al nemico!

Poveri feriti! In un istante i volti dei vostri amici, dei vostri fratelli che vi compiangevano e vi assistevano con tanta amorevolezza spariranno! e al lor posto verranno i ributtanti, orridi, millantatori ceffi dei mercenari, che secondo la lor scellerata natura, infrangendo ogni diritto di guerra e delle genti, vorranno bagnare le negromantiche baionette nel sangue vostro prezioso!

Codardi! loro che fuggirono davanti a voi; loro, cui concedeste generosamente la vita(97) sorretti ora da ventimila soldati del due Dicembre si son rifatti arditi e, perversi!, hanno dimenticato che vi devono l'infame loro esistenza!

In S. Antonio (America) eran pur italiani che pugnavano contra soldati del despotismo! e molti e moltissimi furono i feriti! Là sugli omeri dei fratelli e sui cavalli si dovevano trasportare i feriti ed uno solo vivo(98) non rimase nelle mani dei cannibali di Rosas.

E sono forse da meno i cannibali del prete? Nella stazione di Monterotondo dove dopo il glorioso assalto del venticinque Ottobre giacevano tre feriti in attesa del convoglio che li trasportasse a Terni giunsero i soldati del papa e, degni seguaci degli inquisitori, si divertirono a trucidare quegli infelici nostri compagni a colpi di baionetta e col calcio dei fucili(99).

Oh! Italiani! non lasciate mai in poter del nemico i vostri feriti! È troppo miserando spettacolo! Se non verranno macellati rimarranno esposti per lo meno agli scherni ed alle beffe di chi sciaguratamente è assuefatto a disprezzare l'Italia!

Attilio e Muzio, stanchi e piagati, non vollero abbandonare i feriti all'insulto ed al ferro dei soldati pretini.

Nel sito più basso del lanificio, all'estremità d'un immenso lavatoio per la lana scorgevasi una porta di quercia massiccia, la quale sembrava a primo aspetto dover dare sul canale delle acque, canale che probabilmente andava a sboccare nel Tevere parte del Tevere egli stesso. E il canale esisteva davvero, ma la porta metteva invece in un sotterraneo, a traverso un ponte costrutto sul canale stesso.

Per quel sotterraneo cominciò a difilare la pietosa processione di donne, di feriti e d'assistenti quando ogni speranza, non di vincere, ma anche di resistere, era venuta meno.

Ma nella città pretina, colla corrotta miserabile educazione della menzogna e dell'ipocrisia, troppi sono i traditori ed un traditore vi fu che gettando uno scritto da una finestra mentre scendevano i popolani, avvertiva gli sgherri della ritirata dei difensori.

L'assalto allora non venne più a lungo differito. Una moltitudine sempre crescente di mercenari e di birri s'avventò sulla barricata del portone e lo invase mentre ben pochi eran rimasti i difensori.

Attilio e Muzio, se, più amanti della propria salvezza, dati si fossero alla fuga, forse avrebbero potuto salvare la vita ma!... erano troppo disdegnosi quei due veri romani e non fuggirono! ed arrestarono per un pezzo combattendo disperatamente a corpo a corpo l'irrompente ciurmaglia.

Dei nemici ne furono molti abbattuti, e un mucchio di morenti e di cadaveri attestava l'eroismo della disperata difesa. Però gli eroi, come i codardi hanno una vita sola! e troppi eran gli assalitori onde alla fine l'uno accanto all'altro esalarono l'ultimo sospiro anche i due valorosi campioni della libertà Romana!

Dentato, il canuto operaio che aveva assistito a quest'ultima pugna, vedendo ogni speranza svanita, pratico come era del sito, col favore delle tenebre guadagnò il lavatoio, poi il sotterraneo e chiuse su quella scena di sangue la porta di dentro e la sbarrò come poteva meglio.

Gli assassini stipendiati dal prete altro incentivo non avendo che la depredazione e la strage innondarono colla speranza di bottino ogni parte del lanificio che più oggetti conteneva da rubare non curandosi del sudicio lavatoio donde eran fuggiti i superstiti difensori della libertà italiana. Ma il mattino vedendo che lo stabilimento altro non conteneva che cadaveri venne loro il dubbio della sotterranea fuga.

