In basso: edizion ELTeC Barbieri, Ulisse (1841-1899) Conversion to TEI-Conformant Markup by Frangipane, Maria Chiara 50911

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In basso : romanzo 1885 Roma Casa Editrice A. Sommaruga SBL0416101

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ULISSE BARBIERI

IN BASSO

ROMANZO

PRECEDUTO DA UNO SCHIZZO

DI

EDMONDO DE AMICIS

ROMA

CASA EDITRICE A. SOMMARUGA E C

Via dell'Umiltà

1885

A

EDMONDO DE AMICIS

A te devo, se da qualche anno mi attornia tanta simpatia di pubblici; a te che grande e letto.... me non grande.... e da molti.... non letto, presentasti a' tuoi lettori, sostituendoli ai non miei!... con espansione d'amico ed ingegno d'artista.

Pubblicando oggi questo mio lavoro, mi valgo della tua presentazione ed a te lo dedico, sperando provarti, che qualche cosa.... de' tuoi consigli ritenni.

Tu che, di me parlando, tante cose.... mi perdoni, gradiscilo com'e, e se fosse una corbelleria.... mettila colle altre.

Tuo affezionatissimo

ULISSE BARBIERI.

ULISSE BARBIERI SCHIZZO DI EDMONDO DE AMICIS

Uscendo sere fa dal teatro Gerbino, dove si rappresentava con buon successo una nuova commedia di Ulisse Barbieri, intitolata Ronzii, sentii un tale che domandava al suo vicino:

- Insomma.... chi è questo Barbieri?...

E nel fare questa domanda, pigliava la Gazzetta d'Italia da un chiosco, coll'atto di chi piglia tutti i giorni il medesimo giornale, dal medesimo rivenditore. - Come!... - dissi tra me - questo signore non sa ancora chi sia Ulisse Barbieri?... - Ebbene, glielo dirò io, e glielo dirò appunto sulla sua Gazzetta. Ed ecco come e perchè mi trovo qui a tavolino a mezzanotte sonata, colla penna in mano e collo spettro di Ulisse Barbieri davanti. Alla maggior parte dei lettori della Gazzetta non occorre certamente che io faccia una regolare presentazione del personaggio.

È Ulisse Barbieri!... l'autore dei drammi terribili, per cui migliaia di ragazzi e di governanti balzan dal sonno esterrefatti; il sanguinario trionfatore delle arene; il più scapigliato ed il più temerario scrittore drammatico d'Italia. Ma la vera originalità sua non è tanto nelle sue opere drammatiche, quanto nella sconcordanza singolarissima che esiste in lui tra l'uomo e lo scrittore. L'uno è assolutamente l'opposto dell'altro. Il drammaturgo, che vive di delitti e sguazza nel sangue, è il più mite uomo, il più buon diavolaccio che esista sotto la cappa del cielo, tanto che a nessun amico suo, il quale sentisse i suoi drammi senza sapere che sono suoi, passerebbe mai per la testa che egli ne fosse l'autore. È una cosa strana, che merita d'essere spiegata.

Il Barbieri, nato a Mantova, commise a sedici anni la nobilissima imprudenza di attaccare ad una cantonata un proclama di fuoco, col quale eccitava i suoi concittadini ad insorgere contro gli Austriaci.

Lo arrestarono, gli trovarono in tasca uno scritto di Mazzini, lo condannarono a quattro anni di prigione, e li scontò dal primo all'ultimo: otto mesi nelle carceri di Milano, sedici mesi nell'ergastolo di Mantova, e due anni alla Giudecca di Venezia(1).

Nell'ergastolo di Mantova visse in comunione, come tutti gli altri condannati politici, con ogni sorta di malfattori, fra i quali c'erano degli assassini e dei ladri famosi che fecero una profonda impressione sulla sua fantasia giovanile.

Qui si deve cercare il primo perchè del suo «mondo artistico.»

Quanto più la sua indole era mite, tanto più quell'impressione doveva essere forte e durevole. È nata là senza alcun dubbio quella sua simpatia fantastica per i soggetti cupi e terribili, per i grandi facinorosi, e per la feccia delle infime classi sociali, che manifestò poi nella maggior parte de' suoi lavori: simpatia prepotente come tutte quelle che si contraggono nei primi anni, la quale fece forza alla sua natura e gli impedì d'esprimere sè stesso. Se questo non fosse avvenuto, io credo che Ulisse Barbieri non avrebbe scritto che idilii amorosi o commedie pacate e castigate ad uso degli istituti d'educazione.

Ma non sarebbe arrivato certamente, per questa via, alla fama vasta e rumorosa a cui arrivò per via dei delitti.

Ora non c'è arena d'Italia in cui non abbia sollevato una tempesta d'applausi o di fischi, non c'è cantonata di casa, da Susa a Siracusa, che non abbia portato l'annunzio d'uno de' suoi drammi spettacolosi; e non c'è forse un italiano che sappia leggere, eccetto il mio incognito di Torino, al quale il nome del Barbieri non faccia balenare alla mente la lama d'un pugnale o l'occhio stravolto d'un moribondo.

Egli non è a Torino che da pochi mesi, e già tutti lo conoscono o per il Carignano, o per il Gerbino, per un suo successo, o per una sua caduta, o per le sue cronache, o per le sue appendici.

Servì non poco a farlo conoscere un suo indescrivibile soprabito color cacao, ornato da due spaventevoli rivolte di velluto cioccolatte, la cui origine è un argomento di viva curiosità per i suoi amici. Anche la sua figura è notevole. È alto, snello: una figura di primo attore: di viso bruno, pieno di benevolenza. Anni sono, portava i capelli lunghissimi cadenti sulle spalle; ora li ha corti con qualche pelo bianco. Mettetegli sulla testa un cappelletto aereo e nelle mani un par di guanti che non si toglie mai, fuorchè a tavola e a letto, ed avrete il suo ritratto. Qualche volta si vede rientrare in città, reduce dalla caccia, con una grande bisaccia a tracolla e con un enorme bastone sul quale si rizza una grossa civetta arruffata e minacciosa come uno dei sinistri personaggi de' suoi drammi, e tutti dicono: ecco Ulisse Barbieri. Ma la sua vita non la conoscono bene che i suoi amici intimi e i capocomici. Ed è davvero una stranissima vita. Se un Mürger italiano scrivesse un'altra Vie de Bohème, il Barbieri avrebbe il diritto di esserne scelto a protagonista. La sua esistenza è un continuo pellegrinaggio. Egli è l'Ebreo errante della letteratura italiana. Non ha sede fissa. Vive dove si rappresenta un suo dramma o dove si pubblica un suo romanzo. Nessuno può dire d'aver viaggiato l'Italia quanto lui e d'averne viste di tutti i colori. Tutto ei provò!...

Può dire d'essere stato chiamato in palco alla rappresentazione del suo Lord Byron, dal principe Umberto, che gli regalò una spilla di brillanti, e d'essere un giorno arrivato a Napoli con cinque, ma proprio con cinque centesimi in tasca, senza sapere da che parte voltarsi per compire la lira.

Ricevette una lettera di congratulazione da Victor Hugo, e giocò le sue commedie al biliardo, atto per atto, con più d'un capocomico; riportò trionfi strepitosi e fece dei capitomboli unici nella storia del teatro.

Passò quattro volte, in certe annate, da una prosperità non mai sperata, al più vivo e fresco verde primaverile, offrendo alla stessa città lo spettacolo di quattro successivi travestimenti compiuti.... fatta eccezione dei guanti, i quali non seguono mai le vicissitudini della sua fortuna. Dagli onori del proscenio al monte di pietà, dalla stamperia alla gazzetta, dal salotto del letterato denaroso alla soffitta del collaboratore disperato, fu da per tutto e fece di tutto, fuorchè una bricconata. Perchè è un Bohème sì.... ma di purissima lega; capace d'ogni cosa.... sulle scene, perla d'uomo fuor di teatro ed indefessamente operoso, qualità molto rara fra i suoi fratelli in scapigliatura letteraria. Avrà forse già scritto un centinaio tra drammi e commedie. Non li ricorda tutti nemmeno lui. Pregato di farne un elenco, non accenna che i principali ed è amenissimo. Non solo non dimentica i grandi fiaschi, ma li enumera con la più amabile disinvoltura, con un sentimento quasi di compiacenza, come un veterano le sue ferite, persuaso che le grandi cadute non le fanno se non i lavori di grande ardimento.

Vi dice ingenuamente, sorridendo: - Mi hanno fischiato, sapete!... ma, dico, furiosamente, spietatamente fischiato!... Bisognava sentire. Pareva un uragano. Era uno spettacolo degno d'esser visto....

A Milano gli seguì un caso, che credo senza riscontro negli annali dei disastri drammatici. Furono rappresentati in tre sere consecutive, in tre teatri diversi, tre suoi diversi drammi: Il nano della strega al Re nuovo, Le storie moderne al Re vecchio, I ladri umanitari al Fossati, e fecero tutti e tre, dice egli stesso, tre così precipitose, così fragorose cadute, che fu costretto a scappare non solo da Milano, ma dalla Lombardia. Ma egli si rialza dai capitomboli con una elasticità di acrobata più sano e più ardito di prima, e mette subito mano ad un lavoro più vasto.

Nessuno argomento lo sgomenta, nessuna difficoltà artistica o storica lo arresta.

Se gli si dicesse ex abrupto: - Ulisse, fatemi un dramma in trenta atti da rappresentarsi in cinque sere, sul ventinovesimo re dell'ottantesima dinastia dei Kin-Kong-King, è capace di rispondere: - Ve lo do la settimana ventura - se pure non l'ha già fatto. Ha scritto l'Aida in una notte al caffè della stazione di Milano sopra una semplice relazione dal Cairo del Filippi, e si replicò diciassette sere. Ha messo in iscena Gesù Cristo, Giulio Cesare, Troppmann, Lohengrin, Adamo, Uraja, Barbara Ubrik, Verzeni, Lincoln, Booth. Ha colto a volo tutti i più strepitosi titoli per dramma che sono passati a traverso l'Europa da quindici anni a questa parte; anzi il più delle volte ha fatto il dramma per il titolo. E qualche volta ha fatto di più: ha inventato titolo e dramma per una semplice ragione di consonanza con un altro titolo. Fece, per esempio, Il frate di Segovia senza argomento preconcetto, unicamente per far eco alla Monaca di Cracovia (pure sua) che aveva avuto fortuna. Così per il titolo, fece: Ferreol II, La principessa visibile, Lo spettro bianco del castello rosso, e voleva scrivere, se non sbaglio, La donna che piange, dopo la pubblicazione del romanzo di Victor Hugo: L'uomo che ride. Immaginate pure i più bizzarri titoli del mondo: o se n'è già servito, o almeno ha già pensato a servirsene. Nessuno può suggerirgliene uno nuovo.

Un amico gli disse un giorno in un caffè, credendo d'aver fatta una trovata: - Barbieri, tu dovresti fare un dramma intitolato: La morte di Dio!...

- L'ho già ammazzato.... - rispose Barbieri. Aveva scritto l'Ateo, e lo voleva intitolare: La morte di Dio. Ma la bizzarria dei titoli è poca cosa in confronto de' suoi ardimenti scenici. Nei Drammi del Deserto, rappresentato alla Commenda di Milano, mise in iscena due leoni vivi del serraglio di Bidel; anzi scrisse il dramma apposta per i due leoni, che apparivano sul palcoscenico chiusi in una grande gabbia, nascosta da una foresta di bambù, e divoravano ogni sera due condannati a morte rappresentati da due cosce di cavallo; il tutto sotto la direzione del Barbieri, al quale un ruggito inaspettato d'uno dei due insoliti attori procurò l'ultima sera un'acclamazione frenetica. Una volta volle fare un dramma in cui uno dei personaggi principali doveva essere un morto imbalsamato, e nel Troppmann, non parendogli sufficiente l'orrore del fatto reale, ha dato al protagonista un complice che muore avvelenato e ubriaco. Il più curioso ancora sono gli incidenti, i piccoli episodi comici che si riferiscono a molti suoi drammi. Mi ricordo sempre, fra gli altri, del dramma intitolato L'assassinio di Abramo Lincoln, per una saporitissima nota che lessi anni sono accanto a questo titolo, scritta di pugno del Barbieri, in un elenco (approssimativo) de' suoi lavori teatrali, la quale diceva: «Feci questo dramma con la collaborazione del Codebò. Dovevamo batterci, tanto a ciascuno di noi pareva orribile quello che aveva fatto l'altro. Ma Leopoldo Marenco accomodò la lite e sei repliche finirono di rappattumarci.» Mi ricordo pure che al Marco la Guida c'era una nota relativa a un certo arrosto di fegatini fatto colla corona d'alloro che avevano data all'autore nel teatro di Lodi la sera della rappresentazione. E a proposito d'un altro dramma c'era scritto: «Domandai al copocomico la somma totale.... pigliandomi tempo otto giorni a scriverlo; ma non volle darmene che la quarta parte e gli portai il lavoro finito dopo due giorni.»

Singolare sistema di compensazione!... Non si deve però credere che facendo il dramma in otto giorni egli ci avrebbe dedicato un maggior numero di ore, perchè fa tutto di getto, d'un fiato solo, e dura fatica a seguire colla penna la rapidità del lavoro intellettuale. Non corregge; spesso non rilegge. L'Aida la rimise al capocomico senza averla letta. Non è abbastanza paziente da aspettare i secondi pensieri.

Il tempo che altri impiega a emendare egli lo dedica a nuovi lavori. Se si mettesse a correggere, farebbe senza accorgersene un lavoro nuovo di pianta sopra il primo lavoro; come seguiva ad Alessandro Dumas, che assistendo alla rappresentazione d'una commedia, ci fabbricava su un'altra commedia e non sentiva più quella. L'immaginazione è la sua qualità predominante. I soggetti, le idee, le tele, non gli mancano mai; gli si svolgono anzi nella mente l'un dall'altro, l'uno sull'altro, con un'abbondanza e una prestezza che lo confonde e lo soverchia. Quello che gli manca piuttosto è la misura, l'arte di padroneggiare sè medesimo, il senso della convenienza, le sfumature, i piccoli mezzi che, accumulati, producono i grandi effetti.

O la imbrocca o non la imbrocca....

Il mondo aristocratico, per citare un esempio, ed il mondo finanziario, che egli tratta spesso e volentieri, non lo conosce affatto per esperienza; se lo foggia di suo capo. Caratteri, avvenimenti, linguaggio, è tutto di maniera; il suo stile ha dei ricordi eufonici, uno stile saltellante, variopinto, di cento stili, qualche volta non privo di forza e di colore, tempestato di punti esclamativi e di puntini, pieno di capricci e di formule vaghe, che ricordano alla lontana le pagine più misteriose di Victor Hugo. Ma queste sono minuzie a cui non ha tempo di badare nella foga delle grandi composizioni, e il pubblico d'altra parte non gliene chiede conto. Le platee gli sono quasi sempre benevole; conosce mezzo mondo, e mezzo mondo gli vuol bene. E anche a chi non lo conosce di persona inspirano una certa curiosità simpatica le sue audacie, le sue esagerazioni giovanili, l'ingenuità delle sue tirate contro la società che non conosce, e il vedere con quali speciose industrie lotta cogli argomenti superiori alle sue forze e con quali arrabbiati sforzi si mantiene in bilico, qualche volta sopra un filo di seta, e come casca proprio di picchio e tutto di un pezzo, quando casca; e di che strani colori si tingono certi sentimenti e certe idee, passando a traverso alla sua bizzarra fantasia. Questa disposizione amichevole del pubblico non ebbe poca parte in molti de' suoi buoni successi, fra i quali ce ne furono di quelli veramente «colossali,» come quello della rivista A zig-zag, rappresentata al Dal Verme, con grandioso apparato, trenta sere consecutive. Poichè non trattò solamente il dramma e la commedia in prosa e in versi, ma il proverbio e la rivista e il melodramma e la parodia e la bizzarria e il bozzetto e la composizione drammatica non rappresentabile, e, se c'è qualche altra cosa.... anche quella!

Tutto ciò nel campo teatrale.

Ci sono poi i romanzi, dei quali c'è da farne una piccola biblioteca. Venuti fuori in tutte le forme possibili, in giornali, in volumi, a dispense, illustrati, editi perfino da merciaiuoli di libri girovaghi, quasi tutti di un'orditura vasta ed intricata, affollati di personaggi di tutte le classi, straricchi di episodi, pieni di descrizioni fantastiche e di scene drammatiche, alcuni dei quali hanno per teatro mezza la terra e sono illuminati qua e là da vivi lampi d'ingegno e rivelano facoltà artistiche non educate ma forti.

E quasi tutti portano nel titolo il suggello dell'autore, come: Il palazzo del diavolo, I sotterranei farnesiani, Nina di Trastevere, Gl'incendiari della Comune, L'isola dei predatori, La strega di Campo de' fiori, Le orge della regina di Spagna, I misteri di un convento, Lucifero, Trenta omicidii per un'ora d'amore, I briganti greci, ed altri, di cui il Barbieri stesso sarebbe imbarazzato a dare il catalogo compiuto. E non parlo dei vari volumi di poesie liriche fatte ad ore perdute, quasi tutte di metri bizzarri e non prive davvero di idee originali, come ad esempio quella che fece sulle rive del mare a Catania, nella quale, stizzito per un'infedeltà d'una sua amante, vuol prendere a schiaffi la luna. E lascio da parte le Novelle, gli Studi e le Strenne (la casa Ripamonti di Milano ne ha quattro), e i piccoli opuscoli d'occasione sopra i grandi processi, e gli infiniti giornaletti nati e morti fra le sue braccia, tra i quali c'è chi si ricorderà del Messia, uscito sei volte a Firenze e sei volte sequestrato. Povero illuso di Messia!... che pretendeva di smascherare i malfattori in guanti gialli coll'ingenua penna d'Ulisse. Ora domanderà qualcuno in che maniera il Barbieri, che è ancora giovane, ebbe il tempo di metter fuori tanta roba. È facilmente spiegato. Egli vive immaginando e scrivendo come vive respirando. Scrivere non è un lavoro per lui, è il suo modo di essere. Gl'infiniti pensieri che gli altri dedicano alle cure della vita, egli li dedica tutti all'arte. Non sperpera assolutamente un briciolo della sua attività mentale, fuori della sfera letteraria. La sua giornata non è divisa a ore, è divisa a capitoli di romanzi od a scene di commedie. Supponete che si levi alle nove. Fino alle dieci scrive un zig-zag per la Nuova Torino; facendo colazione almanacca una parodia drammatica; poi va al teatro ad assistere ad una prova, e strada facendo compone, o piuttosto.... perde una lirica!...

Dopo, torna a casa a stendere un atto d'un dramma storico; steso l'atto, va in un caffè solitario d'un sobborgo a tirar giù otto pagine di romanzo che deve dare al giornale alle quattro, poi a pranzo a finire la parodia della mattina, poi in un'osteria malfamata a far degli studi sulla lingua furfantina con un vecchio soggetto di questura, poi di nuovo al teatro a sentire una commedia nuova, della quale farà un resoconto per la gazzetta da mezzanotte alle due. E mentre si fanno le prove d'un suo dramma a Torino, si stampa un suo romanzo a Como, ed esce una sua leggenda in appendice a Napoli. Fra stampe, prove di teatro e lavori, non gli resta il tempo a vivere un'ora della vita reale. Egli è sempre circondato dal suo corteo fantasmagorico di carnefici, di principi, di assassini, di streghe e di leoni, e non s'accorge di vivere in questo mondo che quando è riscosso improvvisamente dal suono degli applausi o dei fischi.

Non gli date un appuntamento a mezzogiorno: è facile che se ne ricordi alle quattro. Non sa mai certamente il giorno della settimana, e non sono neanche certo che, interrogato all'improvviso, sappia dire in che anno siamo. Oggi è a Torino, fra sei giorni si sarà forse già trapiantato a Palermo co' suoi manoscritti, colla sua civetta; e così egli gira il mondo da quindici anni seminando drammi e romanzi, sempre giovane, sempre allegro, sempre pieno di grandi disegni e di grandi speranze, sempre scannato e sempre buon figliuolo, e sarà tal e quale fra trent'anni.... salvo qualche pelo bianco di più sulla testa e qualche centinaio di drammi di più sulla coscienza e salvo ancora (glielo auguro di cuore) una bella villetta sul lago di Como; tardo ma dolce frutto de' suoi mille volumi, sulla porta della quale egli potrebbe scrivere:

«Qui.... riposa dal suo pellegrinaggio semisecolare....» e sotto, invece del suo nome, un verso di Dante accomodato:

Colui che tinse il mondo di sanguigno!...

Torino 1876.

CAPITOLO I GENNARACCIO

Da ponte Sisto guardando a destra quei gruppi di case che fiancheggiano le rive del Tevere, e che oggi stanno scomparendo, si era colpiti dall'imponenza cupa ed in un pittoresca d'un quadro bizzarro.

Non è la Roma antica, dalle marmoree colonne, dai grandiosi edifici, col suo Campidoglio, co' suoi giardini cesarei, col suo Colosseo - col fasto pomposo del Foro Traiano, cogli archi maestosi del tempio della Pace, di Vesta, di Pallade e di Minerva, che vi sta dinanzi, - quella Roma, con tutta infine la gigantesca imponenza che rivive oggi ancora nelle sue rovine - ma è la Roma medievale, che vi si affaccia al pensiero, ricordando il ghetto co' suoi cancelli di ferro, - le bolle papali che vi rinserravano, tenuta allo stato di mandria,

Meno la libertà dei verdi pascoli....

una massa di gente che era costretta a vivervi appartata, ammucchiata, in fetenti casupole prive d'aria e di luce, quasi.... di sole!

Massa a cui erasi proibito qualsiasi contatto col resto della città e persino col Trastevere, che gli stava di faccia colla sua franca arditezza - colla sua rumorosità popolana - colla sua vita piena di moto - co' suoi balli - colle sue feste - colle sue lotte cittadine, a cui prendevano parte con tanto vigore, facendone pagare i cocci.... al ghetto, che trovava nel Trastevere tutt'altro che un buon vicino!...

All'epoca in cui avvengono i fatti che stiamo narrando, il ghetto non aveva già più i suoi cancelli di ferro. - Il progresso umano, nella sua corsa attraverso alle rovine dei pregiudizi, li aveva abbattuti.

Al di qua.... come al di là del fiume che corre verso porto d'Anzio per gettarsi ardito negli abbracci del mare, le case spiccano sulle due rive, ugualmente libere ed ugualmente sudice.

Sulla riva destra soltanto, sembrano più cupe.

Il fiume quando si gonfia.... riserba le sue prime visite al ghetto, e per qualche metro sul suo livello le case che fiancheggiano la riva sono fasciate, per così dire, da una mucosità nerastra.

Le finestre sono alte - e quei basamenti, che si affondano nel fiume danno alle case l'aspetto di informi torrioni.

Tra una casa e l'altra si vedono delle fessure - sono piccole stradicciuole che le dividono; - sembrano scolatoi. Vi si vedono inferriate di cantine a cui s'abbarbica qua e là qualche cosa di verde, che pare erba - strati di ninfa lasciativi dalle acque. A metterci sopra le mani, si sente sotto al tatto qualche cosa di viscido; vi premete su, ed il dito s'affonda in una poltiglia melmosa.

È davanti ad una di queste straducce che mettono alla riva del fiume per un declivio paludoso e per mezzo di qualche gradino, che la notte del 30 dicembre 1852 si fermava una barca guidata da due uomini.

Tra le tenebre della straduccia, qualche cosa si mosse. - Dalla barca partì un fischio. - Due ombre rasentando il muro si diressero in giù.... verso lo sbocco della viuzza.

La notte era scura, il Tevere rompendosi contro gli archi del ponte ed urtando contro i basamenti delle case, mandava una specie di cupo brontolìo.

- Che c'è?... - chiese una voce.

- Roba.... - rispose un'altra voce dalla barca.

- Va bene.

- È tutto pronto?

- Sì....

Da una finestra così stretta che pareva una fessura scavata nel muro, trasparì un raggio di luce.

Erasi al certo, internamente, acceso un lume.

Dal vano d'una porticina che non aveva altro colore, tranne quello del sudiciume che su vi era impresso, si sporse in fuori una testa d'uomo.

- Siamo qui.... - risposero due voci dalla viuzza.

L'uomo che aperse la porta era una specie di gigante, dalle membra tarchiate, alto sei piedi, e dalla faccia grossa, animata da due piccoli occhietti che sembrava si affondassero sotto le forti rughe della fronte sporgente.

Dovette chinarsi per passarvi, e mentre si chinava, tratta dalla cintola una pistola, la spianò verso i due di cui avea intese le voci senza vederne le facce.

- Metti via quel gingillo - gli disse uno dei due - e sbrighiamoci.

Il gigante rimise la pistola alla cintola e s'avviò coi due verso la barca.

- Che uno di voi la tenga ferma - ordinò con accento di comando uno dei rematori, gettando una corda sulla riva.

La corda fu afferrata.

- C'è Pietro?

- Sono qui - rispose un'altra voce.

- È su?...

- Sì.

- Rinvenuta?...

- No....

Queste poche parole furono scambiate rapidamente tra l'uomo che pareva il capo di quella tenebrosa spedizione ed un vecchietto secco, ma svelto ancora e robusto, che aveva risposto al nome di Pietro.

Uno dei due comandava, si capiva chiaramente; l'altro obbediva.

Il gigante era rimasto in disparte.

L'uomo che era già saltato a riva, si rivolse a lui.

- Se c'è qualche cosa di nuovo, conosci il fischio - gli disse.

Il gigante assentì.

Pietro si trasse indietro con una specie di reverenza.

L'uomo andò dritto verso la porta lasciata aperta dal gigante, entrò in un angusto corridoio, accese uno zolfanello, guardò innanzi a sè, vide una piccola scala, ne salì i pochi gradini e si trovò in una larga cameraccia.

Era quella dalla cui unica finestra era trasparito quel raggio di luce veduto dal Tevere e che doveva apparentemente indicargli un punto fisso per approdarvi colla barca.

Nella camera non c'era che una tavola, sulla tavola una lanterna accesa. Nel fondo una specie di canile, su cui era distesa una forma umana.

Egli ristette sulla soglia, benchè debolmente rischiarato dalla luce proiettata dalla lanterna.

Era un uomo di circa 40 anni, nel pieno sviluppo della sua vigoria: una corta barba nera incorniciava il suo volto dalla carnagione olivastra dei meridionali. L'occhio nero lampeggiavagli sotto l'arco delle lunghe sopracciglia; alta aveva la fronte, benchè coperta da un cappello a larghe ale. Vestiva una larga giacca di fustagno color marrone cascantegli sui calzoni allacciati sul ginocchio dalle lunghe uose di corame. Il collo della camicia di tela greggia era rivoltato sul bavero della giacca aperto dinanzi, ed allacciato da una sciarpa a colori annodata da un anello.

S'avvicinò alla tavola, prese la lanterna e ne diresse la luce verso un angolo della camera.

Gli stava dinanzi, distesa sopra un materasso, una fanciulla le cui vesti d'una semplicità elegante la rivelavano appartenente ad una distinta posizione sociale.

Era immobile come se fosse morta, eppure il pallore quasi cadaverico del suo volto nulla toglieva alla sua bellezza; pareva che vi aggiungesse anzi un fascino di più.

I suoi grandi occhi, che dovevano essere azzurri come il cielo, erano chiusi; i suoi capelli biondi cadevano disordinatamente scomposti intorno a quel suo volto d'angelo e formavano una specie di frangia d'oro a quell'immondo cencio su cui posava il capo.

Una delle sue mani, bianca più dei pizzi che ornavano le maniche della sua veste di seta nera, cascata inerte sul fianco, penzolava sull'orlo del materasso e sfiorava il sucido pavimento; coll'altra coprivasi il petto, quasi che prima d'essere sopraffatta da quella letargia in cui era immersa, fosse sopravvissuto in lei, superiore alla prostrazione istessa delle fibre, un sentimento di pudore.

L'uomo, ritto, immobile, la guardava; - sembrava preoccupato; la fissava, la fissava sempre e come sotto l'impressione d'un pensiero che impadronivasi di lui.

Le sue labbra contraevansi e lampeggiava cupamente l'occhio nero sotto l'arco delle folte sopracciglia.

- Imbecilli!... - mormorò - non è di queste colombe che si lascia togliere Gennaraccio.

- Pietro!... - chiamò, affacciatosi alla scala.

- Eccomi - rispose una voce.

- Quando verrà qui?...

- Chi?... - chiese Pietro, che erasi in quel momento affacciato alla soglia.

- Lei.

- Domani.

- Sei pronto tu?...

- Corpo di Satanasso!... - esclamò Pietro - non si dice mai di no.... a...

Gennaraccio, poichè era lui.... il famoso capo delle misteriose associazioni che pullulavano nella Roma notturna di allora, gli chiuse la bocca con una manata che parve un ceffone.

- Zitto - gli disse.

- Che si fa?... - chiese Pietro.

- Subito alla barca.

- Con quest'affare qui? - balbettò Pietro, accennando la fanciulla.

- Sì....

- Dove si va?

- Ci vado solo.

Pietro chinò il capo.

La fanciulla era sempre svenuta.

Gennaraccio aveva acceso un cerino e l'aveva accostato alle sue labbra.

La fiammella si agitò.

- Va bene.... - disse - l'aria della notte la farà rinvenire.... Ma è bene che rinvenga più tardi!... Su dunque, svelti e senza far chiasso - non dico che mi dispiaccia di trovarmi a tu per tu colla nera, ma in questo momento m'impaccerebbe.

Pietro s'era recata fra le braccia la fanciulla.

- Pesa meno d'una piuma - osservò.

- Fa' piano.

Scesero. - Furono sulla riva in un istante e la deposero nel fondo della barca.

Gennaraccio vi era già salito e vi aveva distesa sul fondo una coperta di lana.

- Ohe!... è.... gentile l'amico.... - borbottò il gigante.

- Lascia!... - ordinò Gennaraccio all'uomo che teneva la corda. Pietro fece l'atto di saltare nella barca.

- Basto io - gli disse il bandito con accento di comando.

Pietro s'inchinò.

- Che devo dire? - chiese umilmente.

- Quello che hai veduto.

- Null'altro?

- No.

Con un colpo di remo la barca fu spinta al largo, e, trasportata dalla corrente, non divenne più, dopo pochi istanti, che un punto nero appena percettibile che andava scomparendo a poco a poco.

*

I quattro uomini rimasti sulla riva si guardarono in faccia, esprimendo quel sentimento di meraviglia che si sarebbero ben guardati dal lasciar trasparire in presenza del temuto trasteverino, di cui conoscevano per filo e per segno le gesta.

- Ci capisci qualche cosa tu?... - chiedeva il gigante a Pietro.

- Gennaraccio.... è Gennaraccio - rispose l'interrogato.

- Vorrei però sapere perchè....

- E ciò che fa è ben fatto - riaffermò il compagno.

- Anche quando....

- Anche quando, per impedire che si dicano delle bestialità, vi mette una mano sulla bocca - concluse Pietro trionfalmente - a rischio di cacciarvi in gola tutti i denti, come ha fatto con me. Per fortuna i denti li ho buoni! - soggiunse poi, mostrandoli con un sorriso di compiacenza.

- Eh via, lo sappiamo! - osservarono con una specie di ringhio i tre compagni.

- Avreste qualche cosa da ridire?

- Noi?... Niente.... si diceva....

- Quello che non mi preme di sapere.

- C'è altro da fare qui?

- No.

- Squaiamoci allora....

- Lo pensavo anch'io - mormorò il gigante. - Dove si va?

- Laggiù. C'è seduta.

- Tanto meglio.

Pochi istanti dopo, il lume era spento, la porta era chiusa, il vicolo deserto. Il Tevere soltanto continuava a mandare il suo sordo brontolio, e la barca su cui stava ritto Gennaraccio vogando a due braccia, or rialzandosi in tutta l'altezza della persona, ora curvandosi per rituffare i remi, correva, correva sul Tevere come un fantasma.

CAPITOLO II I SOCI DEL puntarolo

Dal Ghetto ai Monti c'è un bel tratto di strada, ma quando ci sono degli affari in giro, bisogna pur muoversi, ed i nostri quattro galantuomini notturni, presa, uno una via, l'altro un'altra....

Per diversi sentier che al loco adducono,

come direbbe un poeta, adoperando, come licenza lirica che permette tante cose.... sentiero per strada, arrivarono precisamente al loco.

Uno dei quattro sbucava, che era appena passata la mezza, dal Macel dei Corvi, uno veniva dall'Agnello, il terzo scendeva dalla lunga scala di Cianca Leone, il quarto passava, venendo in giù, dinanzi al vicolo chiuso, ma non fece che passarvi, perchè le strade chiuse non avevano a quanto pare.... da lui, neppure un briciolo di simpatia. Passandovi dinanzi, egli non l'onorò che d'un olimpico sguardo di sprezzo.

I primi ad incontrarsi furono Pietro ed il gigante.

- Quella canaglia d'un Guercio cammina a passi di lumaca - borbottò.

- Sfido io!... - rispose Pietro, - deve allargar l'altro per trovare la strada.

- Da dove viene?

- Dall'Agnello.

- Siamo sul posto.

- E la volpe è in casa.... - susurrò dietro essi una voce.

Si volsero, e benchè sembrasse al gigante d'aver riconosciuta la voce, si guardò intorno trasalendo.

Dal vano d'una porta si sporse in fuori una testa.

- To'! Peppetto!... - esclamò il gigante - e chinatosi per meglio guardare colui che familiarmente aveva chiamato Peppetto - lo prese per un orecchio e lo tirò fuori dall'angolo dove stavasi rincantucciato.

Era un ragazzo magro, coperto di cenci, senza scarpe, dalla faccia però espressiva ed intelligente.

- Oh non vedete - disse al gigante - che son qui per cantare?

Il gigante lo lasciò.

Peppetto si die' una scrollatina.

- Parla.... dunque - gli disse il gigante - è proprio in casa la volpe?...

- In tana - rispose il monello, rettificando la frase.

- C'è nebbia?...(2)

- È passata.

- La famiglia?...

- Al chiaro.

- Per strada?...

- Posto.(3)

- Resta qui ed aspetta gli altri - gli disse il gigante - sai dove siamo.

Peppetto si rincantucciò, seguendoli collo sguardo, mentre i due soci si cacciarono per un laberinto di viuzze, finchè arrivarono ad una casa in su, verso la Suburra.

Tutto intorno ad essi era silenzio, la nebbia era passata, come aveva detto il monello - e colla nebbia se l'intendevano abbastanza per sapere quando passasse.

Non un passeggero s'azzardava per quelle vie.

Traspariva però un filo di luce da una finestra a pian terreno.

Il gigante trasse una enorme chiave dalle enormi tasche del suo pastrano, l'introdusse nella toppa senza produrre alcuno scricchiolìo, e la girò due volte.

La porta cedette sotto la pressione della sua spalla, ed uno dietro l'altro vi entrarono.

Fu aperta una seconda porta e si trovarono in una larga cameraccia. Somigliava per forma a quella in riva al Tevere - ma quella era tutt'al più una succursale. - In questa, come lo disse il gigante, doveva esserci seduta; era il punto centrale delle riunioni, ed i soci del puntarolo la chiamavano Il deposito.

Il lettore non ha, credo, bisogno di spiegazioni.

Quando il gigante si lasciò sfuggire la parola troppo borghese casa, Peppetto rettificò, disse tana, ed il luogo di riunione d'una banda di ladri è difatti qualche cosa che sta tra il covo da belve e la fortezza.

Vi si deve essere preparati alla resistenza, come deve esservi tutto disposto per la ritirata. - La cameraccia, dunque, formava angolo ed aveva due finestre che mettevano su due vie diverse.

L'interno della casa aveva tre scale, sudice, strette, ed un cortile in comunicazione con una bettola e con una bottega da rigattiere.

La porta bassa facilitava la ritirata, come il colpo di coltello.

Le tre scale favorivano ogni sorta di comunicazioni colle soffitte superiori; il cortile, colle cantine; i granai, colle stanze abitate dai vicini. Vicini, la cui porta non mancava mai di essere aperta, con una confidenza assolutamente fraterna, nelle occasioni solenni.

Lo spettacolo che offriva poi quella cameraccia in mezzo alla quale ardeva una lampada attaccata ad una corda che pendeva dal soffitto, era qualche cosa di bizzarro.

Si doveva farvi la spartizione di un certo numero di oggetti provenienti dalla industre operosità di più notti, ma erano cose da poco, bazzecole ivi ammucchiate tanto per non perdere l'abitudine del lavoro, e vi aveva preso parte la bassa ciurmaglia dell'associazione.

Si aspettavano i capi per presedervi soltanto, per tutelare il mantenimento del buon ordine e per assegnare onestamente la propria parte a ciascuno.

Gli oggetti in questione erano dunque divisi a gruppi sopra una larga tavola, ed intorno alla tavola erano disposti i seggi che dovevano essere occupati dagli onorevoli membri dell'associazione.

Questi posti vuoti attestavano dunque che anche là.... si sarebbe data da un gruppo di banditi una nuova e ben diversa interpretazione a quel logogrifo sibillino che si chiama diritto.

Alla lor volta questo diritto essi avrebbero sentito d'averlo. Diritto, alla divisione del furto che era stato commesso intromettendosi colla forza nel diritto degli altri, che era quello di non lasciarsi prendere ciò che prima.... era cosa loro.

E quel gruppo disciplinato di avventurieri aveva delle leggi, degli statuti, degli esploratori, dei partigiani, dei manutengoli; quella società, fuori del mondo sociale, era pure una società.

Se fossero sogni se ne potrebbe ridere - ma queste associazioni misteriose, spesso terribili, hanno esistito ed esistono - hanno cambiato di nomi come di capi, ma hanno sempre avuto un nome ed un capo.

A Napoli la camorra, in Sicilia la mafia, a Torino la cocca, a Milano la teppa, a Firenze i ciompi, a Bologna ed in Romagna i buli, a Venezia i tosi. Con Gennaraccio, Roma ebbe i soci del punterolo, a cui si collegò la società della subbia.

Il punterolista smorzava (uccideva), quello della subbia (arnese che serve a stirare il corame) teneva mano allo smorzamento.

Non si direbbe, che, per abituarsi più comodamente al delitto, vi abbiano tolta persino la parola con cui si caratterizza?...

Per non aver paura della galera, la chiamano.... Casa....

Per non aver paura del carnefice, lo chiamano.... Compare!...

Essere appiccati?... che è per essi?... Tirar calci alla luna!

Dare una coltellata.... non è che fare una bottoniera.

Che è rubare?... Far un affare!

Non ne fanno forse tutti?...

Smorzare il tale.... non vi dà l'idea.... d'uno che spenga una candela?...

Ha persino la sua poesia.... quello strano linguaggio - linguaggio che delinea e definisce l'insieme di quei tipi strani e paurosi che si confondono colla notte, che si intravedono, che vi si scatenano appostati in mezzo alle tenebre.

Cercare le ragioni, di questo male che c'è.... ecco quale sarebbe il compito del filosofo.

Per me.... che voglio servirmene, chieggo alla notte se ha dei mostri - e la notte mi risponde: ne ho!...

CAPITOLO III BIANCA

Prima di ritrovare riuniti i soci del punterolo in uno di quei convegni che non mancherà al certo d'interesse, interesserà, credo, ai lettori di sapere quale fosse il perchè di questa notturna riunione e quale fatto la rendesse necessaria.....................................

Era una di quelle giornate tristi - aveva piovigginato - il cielo era coperto di nubi, cupo, cinereo; pareva il coperchio d'una pozzanghera: ed una vecchia ed una fanciulla, appoggiate l'una al braccio dell'altra, si ritraevano nel modesto appartamentino da loro occupato in via dei Due Garofani, poco distante dalla chiesa di Santa Maria Maggiore.

Tornavano dal cimitero, ed erano andate a deporre una corona sopra una tomba.

Erano vestite di nero ed avevano abbassato il velo sul volto come se volessero nascondere ad ogni sguardo profano l'espressione di quel sentimento che straziava la loro anima.

La vecchia e la fanciulla apersero la porta ed entrarono.

La fanciulla si tolse il velo, gettò sopra la spalliera d'un divano la sua mantiglia di seta nera e sedette al suo tavolino da lavoro.

La vecchia passò di là.... in una stanza vicina per lasciarla forse più liberamente abbandonata a' suoi pensieri.

Quanti lontani ricordi dovevano affacciarsi alla mente della fanciulla!...

Quella stanzuccia modesta, ma pulita, quasi elegante, dalla cui finestra non si vedeva che un piccolo giardinetto.... per meglio dire un cortile adorno di qualche aiuola, di qualche cespuglio di lauro fra i cui rami aveva cantato spesso una capinera ed ora strideva uno sgricciolo, le ricordava un giardino ben più fiorito sotto i cui viali ombrosi aveva corso saltellante colle amiche d'un giorno; le pareva di vederli ancora quei viali di tigli!... e gli alti alberi delle magnolie coi loro grandi fiori bianchi, e i cactus coi loro calici rossi e gialli e i cespugli di rose, le verdi siepi di mortella e le conche di marmo coi draghi che gettavano acqua dalla bocca, colle ninfe che vi si bagnavano, inghirlandate d'edera, e c'era accanto a lei, in mezzo a quei fiori, accanto a lei quando rimettevasi il guanto morbido e profumato dopo aver fatto scorrere le sue bianche dita sulla tastiera d'avorio del pianoforte, c'era quell'essere caro, la cui perdita non si cancellerà mai dal cuore.... c'era sua madre!...

Sua madre, che si sentiva beata quando si attirava sulle ginocchia quel suo corpicino snello e leggero - quando baciava quelle sue labbra rosse che non sapevano dare che baci - mentre lei, la civettuola, cingendole il collo colle sue braccia bianche la guardava fissa fissa negli occhi, dicendole che vi si specchiava per trovarsi più bella!...

Una madre perduta!... eccolo il supremo dolore, il grande vuoto!...

La soffitta senza luce, ma nella quale sentiate vicino a voi l'accento ineffabile di quella voce cara - quella soffitta, nella ristrettezza angusta della quale, sentiate fiso nei vostri quel suo grande occhio da cui traspare l'anima che è tutta affetto, nella quale sentite il suo respiro, e che vi trovate vicina svegliandovi, quella soffitta istessa si trasforma in un Eden.

L'Eden da cui essa scompare, ridiventa abisso.... perchè una madre è la mano che guida - è il pensiero che veglia - è il conforto che rianima - è l'amore che si divide per centuplicarsi e che trova nel sacrificio la forza d'essere più ardente! che nel dolore ingigantisce - che nella gioia è come il sole.

È appoggiati a lei e per lei che ci sentiamo forti - senza lei si brancola.................................................

....................................................................

Bianca l'aveva perduta da un anno, e nel momento in cui la presentiamo ai nostri lettori colla sua bellezza d'angelo, col suo tesoro d'affetti.... colla sua anima piena di sogni - la fatalità ordiva intorno a lei una di quelle opere strane che essa forse intuiva istintivamente, ignara di ciò che potesse essere, ma non per questo meno agitata da arcani e lugubri presentimenti.

Alla perdita della madre era successo un dissesto finanziario - ed il marchese B..., suo tutore, si recò un bel giorno ad annunciare alla nonna della fanciulla che la contessa Maria del Balzo, vedova del generale Giovanni del Balzo, morto in esilio per essersi immischiato in affari che non lo riguardavano, aveva fatto molto male a vivere circondandosi di tutti gli splendori d'un lusso esagerato facendo calcolo sulla riuscita d'un processo intentato dalla contessa contro la Camera apostolica per illegittima confisca dei beni.... confisca che era stata decretata dal paterno governo di Sua Santità.

Annunciavale che detta confisca era mantenuta, che la vendita del palazzo dalla defunta abitato, perchè cosa sua, non del generale, sarebbe appena bastata a pagare i debiti da lei incontrati, e non restava infine all'orfana che un tenue patrimonio di cui egli, come tutore legale, servirebbesi per passarle una pensione mensile.

La nonna aveva risposto con abbastanza arroganza che quella confisca era un'infamia e non le mancherebbero dagli avvocati per farla revocare.... intentando una nuova.... buona causa contro gli spogliatori d'una orfana, e che anzi l'avvocato c'era già.

Convenne però fare di necessità virtù, e pel momento ridursi a vivere nel modesto quartierino che ella stessa era riuscita a trovare, laggiù.... separandosi da quel mondo dove la fanciulla aveva vissuto e dove almeno.... ignorate, avrebbero potuto aspettare tempi migliori.

*

Bianca erasi messa a trapuntare un'A sull'angolo d'un piccolo fazzoletto di tela. Tremolavale tacita negli occhi una lagrima e le irrigava, scendendo lentamente, la guancia.

Pareva che la fanciulla non se ne accorgesse, e, più che nel lavoro, pareva assorta in altri pensieri.

La giornata come già dicemmo era tetra: una di quelle giornate uggiose, nelle quali tutto dà fastidio, tutto irrita, nelle quali pare che persino quell'affaccendamento che è la vita, susurrìo di voci che mercanteggiano o che discutono, suoni di passi, parole ricambiate, nomi che si pronunciano, gente che si raggruppa pei loro affari, rassomigli all'agitarsi e al borbottìo ringhioso d'un mostro briaco. Pare che il sole non debba splender più; si trova del sarcasmo in ogni lode, una menzogna in ogni protesta d'amicizia, vano l'amore, ed inutile persino il denaro, poichè non vi può dare neppure il soddisfacimento d'un desiderio, non avendone alcuno e non sentendo in voi come intorno a voi che il vuoto.... quel vuoto che vi attrae, che vi assorbe, mentre, ad ogni pensiero che vi si forma nella mente, vi par di sentire dietro voi uno sghignazzamento stridulo che ride di voi e di tutti.

Quel cortile istesso che, di tratto in tratto, attrae gli sguardi di Bianca, non aggiunge al quadro che una tristezza di più; eppure, pochi mesi prima, quando appena la vecchia e la fanciulla abitavano quel loro quartierino, era quasi bello!...

La fanciulla vi aveva formato, con delle canne intorno a cui s'arrampicavano delle campanule, una specie di berceau. Vi aveva disposte qua e là delle piccole aiuole di verbene e di viole; vi erano cresciute, contro il muricciuolo di cinta, delle dalie da' bei rosoni color d'amaranto picchiettati di macchie bianche; c'era una spallierina di legno, su cui eranvi disposti con bell'ordine dei vasi; vi fiorivano dei garofani, della vainiglia, dei lillà.

La piccola spalliera adesso è senza vasi; sono stati ritirati per difendere dal freddo le povere pianticelle. Le dalie sono secche, e non escono dal terreno nero che i tronchi tagliati. Le aiuole sono coperte di brina; del favorito berceau non si vedono che le canne intrecciate insieme, e sembra una specie di stia.... senza polli.

Di verde non ci sono che i contorni di mortella delle aiuole, sulle cui piccole foglie la brina ha ricamato delle frange d'argento. Il giardino, infine, è ridiventato cortile. La capinera non vi canta più, lo sgricciolo soltanto stride saltellando tra le canne e sui mozziconi delle dalie; arruffa le penne e par che guardi la fanciulla co' suoi piccoli occhietti neri, aspettando forse le briciole di pane che suol gettargli.

Bianca continua a ricamare l'A.

La vecchia nonna ha socchiuso l'uscio, le si è avvicinata, si china su lei e, dopo essersi assicurati gli occhiali sul naso perchè non caschino, la bacia sulla fronte.

Bianca ha arrossito.

- Credi che verrà oggi?... - chiese alla nonna.

- Almeno lo scrisse - borbottò la vecchia.

- Oh non è per me, sai - soggiunse tosto Bianca - e deposto il lavoro, cinse colle sue braccia la bianca testa della vecchia e vi si appoggiò su colla guancia avvolgendola di carezze.

La vecchia soffocò il singhiozzo che stava per irromperle dal petto, con una violenta soffiata di naso.

- Spero - borbottò - che in ogni modo non si ostinerà nel suo progetto - No, no, non ti spaventare, bambina, benchè sia un benedetto uomo.... quel.... - stava per dire forse qualche altra parola che avrebbe stonato maledettamente con quel benedetto.... abbastanza espressivamente pronunciato, ma la mandò giù soffocandola con un colpo di tosse.

- È a me che ti ha confidata la tua povera mamma.... continuò poi, rispondendo con altre carezze a quelle della fanciulla, di cui sentiva tremare l'esile corpicino - e non ti si farà violenza; stanne certa. Alla sventura ci siamo abituate ed un buon soldato deve saper guardare in faccia il fuoco senza averne paura.... corpo di.... - esclamò rizzandosi; - c'è del sangue d'un generale di Napoleone in queste tue vene, ed il sangue è sangue.... non è vero, bambina?... come ti chiama lui.

Nel pronunciare quel lui.... la vecchia guardò attraverso agli occhiali l'A che stava ricamando Bianca; Bianca sorrise e colle sue belle labbra coralline la baciò proprio sulla bocca.

I baci della fanciulla rinvigorivano la nonna.

- Corpo di.... - riprese con più forza, - perchè è milionario non ha il diritto di farli piangere questi tuoi occhietti che sono così belli, e se non ha altro di meglio che quel suo bel mobile di marchesino.... da volerti dare.... per non sapere che farne, che se lo sposi lui.... mentre....

La vecchia non finì la sua frase; ma dopo aver riguardata l'A.... fissò in quelli della fanciulla i suoi occhi, che sapevano ancora esprimere abbastanza bene e così eloquentemente quello che le stava nel cuore.

Bianca, da pallida com'era, si fece rossa come una ciliegia e colla sua piccola mano chiuse la bocca della nonna, quella bocca che aveva già baciata con tanto impeto per tutte le belle cose che aveva dette.

- O che c'è forse bisogno di diventar rossa.... - esclamò la vecchia, - val meglio lui, di tutti i nipoti del tuo signor tutore, quel caro avvocatino.... ed è lui che farà mettere i punti sugli i, sugli imbrogli del nostro famoso processo, punti che dovrebbero aver subodorati.... e chi sa che i bei tempi non debbano ancora tornare!...

La vecchia si strinse lo scialle intorno alla vita e gettò uno sguardo verso il caminetto.

- Povera e buona nonna!... - mormorò Bianca, giocherellando colle frange del suo scialle.

- Per ora - continuò essa - in mancanza di fuoco, stammi qui.... così.... seduta sulle ginocchia.... strette bene una contro l'altra.... ed eccoti il mio regalo d'oggi.