Cercarono, frugarono e trovarono finalmente la porta salvatrice ma il tempo trascorso, quello impiegato nell'abbattere le sbarre e il tempo per organizzare un'entrata regolare e cauta nelle tenebre diedero agio ai fuggitivi di mettersi in salvo dalla persecuzione.

Nei primi di Novembre 1867 scendevano alla stazione di Livorno tre donne, un vecchio ed un garzone sul fiore degli anni.

Con quella dolente famiglia stava una di quelle figlie di Albione che, quantunque mestissima e vestita a lutto, vi avrebbe fatto sentire la beatitudine della vita con un solo suo sguardo.

La sua dama di compagnia, non men bella, non meno mesta, mostrava nei lineamenti del volto quella squisitezza donnesca che Raffaello aveva amato nella Fornarina.

La terza pure di quelle donne era bella. Ma!... la sventura le avea troppo palesamente solcata la fronte e cert'arìa quasi di demenza si discerneva sul suo viso.

Il canuto, che Giulia non avea voluto abbandonare alla miseria, badava al bagaglio.

John, colla disinvoltura dei suoi tredici anni, dava mano alle donne nello scendere dal convoglio; poi, avendo scoperto il capitano Thompson con l'Aurelia che erano là ad aspettarli, d'un salto fu nelle braccia di lei che lo amava come un figlio quantunque lo giudicasse un po' troppo biricchino.

"Li ho baciati cadaveri!" mormorò John alla matrona ed una lagrima rigava la rosea guancia del biondo figlio della Britannia. Egli accennava ad Orazio ed Irene che tanto lo avevano amato ed eran stati i suoi salvatori.

L'abbracciarsi delle donne fu scena di pianto che l'una versava sul seno dell'altra senza poter pronunziare una sola parola.

Dopo avere assistito a quella muta scena per un pezzo, lui pure intenerito, il buon capitano Thompson, alzò il capo e dirigendosi alla sua signora in inglese le disse:

"Lo Yacht è là al molo che aspetta i vostri ordini se mai desiderate andare a bordo".

"Sì, Thompson, a bordo, e metteremo alla vela subito per uscire d'Italia. È una terra, come dice Alfieri, ove la pianta uomo nasce più robusta che dovunque e gli stessi atroci delitti che vi si commettono ne sono una prova". Non molto tempo dopo lo Yacht veleggiava superbo verso la merry England(100).

Giulia, tornata nella terra natale, continuò le sue affettouse cure alla nuova famiglia alla quale non tardarono a riunirsi Manlio e Silvia rimasti fino allora nella Solitaria e giurò che non tornerebbe tra questo popolo infelice se non quando Roma, libera dalla peste pretina, le permetterebbe d'innalzare un monumento al diletto del suo cuore ed ai suoi eroici compagni.

APPENDICE GLI ULTIMI EPISODI DEI VOLONTARI FATTI ISTORICI ACQUAPENDENTE - MONTE LIBRETTI - VEROLA MONTEROTONDO - MENTANA

Brevi ma sanguinosi furono gli ultimi episodi della vita militare dei volontari italiani allo scorcio del 1867.

Fatti eroici di molti prodi lì segnalarono; ed un assalto che le tenebre della notte coprirono, e che fu degno del più splendido sole. Se ne ricorderanno i mercenari del prete che chiesero impauriti la vita dopo che s'erano macchiati contro i loro vincitori con atti infami da veri vandali quali sono e saranno sempre.

Se la mia penna troppo sovente s'intinge nel fiele e se sovente si tempera non col gentile temperino ma coll'acuto triangolare, terribile pugnale del carbonaro, ne ho ben donde!

E chi potrebbe contemplare impassibile, questa terra benedetta da Dio, così maledetta dagli uomini?

Chi potrebbe mirare indifferente gli sforzi d'una nazione infelice, ma generosa, annientati da una caterva di epuloni traditori che con inaudite nefande scelleraggini vendono per il loro personale interesse, la terra ove nacquero, il popolo che li sorregge de' suoi averi e del suo sangue, a spregevole tiranno straniero?