Bianca seguì cogli occhi le dita lunghe e magre della nonna che uscivano dal mezzo guanto di lana che copriva parte della sua mano, le vide affondarsi nelle tasche del suo abito e trarne fuori una lettera.

Il cuore le palpitava violentemente.

La lettera era così concepita:

«Carissima signora Anna,

«Spero bene - ho trovato dei validi appoggi, e se la fortuna mi asseconda, otterremo dal tribunale l'annullamento della confisca, perchè potrò provare infondata l'accusa che vi diede motivo.

«Sarà una riparazione tarda sì.... ma si riparerà - coraggio e speranza - appena potrò lasciare Capua, dove sto occupandomi presso un compagno d'armi del generale, in ottime relazioni col Vaticano.... per la buona riuscita della cosa, la mia prima visita sarà per lei e per la nostra piccola Bianca.

«Le bacio le mani con affetto e mi creda

«Suo devotissimo

«ARTURO.»

P. S. - «Credo che il marchese B.... ne sappia qualche cosa.»

Bianca non vi lesse che quel nome e lo ripetè stringendosi al collo della nonna.

In quel momento si bussò alla porta.

La vecchia e la fanciulla trasalirono.

Bianca impallidì.

La vecchia se la strinse fra le braccia.

- Va'.... va' ad aprire - le disse - ci sono io.

Si bussò ancora.

Bianca si tolse dalle ginocchia della nonna e mosse verso l'uscio.

Sulla soglia si presentò un uomo.

Era piccolo, magro, curvo un po' della persona; poteva avere.... o dimostrava sessant'anni.

I lineamenti del suo volto avevano della rigidezza - non ripulsiva però - benchè da' suoi piccoli occhietti trasparisse un non so che di obliquo e di vago.

Egli sorrise alla fanciulla e fece l'atto di togliersi la ricca pelliccia nella quale era completamente imbacuccato, ma il suo sguardo si fissò sul caminetto spento, e se la riaccomodò intorno al corpo che fu percorso da un brivido, mentre rivolse alla fanciulla un: permettete.... che fece salire sulla sua fronte una vampa di rossore.

- Per Bacco!... - esclamò egli - parmi che qui non si soffochi dal caldo..., amabile signora Anna.

La vecchia accennò al visitatore una sedia e si volse verso lui senza però alzarsi dalla sua.

- Permettete - disse alla sua volta - resto dove sono, perchè non c'è che questa poltrona, e sarei molto imbarazzata se dovessi offrirla al signor marchese.

Il marchese assentì con un freddo inchino e sedette.

CAPITOLO IV FILANTROPIA D'UN MILIONARIO

Aspiro con tutta l'anima alla benemerenza de' miei lettori.... e credo di meritarmela, esonerandoli dalla noia d'assistere al colloquio del marchese colla nonna di Bianca, a cui la fanciulla prese parte molto vagamente con dei ma.... e con dei se.... col rossore che ne imporporò spesso la fronte e col pallore delle sue guance che rivelavano abbastanza le intime angosce del suo cuore.

La vecchia smaniò sulla sua poltrona e dovette più d'una volta farsi assalire dalla tosse più indiavolata e ridurre il suo naso ad una specie di mantice, per soffocare sulle labbra una mezza dozzina almeno dei - Corpo di.... - che le erano abituali nelle grandi occasioni.

Il marchese fiutò una ventina di prese dalla sua tabacchiera d'oro; gestì come un ossesso, invocò tutte le leggi della convenienza e del decoro, ma non potè rimuovere quella testaccia da granatiere, come la chiamava lui, e riuscì a dirle che ci trovava tanto giudizio quanto ne potesse avere una bimba di dodici anni in quella sua zucca che gli ottanta non li aspettava più.

Eppure, secondo lui, egli era venuto a portar loro una buona notizia.

Visto che per l'affare del processo c'era ben poco da sperare, anzi da sperar niente, visto lo stato in cui si trovavano, commosso profondamente lui, che, lontano parente della contessa Del Balzo, l'aveva veduta nel pieno splendore della sua bellezza e della sua condizione sociale; egli proponeva un matrimonio tra Bianca ed un suo nipote, il marchesino Giulio, un fiore di giovinotto che idolatrava Bianca alla follia e che avrebbe fatto carte false per lei.

Far carte false era un modo tutto suo, per esprimere l'ardore della passione da cui era dominato suo nipote.

Ma anche davanti a tutte queste buonissime ragioni, la vecchia ingoiava dei - Corpo di.... - e la fanciulla scoteva il capo.

- Caro marchese - concluse la nonna, cacciandogli sotto il naso le due lenti de' suoi occhiali - io non contesto che vostro nipote sia quella perla che voi dite, come non contesto che il marchesino Giulio possa e non possa fare delle carte false!... Capisco benissimo che, sin tanto che avremo in voi un semplice tutore, per quel che è restato a Bianca, non potremo metter su carrozza, e che spesso anzi al nostro povero caminetto mancherà della legna.... ma vedete, caro marchese.... la mia Bianca, me l'avete fatta diventare di tutti i colori, da un'ora che vi lascio parlare, e la sua povera mamma.... buon'anima, l'ha affidata a queste due braccia che son tutte ossa, dicendomi due sole parole: «rendila felice!...» e.... corpo di.... finchè mi resterà tanto fiato da stringermela al seno, han da essere bravi.... quelli che dovranno portarmela via!... Dunque, riassumiamo. Vostro nipote, essa non l'ama - de' suoi denari non sa che farsene, e al pane anche solo ci siamo avvezze da un pezzo. Ha detto di no, non proprio come si scrive.... ma io, negli occhi glielo ho letto, è un libriccino dove ci so leggere io.... e no.... sia!... Vostro nipote ne troverà un'altra fra quelle....

Stava per dirne una grossa, ma la mandò giù, modificando la frase col soggiungere:

- Fra quelle che conosce lui.... Di donne non c'è penuria, e ci sono più gonnelle che voglia di comperarle; il mondo ha camminato sempre, camminerà ancora.... il Tevere continuerà a tirar diritto verso Fiumicino.... e noi resteremo amiconi come prima.... va bene così?...

Per terminare degnamente questa sfuriata, la vecchia si levò da sedere, ma ricadde sul suo seggiolone perchè non ne poteva più, cercò qualche cosa per appoggiarvisi e si trovò fra le braccia di Bianca che si era slanciata verso lei.

Dinanzi al marchese che sfogavasi fiutando un'enorme presa di tabacco, la vecchia e la fanciulla, trovandosi così abbracciate, si baciarono, e quel bacio diceva tante cose, che il marchese stesso lo dovette capire.

- Sta bene - disse egli, ravviluppandosi nella sua pelliccia - manderò il mio segretario a rendervi conto degli impegni che ho dovuto assumermi.

Salutò bruscamente ed uscì.

*

- Eh?... - esclamò la vecchia, posando gli occhiali sul tavolino per offrire tutta la sua faccia ai baci di Bianca, e un po' anche per paura che glieli rompesse nello straripamento dell'espansione. - Ti pare che l'abbia trovata, la parlantina di sessant'anni fa?... Matusalem l'ho in prospettiva, ma ce n'è ancora della vita in queste quattro ossa! ridivento di quindici, se mi toccano la mia Bianca!... e corpo!...

Non potè finire, perchè la fanciulla le pose sulla bocca una delle sue belle manine; le porgeva nello stesso tempo la fronte con una grazia così civettuola, e le sorrideva con un tal sorriso, che la vecchia nonna sentì rimescolarsi tutto il sangue e montare alla gola un grosso singhiozzo.

Lasciamola piangere.... povera nonna! piangeva di gioia e sono lacrime che fanno bene!...

CAPITOLO V ZIO E NIPOTE

Entrò sbuffante il marchese nella carrozza che l'aspettava dinanzi alla porta della casa, e ne chiuse egli stesso con furia lo sportello dopo aver detto al servitore con accento secco:

- Al palazzo.

Un monello sbucò fuori da una porta vicina e vi si attaccava per di dietro.

- Bah!... - esclamava lietamente - eccoci a tiro a due.... c'è forse bisogno d'averla una carrozza?... Siamo di servizio.... Marche!...

I cavalli scalpitarono impazienti, la carrozza partì....

Prima che la carrozza del marchese entrasse dal gran portone del palazzo, il monello si lasciò scivolare a terra in fretta in fretta, fece una giravolta su sè stesso come per dare la consueta agilità alle sue gambe un po' intorpidite, e corse via canticchiando.

Egli sapeva dove dovesse andare, e non è lui che seguiremo, certi di trovarci ancora e spesso a tu per tu con quello scimmiotto pieno di malizia che sapeva farsi trascinare a tiro a due, affermando, per conto suo, l'inutilità di avere una carrozza quando uno sa servirsi con tanta libertà di quella degli altri.

Il marchese entrò nel suo salotto, si lasciò togliere da un servo la pelliccia e chiese subito se Giulio era in casa.

- Sono qua, zio - gli rispose una voce dalla soglia.

A che servirebbe la presentazione particolareggiata che potrei farne ai lettori?...

Il marchesino Giulio è un giovane di circa ventisett'anni, veste con eleganza, non è brutto, ha due piccoli baffetti neri, molta boria e si crede in diritto d'averne, come la maggior parte di coloro che possono chiedere al capriccio ogni ognor nuova soddisfazione.

Hanno per essi quella chiave ad uso grimaldello che apre tutte le porte, quella leva che abbatte ogni ostacolo, quella polvere che chiude tanti occhi, quel talismano operatore di miracoli.... idolo a cui tutto si prostra, rappresentato da una buona rendita.... rendita che esonera chi la possiede da molte cose....

Quasi sempre dall'aver cuore.... muscolo incomodo il più delle volte, e dal pensare a tante altre.... inutilità che non ne valgono la pena.

- Oh!... sei tu, Giulio!... - esclamò il marchese: - cercavo di te, per dirti....

- L'indovino - interruppe il giovane.

- Che cosa?...

- Vieni di là?...

- Per l'appunto.

- E lei?...

- Ci pensi sempre?...

- Di tanto in tanto....

- Sai che devi fare?...

- Andarmi a gettare a' suoi piedi?... - declamò il giovane, arricciandosi la punta d'un baffo e fissando lo zio con aria motteggiatrice.

- No - concluse il marchese - prendere un'altra strada e filare.

- La donna è mobile Qual piuma al vento....

canticchiò Giulio, facendo una piroetta sui talloni ed accendendo un sigaro.

- Ti dico - ripetè il marchese - che quella là.... è gentaglia, e per me giuro al cielo.... che la punta del mio naso non la vedranno più, dovessero campare cent'anni!... L'affare del processo, da quanto ho sentito dire, può voltarsi in loro favore, è vero.... e se ci mettessi uno zampino anch'io, andrebbe meglio ancora; ma giacchè hanno della superbia, peggio per loro; il mio segretario andrà a portar loro quello che dovevano avere.... ed a far maturare il grano, come dice il proverbio, ci pensi il sole.... se ce ne sarà!...

Giulio, gettatosi sopra un divano, ascoltava il ruvido borbottamento del marchese, traendo dal suo sigaro enormi boccate di fumo.

Pareva che pensasse e che qualche bizzarra idea gli frullasse nel cervello.

- Così.... che.... - disse egli allo zio - voi credete proprio che l'affare del processo....

- Non si sa nulla per ora - rispose il marchese - ma pare che il generale non fosse realmente compromesso.... nel qual caso.... e trovando delle protezioni....

Le boccate di fumo si susseguivano in modo e con tal furia, che il marchese ebbe un impeto di tosse.

Giulio si alzò e fece un passo verso l'uscio.

- Dove vai?... - chiese lo zio.

- Esco.

- Ci pensi ancora?...

- No....

- Hai qualche idea?...

- Bah!...

Egli fece una seconda piroetta e ripetendo il suo motivo prediletto per la semplice ragione.... forse, che non ne sapeva altri, infilò l'uscio e scomparve.

- Così mi piacciono i giovani.... - borbottò il marchese, sdraiandosi sulla sua poltrona, mentre ravvivava colle molle il tizzone fiammeggiante che ardeva nel caminetto. Egli almeno non si dispera, ed è già qualche cosa.... Diamine!... ce ne sono tante delle donne!... Però....

Giù dal fondo dello scalone la voce di Giulio ricanticchiava:

- La donna è mobile Qual piuma al vento....
CAPITOLO VI AMORE

Il giovane avvocato che, dalla lettera ricevuta dalla nonna di Bianca, mostrava di interessarsi tanto a far ben riuscire l'opera sua, era tornato da Capua, dove, invece d'abbandonarsi ai dolci ozi d'Annibale, aveva fatto quanto stava in lui per trovare un valido appoggio in un vecchio compagno d'armi del generale, dispostissimo ad adoperarsi in favore della povera orfana, ed è là, accanto a lei, comunicandole le sue speranze.

Da quanto tempo sono insieme?... Non lo sanno! Che si dissero?... Tutto e nulla.

L'amore ha dei silenzi ricchi di tanta eloquenza da rendere inutile Cicerone.

Con uno sguardo, con un sorriso, con una stretta di mano, con un chinar d'occhi, con un rossore furtivo, con un pallore improvviso, si dicono tante cose che per esprimerle non basterebbe un poema.... e che si riassumono in una parola: «Amarsi!...» parola vaga ed indefinita, che fonde insieme poesia e realtà, anima e pensiero, cuore e senso.

Del suo nome, che gli uscieri del tribunale avranno annunciato pomposamente all'apertura d'una seduta, nome intorno al quale mandava già dei bagliori l'aureola della celebrità, a Bianca bastava ripetere quello semplice, col quale lo chiamavano anche i suoi amici: Arturo!...

Poteva avere circa trent'anni, ma non ne mostrava neppur venticinque; simpatico senza essere un tipo di bellezza scultoria, aveva molta espressione nello sguardo, due grossi baffi, bruno, alto di statura, ben proporzionato di forme, vivacissimi i gesti.

Orfano egli pure fin dall'infanzia, era stato educato da uno zio, medico condotto in un paese delle Marche, ed aveva fatti i suoi studi in Ancona, studi di diritto civile che aveva alternati colle odi di Berchet, del Mercantini e del Prati, coi romanzi del Guerrazzi e con quattro colpi di fucile scambiati di tutto cuore coi soldati della repubblica francese, che tanto per fare qualche cosa di solito.... schiacciavano vigliaccamente quella proclamata in Roma nel 1849 da Mazzini, e che Giuseppe Garibaldi rese memorabile coll'eroismo titanico della sua difesa.

Conobbe Bianca in un ballo, fu ammesso nell'intimità della famiglia dalla cortese affabilità della contessa, fece brontolare spesso la vecchia nonna, e finì dopo la sventura da cui vide colpita quella cara e buona creatura, coll'innamorarsi perdutamente di Bianca, dalla quale era riamato con pari affetto........................................

Erano dunque seduti l'uno accanto all'altra, si parlavano, si guardavano, e la vecchia nonna lasciava che si parlassero e si guardassero, seguendo quel loro chiacchierìo che le ricordava.... i suoi bei tempi!...

Erano sogni di felicità che egli architettava colla fantasia, miraggi splendidi, visioni dorate, tutto un mondo popolato di chimere, quelle chimere che si intravedono nel bell'azzurro d'un grande occhio di fanciulla fisso nel nostro.... armonie che echeggiano intorno a noi al suono gentile d'una cara voce che ripete una sola ed eterna parola e che pure sembra sempre nuova e sempre diversa.... perchè il pensiero la adorna di sempre nuovi incanti.

Erano vicini.... si sentivano l'uno l'altra.... e pareva ad essi che gioie e dolori, speranze ed abbandoni, tristezze e felicità dovessero essere indivise da quell'aspirazione che comunicava al cuore un solo palpito.

Eppure Bianca era triste, pareva che qualcosa di opprimente si aggravasse su lei, e quando Arturo la lasciò promettendole di ritornare il domani, le parve persino che quel bacio con cui egli sfiorò appena la sua fronte, dovesse essere l'ultimo.

Al domani le campane della chiesa di Santa Maria Maggiore sonavano l'avemmaria, e la vecchia e la fanciulla si erano recate alla chiesa; la vecchia per consuetudine, la fanciulla per trovare un conforto nella preghiera alle vaghe apprensioni da cui sentivasi agitata.

In chiesa c'era gente, sugli altari ardevano le lampade, ed illuminavano fiocamente le alte navate. La vecchia si era inginocchiata e mormorava a bassa voce alcuni versetti del suo libro di preghiere. Sentivasi tutt'intorno un bisbiglio di parole biascicate a fior di labbro, articolate al certo senza capirle. La fanciulla aveva aperto essa pure il suo libriccino, ma non vi leggeva, sembravale che un'impressione strana la dominasse. Sembravale di sentire uno sguardo fisso su lei, sembravale che a pochi passi da lei.... ci fosse qualcuno da cui si sentiva.... guardata, e ne provava tale un senso di sbigottimento, che non osava alzare gli occhi dal suo libro su cui stavano immoti, mentre dinanzi al suo pensiero passavano altre immagini.

Fece uno sforzo che a lei parve quasi soprannaturale, e volse gli occhi smarriti verso quel punto che pareva attrarre così stranamente il suo sguardo.

Trasalì.

Ritto, di fianco ad una delle colonne di marmo del tempio, vide Giulio, il marchesino Giulio, vestito colla massima eleganza, con un fiore alla bottoniera del soprabito nero, con l'occhio fisso su lei.

Il prete borbottava dall'altare le sue parole, le campane mandavano le ultime loro oscillazioni, le lampade ardevano rischiarando coi loro bagliori i quadri dei santi, tutto sembrava che si trasfigurasse d'intorno a lei, ed ebbe paura.

- Usciamo!... usciamo!... - mormorò la fanciulla con voce tremante all'orecchio della vecchia Anna.

- Perchè?... - chiese essa.

- L'ho veduto.

- Chi?...

- Lui! - e glielo accennò con un muover del capo.

- Dove?... - chiese la vecchia.

- Là....

La vecchia ebbe un bel guardare; non vide alcuno.

Bianca guardò ancora.

Giulio non c'era più, ma le sembrava di vederlo ancora.

Le lampade ardevano sempre sugli altari, ma sembravale che le preci istesse mormorate dal prete avessero qualche cosa di bizzarro, di satanico, e rischiarato da quelle lampade, fra quella folla, in quel tempio, sentiva fisso su lei quello sguardo, le sembrava di veder sempre, di fianco a quella colonna, quella figura che non c'era più.

La vecchia non poteva a meno d'essere impensierita dallo stato d'animo della fanciulla, si inchinò tre volte, si fece tre volte il segno della croce, e trascinata da Bianca, che la stringeva febbrilmente pel braccio, uscì con lei dalla chiesa.

Era sera, le vie deserte, la funzione non era ancora finita, i fanali erano appena stati accesi, ma a quell'epoca non abbondavano. (In certe parti della Roma vecchia, ce ne sono pochi ancora oggi).

- Andiamo!... andiamo!... - ripeteva Bianca, dominata da uno strano terrore.

In mezzo alla via del Garofano, c'era ferma una carrozza.

La via era stretta. Le due donne si strinsero contro il muro per passare. Lo sportello s'aperse, due braccia afferrarono la fanciulla - che gettò un grido. - La vecchia ne mandò un altro.

- Via!... - gridò una voce.

La carrozza partì a volo.

La vecchia era caduta sulla via, sforzandosi a chiamare Bianca che le era portata via prima ancora che potesse farsi un'idea essa stessa di quel rapimento così audace quanto per lei incomprensibile.

Quando rinvenne, molte persone l'attorniavano chiedendo conto dell'accaduto.

Che poteva essa rispondere?...

Che lei come la fanciulla erano uscite dalla chiesa per avviarsi alla loro abitazione, che una vettura ingombrava la via, che essa si ritrasse, che due braccia, mentre il cavallo sferzato impennavasi, avevano afferrata Bianca, e che la carrozza era sparita come un lampo d'innanzi a' suoi occhi.

Le si diede qualche conforto - le si disse che la solita autorità si sarebbe posta sulle tracce dei colpevoli - fu condotta a casa, e là attese impaziente una nuova parola, uno schiarimento, qualche cosa infine che la togliesse da quell'ansia inquieta e febbrile alla quale era in preda.

*

Arturo avviavasi alla sua ora consueta verso la casa abitata dalla fanciulla.

Vi si avviava desioso egli pure d'una parola - impaziente di rileggere ne' suoi sguardi quell'affetto che sapevano esprimere così bene, e vi trovò un affollamento che lo sorprese.

I vicini sottosopra! - il portinaio cogli occhiali sul naso, intento a dire qualche cosa d'interessante ad un gruppo di persone che gli facevano corona, e per la via.... e su per le scale, un insolito agglomeramento di gente.

- Che diavolo è successo?... - pensò fra sè.

Era ben lungi dal sospettare neppur per ombra la cosa, e pensava che fosse morto qualcuno - che fosse successo un furto - che fosse corsa una coltellata in una rissa - tutto infine, tranne il vero.

Il suo amore con Bianca, se non era ufficialmente noto ai vicini, lo subodoravano, poichè le visite assidue d'un giovinotto come lui ad una bella fanciulla di diciassette anni come Bianca, lasciano supporre molte cose!... ed i vicini.... si sa bene.... sono fatti apposta per cacciare il naso negli affari degli altri, e sono pericolosi press'a poco come la finanza per gli oggetti di contrabbando.

Nulla però avendo che gli rimordesse sul conto dei fatti suoi.... egli lasciava dire.... La vecchia faceva tanto di spallucce - Bianca sorrideva e gli dava un bacio, un bacio puro come la sua anima e che non faceva arrossire al certo la sua fronte di vergine.

Quando egli però varcò la soglia della casa, fu sinistramente impressionato da tutti quegli sguardi che si fissarono su lui. - A quegli sguardi successe un bisbiglio, al bisbiglio.... altri sguardi.

Quello strano scombussolamento che ne rompeva la solita quiete, lo riguardava dunque, e, se non lui, riguardava le persone a lui care.

Nulla chiese - per paura forse di chiedere - ma il cuore gli batteva fortemente.

Salì a volo i pochi gradini della piccola scala ed arrivò all'uscio che era aperto.

Là pure, nella prima stanza abitata dalla vecchia - c'erano due donne - nella camera un gran disordine.

La vecchia Anna giaceva sopra una poltrona col capo fra le mani; le due donne stavano guardandola. Egli cercò Bianca, col suo sguardo inquieto; Bianca non c'era.

*

Dopo un istante sapeva tutto.

Che fare?...

Avrebbe voluto correr fuori subito, mettersi sulle sue tracce, frugare, rovistare tutta la città; ma era così strana la cosa, che non ci capiva nulla, e non trovava, nella sua mente sconvolta, neppure un pensiero che potesse venirgli in aiuto.

La vecchia nonna raccontò da capo quello che sapeva, quello che era successo.... e poveretta, anco lei, che cosa poteva dire di più?...

C'era sotto un mistero, un intrigo, una trama, questo si capiva; ma dove dar del capo?...

L'unica cosa da farsi intanto, e la più ragionevole, era di recarsi all'ufficio di polizia per sentire se sapessero qualche cosa e che cosa poteva farsi.

Arturo vi corse difatti e chiese di parlare col commissario.

Era così scalmanato, che mentre si faceva l'ambasciata al degno tutelatore dell'ordine pubblico, una guardia che stava dondolandosi in anticamera dinanzi ad un braciere, di cui rimoveva di tratto in tratto le brage colla più sibaritica delle voluttà, gli chiese che cosa fosse successo.

La smania di raccontare non gli mancava e le parole gli bruciavano sulle labbra smaniose d'uscirne fuori.

Il poliziotto lo ascoltava però con un risolino sarcastico e per tutta risposta gli chiese, se era certo.... che la fanciulla non avesse qualche altro amante.

Se avesse dato retta allo sdegno da cui si sentì preso, per quell'osservazione, che a lui parve la più sguaiata delle impertinenze, il nostro innamorato avrebbe fatto ruzzolare sul lastrico quel facente parte della benemerita, con uno di quei ceffoni che si sanno dare completi.... soltanto in certi momenti.... e tanto più vigorosi, quanto più sono domandati in quella maniera....

Per buona fortuna gli si annunciò che il commissario era pronto a riceverlo.

Il giovane si accontentò di fulminare il suo interlocutore con un'occhiata, ed entrò nel gabinetto del signor commissario di polizia.

CAPITOLO VII UN COMMISSARIO

Era un uomo sui sessant'anni, magro, un po' curvo; volgeva e rivolgeva fra le dita sottili e lunghe una tabacchiera d'argento e pareva occupatissimo nel rovistare un'infinità di grossi scartafacci che ingombravano il suo scrittoio.

Quando Arturo entrò, egli distolse a malincuore lo sguardo dalle sue carte, si inforcò più saldamente gli occhiali sul naso, gli fissò in faccia i suoi quattr'occhi, e gli chiese, con accento reso forse più nasale da quell'ultima pressione su quella sua specie di protuberanza elefantina - in che cosa poteva servirlo.

Il modo non era scevro da una certa compitezza che incoraggiò il nostro avvocato.

- Signor commissario.... - rispose egli - da qualche tempo succedono in Roma delle cose strane.

Il commissario emise un: - Ah!... - espressione colla quale pareva volesse dire:- ci siamo!...

Aperse tranquillamente la sua tabacchiera, ne fiutò voluttuosamente una presa e si rovesciò col dorso sulla sua poltrona, in apparenza disposto a prestare tutta la sua attenzione a quanto si stesse per dirgli.

- Sì.... signor commissario - riprese il giovine - delle

cose molto strane!...

- E.... sarebbero?... - chiese il commissario.

Arturo rinnovò il racconto che gli avea fatto la nonna di Bianca, senza togliervi nè aggiungervi una parola; ma era così agitato, che se quell'onorevole rappresentante dell'ordine pubblico si fosse permessa una considerazione, come quella che erasi già permessa il suo subalterno dell'anticamera, non avrebbe dato al certo troppe garanzie della sua pazienza e l'avrebbe mandato a carte quarantanove... senza il minimo rispetto alla rispettabilità.... del luogo dove si trovava.

Non fu così.

Il commissario parve anzi impressionato dalla commozione stessa che traspariva da ogni parola del giovane, tanto che quando egli ebbe finito, riaspirò, con aria quasi tragica, una enorme presa di tabacco.

Era il suo modo di esprimere l'impeto nervoso che si permetteva di tratto in tratto, nelle grandi occasioni.

- Oh lo so.... lo so.... - proruppe poi - abbiamo in Roma una masnada di manigoldi che giuocano a chi ne fa di più. Dove si nascondono?... Il diavolo solo potrebbe saperlo. Stiamo per mettervi sopra le mani.... e là.... come nei giuochi di bussolotti!... non si sa più dove siano andati. Ce n'è una nuova ogni giorno - si ruba, si aggredisce sulla pubblica via, si fanno dei ricatti, e noi?... Perchè ci siamo noi?... Per nulla!...

Il brav'uomo.... si scalmanava, diventava rosso, e dava dei pugni sullo scrittoio, come li avrebbe dati sul muso del primo di quei manigoldi di cui parlava con tanto sdegno, quando gli fosse stato tradotto dinanzi ben bene ammanettato, e nella assoluta impossibilità di ridargliene un altro.

Aveva fiutate frattanto due o tre altre prese di tabacco e si era ripiantati sul naso gli occhiali che stavano per sormontare le prominenze elefantine della sua proboscide eccezionale.

Il giovane lo guardava, e lo stava ad ascoltare un po' sorpreso, sperando sempre che uscisse dalle sue labbra una parola, atta almeno a tranquillare le inquiete sue ansie.

- Sicchè.... voi dite.... giovinotto?... - ripigliò il commissario piantandosegli dinanzi, compreso da tutta la severa maestà della sua carica.

- Ripeto - rispose Arturo - che fu rapita una fanciulla, a pochi passi dalla chiesa di Santa Maria Maggiore!

- Bene!... - esclamò il commissario.

- Come.... bene?... - ribattè Arturo, che non riusciva a comprendere il senso di quell'esclamazione.

- Affermavo il vostro detto. Quanti anni aveva?...

- Diciassette.

- Di forme?...

- Snelle.

- Capelli?...

- Biondi.

- E si chiama?...

- Bianca Del Balzo, figlia del generale e della contessa Del Balzo - pupilla del marchese.... D....

Il commissario si era rimesso allo scrittoio e tracciava alcune linee.

Arturo aveva appena terminato di dare questi particolari, che il commissario, sbuffante più di prima, uscì fuori dai gangheri.

- Figlia d'una contessa.... - esclamò.... - sicchè contessa essa pure e pupilla di un marchese!... Per San Giuseppe!... ecco con chi se la pigliano.... questi farabutti. In alto!... Hanno la manìa di pescare in alto!... Oh! non le potrebbero lasciar stare le contesse?... ma no.... e me lo immagino già che cosa ci sta sotto! Un ricatto bell'e buono! mercè il quale intimeranno alla loro maniera lo sborso di una somma enorme, oppure un affare.... combinato a nome.... Dio sa di chi!...

Qualche gran personaggio compromesso - contro cui non si potrà far nulla - diamine!... si sa bene!... - una giovinetta!... diciassette anni - bella - bionda!... abita una povera casa! - vive con una vecchia!... A quest'ora, scommetterei che si adopreranno le essenze più fini per farla rinvenire - sarà adagiata sopra un letto adorno di trine, in una sala piena di profumi - e quando rinverrà, vedrà a sè d'intorno oro, tappeti, fiori. - Ma sì.... sì.... - continuava egli, fiutando una nuova presa di tabacco - ed a quei mascalzoni avranno dato appena qualche centinaio di scudi!... - Andatela a stanare adesso!... se si trattasse d'una taverna, meno male!... ci si può entrare.... ma sì.... frugateli ad uno ad uno tutti i palazzi di Roma!... e si può forse?... no!...

Arturo stava a sentire ammutolito.

Il degno commissario stava improvvisando il suo romanzo; e se lo vedeva là.... bello e fatto; non gli mancava nulla - nient'altro.... che il rapitore introvabile.

Il giovane era andato da lui, certo d'avere un appoggio - vagheggiando almeno una speranza, e non riportava da quella sua visita fatta all'autorità che uno sgomento di più.

Dinanzi a lui vedeva il caos, l'abisso - e tutto quel quadro messogli dinanzi dall'esaltata fantasia del commissario gli si affacciava alla mente quasi vero. - Il palazzo - i fiori - i profumi - le gemme - e vicino a lei.... un uomo - bello forse - giovane - che l'attorniava con tutti i fascini della ricchezza susurrandole all'orecchio: sei bella!... ti amo!...

Si sentì preso da una specie di vertigine.

Il commissario dicevagli intanto:

- Siate tranquillo, giovinotto - la giustizia farà il suo dovere.

Egli non intese neppure quelle parole che gli sarebbero sembrate uno scherno, ed uscì.

*

Giunto sulla via, l'aria fredda della notte calmò la sovreccitazione convulsa del suo cervello, ed egli si pose a riflettere su quello strano rapimento di cui Bianca era stata vittima.

Di tutto quell'affastellamento di parole uscite dalle labbra del commissario, l'aveva colpito una sola cosa.

Che esisteva cioè in Roma un'associazione formidabile di malfattori che, al furto ed all'aggressione, aggiungevano il ricatto, e che avrebbero forse imposto misteriosamente il pagamento di una somma, prezzo assoluto per la restituzione della fanciulla.

L'idea che la sua Bianca giacesse ora in uno di quei covi dove si rifugia tal sorta di gente; in tali mani, e soggetta ad indicibili torture, era spaventevole; eppure preferì confermarsi in questo pensiero che accettare l'altro.

Non voleva pensarci a quel palazzo di cui avevagli parlato il commissario; a quelle trine, a quei tappeti.

La preferiva in un covo di banditi la sua bianca fanciulla dagli occhi celesti!... Avrebbero imposto una somma!... Ebbene, si sarebbe pagata!...

Quel covo, col suo squallore, gli faceva meno paura d'un palazzo co' suoi fascini.

E poi era giovane, sentiva d'avere dell'audacia, del coraggio, e l'idea di poter trovare quel covo, scoprirla e gridarle: - Sono io!... - gli sorrideva.

Quando si è giovani.... e si è innamorati come lo era Arturo, non si dispera!...

Gli parve anzi di intravedere l'antro dove l'avevano nascosta, e recatosi a casa sognò un regno abitato da mostri strani che stavano di guardia alla sua bella; sognò che una fata scendeva dalle nuvole recinta da un'aureola divina, sognò che gli consegnava una bacchetta magica al tocco della quale tutte le porte si aprivano a lui, e che a guisa degli eroi delle antiche leggende egli vinceva lotte sopra lotte, attraversava dei mari infocati, penetrava negli abissi della terra, strozzava dei leoni, tagliava la testa a delle iene e si trovava poi sotto un padiglione di mirto, in un giardino incantato come quelli delle fiabe, stringendosi sul seno la sua Bianca che lo copriva di baci.

CAPITOLO VIII ESTER

Prima che gli facciamo fare più ampia conoscenza colla banda che erasi cacciata per le viuzze del quartiere dei Monti, avviandosi al loro centro di riunione, ci permetta il benigno lettore di presentargli un nuovo personaggio.

*

La luce dei doppieri rischiara un elegantissimo gabinetto - i mobili armonizzano mirabilmente colle ricche tende che adornano le finestre - col tappeto a fiori - colle specchiere dorate - coi tanti gingilli sparsi qua e là. Sul tavolino da lavoro, d'ebano, intarsiato di madreperla, spicca un elegante cestello di canottiglie a bizzarri disegni, un piccolo telaio da ricamo pure d'ebano - accanto al ricamo una chattulle da guanti - sul pianoforte aperto, dei ricchi album musicali, delle romanze con legature in moiré dorate, inargentate, luccicanti.

Dal piccolo divano, innanzi al quale è distesa una magnifica pelle di leopardo, i cui occhi di vetro, perfettamente imitati, pare che brillino di luce sanguigna, deve essersi appena alzata la gentile abitatrice di quel piccolo eden, poichè vi si vede un lungo guanto arrovesciato come la pelle d'una biscia, gettato là colla noncuranza della donna abituata ad adornarsene.

Quel lusso però di tende, di fiori, di gingilli, di specchiere, di quadri e di tappeti, ha qualche cosa di così sfacciato e di così provocante, che vi farebbe intuire a colpo d'occhio, essere quello tutt'altro.... che il gabinetto d'una signora....

Non è infatti che il gabinetto di Ester.

I suoi conoscenti non la chiamano con altro nome.

Non ne ha altro.... forse.... o, se l'ebbe, l'ha nascosto sotto uno di quelli che si dicono nomi di battaglia. Non valeva forse la pena che se ne ricordasse. Ne avrà cambiati troppi.... forse.... per ricordarsene uno, piuttosto che l'altro.... o preferisce non esser chiamata che Ester.

È italiana.... è francese.... è spagnola?...

Nessuno lo sa.... non lo sa, forse, neppure lei....

Quello che sanno e che vedono tutti, compresa lei stessa, che ha forse.... appunto per questo, abbondato tanto in specchiere, è che è bella!...

Vi troveremo degli strani visitatori in quell'elegante salotto.... e sta disponendosi a riceverne qualcuno, poichè vi entra aprendo l'uscio con atto impaziente.

È forse tornata da poco da qualche visita, perchè sta togliendosi l'altro guanto nero denudando fin sopra al gomito, su cui ricadono i pizzi della sua mezza manica, un braccio d'una purezza di forme incantevoli.

Dal morbido involucro di cui slaccia gli ultimi bottoncini, esce pure una mano bianca come il latte, alle cui carni la pressione stessa dello stretto guanto ha aggiunto una più bianca bianchezza....

Ester lo getta sul divano come poco prima vi aveva gettato l'altro, suona il campanello e chiama.

Una cameriera si presenta sulla soglia del salotto.

- Verrà fra poco.... sai chi.... - le dice - introducilo e finchè c'è lui.... non sono in casa per nessuno.

- Neanche per?... - arrischia di chiedere la cameriera, aggiungendo alla sospensione del nome una di quelle occhiate che dicono tante cose....

- Per.... nessuno.... - afferma Ester licenziandola.

Ester sembra inquieta.

Siede al pianoforte, fa scorrere le sue belle dita sulla tastiera d'avorio traendone qualche nota bizzarra, a scatti.... a strappi...., pare che improvvisi.... affastella invece insieme diversi motivi.... in cui non c'è nè l'espressione del suo pensiero, nè quello d'un'armonia - si alza poi - guarda sulla via da una delle finestre, scostandone le tende, raccoglie i guanti che ha gettati sul divano, li butta sul cestello da lavoro, apre la chattulle e, tanto per fare qualche cosa, per dare sfogo forse all'irrequieta sua nervosità, ne sceglie un altro paio, di un colore chiarissimo, e postasi dinanzi allo specchio si occupa a calzarli introducendovi con voluttuosa compiacenza le dita sottili, come se volesse imprigionarvele per impedir loro di fremere in quell'ansia d'un'attesa che sembrava preoccuparla tanto.

La visita che aspettava, richiedeva forse quell'ultimo compimento della sua toilette sfavillante.

*

- Il marchese Giulio - annunciò, dopo circa un quarto d'ora, la sua cameriera.

Ester stava sfogliando un libro colla punta sottile delle sue dita inguantate - ma ne scorreva appena collo sguardo le pagine, non pensando al certo a quello che stava leggendo.

Aspettava, ed aspettava a quanto pare il marchese Giulio, perchè, gettato il libro, si alzò di scatto movendogli incontro.

Non si rivolsero un complimento - si scambiarono soltanto uno sguardo.

- Giocati!... - le disse Giulio, rispondendo allo sguardo di Ester.

- Giocati!?... - esclamò la donna, dando a quell'esclamazione il significato della sorpresa ed in un della domanda.

- Da chi, non lo so,... - rispose il marchesino gettandosi sul divano - ma il fatto è che la colomba strappata dal nido, per conto nostro.... cioè, dirò meglio, per conto mio, non è più là, dove credevo di trovarla. - Per Iddio - continuò egli, giocherellando con un bastoncino che teneva tra le mani e col quale divertivasi a battere i grossi rosoloni del tappeto - pare che nella vostra famosa associazione ci sia qualcuno che sfrutta il mestiere per fare comodamente gli affari suoi.

Ester lo ascoltava.

Stava forse ideando un progetto, o cercava di afferrare un pensiero, fra i tanti che andava fantasticando il cervello, perchè i suoi sguardi avevano una fissità sfavillante. Il giovane la comprese così bene, che tacque....

- È lui!... - esclamò finalmente Ester.

- Chi?... - chiese il giovane.

- Ci avrà veduto un ricatto per conto suo - continuava la donna, seguendo ansiosamente il corso del pensiero su cui erasi fermata, e senza badare alla domanda del marchesino. - Si è immischiato diverse volte nei nostri affari - esclamò - ma badi.... qui ai Monti c'è carne anche per i suoi denti!...- quell'imbecille d'un Guercio ha un occhio di troppo, e sarebbe meglio che non avesse neppure quello - non c'è altri che lui.... per quello stupido!... bisogna che tutto dipenda da lui!... come se noi, i fatti nostri, non si sappia farli senza quella ciurmaglia del Trastevere....

- Si può sapere chi sia questo lui? - osò chiedere timidamente il giovinetto.

- Gennaraccio - rispose Ester.

Al marchesino corse un tal brivido freddo per le ossa, che cessò dal battere i rosoloni del tappeto col bastoncino, mentre spalancava tanto d'occhi in faccia ad Ester....

- C'entra Gennaraccio!... - balbettò.

- E dov'è che non c'entra?... quel figlio d'una spia!... - proruppe Ester; - se non si può muovere un passo senza che ci sia il suo beneplacet! - Sono un branco di conigli i nostri!... ecco tutto!... ma questa volta - continuava essa, percorrendo a passi concitati il salotto - questa volta mi sentiranno. Non sono tale io da esser tenuta qui a far da richiamo a quattro imbecilli che ci lasciano qualche manata di scudi.... quando piace loro di darsi il capriccio d'un po' di macao o di zecchinetta! - A parità di giuoco - parità di affari! - ce la giuoco anch'io la mia parte di galera - e la parte di pupattola da salotto, che mi hanno affidata, non mi garba niente affatto.

Aveva preso uno scialle dalla spalliera d'una seggiola, sonò il campanello - chiamò Fanny - si fece portare un cappuccio di lana - si gettò lo scialle sulle spalle, si coprì la testa col cappuccio, vi si ravvolse, e disse al marchese Giulio: - Esco.

Erasi mostrata così apertamente ciò che era.... che il marchesino venuto lì, spesso con altri, a perdervi la sua manata di scudi, come diceva lei, od a guadagnarli, forse provò, a sentirla parlare così, quello stesso brivido che aveva già provato a sentir nominare Gennaraccio.

Quella pupattola imbellettata ed adornata da gran signora, pronta a prodigare capricci, come a tener mano ad un intrigo, facendo infine da uccello di richiamo alla compagnia, parlava di galera, e di sotto alla morbida pelle del guanto mostrava le sue unghie da tigre.

Il ginepraio nel quale s'era cacciato, gli apparve forse allora soltanto, in tutta la sua realtà, tutt'altro che seducente, e quel rapimento che complicavasi colla intromissione del famoso bandito del Trastevere, spaventò lui stesso a tal punto, che, incapace a dire una parola, nè a trattenerla con un gesto, vide uscire Ester, alla quale aveva fatto tante volte da cavaliere.... ed intorno a lei, gli parve vedere riunita tutta quella spaventosa falange di mostri notturni che sarebbe andata a cercare, chi sa in quale covo, e avrebbe voluto che tutto ciò fosse un sogno.

- Il signore l'aspetta? - gli chiese Fanny.

- No - rispose il marchesino alzatosi di soprassalto dal divano su cui stava come inchiodato.

Prese il cappello ed uscì.

- Torna?... - gli chiese di nuovo la cameriera.

Il marchesino aveva aperto l'uscio e scendeva già i gradini della scala.

- Verrà a trovarlo la padrona - gli gridò dietro Fanny con tale accento di canzonatura che l'avrebbe fatto impallidire di più.... se avesse potuto essere più pallido.

Si sentì dietro le spalle lo scroscio sonoro d'una risata, poi il rumore dell'uscio che chiudevasi, e fuggì, fuggì, non osando neppure di volgere il capo, ed imbacuccandosi sino agli occhi sotto l'alto bavero della sua pelliccia, come se avesse voluto nascondervisi.

*

Quando giunse a casa, seppe da suo padre che un commissario di polizia, informato del rapimento avvenuto, erasi recato da lui per avere degli schiarimenti in proposito.

Il marchese infatti li aveva dati, ed il degno commissario, che aveva sfoggiata per la sua visita al signor marchese la toilette di parata delle grandi occasioni, aveva scritto uscendo di là sul suo libriccino di note:

«Affare poco importante - giovinetta e vecchia - teste balzane - avvocato Arturo Rindi sorvegliabile

CAPITOLO IX SEDUTA

Gli schiarimenti di cui aveva bisogno lei, Ester, sapeva come averli.

Ai soci del puntarolo radunatisi ai Monti, come il lettore se ne ricorderà, era stato già detto che la volpe era in tana, che era l'ora che della nebbia non ce n'era, che la famiglia era al chiaro, e che per strada c'era posto.

Il che voleva dire che il capo li aspettava, che la banda era al completo, che la sala delle riunioni era rischiarata e che per strada non c'erano pattuglie che dessero loro incomodo.

Abbiamo già detto che la sala delle riunioni era una larga cameraccia che serviva, più che ad altro, come deposito degli oggetti provenienti dai vari furti compiutisi in un dato periodo di tempo; ed alla seduta che vi si teneva, oltre al colonnello, al Maestro, al Cavalierino ed al Paìno, che avevano ottenuta, per i loro meriti personali, una gradazione autoritaria, vi prendeva parte quella sera tutta la bassa ciurmaglia dell'associazione.

Tipi strani, barbe da spauracchi, facce livide, voci rauche ed avvinazzate, vestiti laceri, unti, rappezzati, che contrastano coll'abito nero, abbottonato sino al mento del colonnello, colla giacca di velluto a larghi risvolti del Paìno, col frak del Cavaliere e col lungo gabbano del Maestro.

E tutta questa bizzarra accozzaglia di gente seduta intorno ad una lunga tavola sulla quale vedevansi, divisi a pacchi, davanti a ciascuno, gli oggetti che erano stati dichiarati di loro proprietà, eccezion fatta della roba venduta in blocco, e del cui ricavato erasi fatta la regolare spartizione.

Una lampada attaccata al soffitto con una corda, gettava su quella strana accozzaglia di facce sinistre più fumo che luce.

Colui che chiamavano il colonnello doveva aver finito qualche discorso, che la folla accolse con un mormorìo d'approvazione.

Doveva al certo aver parlato dei loro statuti e dei loro diritti, poichè superbo dell'effetto ottenuto:

- Ebbene - continuò egli - bisogna che noi siamo da oggi in poi interamente padroni di regolarci come meglio crediamo. Abbiamo compiuto un fatto, vi abbiamo impiegata tutta la nostra attività, è riuscito, e che ci si mette di mezzo?... un altro!...

- C'eri tu?... - chiese egli rivolgendo la parola ad un omaccione che lo stava ascoltando colle braccia incrociate sulla tavola appoggiando il mento sulle sue grosse manacce.

- C'ero!... - rispose colui che i suoi compagni stessi chiamavano il gigante.

- Quando è arrivata la barca?...

- Dopo un'ora circa che ero là.

- E ti ha detto?...

- Niente.

- Come niente?...

- Andò su, ci disse di seguirlo, ci fece prender la ragazza, la fece deporre nella barca, si spinse al largo, e andò giù.

- E voi l'avete lasciato fare.... imbecille!... - urlò il colonnello - chi è lui infine?!...

- È Gennaraccio - rispose il gigante stringendosi nelle spalle.

- Bisognava non obbedirgli.

- A Gennaraccio?... - rispose il gigante con tale inflessione di voce che non lasciava dubbi sulla onnipotente ascendenza che aveva su quegli animi il puntarolista del Trastevere.

Il Paìno lo fulminò con uno sguardo olimpico di disprezzo.

Il Cavalierino accomodava le sfere di un orologio d'oro che aveva avuto di sua parte.

Un brontolìo accolse le parole del gigante, ma non esprimeva un fremito di rivolta, esprimeva al più un principio d'ostilità ad un dominio subito di mal animo.... ma subìto.

Furono bussati all'uscio tre colpi.

Si alzarono tutti, cacciarono tutti una mano in tasca, ed ogni mano volle sentire sotto il tatto delle sue cinque dita il manico d'un coltello o il calcio d'una rivoltella.

- Silenzio - intimò a bassa voce il colonnello.

Furono bussati più piano altri due colpi.

Nessuno si mosse.

Dietro l'uscio risonò un sol colpo, secco e vibrato.

-Famiglia.... - disse il colonnello.

Uno degli uomini andò ad aprire.

Entrò Ester.

*

Un' ora dopo, la deliberazione di ritogliere la ragazza rapita dalle mani di Gennaraccio, e di romperla definitivamente col Trastevere, era stata accettata in massa, ed intorno alla povera Bianca si raggruppavano tre minacce e tre pericoli: Gennaraccio - i puntarolisti dei Monti - ed il marchese Giulio.

*

La sala delle sedute era rimasta deserta - la lampada era stata spenta - di sotto alla tavola però brillò una luce improvvisa e tra uno sgabello e l'altro si sporse fuori una testa.

Non era un'apparizione da far paura. Era una testolina, se non bella, tale almeno da stonare fra tutte le altre patibolari, che avevano formato il gruppo di prima.

Era il monello che aveva già fatto da battistrada alla banda e che era arrivato al posto mettendosi comodamente a cavalcioni dietro alla carrozza che aveva ricondotto al palazzo il marchese.

Il fiammifero che aveva acceso sotto la tavola, poteva servirgli per poco - ma un secondo fiammifero gli bastò per montare sopra uno sgabello, dallo sgabello salì sulla tavola e con un terzo fiammifero riaccese la lampada.

Vistosi padrone del campo, girò a sè d'intorno lo sguardo, e provò un infinito sentimento di compiacenza. Là.... dove erasi discusso sul mio e sul tuo - dove qualcuno aveva comandato - altri.... obbedito, egli trovavasi solo - non aveva superiori che lo intimorissero - non compagni con cui dividere le idee.... poichè gli davano così poco, che da dividere, nulla rimanendogli, non gli sarebbero rimaste che le idee, se ne avesse avute. - Naturalmente egli aveva quelle degli altri.

Vide sopra la tavola un involto - lo slegò, e trattone fuori un pastrano dove ci stava dentro almeno due volte, se lo infilò pavoneggiandosi e divertendosi a misurare la tavola pel lungo e pel largo.

Il soprabito che aveva indossato doveva essere appartenuto a qualche giovinotto che poteva avere la sua età. Egli aveva circa 15 anni, ma la mala vita, e più della mala vita, qualche bibita alcoolica a cui l'avevano abituato, avevano impedito al suo corpo di compiutamente svilupparsi.

Era rimasto un monello, e quell'abito da mezzo uomo lo rendeva grottesco, mentre egli credeva quasi d'essere.... splendido!...

Assorto compiutamente nel suo entusiasmo che non ammetteva ragioni, per quanto potessero essere logiche, egli credette bene d'abbandonarsi allo slancio d'una piroetta.

Fu fermato a mezzo giro da una mano che l'afferrò per la falda dell'abito, e da una voce che gli disse:

- Peppe, tu mi derubi.

La voce, come la mano, erano proprietà assoluta del Guercio, che a quanto pare si credeva in diritto di reclamare, come sua proprietà convenzionale, la sopraveste del monello.

Al sentirsi chiamare Peppe, il monello a cui tutti davano il nomignolo di Peppetto, intuì quasi, che l'abito fa il monaco.... ad onta dell'inversione che s'è data alla frase.

Egli si raddrizzò in faccia al Guercio, fiero del metro e più d'altezza concessogli dalla tavola su cui era salito.

- Vecchio mio - gli disse - ragioniamo. Perchè ti derubo?...

- Perchè - gli rispose il Guercio - il vestito che tu indossi mi è toccato come parte di diritto nella divisione, diritto tanto più acquistato, perchè mentre gli altri se ne sono andati pei fatti loro, io stava di là mettendo in ordine il magazzino; della roba da prendere ce n'è, non l'ho presa; io dunque lavoravo - tu rubavi - chi ha ragione?...

Il monello si cacciò cinque dita nei capelli arruffati e si grattò il capo colla presunzione, forse, di cercarvi un'idea.

Pare che non ne trovasse, poichè, per tutta risposta, si dispose, con un sospiro di rammarico, a togliersi il soprabito.