Il papato! Quel cancro del corpo italiano è all'agonia. L'Italia intiera ha compreso che non c'è vita, non prosperità possibile con quell'inferno di vivi(101) (1). Da tutti gli angoli della penisola si alza una voce di entusiasmo, di giubilo, per il prossimo esterminio del mostro. Privati, Municipi, stranieri, amici contribuiscono con ogni mezzo a sovvenire la schiera dei liberatori. Finalmente! la terra italiana sarà lavata da tanta lordura!

La gioventù coraggiosa si accalca nelle file degli iniziatori per aver parte nella gloria. Acquapendente, Monte Libretti, Monterotondo echeggiano dell'inno della vittoria che i valorosi italiani riportarono sui mercenari stranieri. L'Agro Romano è sgombro dall'infesta loro presenza. I ponti che conducono alla città eterna saltano in aria allo scoppio delle mine e preti e mercenari e birri dopo avere barricate le porte si rintanano impauriti e tremanti dentro Roma.

Era finita! Il mondo intiero salutava festante i giovani redentori dell'umanità oppressa, ingannata, tradita per tanti secoli! Ma...

Ma!... a Parigi e a Firenze congiuravano i fautori delle sciagure de' popoli, i sostenitori della ingiustizia, della menzogna. Gli uni apparecchiavano le navi e le soldatesche, gli altri più perversi e più codardi, gettavano tra il popolo tradito la paura, la diffidenza e, nelle file dei vincitori degli sgherri, la corruzione e lo sconforto.

Mentana fu il risultato di tante mene scellerate!

Dopo avere gettato Io sconforto nelle schiere dei volontari, impedito che soccorsi loro giungessero, disarmato coloro che potevano esserlo senza pericolo, (perché ognuno di questi tradimenti si fece colla viltà che caratterizza sempre il gesuitismo governativo), dopo avere ingannato il paese e l'esercito coll'occupazione di alcuni punti del territorio romano, col mentito pretesto di arrestare l'invasione francese; privato i volontari delle poche munizioni che si fabbricavano per loro nei generosi paesi di confine, eccitato alla diserzione molte migliaia di loro, dopo tutto ciò, si preparava Mentana.

E Mentana poteva riuscire un secondo Trenta aprile(102) ad onta di tante circostanze a noi sfavorevoli. A Mentana, io ho veduto i mercenari fuggire colle baionette alle reni dai nostri catenacci(103), senza munizione, fuggire davanti ai nostri giovani militi. A Mentana, per un'ora, i volontari hanno potuto passeggiare padroni del campo di battaglia sopra mucchi di cadaveri nemici.

Ma a Mentana dopo l'eroismo di tanti prodi caduti e mutilati sul campo si udì risuonare in mezzo ad una folla di traditori codardi la voce "duemila francesi hanno attaccato la retroguardia!" e quella voce divenne persistente, e quella voce ebbe colore di un fatto positivo talché a me stesso fu assicurato da gente che veritiera mi sembrava, coll'aggiungervi: "gli ho veduti".

Maledizione! Fino a che punto può giungere la perversità umana! e quale lezione per l'italiana gioventù!

Quei vittoriosi militi piegano in ritirata!... né odono più la rauca mia voce e quella dei prodi miei ufficiali!...

Ricordiamola questa recente storia: poi ditemi come si fa a non intingere la penna nel fiele, a non temperarla col pugnale!

RIEPILOGO IL PANDEMONIO

Chi potrà negare: essere questa Italia un pandemonio?

Eppure! ove si trova un paese più favorito dalla natura: con un cielo unico, un clima stupendo, produzioni variatissime ed eccellenti, popolazioni vivaci e d'intelligenza non superata da altri popoli, soldati che sarebbero senza dubbio i primi del mondo, se fossero ben diretti, marinari non secondi a nessuno?

E tutti questi vantaggi, tutti questi favori della natura sono annientati dalla connivenza, dal mutuo accordo de' preti con un pessimo governo.

Voi trovate miseria, ignoranza e debolezza, umiliazione allo straniero ove dovreste trovare abbondanza, sapienza, forza e fronte alta contro ai prepotenti.

Un governo avvilito, impopolare, invece di organizzare un esercito nazionale che potrebbe stare a fronte dei primi eserciti del mondo si contenta, agglomerando carabinieri, a guardie di sicurezza e di finanza di ridurre l'arte di governo a sprecare il denaro della nazione in spaventose spese segrete.

Una marina che potrebbe gareggiare colle più floride è ridotta al punto da far compassione per non volerla mettere in mano a gente onesta e capace.

E Marina ed Esercito se ne udite gli ufficiali: non sono capaci a far la guerra a chicchessia e solo si adoprano a reprimere le aspirazioni nazionali, ad appoggiare gli atti repressivi e liberticidi del governo.

I DUE TRADIMENTI

Due tradimenti abbominevoli furono perpetrati da questo inqualificabile governo nel breve periodo che corse da ottobre a novembre 1867, circa alla questione Romana.

Profittando della mia relegazione a Caprera ed ingannando come sempre tutto il mondo, il governo fece assicurare dai nostri stessi amici i Romani che bastava tirassero poche fucilate anche all'aria peché l'esercito italiano marciasse immediatamente su Roma.

Ed i Romani, poveretti, fecero le fucilate, mandarono all'aria una caserma di zuavi e combatterono senz'armi nelle vie delle città, e fuori, come poteva combattere un popolo in quelle tristissime condizioni.

Ma questo Governo ingannatore pensò forse a far muovere un solo soldato italiano alla volta di Roma?

Così furono sacrificati gli eroici Cairoli e i loro compagni, così un numero grande di cittadini romani cadeva sotto le baionette dei mercenari stranieri o riempiva le orride prigioni del prete.

Non meno abbominevole fu il tradimento operato contro i volontari.

Mentre si prometteva: che allo sbarco del primo soldato francese l'esercito marcerebbe su Roma, il Governo per ingannare il paese occupò alcuni punti (!) del territorio Romano e guarnì la frontiera d'un numero considerevole di truppa, ma per disarmare i volontari come successe ad alcune compagnie e per chiudere loro tutte le vie acciocché nessun sussidio potesse più giungere dai loro fratelli e dai comitati di soccorso. Così isolati, i volontari e privi d'ogni soccorso, massime dell'essenziale, le munizioni, che si sapeva che mancavano; avendo il Governo ed i preti coi mezzi gesuitici che loro soli conoscono gettato lo sconforto e la demoralizzazione tra quei giovani militi ne seguì poi l'esecuzione dell'infame e diabolico divisamento di distruggerli.

Occupata Roma dai francesi e parte del territorio romano dalle truppe del Governo, l'esercito pontificio in massa potè liberamente operare contro i volontari. Ma siccome i mercenari pontifici erano impauriti dalle recenti sconfitte non osavano da soli affrontare i nudi e male armati militi della libertà. Si decise di far sostenere i soldati del papa dall'esercito francese.

Il Governo di Firenze, non credette necessario di aver la sua parte di gloria nel combattimento di Mentana, aggiungendo le sue truppe agli alleati, oppure credè con ragione che il popolo italiano non avrebbe tollerato tanto cumulo di scelleragginì che così brutto governo avrebbe certo consumato senza rimorso. Per questo s'accontentò di privare i volontari dei loro naturali soccorsi, gettare la diffidenza e lo sconforto nell'animo dei nostri giovani ed impressionabili militi, e coll'arma al braccio fece assistere l'esercito nostro, il fiore della nazione italiana, all'eccidio di italiani.

Ben tornò ai soldati del papa l'esser sostenuti da quelli di Bonaparte, poiché essendo cominciato il combattimento di Mentana alla una p. m. del giorno tre novembre tra papalini e volontari dopo due ore di accanito combattimento i mercenari avevan piegato su tutta la linea ed i nostri marciavano sui loro cadaveri inseguendo i fuggenti.