La mano del Guercio lo trattenne una seconda volta.

- Tienlo - gli disse - farò di più, t'accorcerò le maniche perchè t'impaccerebbero negli affari.... Eri qui, hai fatto qualche cosa, non t'han dato nulla, prendi quello che trovi, è giusto. Quello che volevo farti comprendere, ragazzo mio - continuò il vecchio - è questo soltanto: facevi male a rubarlo a me. Si devono avere dei diritti.... in tutto ciò che si fa. Chi ha un guardarobe, ha degli altri abiti.... - Prenderlo a me che me lo sono guadagnato.... sta male!... Il mio diritto d'averlo, me lo sono acquistato, tu lo prendevi.... senza sapere a chi, ecco l'errore.... Abbi dunque questo sempre in mente; avere il diritto di fare quello che si fa; se si ha fame bisogna pur mangiare, se si ha freddo, bisogna pur vestirsi, il furto non è che un lavoro d'un altro genere; perchè sono un ladro io?... Perchè non ho potuto essere onesto. Lo puoi essere?... Siilo. Si può essere onesti anche rubando. Tu non capirai niente, ma non importa, dovrei spiegarti troppe cose per farti capire quello che voglio dire io!...

Lo strano discorso del Guercio fece spalancare tanto d'occhi a Peppe.

- Deve essere matto.... - pensò tra sè, mentre il vecchio trattolo giù dalla tavola gli rivoltava in dentro le maniche del soprabito.

- Hai fame?... - gli chiese il Guercio.

Il monello gli rispose col più eloquente degli sbadigli.

- Basta.... - gli disse il vecchio chiudendogli la bocca con una delle sue larghe mani. - Meglio così, parlando si dice troppo, spesso niente, meglio così, mangerai, sei nel tuo diritto. Spegni la lampada e guarda fuori.... bisogna fare qualche cosa per averne un'altra.

Egli aperse cautamente l'uscio con una piccolissima chiave.

Scesero quattro gradini, si trovarono in un corridoio, risalirono altri gradini d'una piccola scala, trovarono un altro uscio, che dava sopra un cortile; il cortile aveva due porte; il Guercio si avvicinò a quella di destra, l'aperse, il monello uscì solo, tornò subito.

-Posto dappertutto... - gli disse sottovoce.

- Andiamo - gli rispose il vecchio.

CAPITOLO X «FERVET OPUS»

Di corse alla casetta di via del Garofano, il giovane avvocato Arturo ne aveva fatte più d'una dozzina, prodigando vani conforti alla vecchia Anna.

Per la polizia dovette accontentarsi di una sola seconda visita.

Il commissario gli aveva piantate in faccia impertinentemente le lenti de' suoi occhiali, e gli aveva risposto che l'autorità faceva con zelo il suo dovere.

A lui pareva che di zelo ce ne mettesse troppo poco, e che non avesse neppure la voglia di mettercene, ma erano persuasioni che dovette tenere per sè.

Il marchese Andrea che aveva avuta la pazienza di sentire per la quarta volta i particolari di quell'avvenimento, finì col mostrarsene tanto annoiato da lasciar supporre che alla quinta avrebbe mandato al diavolo chiunque fosse andato a rintronargli la testa con delle altre geremiadi; - che fare?...

Far da sè.... e cercare.

Involontariamente il commissario gli aveva lasciato intravvedere come si potesse trattare d'un ricatto.

Erano però scorsi tre giorni, e nè al marchese, nè alla vecchia Anna, era stata fatta alcuna intimazione.

Tutto era mistero, e quel silenzio lo spaventava.

Se trattavasi d'un ricatto, non poteva che essere opera della misteriosa associazione che sapeva con tanta audacia compiere ogni sorta di delitto; ed il rapimento, se l'avevano eseguito loro, l'avevano forse eseguito per ordine di qualcuno.

Questo pensiero era pel giovane più spaventevole del primo.

- Non perdiamoci d'animo - disse però alla vecchia Anna - sapremo presto qualche cosa; dovessi mettere sottosopra tutta Roma e frugarne tutti gli angoli. Non ci sarà posto dove non sappia cacciarmi. Ho difesi certi pendagli da forca e ne conosco più d'uno che mi deve un po' di gratitudine; tutto serve in certe occasioni, e non è certo ai signori della questura che lascerò l'incarico di sbrogliare la faccenda.

*

C'è un Dio.... per gli ubriachi!... - ma ce n'è uno anche per gli innamorati, scrisse babbo Dumas.

Il catechismo per semplificarlo lo divide in tre persone, ed a voler discuterci sopra la questione si complicherebbe troppo; ma si tranquillino i lettori e le gentili lettrici, non ho alcuna voglia di far loro subire una digressione teologica.

Arturo era persuasissimo che per lui, uno o trino, qualche cosa lassù.... ci doveva essere, ed una sera, indossata una giacca che aveva diritto al massimo dei rispetti per il suo stato.... di servizio, cacciatosi sugli occhi un cappellaccio, che, in fatto di benemerenza, accampava i diritti della giacca; colla pipa in bocca, e qualche cosa in tasca, uscì di casa disposto a tutto, anche a farsi prendere per ciò che non era.... da qualche agente della forza pubblica, che in certi casi fanno quello che possono, per far tutt'altro di quello che dovrebbero fare.

Mancava poco alla mezzanotte ed aveva visitato già più d'un bugigattolo - da San Pietro in Vincoli alla Concezione; dalla via dell'Agnello al Macel de' Corvi; dal vicolo Chiuso a quello di Cianca Leone.

Assolutamente, egli pensava tra sè, quei certi miei clienti hanno trovato qualche inciampo alla loro carriera.... e ne hanno presa un'altra....

Svoltando per San Pietro in Vincoli, mentre rifaceva le strade già percorse, un lampione a vetri rossi attirò la sua attenzione.

Il lampione, o per meglio dire, una lanterna dondolante, era appesa ad un gancio, sopra la porta dell'osteria; una porticina bassa e stretta. Di dentro sentivansi delle voci, dinanzi ai vetri dell'uscio erano tirate internamente due tendine rosse. L'osteria aveva tutta l'apparenza di non poter essere più orrida, ed era una di quelle come le cercava lui.

Si abbottonò la giacca fino al mento ed entrò.

Quattro individui occupavano una tavola giocando a scopa con un mazzo di carte più sudice delle loro mani.

Avevano davanti due fogliette di vino bianco, e gettandosi in faccia un mannaggia li mortacci tui! ed una boccata di fumo, ad ogni scopatura.... indovinata, continuavano però tranquillamente la loro partita.

La stanza era angusta, l'oste gobbo. Dalla cucina usciva un odore nauseante di grassumi, dalla cantina un odore di vino che appestava; l'aria era tanfo, una nube di fumo riempiva la stamberga.

Egli s'avvicinò ad una tavola libera, tirò a sè uno sgabello, e sedè ordinando una foglietta.

Gli fu portata una bevanda giallognola, che il gobbo battezzò pomposamente per Orvieto, e forzatosi a mandarne giù qualche sorso frenando le contorsioni dello stomaco che sentiva un immenso bisogno di ributtarlo fuori, fece di necessità virtù, ed attese.

Le faccie dei quattro giocatori gli erano compiutamente ignote. Niente ex.... clienti.... neppur là....

C'era un quinto avventore che pareva sonnecchiare, in un angolo, colla guancia appoggiata sulle braccia incrociate. Ignoto anche quello!...

La sfiducia entrava a poco a poco nell'animo del giovane; quel fetore lo nauseava, quel fumo lo soffocava; i quattro giocatori bestemmiavano picchiando enormi pugni sulla tavola, il quinto dormiva sempre.

- È meglio andarsene - pensò Arturo.

Stava per chiamare il gobbo e traeva già dalle tasche un paolo, da gettar sulla tavola, quando dall'uscio della taverna, che si aperse improvvisamente, sgusciò dentro come un'apparizione un nuovo personaggio.

Il giovane non potè a meno di sorridere. - Quell'apparizione lo interessava.

Era un ragazzo infagottato in una specie di frak che gli arrivava quasi fino ai piedi. Le maniche di quello strano indumento dovevano essere state troppo lunghe, perchè erano state tagliate troppo; spiccava sotto al frak un enorme panciotto a quadrettoni bianchi e neri che poteva servirgli da giacca; portava sulle ventiquattro.... un piramidale cappello a cilindro discretamente avariato, e compievano quella inqualificabile toilette un paio di calzoni pure a quadrettoni come il panciotto, ai quali doveva essere stato applicato lo stesso taglio fatto subire alle maniche del frak.

In vista però dell'accorciamento troppo radicale delle maniche, ai pantaloni era stato concessa (opera al certo della stessa mano) la buona misura.

Erano dunque abbastanza lunghi per coprire quasi sotto le loro enormi pieghe due grosse scarpe che si permettevano di ridere troppo sgangheratamente trasformando la loro punta in una specie di bocca che nessuno spago di ciabattino sarebbe riescito a chiudere.

Era infine un ragazzo, mezzo sepolto sotto i panni d'un uomo.

Egli si fermò sulla soglia della taverna, e vi si dondolò pavoneggiandosi, sbirciando co' suoi occhietti furbi quale posto ci sarebbe stato da prendere.

Il posto c'era e se lo prese con abbastanza disinvoltura, ordinando un quarto d'Orvieto, e chiedendo nello stesso tempo all'oste un po' di fuoco, col quale accese un mozzicone che masticava coi denti.

- Pronto per servirlo..., signor marchese!... - gli disse il gobbo ridendo - Oh che!.... siamo di carnevale?... che si va in maschera?...

Il monello sotto i cui indumenti d'occasione il lettore avrà riconosciuto il protagonista in erba dei fatti che stiamo narrando, si strinse nelle spalle e non si degnò neppure di mostrarsi offeso dell'impertinente risata del gobbo.

Coi nobili paludamenti, sotto ai quali erasi nascosto, gli pareva di sentirsi trasformato.

- Ho detto che voglio un quartuccio d'Orvieto.... e di quello buono.... - ripetè, gettando in faccia all'oste una boccata di fumo. - Abbiamo tanto da pagartelo.... hai capito?

Nel dir ciò, egli battè col pugno sulle fonde dei pantaloni, che lasciarono sentire il suono metallico, benchè nè aureo, nè argenteo, delle monete che vi stavano affondate.

- Pronto.... a servire il signor marchese!... - ribattè il gobbo, messo di buon umore dalla comica serietà del monello.

- Che fai qui.... buona lana?... - gli chiese uno dei giocatori. - Grassi affari eh?... Mi sai dire dove diavolo hai pescati quegli arnesi?

- Si lavora!... - rispose il monello sorseggiando il vino che l'oste gli aveva già messo dinanzi con un inchino altamente rispettoso; - c'è forse da far le meraviglie?... - continuò egli - perchè mi vedi in linci e squincete?... Sono io che ci ho da pensare, e non mi far la carta! che ti piaccia o non ti piaccia, la è così.... e buona notte!...

- Bada alla nera, ragazzo - borbottò l'apostrofato. - Con quegli arnesi lì.... si dà nell'occhio e te ne potrebbero chiedere la provenienza.

Tra il monello ed il giocatore si ricambiò ancora qualche parola tra una risata e l'altra.

- Tre assi meno coppe - esclamò uno dei compagni.

- Sta bene, e sono al dovere - rispose l'altro, smettendo di canzonare il monello.

Chi teneva fissi gli sguardi, però, su lui.... e che se ne occupava più di tutti non per celiare sulla foggia del suo strano abbigliamento, ma colpito invece da un'impressione che lo fece trasalire di gioia, era Arturo.

- Per mille diavoli!...- pensò egli tra sè - io l'ho veduta altre volte, quella faccia da birichino!... E deve esser lui.

- Ehi!... ragazzo!... vuoi bere un bicchiere con me?... - gli disse, alzandosi dalla sua tavola e sedendoglisi accanto.

Il monello non mostrò alcuna sorpresa. Alla sua volta guardava il giovane, co' suoi piccoli occhietti neri, e pareva forse a lui pure non essere quella la prima volta che lo vedeva.

- Tanto fa!... - pensava intanto Arturo. - Entriamo in campo a spada tratta. Se non sbaglio, sarà tanto di guadagnato.

- Mezzo fiaschetto! - ordinò egli rivolgendosi all'oste.

- Affari in giro!... - mormorò il gobbo.

*

- Conosci tu l'ufficio di polizia? - gli chiese Arturo in modo che nessuno lo potesse udire.

- Potrebbe darsi! - rispose sfacciatamente il monello ricalcandosi in testa, con una manata, il suo tubo cilindrico.

- Scommetterei che ti ci ho veduto!

- Che luogo è? - domandò il monello.

- È un luogo - gli rispose Arturo - dove si vanno a scontare certe scappatelle.... certe cose da nulla.... che non rivestono ancora il carattere di delitti, ma.... giù per lì.... affari del genere.

- Ah! - fece il monello.

Non rispose però altro, e dopo quella vaga esclamazione, rivolse istintivamente lo sguardo verso la porta, pensando forse tra sè che avrebbe fatto meglio a non entrarvi.

Ma ad onta che si credesse in obbligo, per la sua dignità, di chiudersi in un silenzio dignitoso, guardandolo bene, il suo interlocutore non gli ispirava nè paura nè sospetto.

L'aveva, è vero, fatto pensare ad un certo posto.... dal quale si stava meglio molto alla larga.... e quel dirgli d'avervelo veduto.... equivaleva ad un ti conosco in piena regola, abbastanza allarmante. Richiamato a quei ricordi non troppo lontani.... pareva a lui pure però d'averla intesa un'altra volta quella voce, e d'averla veduta un'altra volta quella faccia.

- E così?... - chiese Arturo interrompendo bruscamente il corso delle sue riflessioni.

- Che cosa?... - rispose egli.

- Diffidi di me?...

Il monello fece una smorfia che avrebbe dovuto, secondo lui, essere un sorriso esprimente la più illimitata delle fiducie.

- Supponi.... - continuava Arturo fattoglisi più vicino - supponi di trovarti nei dintorni della Rotonda; tu vai tranquillo per i fatti tuoi.... tanto tranquillo, che annoiato di tutta quella gente, che va e viene, volti in giù verso piazza Navona - c'è più spazio, si cammina meglio e i leoni della fontana si rivedono sempre con piacere. Ebbene, tutto ad un tratto si sentono delle voci che gridano: al ladro!... al ladro!... e che è, che non è.... un gruppo di gente ti corre dietro - tu ti spaventi sentendoti quella folla alle calcagna, corri alla tua volta, ma la folla ti raggiunge, una mano poco garbata ti afferra pel collare, ed una voce ti grida all'orecchio: fuori quel fazzoletto.

- L'ho trovato per terra - tu strilli con voce da falsetto.

- No - rispondono altre voci - l'hai preso di tasca ad un signore.

- Non è vero!

- Sì.

- No!...

- Tu piangi, e pesti i piedi protestando che hai detta la verità; - a quel diavolìo, due guardie ti si avvicinano, e dopo aver ascoltato ciò che dicevano gli altri e dopo averti data un'occhiata, da conoscitori.... del genere.... e averti trovato nelle pieghe della camicia un bel fazzolettino di seta, ti dicono con tutta gentilezza, levando fuori dalle tasche un paio di manette lucide che sembrano un gingillo:

- Amico.... qua le mani.... Quando si sanno cacciare con tanta disinvoltura nelle tasche degli altri, stanno benissimo strette bene da questi due cerchiettini che sono fatti apposta per accomodarle.

- Sicuro!... - mormorò il monello.

- Ebbene - proseguì il giovane - chi fu colui che venne ad interporsi?... a provare che era vero quello che tu mi avevi detto.... e a dichiarare che t'avevo veduto io raccoglierlo da terra e che non l'avevi rubato a me, perchè il mio l'aveva?

- Voi!... - esclamò Peppe - fissando in volto ad Arturo i suoi vispi occhietti.

- Mi riconosci adesso? - gli disse il giovane.

- Altro!...

- Vuota dunque il tuo bicchiere che giri e rigiri da cinque minuti fra le dita, e non fàtti cattivo sangue; scommetto che questo mio secondo incontro ti porterà fortuna come il primo. Sta bene che dopo essermi sentito alleggerire d'un fazzoletto io abbia voluto affermare d'avertelo veduto raccogliere, ma non sempre anche alle guardie, si possono far vedere lucciole per lanterne, e se t'incontrano uscendo di qui, non so che cosa potrebbero pensare di questa tua toilette piuttosto compromettente.

Mentre Arturo sfoggiava questo chiacchierìo confidenziale, senza saper neppur lui a quale scopo, nè perchè, il monello lo ascoltava, chiedendosi alla sua volta che diavolo dovesse saltar fuori da un così curioso esordio.

Alla prima impressione prodotta su lui dalle domande che il suo interlocutore gli lanciò a bruciapelo, proprio come si spara una revolverata, ne era succeduta un'altra.

Vi sono cose che si capiscono a volo, ed in lui il bernoccolo della furberia, come direbbe Gall, non aveva bisogno di sviluppo.

Egli fiutava un poliziotto, come il cane fiuta una beccaccia, e da una parola, come da un'occhiata, indovinava un amico od un nemico.

In Arturo non vide a primo colpo nè l'uno nè l'altro, ma capì che sotto tutto quello sfoggio oratorio che tendeva a dirgli: - sono a giorno dei fatti tuoi! - ci covava sotto qualche cosa.

- C'intenderemo più tardi.... - pensava egli tra sè.

Cessò dunque dal far girare e rigirare il bicchiere, ne bevve due o tre sorsi, e diede una sbirciata espressiva al suo frak, che, dopo le parole d'Arturo, avrebbe cambiato volentieri con una giacca qualunque.

- Sicuro!... sicuro!... - ripeteva egli - il signore della Rotonda - se non ci era lei.... le manette erano già pronte.

- E potrebbero rimettertele - affermò Arturo.

Il monello si rifece pensoso.

- Questo maledetto frak - borbottò - dovrebbe avere un proprietario.

- E tu ci stai come in casa.... d'altri.

- Male! non è vero?... difatti fu una brutta idea!... ma che volete!... volevo permettermi il lusso di scialarla da gran signore almeno per questa sera.

- Sai come ci si rimedia?...

- Come?...

- Si esce insieme.

- E poi?...

- Se si fa un brutto incontro, tu sei con me.

- Benissimo!...

- Ti raccolgo.... sotto l'egida della mia protezione....

- Magnificamente!...

- Ed andiamo....

- Dove?

- A casa mia - si può discorrerla meglio che qui e non ti troverai malcontento.

- Accettato!... - esclamò Peppe - sono entrato qui difatti perchè mi pareva....

- Che ti stesse qualcheduno alle calcagna.... non è vero?...

- Press'a poco; il male è che sarà difficile che io possa cambiare il mio frak.

- Perchè?...

Il monello sorrise.

- Figlio unico di madre vedova.... come dice il maestro.... - rispose egli.

- Il maestro.... - esclamò Arturo colpito - chi è il maestro?...

Peppe si guardò d'intorno con un'espressione di vera paura - si era lasciata sfuggire al certo una parola compromettente, ed il giovane ne provò tal gioia che ebbe un bel da fare a non lasciarla trasparire.

- Questo ragazzaccio - pensò - ne deve sapere più di quanto mi abbisogni.... e non potrei essere stato favorito dalla sorte in modo migliore.

Il monello era ritornato pensieroso.

- Non c'è tempo da perdere - concluse Arturo: - impossessiamocene.

- Ohe!... oste - gridò egli - quanto?...

- Quattro paoli - rispose l'oste.

Arturo gettò uno scudo sulla tavola.

Il monello lo divorò cogli occhi.

- Ce ne saranno anche per te - gli disse Arturo sorridendo, mentre il gobbo gli riportava il resto.

- Sì?... - chiese Peppe - sapete che c'è del curioso?...

- In che?...

- In quello che mi succede.

- Un po', sì....

- E che devo fare?...

- Lo saprai.

Arturo lo trascinò seco.

CAPITOLO XI BUON SEGUGIO

Siamo in un modesto quartierino al secondo piano di una casa in via Macel de' Corvi.

Il quartierino non aveva più di tre stanze, una delle quali serve da studio - una da camera da letto - alla terza era stato dato il nome pomposo di.... sala da ricevimento.

Vi abita Arturo, e ve lo troviamo a scartabellare con aria abbastanza distratta un voluminoso in-foglio.

È un processo che sta esaminando, e sono le faticose cure del dovere che lo inchiodano allo scrittoio mentre nella sua mente vanno e vengono e s'affollano pensieri sopra pensieri che nulla hanno a che fare colle carte che ha ammonticchiate dinanzi.

Il nostro giovane innamorato fissa lo sguardo, è vero, su quegli sgorbi inqualificabili contro cui protesterebbe tutta la scienza calligrafica, colla quale egli stesso è però in aperta ribellione, ma il suo pensiero, al di là di quei geroglifici che rappresentano la realtà, vede ben altro.... ed è il pallido volto d'una fanciulla; sono due grandi occhioni celesti che sfavillerebbero di gioia se potessero incontrarsi ne' suoi.

Egli lo sa - ne è certo - ed a quest'idea le sue tempie battono convulse - il cuore ha dei sussulti, e la mano sfogliando quelle carte trema.

- Dove sarà, essa?... quando potrò rivederla?... - come?... - sono queste le domande che ansioso egli volge a sè stesso - sono tali i pensieri che tumultuano nella sua mente.

Egli è solo - fissa di tratto in tratto lo sguardo sulla porta semichiusa del suo studio e pare che aspetti ansiosamente qualcuno. - Questo qualcuno.... però, ammesso che lo attenda davvero, si fa aspettare, e la febbrile impazienza che si rivela in ogni suo atto, cresce collo scorrere di ogni minuto.

Ne sono vittime passive, è vero, i fogli di carta che egli spiegazza - i libri che riapre per gettarli di nuovo sullo scrittoio non letti - la penna di cui strappa coi denti le piume, ed i paragrafi del codice che lo invitano a studiare le tesi giudiziarie numerizzate con una cifra, colla quale si qualifica un fatto.... come si bolla una merce.

Egli finisce col dare un pugno sullo scrittoio, un'occhiata fulminante a quelle carte, insulta con un sorriso di disprezzo quei paragrafi, logogrifi strani in faccia ai quali il filosofo medita sulle follìe umane che hanno creduto di poter mettere un contatore ai passi dell'umanità per sapere quanti battiti abbia, ed alzandosi percorre la piccola stanza a passi concitati.

*

Lasciamolo in preda a' suoi pensieri ed alle sue inquietudini, ben legittime d'altra parte.

C'è una domanda non meno impaziente, forse.... che io indovino sulle labbra di qualcuna delle mie belle lettrici, e se potessi trovarmi a tu per tu.... come lo desidererei, del resto, tanto volentieri e.... con una di esse.... una di quelle testoline pensose i cui begli occhi intelligenti scorrono le modeste pagine di questo libro, cercandovi qualche cosa che faccia battere il suo coricino, scommetto che press'a poco mi direbbe così:

- Sa che ne fa delle belle lei!... ci lascia in mano ad un poco di buono come Gennaraccio quella povera Bianca, ci fa passare dinanzi tutta una banda di ladri da farci venire i brividi soltanto a pensarci, e dopo di averci fatto vedere quel bravo giovinotto di Arturo in una bettolaccia nella quale si doveva stare male e bere peggio.... pel solo scopo di scambiare quattro parole con quel monellaccio di Peppe che incomincia già a rubarci un po' delle nostre simpatie.... oh che!... crede forse di poter piantarci qui con tanto di curiosità addosso.... per tornar da capo a non farcene saper nulla?...

*

Rispondo subito a questa supposta sfuriata per dire alla mia bella lettrice, che Arturo non poteva fare un migliore incontro; che non la lascio niente affatto sulle spine.... e che non toglierò niente alla sua incipiente simpatia per quel birichino d'un Peppetto, un monellaccio che si è permesso, sì, qualche scappata.... ma che infin dei conti poi.... non è stoffa da buttar via.

Non era buffo forse.... con quel suo famoso frak colle maniche accorciate troppo, coi pantaloni troppo lunghi, e col cilindro sulle ventitrè?...

Scommetto che alla mia lettrice sarebbe venuta la volontà di dargli lei una bella blouse di tela, una sciarpettina rossa, un bel berretto, e le scarpe nuove, dicendogli con una tiratina di orecchi:

- Fai giudizio.... e non ti immischiare più in certi imbrogli; il cuore non l'hai cattivo.... sei furbo più del bisogno, allegro sempre come un fringuello.... dunque?...!...

Quel dunque.... con tanto di punto interrogativo ed ammirativo, glielo rivolse il nostro Arturo; la tiratina d'orecchi gliela diede lui, gli ha data la blouse, la sciarpetta rossa e le scarpe nuove.... e tra lui ed Arturo si è firmato nientemeno che un trattato d'alleanza.

Volete vederlo?... Uno!... due!... tre!... come nei giuochi di bussolotti, eccolo.

*

L'uscio dello studio si aperse, ed il monello vi fece la sua entrata con una capriola.

Era il volteggiamento che si permetteva nelle grandi occasioni, e se era stato incaricato d'una missione era la prova più certa che doveva essergli andata a gonfie vele.

- E così?... - gli chiese Arturo, a cui era cascato tra i piedi, e che lo trattenne prima che si rompesse la testa contro la scrivania.

- Magnificamente!... mio benefattore!... mio principe!... - esclamò Peppe.

Peppe si era trovato davanti ad uno specchio e non aveva potuto a meno di farsi un inchino, un inchino non privo di grazia, ma che deformò subito con una smorfia da scimmiotto.

Arturo capì che, lasciandogli continuare il giuoco, le spiegazioni che desiderava avere, prendevano una strada troppo lunga.

Lo trasse dunque a sè e lo fece sedere un po' per amore ed un po'per forza sopra una poltrona, di cui egli provò subito l'elasticità con tre o quattro trabalzamenti che l'avrebbero sfondata.

- Vuoi star fermo?... - gli disse pacatamente il giovane.

Il monello si permise un ultimo moto sussultorio, poi gli fissò in faccia arditamente i suoi piccoli occhietti neri.

- Pronto!... - gli rispose, portando militarmente la mano al berretto.

- Che hai fatto?...

- Sono andato laggiù.

- Dove?...

- Dove dovevo andare - non siamo rimasti intesi che fiuterei l'aria senza che i miei amici.... potessero scapitarci?...

- Difatti, sì - rispose Arturo - ma sentiamo, e presto - te l'ho detto, che non comprometterò alcuno, ma sai bene che, se m'inganni, non ho da far altro che condurti per un orecchio....

- Ho capito!... - affermò Peppe.

- Mi dicesti già che la fanciulla, portata via mentre usciva dalla chiesa di Santa Maria Maggiore, era stata messa in una carrozza.

- Conosco!... - rispose sfacciatamente il monello.

Ad Arturo era già venuta la voglia di stritolarlo con un pugno, ma non si abbandonò ad alcun atto compromettente.

- Ebbene, quello che ho saputo - continuò Peppe - è.... è.... che non è più dove l'avevano portata.

- Da chi lo sai? - chiese il giovane, a cui il cuore batteva violentemente.

- Dal Gigante - rispose il monello.

- Il Gigante!... - ripetè Arturo - non è un nome.

- È il nome che gli dànno tutti - rispose Peppe. - Noi non lo chiamiamo che così.

- Sei certo che insieme con la fanciulla ci fosse una vecchia?...

- Sì. - La ragazza doveva essere consegnata a certe persone. - C'era invece, a quanto pare, una barca che l'aspettava sul Tevere.

Arturo, pallido ed ansante, percorreva lo studio a passi concitati.

- Nulla!... ancora nulla!... - ripeteva egli fra sè.

- No, nulla.... - gli disse Peppe, che s'era messo in piedi sulla poltrona e che aveva a quanto pare, la manìa di andare in alto....

Arturo si volse.

- Sai qualche altra cosa?... - gli chiese.

- Una cosa sola.

- Ed è?...

- Che i nostri sono su tutte le furie e che lo dicono un colpo fallito....

- Oh - proruppe Arturo. - Metterò sottosopra tutta Roma, e l'autorità ci si dovrà pure immischiare.

Il monello lo guardava, ed a quelle parole si strinse nelle spalle, accompagnando l'atto con una smorfia.

- La nera?... - disse - baie!... farina del sacco.

A quelle parole successe un momento di silenzio.

Peppe non giocava più, ed appoggiato alla spalliera della sedia, andava arruffandosi i capelli colla mano, come se volesse far saltar fuori qualche idea da quella sua testolina che di cattive ne aveva già avute tante.

Una buona del tutto non l'aveva ancora trovata, ma il dolore del suo giovine protettore, come lo chiamava lui, lo impressionava.

- Ci sono!... - esclamò improvvisamente.

Arturo trasalì e lo interrogò con uno sguardo.

La sua fisonomia esprimeva una vera gioia.

- Saprò dov'è! - esclamò Peppe - rispondendo a quello sguardo.

- In qual modo? - chiese ansiosamente il giovane.

- Lo so io. Ho un amico che non vedo da tre giorni.... e non è come il Gigante, quello là.... e poi l'ho capito da certe parole.... ci dev'essere impasticciato.

- Ed è?....

Peppe si pose un dito sulle labbra, saltò giù dalla poltrona, e fatta una seconda capriola sul tappeto dello studio: - Ci sono!... - esclamò di nuovo come se la sua speranza si fosse trovata rinvigorita da quello slancio acrobatico; - ci sono!... - ripetè - sa tutto lui....

Egli non lasciò ad Arturo neppure il tempo di alzarsi ed infilata la porta dello studio si slanciò fuori a corsa.

Arturo si avvicinò alla finestra e lo vide già sulla via che saltava come un capriolo.

Un istante dopo era scomparso.

- Strano ragazzo!... - pensò Arturo.

Eppure, senza potere spiegarlo a sè stesso, sentiva in lui un interno presentimento che parve far cessare i battiti violenti del suo cuore.

Il monello correva sulla via; non lo vedeva più, ma seguiva col pensiero quello svelto e ardito birichino - ricordava quel suo strano incontro nella taverna, quell'esservisi trattenuto, mentre stava per andarsene - le prime parole scambiate con lui - l'ispirazione che ebbe di condurlo seco - e poi?...

Poi nella sua voce gli parve di trovarvi qualche cosa di sentito. L'aveva veduto trastullarsi co' suoi abiti nuovi, uscire in certe scappate che lo avevano fatto sorridere, poi rifarsi quasi uomo innanzi al suo dolore, e quelle parole: - Ci sono!... - gli parvero dette colla convinzione che viene dal cuore.

Di lui.... non dubitava.

In ogni modo, qualche notizia glie la aveva data. Qualche cosa del mistero che ravvolgeva la sua scomparsa, eraglisi pur rivelata: perchè non saprebbe il resto?...

La fiducia rinasceva a poco a poco in lui così ferma, e così serena, che se si fosse trovato lì.... l'avrebbe baciato, quel ragazzaccio impertinente che lo chiamava già suo amico... e che in cinque minuti aveva messi sottosopra tutti gli in-folio .... che ingombravano il suo scrittoio.

- Andiamo dalla vecchia Anna - pensò egli, e si dispose ad uscire.

*

Rivedere la vecchia, sulla cui fronte la povera Bianca soleva imprimere tanti baci, rivedere quella casa, trovarsi in quella cameretta dove tutto gli parlava di lei, dove avrebbe trovata l'esile pianticella inaffiata da lei, il libro che soleva leggere con una pieghettina alla pagina, sulla quale erasi fissato il suo ultimo sguardo, il lavoro non compiuto.... tutto ciò era ben poco, ma gliela avrebbe richiamata al pensiero.

Era diviso da lei da tre giorni, eppure quei tre giorni gli sembravano tre secoli, e ad un amico che gli avesse chiesto da quanto tempo non l'avesse veduta, avrebbe risposto con un sospiro.

Quanta infinità di spazio!... ci sarebbe stata per lui.... tra quel sospiro ed il ricordo dell'ultimo suo bacio!...

CAPITOLO XII QUESTIONI IN FAMIGLIA

Il marchesino Giulio non si era più fatto vedere da Ester.

Gli affari dei puntarolisti tiravano là alla meglio.

Ma erano affari spiccioli, piccoli furti, qualche coltellata a tempo, niente di grosso, infine.

I merli da pelare non mancavano mai, nelle riunioni notturne della bella Circe da strapazzo, ma stava loro sullo stomaco, come dicevano tanto il paino quanto il Maestro, l'affare di Gennaraccio.

Di lui pure non si sapeva nulla; ai soci della Subbia era stata partecipata un'aggressione in Ciociaria verso Terracina.

La Subbia non ne aveva però data comunicazione ufficiale a quelli del puntarolo; avevano saputo l'affare di sforo.

Gennaraccio doveva essere però là.

Che ne faceva della fanciulla rapita?... quali erano le sue intenzioni?

Il Gigante, secondo loro, era stato una bestia a lasciargliela portar via. - Ma egli aveva già risposto:

- Quando comanda Gennaraccio; bazza!...

C'era un mezzo solo per finirla con quei piccoli bronci che guastavano l'armonia dell'associazione parlamentare: se Gennaraccio era ancora in Ciociaria, prima d'aspettare che rientrasse in città, mandargli qualcuno - venire a patti.

Poco importava ad essi che il marchesino se ne occupasse più o meno; avevano fatto un affare non riuscito da una parte, ma sapevano per filo e per segno che c'era di mezzo un processo, un innamorato; che alla fanciulla doveva essere restituito un buon patrimonio; che il marchese B.... era il tutore della fanciulla.... e che per la scappatella del nipote, si sarebbe trovato anche lui in imbrogli abbastanza discreti....

Bianca infine era un buon boccone e bisognava riavere la mercanzia per spillarne a tempo opportuno.

- Non c'è che il Guercio che possa non ispirare diffidenze a Gennaraccio - disse ai soci il Maestro.

Il paino aveva proposto il Gigante.

- Per mandarlo laggiù.... sarebbe più adatto - osservò Ester - ma se la intende troppo con lui.

- Vada dunque pel Guercio!... ci vede più che con due ed è tanto infarinato di letteratura che sa perfino fare dei discorsi.

- Con Gennaraccio, c'è da farne pochi - osservò il paino.

- In ogni modo - affermò il Maestro - potrebbe darsi il caso che ce ne volessero.

CAPITOLO XIII IN CIOCIARIA

Terreni acquitrinosi, vaste paludi che furono prosciugate da papa Leone X, poi da Pio VI e da Pio VII, perchè ritornate dopo i prosciugamenti al loro stato primitivo.

Butteri a cavallo, col lungo loro pungolo che sembra una lancia, e che attraversano solitari, oppure guidando le loro mandrie; immense pianure che sembrano un deserto; contadini sparuti, dal viso giallo-verdastro, gonfi come rospi, dalle labbra tumide, colle membra coperte di pelli tanto nell'inverno come nell'estate; un'aria pesante, pregna di miasmi; bufali che pascolano o dormono fra i canneti.

Di tratto in tratto, nell'inverno, l'ululato del lupo; d'autunno, i gemiti dei pivieri, lo strido della folaga, il latrato dei cani dei pastori.

Immensi voli d'allodole, che sembrano nubi cineree, rasentano le vaste brughiere; foreste di querce e di faggi secolari, canneti, fossati, immensi campi coltivati a granoturco e a lupini, un sole che abbrucia, nebbie assideranti - eccovi, in poche parole, il desolante quadro di questa infelice regione dello Stato romano denominata Ciociaria, ricovero di banditi e di pezzenti, le cui paurose tradizioni vi additano la grotta di Circe, scavata nel masso che s'eleva alto e maestoso in mezzo alle paludi pontine.

Qualche paese a larghi tratti di distanza, strade deserte che non sembrano strade, qualche misera capanna di paglia, qualche casolare qua e là; insomma un quadro alla Rembrandt, di uno squallore tale da mettervi i brividi. Riandando colla mente quei fantastici racconti di streghe e folletti, vi potreste figurare essere questo il luogo ove quelle maliarde celebravano i loro riti infernali; e, in epoca a noi più prossima, il luogo più acconcio alle imboscate.

*

È dinanzi ad una specie di casupola, che sembra piuttosto un antro, che noi ci fermeremo.

La casupola era di creta impastata con della paglia, a forma oblunga.

Incomincia appena ad annottare, e tutto è silenzio. C'è in vicinanza il bosco, ed il cuculo dagli alti faggi dove sta appollaiato manda di tratto in tratto il suo gemito lamentoso, monotono e continuo.

Qualche uccellaccio attraversa rapidamente lo spazio e si caccia nella boscaglia; in alto, passano, facendo sentire il rapido battere delle ali, degli stormi di anitre; e sulla porta della bicocca, se può chiamarsi porta un'asse tarlata uscita fuori per metà dai cardini arrugginiti, si muove una figura umana.

È qualche cosa di ributtante e di pauroso; è una vecchia dagli occhietti piccoli, dal volto tutto grinze, sulle cui guance sembra incollata una pelle gialla.

Ha le braccia lunghe, stecchite, le mani ossee, eppure non è curva. C'è della vitalità nervosa in quelle sue membra spolpate, i suoi movimenti hanno ancora della elasticità, e con quelle sue mani che sembrano artigli sta infatti rimettendo a posto l'asse che essa chiama porta.

- Ohe!... strega!... - gli grida una voce che viene dalla boscaglia.

- Oh! sei tu, Gennaraccio? - borbottò la vecchia.

Gennaraccio era cupo, aveva gettato ad armacollo il suo fucile, un fucile a due canne.

Uscì dal bosco e mosse verso la casupola della vecchia.

- Ohe! strega - ripetè egli - non hai veduto nessuno a venire da laggiù?...

La vecchia guardò prima verso la grotta di Circe, fiancheggiata da un sentiero, poi Gennaraccio.

- No - rispose.

- Che fa?... - chiese il bandito.

- Chi?...

- La piccina.

- Ha strillato.

- Guai a te se le torci un capello.... - le disse Gennaraccio.

- Oh oh!... - borbottò la vecchia - siamo teneri per quella pupattola!

E si diede a ridere, mettendo così in mostra le gengive nere e sguernite di denti.

- Deve forse venire qualcuno di là? - chiese poi.

- Sì! - rispose il bandito.

- Vuoi venirla a vedere?

- No.

- Hai forse paura? - gli domandò ghignando la vecchia. - Tu, Gennaraccio!...

- T'ho già detto - ripigliò il bandito - che la vedrò più tardi.... ora no.... e ti ripeto che se le farai del male, l'avrai a fare con me.

- O perchè l'hai portata qui, allora? - borbottò essa. - Dovevi lasciarla a casa sua, se ti preme tanto che non le piglino attacchi di nervi.... Non ci sta troppo bene, laggiù, e se vedesse anche la tua faccia in cambio della mia, va' là, che non ci troverebbe gran differenza!

*

Dal bosco s'intese un fischio.

Gennaraccio appuntò subito il facile verso la direzione da cui era partito quel fischio.

- Chi va là? - gridò.

- Famiglia! - rispose una voce.

- Avanti.

Dalla boscaglia uscì un uomo, e Gennaraccio andò verso lui. Si avvicinarono così l'uno all'altro, tenendosi entrambi appuntate le canne dei loro fucili, finchè furono alla portata di riconoscersi.

La vecchia era rientrata nella capanna e metteva fuori di tratto in tratto la testa guardando verso la boscaglia.

Vedeva però soltanto, a circa un centinaio di passi da lei, due ombre immobili. I due banditi stavano al certo trattando i loro affari e dovevano essere in ciò ben preoccupati, poichè in fondo all'orizzonte, dietro monte Circello, che spiccava nereggiando fra le tenebre, agglomeravansi dei grossi nuvoloni neri.

Bizzarri e fantastici serpeggiamenti di fuoco rompevano di tratto in tratto quella nera cortina che invadeva lo spazio a poco a poco ma allargandosi sempre più.

Scrosciò prima il tuono con una intermittenza misurata, poi uno scroscio seguitò l'altro, più vivo, più rapido, più secco.

I lampi si susseguirono, guizzando come tanti razzi accesi dietro la nube da qualche mano invisibile; non pioveva ancora, ma l'aria pregna d'elettricità si era fatta soffocante; un soffio di vento passò fischiando sugli alti faggi.

*

- Brutta notte - borbottò la vecchia.

Si era seduta sopra una piccola panca dinanzi ad un fornello su cui ardevano delle brage.

Qualche cosa.... che friggeva in una padella di ferro, mandava un odore nauseante e riempiva di fumo quell'orrido antro.

Nell'interno della capanna null'altro vedevasi, tranne quella panca, quel fornello, ed un pagliericcio sul quale era arrotolata una coperta di lana.

- Tirati in là, vecchia - disse dalla soglia la voce di Gennaraccio - andiamo giù.

La vecchia crollò le spalle.

- Ah!... ti risolvi?... - borbottò.

- Bisogna bene che esamini la mercanzia.... - rispose Gennaraccio, accennando il Guercio che stava ritto sulla soglia della capanna. Il Guercio sembrava preoccupato, e guardava fuori, mentre Gennaraccio parlava colla vecchia.

La pioggia, che aveva incominciato a cadere a grossi goccioloni, diluviava ora; egli si tirò dietro l'asse tarlato che serviva di porta, ed aspettò.

- È sempre giù?... - aveva chiesto il bandito alla vecchia.

Quella capanna doveva dunque nascondere la bocca d'un sotterraneo, una di quelle grotte, che dovevano aver servito spesso a Gennaraccio per sparirvi colle sue bande raccogliticce, ogni qual volta prendeva il largo per fare qualche colpo fuori di città.

Per entrarvi non c'è da far altro che tirare da parte il pagliericcio, e si scopre una specie di botola la cui buca è turata da una grossa pietra.

Serviva di rialzo all'estremità del pagliericcio e formava una specie di guanciale per chi vi si fosse coricato.

Non c'è bisogno d'alcuna scala per scendervi, non ci sono gradini, pare un enorme buco da talpe. Il piano s'inclina, chi vuol passarvi si curva, ma dopo un breve tratto si può starci in piedi comodamente; si rasenta una specie di corridoio stretto, stretto, che va però gradatamente allargandosi, e si entra in una sala sotterranea tanto larga da poterci stare una ventina di persone.

Sarebbe poco adatta per darvi un ballo, ma con un po' di buona voglia si rimedia a tutto, e non giurerei che in una notte tempestosa non vi sia stata intrecciata qualche ridda intorno alla fiamma rossa di qualche tizzone scoppiettante che avrà rischiarato delle orride facce e delle mani lorde di sangue.

Il bottino vi sarà stato diviso fra un bicchiere ed una bestemmia, e poi, abbrutiti dall'orgia, un'orda di banditi si sarà addormentata sotto quelle vôlte cupe, sognando un nuovo appostamento per la domane.

Il suolo umido della caverna è coperto da uno strato di fieno che, rinnovato più volte, ha formato insieme alla terra una specie di crosta molle; c'è in un angolo un barile vuoto, qua e là delle bottiglie, vuote pur esse, avanzi di orgie d'una volta....

L'aria vi è calda.... soffocante; dal fondo della spelonca si ode un gemito fioco, in mezzo alle tenebre si vede biancheggiare una faccia umana, e curvandosi su quella forma che giace sovra un materasso al cui colore primitivo si è sostituito quello della terra sulla quale fu voltato e rivoltato tante volte, riconosceremmo a stento i delicati lineamenti di Bianca.

La fanciulla dorme, o, almeno, sfinita dal dolore e dai patimenti, dai deliri dell'anima, come dagli strazi del corpo, dalle inutili lacrime versate, come dai gemiti invano emessi dal petto sussultante, giace là.... assopita, ed in preda ad una spece di sonno letargico.

Sogna forse.... e dalle labbra manda un gemito leggero, un singulto debole debole, mentre il suo esile corpicino si agita, scosso da brividi febbrili.

È un quadro ben triste!

Quella caverna larga, umida, quasi immensa.... quella fanciulla sdraiata su quel sacco.... incolore, quel corridoio angusto, quella bocca chiusa da una pietra, come si chiude un sepolcro; poi, al di là, quella vecchia che somigliava più ad una strega del Macbet che ad una donna, tutto ciò desta nell'animo un senso di raccapriccio.

I due banditi - il Guercio e Gennaraccio - entrarono nel sotterraneo.

Si erano però fermati ad una certa distanza dalla fanciulla, e pareva quasi che avessero paura.... di farsi vedere.

- Non val la pena di svegliarla - borbottò il Guercio.

- Difatti.... - assentì Gennaraccio.

- Che cosa devo dire laggiù?...

- Che è al sicuro.

- Lo vedo - e poi?...

- Patti chiari, - a metà dell'affare....

- Sei disposto a consegnarla?...

- Con un anticipo.

- Sta bene.

*

Bianca giaceva là.... sempre assopita, mentre i due uomini risalivano l'angusto declivio della grotta.

Vedendoli ritornare così subito, la vecchia sogghignò crollando le spalle.

L'acquazzone era cessato - il fondo dell'orizzonte era però ancor tutto nero - lampeggiava di tratto in tratto ed il tuono lasciava sentire da lontano dei brontolamenti dispettosi.

Il Guercio e Gennaraccio si scambiarono poche parole - suggellarono il patto con una bevuta e poco dopo si separarono, e Gennaraccio rientrava nel bosco - il Guercio riprendeva la via già percorsa, a passi lenti, preoccupato da una strana sensazione.

Attraversando la campagna, solo, non attorniato che dal silenzio solenne di quella calma che era succeduta alla bufera, gli passavano per la testa un'infinità di pensieri. - Forse a farveli nascere non erano estranee certe pulsazioni di quel muscolo che si chiama cuore, pulsazioni forti, vibratissime, a cui voleva non abbadare, ma che, insistenti come erano, finivano col provargli che dopo tutto una sensazione l'aveva provata.

Era lui che aveva detto a Gennaraccio, che non valeva la pena di svegliarla; - quando uscì di là, gli parve di essersi sottratto ad un incubo.

Quella faccia pallida, quella fanciulla vestita di nero, gettata là.... su quel canile.... quell'androne cupo, quella lanterna, quella megera - tutto ciò che aveva veduto gli stava ancora dinanzi agli occhi, e ci pensava involontariamente.

Gennaraccio stesso aveva, gli parve, una voglia indiavolata di sbarazzarsene. Gli dava soltanto fastidio?... o lo preoccupava per mezzo di un altro sentimento?...

Il fatto è che quando rientrò in Roma non andò direttamente nè da Ester nè alla casa delle riunioni.

- Gennaraccio l'ha fatta ai puntarolisti - fantasticava egli - e se si potesse....

Un pensiero non ancora ben formato, un'idea vaga qualunque.... conseguenza più d'impressione che di calcolo, gli frullava nel cervello. La cacciava via dicendo a sè stesso che, in fin de' conti, c'era entrato anche lui nell'affare, e che il dovere.... era dovere; ma non c'era verso.... quel pensiero ritornava più insistente. Eppure l'aveva vinta tante volte l'inopportunità del sentimento, con un'alzata di spalle.

Alla fine, anche questa volta la scrollata gliela diede, e colla più forte delle risoluzioni.

Il Guercio veniva in giù verso i Monti, da via Macel de' Corvi, e sentendo più forte di lui quel bisogno di fantasticare, invece d'andar verso le carceri Mamertine, per infilare poi a destra il laberinto dei viottoli che conducono al centro del vasto quartiere, girò intorno al Foro Traiano.

CAPITOLO XIV PER VIA....

Erano circa le 10 di sera - piovigginava, i pochi fanali delle strade le rischiaravano malamente colla loro luce vaga e rossastra.

Al Guercio poco importava del Foro, de' suoi ruderi e delle sue colonne infrante. Non si chinava neppure per guardar giù... nella buca, come l'aveva sentita chiamare da Peppe; e quei massi che ingombrando quella buca enorme le danno tanta importanza maestosa, evocando quei giorni in cui ivi eransi discussi i destini della patria e del mondo, quando schiavi e imperatori erano passati di là.... su quella via che conduceva al Campidoglio, per lui potevano servire, al più, ad offrirgli in caso di bisogno un discreto nascondiglio. Egli andò in su, verso la via Tor de' Conti, ma si fermò dinanzi alle tre colonne del Foro di Nerva perchè gli parve che dietro ad una di quelle colonne si movesse qualche cosa.

Ci stava appiattato difatti Peppe, il monello che da due giorni ostinavasi a far da piantone in quei paraggi.

L'eclissamento del suo uomo l'aveva impensierito; aveva fatto credere al suo giovane amico di poter fare mari e monti, ed era ritornato da lui con delle mosche in mano.

Peppe si sentiva umiliato. - Eppure devo trovarlo, - ripeteva però a sè stesso.

Sopra alle tre colonne del tempio distendevasi un arco non del tutto rovinato; quell'arco lo riparava dalla pioggia, ed egli aspettava lì da due ore.

Per andare alla tana era probabilissimo che il Guercio dovesse passar di lì.

Quando lo vide, gettò un grido di gioia e sbucò fuori.

- To'!... - esclamò il Guercio - che fai qui?

- Vi aspettavo.

- Me?...

- Sì.

- Che nuove ci sono?...

- Se ne beve un bicchiere?... - chiese il monello colla sua sfacciata impertinenza.

- E perchè no?

- Dove?...

- Alla Stella.

- Bravo.... è a due passi.

Il monello ed il Guercio vi si avviarono.

L'insegna della Stella non poteva essere più pomposamente ironica: era una lamina di ferro, intagliata in modo da far supporre.... quello che voleva essere.

Molti anni prima doveva essere stata dorata, od imbrattata almeno da un po' di vernice gialla, ma nulla conservava più del suo primitivo splendore.... neppure la vernice. L'interno corrispondeva all'insegna. Per l'uno come per l'altro però dei due clienti che prendevano possesso d'una delle sue panche di legno, offriva in quel momento tutto ciò che potessero desiderare di più confortevole. Una zuppa che fumava nella marmitta di terra, ed un vino che, giudicato dallo schioccamento delle labbra del Guercio, doveva essere qualche cosa di prelibato.

- Che facevi.... dietro quelle colonne?... - chiese di nuovo il Guercio, al monello.

- Vi cerco.... da due giorni - rispose Peppe.

- Perchè?...

- Per un affare.

Il Guercio lo stava esaminando, ed il suo unico occhio espresse una sensazione di sorpresa che si convertì in una smorfia.

Quella smorfia.... voleva dire:

- Gatta ci cova.... carino mio!... non è al magazzino che ti sei provvista una blouse come quella.... nè quel bel paio di scarpette!... T'ho sempre visto a piedi nudi, e quando non lo erano del tutto, ti uscivano fuori per metà, almeno.... dalle scarpe.