Ma la nuova linea degli imperiali, sopraggiungendo e trovando le nostre giovani milizie in quel disordine, ben naturale a gente poco disciplinata, in tale circostanza le obbligarono a retrocedere

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Così si compivano due osceni ed esecrandi tradimenti, ai quali riscontro non può offrire alcuna pagina della storia del mondo.

(1) Proverbio, detto.

(2) La Clelia Romana del tempo di Porsenna.

(3) I trasteverini si credono pura stirpe degli antichi Romani.

(4) Pio IX (N.d.c.).

(5) Antinoo, giovine di celebre bellezza favorito dell'Imperatore Adriano.

(6) Celeber.

(7) Roma ch'ebbe in passato due milioni di abitanti, ne conta ora appena 210 mila.

(8) Preveduto (N.d.C.)

(9) I 72 Cardinali son chiamali così dal popolo di Roma.

(10) Antico foro Romano. Che trasformazione d'un nome sì glorioso!

(11) Come può essere diversamente con un clero ricco ed una popolazione povera?

(12) Il Tempio dì S. Pietro.

(13) Il modello e la modella sono professioni apprezzate in Roma, terra classica di pitture e sculture.

(14) Se e come sia necessario (N.d.C.)

(15) Si può vedere una Via Crucis nel Colosseo e pieno di mitre, l'augusto tempio di Michelangelo.

(16) Il Mosè di Michelangelo Buonarroti nella chiesa di S. Pietro in Vincoli.

(17) Ciceroni si chiamano in Roma coloro che conducono gli stranieri a visitare i monumenti, l'opere dell'arte e le ruine e ne fanno spiegazioni più o men bene.

(18) Buffone deforme nel campo dei Greci all'assedio di Troia.

(19) Felice Orsini giustiziato a Parigi per aver attuato un sanguinoso attentato alla persona di Napoleone III il 13 gennaio 1858

(20) Tutta la Campagna di Roma appartiene oggi a pochi Monsignori e prelati che l'abbandonano per immergersi nelle crepule della capitale.

(21) Sottinteso: "il potere" (N.d.C.).

(22) Inventore dell'Inquisizione.

(23) Uno dei più feroci inquistori di Spagna.

(24) Piccola brezza.

(25) Spesso durante un temporale sul davanti delle navi si forma una specie di meteora giallo-azzurra che somiglia un arco baleno infocato.

(26) Orzare significa avvicinare la direzione della prora all'origine del vento.

(27) Corde o catene colle quali si tengon sospese le àncore alla prora.

(28) Drizze; corde con le quali si alzano le vele.

(29) Vele principali del Yacht.

(30) Vela triangolare di straglio.

(31) Vela triangolare sull'estremità della prora.

(32) Cioè vento che veniva dalla sinistra.

(33) Orientare vuol dire colle vele ed ogni cosa preparate a' temporale.

(34) Dalla parte dove viene il vento.

(35) Un colpo di mare che si frange sulla coperta d'una nave può portare via la gente che non si trova ben tenuta ed anche i timonieri.

(36) Prendere direzione.

(37) In quasi tutte le coste del Mediterraneo vi sono torri di guardia, che servivano al tempo dei pirati barbareschi per dar avviso delle loro apparizioni.

(38) Bevanda fatta d'acquavite o rhum allungata con acqua.

(39) Paese dell'oro.

(40) Seguaci di Pittagora che s'imponevano l'obbligo di non mangiare altro che vegetabili.

(41) Zama in Africa ove Annibale fu disfatto da Scipione.

(42) Nerone un giorno fece metlere fuoco a Roma per godere lo spettacolo dell'incendio dall'alto del suo Belvedere.

(43) Lucullo fu uno dei generali romani che maggiori conquiste ebbe a fare nell'Asia.

(44) Tar, marinaro in inglese.

(45) Tarpeo: Rocca donde i Romani precipitavano i rei. Campidoglio: Palazzo di governo degli antichi. Arco di Severo: Magnifica ruina che s'incontra entrando nel campo Vaccino, che fu edificato da Settimio Severo Imperatore.

(46) Libertini, nome che i preti danno ai liberali.

(47) Li ho veduti io, marciare alla testa degli Austriaci contro di noi.

(48) Antico diritto feudale sui matrimoni, un po' osceno a narrare.