Questa riflessione la fece però tra sè, mentre il monello, reso più sfacciato dal lusso della sua nuova toilette, centellinava il vino e faceva le boccacce alla zuppa.

Anche queste boccacce non sfuggirono al Guercio.

- Questa canaglia, deve aver mangiato da principe!... - mormorò fra sè.

La zuppa l'aveva già divorata: appoggiò i gomiti sulla tavola, le due palme sotto il mento e guardò in faccia il monello.

Peppe sostenne imperterrito l'occhiata inquisitoriale del Guercio. Perchè d'altra parte avrebbe dovuto temerla?... Egli si sentiva contento, gli pareva quasi di assumere delle proporzioni piramidali!... era un po' imbarazzato soltanto, per trovare il mezzo d'entrare in materia col Guercio, ma il colpo.... era però deciso a tentarlo.

- Sicchè - gli disse il Guercio - sei venuto in cerca di me per affari....

- Sì - rispose il monello.

- Ed è proprio me che cercavi?...

- Da due giorni.... - ripetè Peppe - perchè è da due giorni che siete scomparso.

Il Guercio trasalì.

- Scomparso, poi.... - borbottò egli.

- Scomparso.... - ripetè Peppe.

- Ragazzo mio - ripetè il Guercio con accento piuttosto burbero - pare che tu ti immischi nei fatti miei.... e bada che se mi immischio ne' tuoi io....

- Liberissimo!... - esclamò il monello - non ho niente da nascondere.

- A chi? - chiese il Guercio - accentuando quell'a chi.... in modo da esprimere molte cose.

- A voi.... - gli rispose Peppe - quasi con lo stesso tono.

- Piccino.... piccino caro.... - borbottava il Guercio - tu diventi più malizioso d'un Gorilla. Sai tu che cos'è un Gorilla?

- No.

- Te lo dirò un'altra volta.

- Benissimo!... - ho capito una cosa.

- Che cos'hai capito?

- Che possiamo intenderci.

- Su che?

- Sull'affare....

- Quale?...

- Lo faremo in due....

- Ed è?...

- Una caccia.

- A chi?...

- Ad una persona....

- Uomo?....

- Donna....

Il Guercio l'afferrò con una mano per il colletto della giubba, e lo levò dalla panca in atto quasi di sbatacchiarlo contro il muro.

- Bada, monello.... - gli disse a voce bassa e concitata, tenendolo per aria - se sei mandato qui per scavar terreno, fai male i tuoi conti.... da qui a Ponte Rotto c'è molta strada da fare, ma ti ci porto così.... e ti faccio fare un volo.... che non ne avrai mai fatto uno d'uguale!...

La fisonomia, per solito, dolce, del vecchio ladro, erasi alterata in modo strano, le rughe della fronte vi segnarono dei solchi profondi, gli si aggrottarono le sopracciglia, e quell'unico suo occhio lampeggiante espresse tale minaccia da spaventare più d'un uomo.

Sorpreso così all'improvviso da quell'impeto, il monello restò lì.... cogli occhi sbarrati, mezzo per aria, e se nelle sue convinzioni ci fosse entrata quella d'avere un'anima, in quel momento di terrore dovette essersela raccomandata a Dio.

Il Guercio, fissandolo biecamente, l'aveva rimesso sulla panca.

- Oh che!... siete matto!...- mormorò Peppe, dandosi una scrollatina per rimettersi a posto tanto la giubba come il collo.

- Meno ciarle e fuori!... - gli intimò il Guercio.

- Fuori.... che?... - rispose il monello.

- L'affare per cui sei venuto a cercarmi.

Il monello si strinse nelle spalle.

- Buona notte - disse -si può forse parlare con voi?...

Egli fece l'atto d'andarsene, ma il Guercio lo trattenne.

- M'è già passata.... lo vedi - continuò egli - avevo dubitato....

- Di che?...

- Che ti mandassero da me....

- Chi?...

- Gli altri....

- Per farvi la spia forse?... - rispose Peppe con tale fierezza d'accento, che il Guercio se lo portò vicino, arruffandogli i capelli con un'infinità di carezze, e versandogli del vino nel bicchiere.

- Vieni, vieni qui - ripeteva - e facciamo la pace: sono un orso, me la prendo con un ragazzo.... so che non sei cattivo.... ma che vuoi?... tutti hanno il loro brutto momento, e da ieri in qua ho certe idee.... e sì che non sono neanche brutte.... ma s'ha a che fare con certa gente - non è nulla.... un po' di sangue che va alla testa - è finita - così.... - sorridi .... tutto va bene - bevine un altro bicchiere - la paura passa presto.

Il monello, accarezzato così dolcemente, sorrise, e buttò giù in un fiato il bicchiere di vino versatogli dal Guercio.

- Pace fatta.... - disse.

- Va bene - rispose il Guercio - parliamo da amici. Come sai che è sparita una donna?...

- Non è una donna.... - rispose Peppe - è una fanciulla.

- Sai anche questo?...

- Sì....

- Sai com'è?...

- Bionda.

- Magnificamente!...

Il Guercio, dopo quell'esclamazione, divenne pensoso.

Peppe lo guardava.

- Ebbene - continuò egli - avrò forse avuto torto, ma io ho detto a me stesso: il Guercio non è un cattivo uomo; e se sapesse che quella poveretta è cercata da delle brave persone da cui è idolatrata, se sapesse che è vittima di una infame trama, se pensasse che là.... dove è, morirà forse di dolore, poverina!... e se sapesse che intromettendosi a far riuscir bene l'affare, oltre al fare una buona azione, potrebbe anche intascare un buon gruzzolo di quattrini.... tanti.... quanti.... gli altri.... non ce ne darebbero di sua parte, se sapesse tutte queste cose.... chi sa?.... ecco quello che ho detto tra me.

Per tutta risposta, il Guercio, che pareva abbastanza commosso, gli scoccò sulla fronte un bacione, dicendogli:

- To'!... se tu non fossi una canaglia.... saresti un angelo!...

Peppe raccontò tutto.... e gli parlò del suo protettore con tale entusiasmo, che il Guercio, dopo essersi riempito di nuovo il bicchiere:

- È strano.... - mormorò - ma venendo da laggiù.... io pensavo appunto che se sapessi come fare.... non avrei desiderato di meglio che far qualche cosa per quella poveretta; Gennaraccio è un bandito, ma è più uccello di bosco, che rospo da tane, ed è meno vigliacco di quei mascalzoni del puntarolo - colla subbia se l'intende ancor meno.... - sono per il tuo principe!... - esclamò poi - e farò veder loro se sono ancora buono a qualche cosa...; credo che diffidino di me, m'aspettavano fin da stamattina, non mi sono fatto vedere, ma tanto meglio; ho certe idee tutte mie.... e se non ci sono andato prima è perchè non dovevo andarci; chi lo sa?... c'è forse qualche cosa lassù?...

Il Guercio guardò in alto.... ma vide soltanto il soffitto tarlato della bettola.

Il monello si era già messo a cavalcioni della panca, pronto ad infilare la porta.

- Ma.... che!... dico.... - riprese il Guercio, facciamo le cose con senno, perchè c'è da guardarsi d'intorno ad ogni passo che si muove. Laggiù.... la si può smorzare senza che neanche se ne accorga.... e i buchi fatti nell'acqua non sono buchi.... Vediamoci qui, qui i nostri non ci vengono.

- Devo condurlo subito?... non è lontano.

- No.... bisogna che predisponga certe cose....

- Quando ci troviamo allora?...

- Domani notte.

- Qui?...

- Qui.

Il Guercio e Peppe uscirono insieme e si separarono.

CAPITOLO XV DIO?...

Arturo era inquietissimo da due giorni. Peppe l'aveva lasciato verso le 8, sonava la mezzanotte e non era ancora tornato. Non si era coricato; dalla finestra del suo studio fissava ansioso lo sguardo sulla strada, e lo sentì arrivare canticchiando una delle sue canzonacce favorite.

Il monello era allegro, ed egli provò un sussulto di gioia.

Un istante dopo, infatti, Peppe cascava come un petardo nello studio, rovesciando la prima sedia che si trovò dinanzi, come se fosse un nemico che gli sbarrasse la strada, e non ci mise più di cinque minuti per raccontargli tutto.

Prima però d'abbandonarsi a quei cinque minuti d'una vera irruzione di parole che gli uscivano dalle labbra vive e scoppiettanti come un fuoco d'artificio e che erano veri raggi di luce pel cuore del nostro innamorato, il quale le accoglieva con dei gridi di gioia, il monello si era permesso qualche saltellamento sulla sua poltrona favorita ed aveva voluto darsi una certa importanza premettendo che voleva essere ascoltato colla più grave delle serietà.

Aveva insomma voluto tenere un po' sulle spine il povero Arturo, con certi artifici che egli doveva aver imparati, scimiottandoli, da qualche giocoliere di piazza, i quali sanno così bene girare intorno a quello che devono dire, arte anche quella che serve meravigliosamente ad attirare l'attenzione della folla, alla quale, per essere creduti, bisogna sempre far capire meno che si può.

Ai cinque minuti.... successero però altri cinque, agli altri cinque altri dieci, e le cose che raccontava Peppe, benchè a modo suo.... erano tali.... e tanto interessanti, che Arturo lo lasciava cantare a sua voglia.

Peppe s'abbandonava al suo cicalìo da fringuello; gli raccontò persino la famosa scrollata datagli dal Guercio, i sospetti che ne furono la causa, la sua apparizione dietro le colonne del Foro.... e finalmente come alla sua volta gli avesse confidato d'essere presentemente sotto l'alta protezione d'un principe interessato a ritrovare la fanciulla.

Arturo sorrise.

- Ah!... gli hai detto che sei al servizio d'un principe? - soggiunse egli.

- Diamine!... - esclamò il monello - il Guercio ha delle idee tutte sue; il perchè l'abbia coi soci non lo so, ma se ha dei progetti, è bene che c'entri un principe; un principe.... fa sempre effetto; in ogni modo l'appuntamento è per domani notte. Dopo d'aver voluto strangolarmi mi soffocò quasi a furia di baci quando gli dissi che una brava persona s'interessava per la piccina.

Arturo ridivenne pensoso.

- Sai.... che è uno strano uomo, questo tuo Guercio!...

- Ha le sue idee.... - sentenziò il monello.

- Sta bene - affermò Arturo. - Domani dunque.

*

Peppe si era gettato sopra il divano d'Arturo.

Il giovane erasi posto allo scrittoio, aveva tracciate alcune note colla matita sovra un foglio di carta, ed alzatosi per recarsi nella sua camera da letto, passò accanto al monello.

Le leggi della convenienza non erano quelle che potevano imbarazzare Peppe; egli si era messo un cuscino sotto alla testa e dormiva.

Arturo lo guardò commosso, staccò un mantello da un attaccapanni, ve lo ravvolse leggermente per non svegliarlo, e ristette innanzi a lui, col lume in mano, che ne rischiarava i delicati lineamenti.

Col sonno era sparito dal volto di Peppe quel risolino beffardo che contraeva spesso le sue labbra; i suoi occhietti chiusi non avevano più quella loro espressione spesso maligna, qualche volta diffidente; al raggio che proiettava su lui la lucerna, i suoi capelli, più arruffati.... che ricci, avevano una tinta dorata, e quella bella testolina che riposava su quel cuscino di lana ricamata ed adorna di frange era tale che un pittore l'avrebbe potuta ritrarre, per invitare più d'una madre a coprirla di baci.

- Strana cosa - pensava Arturo - sarei io sulle tracce di Bianca?... starei io forse per rivederla?... per stringerla fra le mie braccia?... per ripeterle quelle parole che mi fremono ardenti sulle labbra?... senza quello strano incontro in quella taverna, senza questo monello che trovai per caso.... che potrei io fare?...

Si chinò su di lui, lo baciò sulla fronte e s'avviò verso la sua camera.

Passava dinanzi alla finestra; le imposte esterne non erano state chiuse, e dai vetri vedevasi il cielo, il cielo rifattosi sereno ed in mezzo al cui bell'azzurro scintillavano, ignoti mondi vaganti nello spazio, gli astri che ne ingemmano la vôlta.

Arturo guardò il cielo, poi ancora quel fanciullo che dormiva.

Egli chiedevasi al certo da quale catena misteriosa erano collegati quegli avvenimenti, qual mano gli aveva guidati. Perchè?...

Strani perchè.... che dobbiamo volgere e rivolgere tante volte, a tutto ciò che ne circonda.

Chi vi risponde?... nessuno.... eppure dall'ignoto, pare che esca una voce, e che mille echi lontani, ripetano.... Io!...

- Io?... chi?...

- Dio?... il destino?... il fato?... nomi vaghi.... parole che nulla dicono, convenzioni create perchè le labbra possano pronunciare una parola.

Eppure ad Arturo pareva di sentire una voce che rispondesse alle inquiete domande del suo pensiero:

- Io.... che ti condussi a quella taverna - Io.... che ti feci incontrare quel fanciullo - Io.... che ti avvicinai a lui!... - Io.... per cui egli è ora tornato a te colla parola del conforto sulle labbra. E quando, domani, avrà forse tutto concertato per rivederla, da quell'arcano sviluppo di cose in cui il possibile si unisce all'impossibile, il bene al male, la fola alla verità, alle affannose investigazioni della mente che si sforza a voler strappare all'arcano mistero della vita il segreto per cui tutto si agita, una voce ancora.... quella stessa.... sempre quella.... ripeterà ancora: Io!...

Io.... il tutto, che noi, nulla.... abbiamo voluto impiccolire facendone una cosa.... ed a cui abbiamo messo dinanzi un D, come si mette il bollo ad una merce per poterla sfruttare.

CAPITOLO XVI COLPO DI MANO

Siamo alla notte nella quale Arturo ed il Guercio, aventi per intermediario Peppe, devono trovarsi insieme.

Il taverniere della Stella, che i nostri lettori conoscono già, deve essere stato informato che qualche gran personaggio onorerà la sua stamberga, perchè ha fatto tutto ciò che è possibile per darvi un po' d'ordine.

Sulle due tavole, cosa insolita (e che avrebbe colpito d'alta meraviglia tutti i suoi avventori), erano state distese due tovaglie. Non gareggiavano, è vero, colla bianchezza della neve, ma, tra l'una e l'altra macchia di vino, qualche cosa di bianco vi si poteva ancora discernere.

Ai sedili che zoppicavano maledettamente, abbandonandosi a traballamenti piuttosto pericolosi, erano state sostituite delle seggiole; la zuppa, che fumava sul fornello, mandava un odore meno nauseante del solito, ed arrostiva, in una casseruola, nientemeno.... che un quarto di capretto.

Vi si era fatto insomma un tale sfoggio di lusso.... che se qualcuno della nera vi avesse cacciato dentro il naso, avrebbe incominciato dall'arrestare il taverniere ritenendolo complice della celebrazione d'un qualche ardito colpo di mano.

In quelle tovaglie, in quelle tre seggiole ed in quell'arrosto c'era da intravedere tutto quello che si voleva: la vittima pronta, la banda che si apposta, il delitto che si commette, ed infine.... il banchetto sardanapalesco, che ne solennizza la celebrazione.

Eppure la faccia stessa del taverniere, una faccia da mastino, resa più truce da un largo taglio al labbro inferiore, taglio che egli doveva ad una buona coltellata favoritagli da uno de' suoi avventori, aveva in quella notte un'espressione insospettabile!...

Egli ci teneva con tutta l'anima a quello sfoggio che trasformava la Stella!

C'erano preparate sulla tavola, già pronte per essere accese, persino quattro candele di sego, che spiccavano pomposamente, nei loro candelieri di stagno, uno stagno, che se fosse stato lucido, poteva essere preso per argento.

Arturo ed il Guercio stavano insomma per avervi un'accoglienza principesca.

Ma chi se n'era curato?... chi aveva fatti fare tutti quei sontuosi preparativi?...

Il Guercio no, perchè non era tale da comprendere certe cose.... e per lui, tanto serviva una panca rotta, come una poltrona di velluto.

Arturo vi sarebbe andato per la prima volta ed aveva ben altri pensieri per il capo.

Chi aveva improvvisato tutto quello splendore era Peppe, è il nostro monello che ha preseduto a tutti quei preparativi, perchè il suo principe ne restasse sbalordito.... e per fargli vedere che anche loro.... sapevano abbastanza uniformarsi alle leggi del rispetto e della convenienza.

Le tovaglie, egli le aveva tirate fuori da un cassone dove ci stavano da più d'un mese.... in attesa d'essere consegnate alla lavandaia; ma egli trovò che potevano fare ancora per una volta un magnifico servizio, e ci si rotolò sopra per stirarle alla meglio.

I sedili rotti li fece gettare nel cortile e le tre sedie se le fece prestare da un caffettiere di sua conoscenza; lo conosceva anzi tanto.... che non voleva dargliele.... ma Peppe giurò sulla sua parola d'onore che alla prima occasione gli avrebbe venduto qualche morto.... a prezzo ribassato.

Il caffettiere accettò e la Stella se ne permise il lusso.

Tutto era dunque preparato.

L'oste aveva promesso una zuppa eccezionale, l'arrosto, un arrosto come non aveva mai fatto, ed un vino, come non ne aveva mai avuto.

Il monello accolse con una smorfia tutti quei mai troppo pomposi e tanto promettenti, che parevano una canzonatura.... ma se ne accontentò, poichè, in mancanza d'altro.... una promessa era già qualche cosa.

Come era stato il primo a recarvisi per dare gli ordini opportuni, fu naturalmente anche il primo a ritornarvi, precedendo il Guercio ed Arturo.

Fiutò l'odore delizioso che usciva dalla casseruola - sbirciò la tavola, e vistala adornata coi quattro candelieri a cui egli non aveva pensato, fece una capriola nel bel mezzo della taverna e fu accolto fra le braccia dell'oste che si era messo in pompa magna, con una berretta da cuoco.

Il monello in un trasporto d'entusiasmo l'avrebbe baciato, se non avesse avuto paura di farsi morsicare.

Si accontentò dunque di tributargli le sue congratulazioni - accese le candele, e si persuase che entrando nella taverna in mezzo a tanto splendore.... Arturo avrebbe dovuto chiudere gli occhi per non restarne abbagliato.

*

Arturo e il Guercio entrarono nella taverna. - Avevano al certo molte cose da dirsi, ma dovevano essersi già intesi su molte, perchè dai modi del giovane non traspariva verun atto di diffidenza.

L'occhio del Guercio era sereno e nessuna ruga increspava la sua fronte.

Peppe, che vi sapeva leggere come sopra un libro stampato, anzi meglio, perchè di libri non ne aveva mai letti, gettò uno sguardo sulla tavola, un altro verso il fornello, e si pavoneggiò per tanta sua opera con tutto il suo slancio abituale.

- Che ne dite, eh?... - esclamò egli - si sanno, o non si sanno fare le cose? - festa completa, e prima che spunti il sole.... in viaggio.

- Vuoi star zitto?... - gli gridò il Guercio - con questo signore con cui ci siamo trovati da qualche ora, abbiamo ben altro da fare!... - non sono per le luminarie io!... troppa luce lascia veder troppo e attira troppi sguardi.... - si sta meglio al buio - aggiunse egli filosoficamente e da uomo pratico delle sue faccende.

La romanzina del Guercio ed il modo serio con cui gliela diede, fu per lui come il colpo di vento che atterra i castelli di carte ai bimbi che vi si dilettano.

Per compire le sue disillusioni, il Guercio si avvivicinò alla tavola e spense due delle famose candele accese dal monello.

Era il colpo di grazia.

Peppe, da gigantesco come si credeva d'essere divenuto, si fece piccino, e si rincantucciò contro il muro come un cagnolino a cui abbiano tagliata la coda.

Una carezza d'Arturo lo trasse però da quel suo momentaneo inebetimento.

- Va' là.... - gli borbottava intanto dietro le spalle il Guercio; - per compensarti della diminuzione dei lumi, aggiungeremo un bicchiere di più.... sta bene?... e verrai a farci compagnia quando avremo finito d'accomodare le cose nostre: ma ora.... oh!... occhio attento e fa' buona guardia.

Peppe, rimesso nel più completo buon umore dalla promessa del Guercio, portò la mano al berretto e salutò militarmente.

Era un'altra delle sue abitudini, e ne aveva troppe.... quella canaglia!...

Egli si slanciò con due salti verso la porta, quando il Guercio, presolo per la giubba, lo trattenne.

- Una carrozza.... - diss'egli.

- Ebbene?...

Il Guercio, gli accennò di star zitto, ed accostatosi alla porta della taverna tese attentamente l'orecchio.

- Non l'hai intesa anche tu?... - chiese al monello.

- Mi pare.... ma che importa?...

Il Guercio non rispose, ma avvicinatosi alla tavola, spense anche le altre due candele rimaste accese.

Arturo era agitatissimo alla sua volta, e non aveva tutti i torti.

Egli si trovava in una di quelle posizioni eccezionali che esaminata freddamente non era delle più belle, nè delle meno pericolose.

Ritrovare Bianca, mettersi in contatto colle persone dalle quali poteva essere messo sulle sue tracce, concertare il da farsi, giocare tutto per tutto.... fu questo il suo pensiero.

Avrebbe patteggiato anche col diavolo.... che, in certi casi, dicono essere la più compita delle persone.

Invece del diavolo, invece d'un brigante con tanto di barba e di pistoloni alla cintola, aveva trovati sul suo sentiere quei due esseri, uno più bizzarro dell'altro: Peppe ed il Guercio; e conosciuto l'uno, bisognava conoscere l'altro; avvicinato l'uno, bisognava avvicinare l'altro.

Quella specie di sorpresa, sospettata, intravveduta dal Guercio, in quella carrozza che, secondo lui, doveva essersi fermata nei paraggi della Stella, lo ricondusse alla realtà.

Con chi si trovava egli?...

Con un borsaiuolo e con un ladro!...

In una visita della polizia a quella taverna, poteva essere preso per uno del mestiere, e non avrebbe passato al certo un brillante quarto d'ora.

Sta bene che avrebbe potuto dare degli schiarimenti e dire il perchè.... ed il per come.... si trovasse là.... ma la cosa non sarebbe stata per questo meno imbarazzante.

A questo pensiero il giovane impallidì, ed a quello ne seguì un altro più affannoso: se fossero sorpresi da coloro che erano interessati a rimettere le mani sulla fanciulla?

Gli balenò persino il sospetto d'essere caduto in un tranello; ma la fisonomia di quel vecchio ladro, che origliava agitatissimo alla sua volta, aveva un'espressione così onesta, che il sospetto se ne andò come venne.

Il pericolo, in ogni modo, poteva esserci però, e siccome non si va in certi posti e con certa gente.... senza avere qualche cosa di preparato in una delle proprie tasche, così la sua mano vi si cacciò dentro e ne trasse fuori una corta pistola a due colpi.

*

Fuori, tutto era silenzio.

- Più nulla!... - mormorò il Guercio - eppure.... per l'inferno!... se mi manca un occhio, gli orecchi li ho tutti e due e ci sento bene, si è fermata poco distante da qui una carrozza, e non ci sono dei palazzi perchè possa essere entrata in un portone.

- Sapremo dov'è - disse Peppe.

Egli fece un cenno al Guercio e ad Arturo, e mise fuori la testa dall'uscio semichiuso della taverna.

La strada era deserta.

- Eppure era una carrozza - mormorò - dove diavolo sarà entrata? guardiamo.

Il Guercio non si era ingannato: una carrozza, guidata da un abile cocchiere, si era cacciata per quel laberinto di viuzze e si era fermata ad un crocicchio.

Lo sportello si aperse e ne scese un uomo.

- Resta qui - disse al cocchiere - e sta' pronto.

Il cocchiere assentì al cenno.

L'uomo era ravvolto in un mantello, ed alla taglia erculea delle sue forme, al suo sguardo torvo, alla fronte bassa e più alle grosse manacce, con una delle quali girò la maniglia dello sportello, il lettore non durerà fatica a riconoscere colui che i soci del puntarolo chiamavano il Gigante.

Egli scese col suo passo da sciacallo e s'appostò alla cantonata.

Di là.... dominava tre strade: era a posto.

La taverna era ancora illuminata, sulla porta non c'era alcuno: in due salti lesti lesti, ad onta della sua corpulenza colossale, ei si cacciò nel vano di una porta che pareva messa là apposta per servire ai fatti suoi.

*

Dalla taverna si fece in quel momento minore la luce.

- Che sia tutto finito?... - pensò il Gigante - e che arrivassi troppo tardi?...

Se escono tutt'e tre, avrò un bel da fare.... a salvar la pelle.

Cacciò anch'egli una mano nelle fonde, come chiamava lui le enormi tasche della sua giacca, orribili bocche spalancate sempre per ricevere tutto ciò che vi entrava di non suo; e qualche cosa di necessario ce lo trovò.

Egli indovinò subito, però, una precauzione e nulla più, in quella diminuzione improvvisa di luce, e per ogni buon conto si tenne sull'avvisato, colla mano sul manico del coltello, il tabarro arrotolato intorno al braccio, e l'occhio attento.

Nessun segno allarmante convalidò i suoi primi sospetti.

- Dopo tutto.... - riflettè egli - delle carrozze ne passano dappertutto e non so perchè non ne debbano passare di qui....

La riflessione era abbastanza logica.