(49) Privati cittadini (N.d.C.).

(50) Il Lazio, i suoi abitatori, e le sue città. Tradizioni sui primi tempi di Roma, i re, la rivoluzione e la guerra ai tiranni. (Atto Vannucci, Cap. I)

(51) Nome dei moderati.

(52) Amore celeste; vero amore dell'anima. Gli antichi lo distinguevano dal sensuale.

(53) Dio salvi la Regina e Britannia regge le onde.

(54) Secondo il comando.

(55) Albero inclinato sul davanti della nave.

(56) Termine di mare.

(57) Da prora, davanti.

(58) In tempo di fame non c'è pan duro.

(59) Storico.

(60) Muzio Scevola.

(61) Voto a Dios, Caramba, giuramenti spagnuoli.

(62) Non più libertino come prima ci chiamavano i preti.

(63) Manzoni.

(64) Genova particolarmente che ha la prima marinerìa dell'Italia non ha un Yacht. Eppure v'è della ricchissima gente in quella capitale della Liguria.

(65) Storico.

(66) Piccoli trabaccoli o barche.

(67) Era un coraggioso Maggiore dell'isola della Maddalena che a qualunque costo, avea voluto seguire il Solitario. Lo avea seguito in America e poi di là in Italia inseparabilmente.

(68) Aveva tredici anni.

(69) Bernieri, Maggiore e fotografo a Torino.

(70) Lamartine.

(71) Diritto dei signori feudali, come già dicemmo, altrimenti chiamato diritto della prima notte, che gli sposi vassalli dovevano subire, o redimere a danaro, a beneplacito del signore.

(72) Il più piccolo degli uccelli, variopinto, che succhia il polline dei fiori come l'ape. Molti ve ne sono nell'America tropicale.

(73) Comio, gomito, forza Giovanni Battista.

(74)In questa fucina di servilismo che si chiama Italia, ad ogni passo si devono ricordare le glorie dei tiranni.

(75) Napoleone III (N.d.C.)

(76) Si dice il Bonaparte III figlio di un Ammiraglio Olandese.

(77) Così Guerrazzi chiama i moderati.

(78) I 72 cardinali - bestemmia dei Romani.

(79) Storico.

(80) Ruota. I lettori conosceranno senza dubbio quella cassa cilindrica, in cui si depongono le creature abbandonate, dalla parte di fuori degli orfanotrofi, e poi si girano dentro.

(81) Tieni ben conto lettore di quell'aiuto di Dio ed aiuto del Signore che questi sacrilegi invocano ad ogni momento, facendo complice loro l'Onnipotente e l'infinito!

(82) Che coraggio! Che costanza! Povere vittime infelici!

(83) Ed anche ciò si chiama disciplina negli eserciti di tutte le età.

(84) Che depravazione! Che sacrilegi!

(85) Documento tolto alla Favilla, giornale di Mantova.

(86) È veramente il Carnefice, il Dio dei preti.

(87) Documento tolto alla Favilla, giornale di Mantova.

(88) Specie di misura romana.

(89) Accidenti, come già dicemmo, è imprecazione frequente in bocca al popolo romano.

(90) Americano del Nord

(91) Stamboul, Costantinopoli.

(92) Nome con cui sono conosciuti i Greci in Levante.

(93) Era il nome del Casino sul monte S. Giuliano e che venne occupato dai settanta.

(94) Si facevano ascendere a diecimila i patriotti arrestati in Roma in quest'ultimo movimento, dal paterno Governo dell'angelico.

(95) Mitraglia tonda.

(96) Di costoro se n'eran trovati in Monterotondo coi zuavi prigionieri.

(97) A Monterotondo, dopo che avevano vigliaccamente fucilato il Maggiore Testori, il quale era andato parlamentare con loro con bandiera bianca.

(98) È doloroso confessarlo, un ferito gravemente fu ucciso per non lasciarlo ad essere sgozzato dall'efferato nemico.

(99) Storico.

(100) L'allegra Inghilterra.

(101) Petrarca.

(102) Roma 1849.

(103) Cattivissimi fucili.