*

Peppe, dopo aver messo fuori la testa, mise fuori tutto il corpo, ed esclamò fra sè:

- Per sant'Antonio!... come dice il maestro, quando resta a mani vuote.... una carrozza non è un guscio di noce, e se c'è la vedrò - e presa la sua brava risoluzione, s'avviò a corsa verso la cantonata, per poter dare, come la pensava lui, una sbirciata al posto.

Fece soltanto pochi passi e si senti afferrato.

Egli tentò di gettare un grido, ma il Gigante gli ravvolse intorno alla testa il suo tabarro e lo prese fra le braccia, mentre il povero Peppe, mezzo soffocato, tirava calci al vento e cercava invano di dibattersi, ravvolto com'era in una specie di camicia di forza dal mantello del Gigante.

Doveva esser quello il solo scopo di quell'appostamento, perchè il Gigante corse subito alla carrozza, ne aperse lo sportello, vi cacciò dentro quella specie d'involto, entrò egli pure ed ordinò al cocchiere:

- Via, di galoppo.

Un buon colpo di frusta fece impennare il cavallo, che non aspettò il secondo.

....................................................................

Per quanto leggero, perchè soffocato istantaneamente sulle sue labbra, il grido gettato da Peppe non sfuggì all'acuto orecchio del Guercio.

Egli trasalì e corse fuori.

Quando arrivò alla cantonata non sentì che il lontano rimbalzare delle ruote del legno sul selciato della via.

Quello che era successo egli lo intravvide, lo indovinò, eppure girò a sè d'intorno lo sguardo per cercare Peppe.

Credette quasi che potesse saltar fuori da una parte o dall'altra, dietro un muro, da una porta, da una finestra, cader giù da un tetto od anche dalle nuvole, tanto era abituato ai tiri stravaganti di quello scimmiotto che gliene faceva vedere di tutti i colori.

Ma che!... a quell'occhiata seguì un sospiro. Peppe non c'era più.

- Sparito!... - mormorò egli - me lo hanno portato via sotto il naso.... canaglie!...

Una voce lo scosse; era quella d'Arturo.

- Ebbene?... - chiese egli.... - che è successo?...

In due parole lo mise al fatto di tutto, come se avesse visto ogni cosa.

Erano spiati, si giocava loro un tiro, e si erano impadroniti di Peppe per farlo cantare.

Il primo pensiero d'Arturo fu per Bianca. Un nuovo pericolo la minacciava forse: che fare?

- Non bisogna perdere un istante - disse al Guercio - voi sapete dov'è, andiamoci.

- Per far che?... - borbottò il Guercio.

- Per difenderla!... - esclamò il giovane - per riaverla.

- Per perderla!... - gli disse il Guercio freddamente - noi siamo qui ora, credete che siamo soli?... no.... ci vedono.

- Da dove?...

- Chi lo sa?... dalla via, da una finestra - dappertutto - mettiamoci in via per andar là - ci saranno prima essi - quel ragazzaccio là.... lo conosco - è duro come un osso quando ci si mette - e darà loro da torcer lana invece di filo - io posso sapere molte cose - ma non è momento questo da pigliar tordi - dritti, ognuno per la sua strada, e quello che ha da nascere nasca - su quella per la quale si va da lei.... ci penso io a far buona guardia - e se l’altro.... parla, saprò anche quello.

Arturo, ad onta della sua impazienza febbrile, dovette convenire che il vecchio aveva ragione.... e che altro non poteva far di meglio, che dar retta a' suoi consigli.

Rientrarono dunque nella taverna, ma la voglia d'approfittare della lauta cena era loro passata.

Arturo chiese il conto, pagò, ed il taverniere con una sberrettata diede loro la buona notte, augurandosi di avere un bis giornaliero che avrebbe fatti camminare, a gonfie vele, i suoi affari discretamente imbrogliati.

CAPITOLO XVII PEPPE

- Sarà riuscito?...

- Speriamolo.

- Sei certo che ne sappia qualche cosa?...

- Sa tutto.

- E parlerà?...

- Ci penseremo noi: una volta qui, saprà che si trova in buone mani e che la ciarliera.... gliela sapremo sciogliere.

....................................................................

Questo il dialogo.

Due uomini se ne scambiavano le frasi, guardando verso la strada da una delle finestre della tana.

Il lettore la conosce già, è il deposito. Non abbiamo cambiato che di località, perchè allora.... la scena aveva luogo al pianterreno ed ora siamo invece al quinto piano della casa, aeree regioni dalle quali si è in più diretta comunicazione col cielo.

Uno di essi è il colonnello - l'altro.... un altro.... intendo dire un altro come lui - roba del genere - fantasmi della notte - soci del puntarolo e della bisca di Ester.

È inutile dar loro un nome poichè non ne hanno. Erano di vedetta, a quel quinto piano; guardavano sulla via, aspettavano qualcuno.

L'atteso era il Gigante e doveva portare là.... qualche cosa; Peppe - e per strappare dalle sue labbra le rivelazioni che riguardano la fanciulla sottratta alle loro unghie e per saper che cosa si stesse architettando per non farvela ricadere, volevano farlo cantare.

Erano disposti a tutto.... pur d'ottenere il loro scopo.... e ci contavano.

*

La carrozza arrivò; trasalirono; la porta della casa si aperse.

Dalla carrozza scese un uomo che non poterono vedere, perchè la notte era buia, ma indovinarono che era lui.... perchè il legno ripartì subito.

Un uomo saliva difatti le scale strette e sudice della casa.

- Sei tu?... - chiese una voce dall'alto.

- Sì.

- Sta bene.

Il Gigante saliva le scale e gli sembrava d'avere fra le braccia una pupattola infagottata, tenendo Peppe tutto ravviluppato nelle pieghe del suo largo tabarro.

Gli turava la bocca colla pressione poco garbata della sua mano colossale, ed il poveretto cercava invano dibattersi per liberarsi da quell'inviluppo soffocante e maledettamente incomodo.

Nella posizione in cui si trovava, bisognava però essere filosofi ed aspettare lo scioglimento.

Egli si rassegnò dunque.... e non avrebbe chiesto che un po' d'aria se gli fosse stato possibile il chiederla; ma ad ogni sussulto, mentre nulla poteva vedere d'intorno a lui, sentiva la voce del Gigante che gli ripeteva un'antifona che finì col trovare orribilmente noiosa:

- Se ti muovi, sei morto!...

L'antifona variava soltanto quand'egli si permetteva qualche gemito; ma la conclusione era la stessa.

- Se gridi.... sei morto!...

- Stiamo zitti - pensò Peppe - si andrà pure in qualche posto, e me lo leveranno di dosso questo sacco.

- Ci siamo... - pensò egli - stiamo a vedere che cosa succede.

Il Gigante, ricevuto infatti dal colonnello e dall'altro.... fu introdotto nell'abbaino dal quale i soci spiavano il suo arrivo.

Il monello sentì rallentarsi intorno al corpo le pieghe del tabarro ed uscì fuori da quella specie d'imbuto, a guisa dei diavoletti che saltan fuori dalle scatole.

La prima cosa che fece, e di cui sentì il supremo bisogno, fu di respirare una boccata d'aria.

La finestra dell'abbaino era ancora aperta, e quel quinto piano non poteva essere più adatto per respirarla in tutta la sua purezza.

Ne ebbe però appena il tempo, poichè il colonnello disse al Gigante: - Chiudi.

Il Gigante chiuse.

- Siamo in tre - disse mentalmente Peppe, che gettò a sè d'intorno uno sguardo abbastanza inquieto.

Stava per abbandonarsi ad altre riflessioni, ma furono troncate da una tirata d'orecchi, pochissimo rispettosa, colla quale il colonnello si permetteva di richiamarlo alla realtà dei fatti.

- E così?... - gli disse il colonnello - ti abbiamo acchiappato, mi sembra.... e credo che avrai molte cose da dirci; che ne pensi?...

- Penso - rispose sfacciatamente Peppe - che abbiate una mania per le carrozze, massime il Gigante; non gli do tutti i torti, però.

Sbarazzato dal soffocamento del mantello, ridestatosi come da un brutto sogno dopo quella corsa, in una stanza qualunque.... al quinto piano d'una casa, dove non c'era nulla di spaventevole, il piccolo eroe riprendeva la sua impertinenza abituale.

Il colonnello seguitava però a tenerlo per un orecchio.

- Mi fate male.... - strillò Peppe - e non so che cosa vogliate da me.

Il colonnello sorrise.

- Piccino mio.... - gli disse dopo un istante - tu ti lamenti per poco.... ed hai torto.... ne avrai tutto il tempo in seguito....

L'esordio non era troppo rassicurante, ed il sorriso col quale il colonnello accompagnò quelle parole lo era meno ancora.

Il colonnello volle però dargli una prova di magnanimità prima di passare a vie di fatto e lasciò andare l'orecchio di Peppe, il cui rosso prima infocato incominciava già a divenire violaceo.

Peppe respirò.

- Piccino mio, tu giuochi col fuoco - riprese il colonnello.

- Non ho mai giocato che alla trottola.... - rispose Peppe - e l'avevo rubata.

- Tu hai strette relazioni con un giovane che vuol far andare a monte un nostro colpo, e con un imbecille di vecchio che diserta le nostre file.... - continuò il colonnello.

- Non ne so nulla.... - rispose Peppe.

- Sei stato da mamma Teresa la straccivendola, per scavar terreno.

- Non la conosco - ripetè Peppe.

- Quel giovane l'hai voluto conoscere.

- È lui che ha conosciuto me.

- L'hai veduto questa notte.

- Sono stato invitato a cena - rispose Peppe pavoneggiandosi.

- Cena sospetta!... - replicò il colonnello con aria di minaccia.

- Tutt'altro.... - affermò Peppe - un quarto di capretto con patate.

- Ti ripeto di non scherzare.

- Sono serissimo.

- Ascoltami.

- Ascolto.

- Sai di che affare si tratta?

- Non bene.

- Dietro la carrozza che faceva il colpo c'eri tu?

- C'ero.

- Gennaraccio se la prese....

- Magnificamente bene!... - esclamò Peppe.

- Per te, forse....

- Perchè?

- Perchè è a lui come a noi ch'ei vuol riprenderla ora, e tu hai fatto lega coi nostri nemici.

- Potrei avere il piacere di conoscerli?

- Il Guercio e colui che tu chiami il tuo protettore.

- Ne siete certo? - chiese sfacciatamente Peppe.

La mano del Gigante lo afferrò pel collo.

- Non mi fare lo gnorri, carino mio - esclamò egli irritato dalla freddezza canzonatoria di Peppe.

Peppe atteggiò il suo viso ad un'aria tale di sorpresa, che il colonnello ed il Gigante s'interrogarono con uno sguardo esprimente la più assoluta delle diffidenze.

- Alle corte! - concluse il colonnello - tu hai servito ai loro disegni.... conosci quelli da essi ideati.... sai dov'è il morto in questione, e devi dircelo.

Peppe aveva ascoltata l'intemerata del colonnello colla più assoluta impassibilità. Si poteva però notare sulle sue labbra una contrazione che stava tra la smorfia ed il sorriso, ma non era sorriso.

La voglia di ridere l'avrebbe avuta.... essa traspariva da quegli occhietti vispi, da quella specie di beffarda impertinenza colla quale fissava il suo sguardo in quelli da sparviero de' suoi interlocutori.

- Oh! come mai - pareva dicesse fra sè - la fa da giudice costui?... E sì che coi giudici avrebbe molte cose da regolare!

Qualche cosa però lo imbarazzava, ed anzi, diremo meglio, lo assoggettava ad un senso di sbigottimento reale, ed era la faccia del Gigante.

C'era su quel suo volto un non so che di così cupo, da far venire i brividi a ben altri che ad un ragazzo.

Egli era là, ritto, immobile, ascoltava tutto senza batter ciglia - aveva incrociate l'una sull'altra le sue gambe - aveva acceso un mozzicone e pareva non preoccuparsi neppure di quell'interrogatorio, certo che sarebbe andato a finire come la pensava lui.

Non aspettava che un ordine.

Quale?...

Peppe ebbe un istante di paura e si sarebbe gettato ai piedi del colonnello e del Gigante chiedendo grazia e dichiarandosi pronto a confessare tutto quello che sapeva, pur d'uscire da quella soffitta dove l'aria gli pareva più irrespirabile di quando non la respirava del tutto, fra le pieghe del tabarro dove era stato ravvolto.

In buon punto, tra quelle apprensioni paurose, gli si affacciò alla mente Arturo.... - Arturo, quel bel giovane dai modi gentili, dalla parola franca - Arturo, che lo aveva accarezzato come si accarezza un fratello - che l'aveva fatto dormire sotto il suo tetto senza la menoma diffidenza - che l'aveva fatto sedere vicino a lui, alla sua tavola....

Era per lui.... che egli potè pavoneggiarsi dinanzi ad uno specchio con una blouse nuova - per lui.... che aveva gettati i suoi cenci, e con quei cenci.... roba da immondezzaio che ve lo tenevano ravvolto, gli parve ancora d'aver gettata via parte di sè stesso, quasi inconsciamente, senza saperselo spiegare, ma pur sentendolo!....

Egli si era inebriato di quei palpiti nuovi!...

A quella povera fanciulla, si era tanto interessato, che gli pareva quasi di conoscerla.

Erasi svegliata in lui una indefinita intuizione del male che aveva fatto, e che poteva ancor fare.... ed un'altra intuizione.... quella di poter essere diverso.

Egli.... il borsaiuolo, si era sentito qualche cosa. - Perchè tornerebbe ad essere ciò che era prima?...

Egli, un monello, era stato atteso impazientemente da quei due uomini, uno dei quali si chiamava il colonnello, l'altro il Gigante.

Uno rassomigliava ad un gendarme, l'altro ad un aguzzino.

Che avevano fatto?

Si erano impadroniti di un fanciullo!

Avevano avuto bisogno di una carrozza, di un complice, del mistero! E tutto ciò per chi?... Per lui!

Gli avevano dunque eretto un piedistallo.... ed egli, il piccino, vi montava sopra e si sentiva grande.

*

Quel gigante di carne diventava un pigmeo!

Che cosa avrebbe potuto su lui, con tutta la sua ferocia da manigoldo?

Nulla!

Che cos'era il colonnello col suo piglio inquisitoriale?

Nulla affatto!

Egli solo era qualche cosa.... egli era tutto!

*

Le comprendeva egli tutte codeste cose?

La sua piccola mente riusciva ad abbracciare la grandezza di questa situazione reale?

Non lo possiamo affermare.

Ciò che possiamo accertare è, che l'importanza di questa situazione, egli la intravvedeva vagamente.

E poi, aveva detto ad Arturo che sarebbe andato anche nel fuoco per lui; il suo piccolo cuore batteva, ed il momento era giunto.

- E così?... - chiese brutalmente il colonnello.

Peppe lo fissò in faccia colla più impertinente delle sue occhiate, e gli rispose:

- Non so nulla.

- Per l'inferno!... parlerai! - proruppe il colonnello, a cui pareva strano d'essere canzonato da quello scimiotto che avrebbe potuto stritolare con un pugno.

- Ah, ah! - seguitò egli - ti hanno dunque stregato, eh, i tuoi bellimbusti? Ah, ti hanno regalato delle blouses nuove.... delle scarpette!... T'hanno impinzato il ventre con degli arrosti?... Ti hanno fatto bere dell'Orvieto?... Ma te li rimetterai presto i tuoi cenci!... Sappiamo come fartela ammuffire questa tua blouse.... e, in quanto agli arrosti, avrai da lamentargli per un buon pezzo, te lo accerto io!

Egli si accorse che andava terribilmente in collera, e la cosa gli parve tanto buffa, che si fermò in faccia al monello, cercando di atteggiare le sue labbra ad un sorriso che attestasse tutta la sua superiorità assoluta.

- Piccino mio - riprese poscia - tu hai fatto male i tuoi conti; hai detto che non ne sai nulla.... e sta bene. Io non ho fiato da sciupare inutilmente, e le partite si accomodano facilmente.... basta saper fare, e poi si rimedia a tutto. Vedi, qui siamo al quinto piano.... potrei prenderti per un orecchio e farti fare un volo, che non sarebbe pindarico, ma sarebbe però sempre un bel volo. Domattina ti raccoglierebbero insieme alla spazzatura, e tutto sarebbe finito anche per te, che già, alla lunga, riescirai a fare una fine peggiore. Invece, sai che cosa penso io di fare? La cameraccia del deposito la conosci.... a sinistra c'è una porta; dopo la porta, una scala; scesi sei gradini di questa scala, un'altra porta, la quale mette ad una cantina. Ebbene, una volta che tu sia laggiù, puoi gridare con quanto fiato hai ne' polmoni, ma puoi esser ben sicuro che nessuno al mondo ti potrà sentire. L'abbiamo scelta per i nostri affari, e non c'è un buco che dia sulla strada. Battendo contro la porta, si può fare del rumore, è vero.... ma l'amico Gigante ha delle buone corde.... e, una volta legate ben bene le tue piccole manine, si fa altrettanto co' tuoi piedini, perchè potrebbero tirare dei calci, e ciò ti stancherebbe. Ti si prepara un cantuccio fra gli stracci, che non mancano, e tu te ne stai là, tranquillo e pacifico, senza aver bisogno di procurarti un altro alloggio.

Si fermò un istante per vedere quale effetto producevano su Peppe le sue parole, poscia proseguì:

- Domani, poi, ti veniamo a trovare, perchè una visita la si deve pur fare agli amici.... Hai tempo quanto te ne occorre per digerire la cena di questa sera.... se pure hai avuto il tempo di farla.... ed in quanto alla colazione che potresti desiderare, se parli, mangi.... e se ti ostini a tacere.... non avrai neppure l'incomodo di far uso di queste tue manine, che ti sono diventate tanto bianche da meritare d'esser trattate con ogni riguardo.

Il Gigante trasse dalle tasche della sua giacca di fustagno un rotolo di corde e si avvicinò a Peppe.

- Qua, piccino.... - gli disse - e non facciamo chiasso, perchè se anche non lo volessi, ti si legano lo stesso.

Peppe porse le mani e le sovrappose l'una sull'altra colla massima indifferenza.

Un ignobile sorriso deformò le labbra del Gigante.

- Sai come si fa.... eh?... - gli disse - e si vede che non è la prima volta che te le accomodano. Dopo tutto, tanto meglio!... è bene essere abituati a certe cose.

Così dicendo, egli girava la corda intorno ai polsi di Peppe, e nell'enfasi dell'operazione strinse in modo da strappargli un grido di dolore.

Il colonnello gli volse uno sguardo, che esprimeva quasi un rimprovero.

- Nulla!... nulla!... - rispose il Gigante - si adattano poi.... - me lo diceva uno della nera mentre adattava intorno a' miei polsi un cerchio di ferro largo due dita - questa è corda e la corda cede.... da sè; ora.... ai piedi, carino.... - continuò egli, rovesciandolo a terra per poter terminare la faccenda.

Peppe cercò di tirargli un calcio.... tanto per provarsi a fare qualche cosa, ma le mani del Gigante sembravano morse.

- E così?... - gli chiese il colonnello quando lo vide nella assoluta impossibilità di fare un atto - mentre guardava freddamente le corde che tracciavano un solco livido sulle sue carni - vuoi dirci quello che sai?...

- No - rispose Peppe.

*

Ad un cenno del colonnello, il Gigante lo sollevò da terra, lo avvolse nel tabarro, gli premè con una mano sulla bocca, uscirono dall'abbaino e ridiscesero i cinque piani.

Quando le cose si vogliono fare, si devono fare completamente, ed ogni precauzione era ben presa.

Come disse poco prima il colonnello, entrarono infatti nella cameraccia del deposito; - a sinistra c'era una porta che fu aperta, una porticina bassa ma abbastanza forte, chiusa a doppio chiavistello; scesero i gradini di una angusta scala - apersero una seconda porta e si trovarono in quel locale della casa che il colonnello chiamava la cantina.

La sarà stata infatti una volta, ma ora non l'era più.

Era una specie d'androne, basso, umido, lungo, ingombro da una infinità di oggetti.

Grandi ceste - cassoni - spranghe di ferro - zappe -picconi - arnesi che erano destinati al certo ad un uso particolare e che facevano parte degli attrezzi di cui si serviva quell'onorevole corpo sociale, quando si trovava nel pieno adempimento delle sue funzioni.

Qua e là.... eranvi ancora degli abiti giacenti per terra - altri attaccati a dei chiodi alle pareti, qualche mobile rotto - qualche oggetto d'arte.... reso inservibile - un Napoleone colla testa rotta - una Venere senza braccia - una croce senza Cristo - una chitarra senza corde - san Bartolomeo, oltre ad essere stato scorticato, era spaccato - sembrava che gli scorticatori in un impeto d'entusiasmo.... avessero tirato troppo, e fosse loro restato in mano, ad uno il costato, all'altro una gamba.

Era infine il magazzino del deposito - un gran ventre che ingoiava la sua parte delle spoglie inservibili alla vendita minuta e particolare, e che erano tenute là.... per farne poi all'occasione un blocco generale.

Al povero Peppe fu tolto di dosso il mantello, pel quale doveva aver provata la più terribile delle avversioni, e venne deposto nel suo stato d'assoluta immobilità sopra un mucchio di stracci che gli poteva servire da giaciglio, poco soffice e molto umido.

Dopo una terza intimazione, a cui rispose col silenzio, egli fu lasciato là, liberissimo.... di abbandonarsi a tutte le riflessioni che potevano essergli suggerite dalla sua abbastanza strana ed assolutamente incomoda posizione.

Ciò che era fatto era fatto. Egli erasi intestato a non voler parlare, essi.... avevano ricevuti i loro ordini.... e non dovevano far altro che ritornare al domani.

*

Giunti sulla porta della cantina, mentre il Gigante stava chiudendone il chiavistello, colui che chiamavano il colonnello gli posò una mano sulla spalla.

- Sai.... - gli disse - gliele hai legate dinanzi le mani?

- Ebbene?... - replicò egli.

- In certi casi.... - borbottò il colonnello - dietro le spalle, danno più noia, ma si è più al sicuro.

Il Gigante crollò con atto di sprezzo la sua grossa testa.

- Quando le lego io, sono ben legate, tanto davanti come di dietro - rispose - ho fatto il nodo di fianco, se tuttavia vogliamo rifare la faccenda si fa presto, garantisco però che fra un quarto d'ora non saranno i suoi polsi che si adatteranno alla corda, ma la corda che entrerà nelle carni: ho stretto bene, ve lo assicuro.

Scambiatasi qualche altra parola, i due uomini richiusero la seconda porta come avevano chiusa la prima, ed uscirono dalla casa, non senza essersi prima accertati che non li aspettasse qualche importuna sorpresa.

CAPITOLO XVIII APPRENSIONI

Peppe si trovò ravvolto dalla più completa oscurità e non potè esimersi dal provare un senso di sbigottimento.

Egli le conosceva le persone in cui era caduto e sapeva di che fossero capaci.

Mentre si dava alla porta l'ultimo giro di chiavistello.... fu lì lì per gridare:

- Aprite, scioglietemi, parlerò. - Ma non lo fece.

Sentiva qualche cosa in lui che gli impediva di darsi così per vinto.

Era la seconda volta, dunque, che imponeva a sè stesso e che si vinceva, come se una forza superiore alle impressioni del terrore ve lo costringesse. No.... egli non avrebbe ceduto, e se doveva farlo avrebbe prima lottato.

Le parole del colonnello gli ronzavano però ancora alle orecchie, le sentiva ancora, dette da lui con quella sua fredda inesorabilità.

- Se parli.... mangi, se non parli.... transeat!...

La parola era latina, ma benchè egli non conoscesse il latino, l'aveva capita perfettamente.

La volontà di morir di fame non l'aveva e, per colmo d'ironia, gli pareva di vedersi dinanzi la famosa tavola apparecchiata alla Stella, le candele che aveva accese l'oste, improvvisando tutto quello sfoggio d'illuminazione da cui era rimasto sbalordito; l'aveva ancora sotto il naso, il grato profumo di quella marmitta che puzzava deliziosamente.... d'aglio e di cipolla.

Essi sarebbero là.... lui, Arturo, ed il Guercio, a quell'ora si sarebbero già sturate delle bottiglie.... ed invece....

Come in poche ore tutto erasi cambiato!...

Era stato calato il sipario su quella scena di commedia così appetitosa.... e così brillante.... e si passava al dramma.... e che dramma!... Uomini appostati, rapimento, interrogatorio con minacce, ed in mancanza di una torre.... come nelle leggende medievali.... quella cantina poteva benissimo sostituirla!...

Invece del carnefice.... il Gigante, qualche cosa di simile.... invece dei ceppi tragici, quelle corde prosaiche!...

*

Peppe sentiva che gli si intorpidivano le braccia, provava ai polsi un dolore che facevasi ad ogni istante più acuto, e che a poco a poco diveniva insopportabile.

Egli si agitò convulsamente sugli stracci sui quali giaceva, ma ad ogni suo movimento, ad ogni suo sussulto, pareva che le corde più gli si stringessero intorno ai polsi.

Erano infatti le carni che si gonfiavano, aumentandone la pressione.

- Dio mio!... Dio mio!... - mormorò il povero fanciullo che si sforzava a restare immobile per non accrescere quello strazio, e due grosse lagrime ne irrigarono le guance.

Egli soffriva.... soffriva orribilmente, e quegli uomini, nel lasciarlo, avevano detto ridendo che ritornerebbero domani!...

Al pensiero di dover sopportare sino al domani quella tortura.... un brivido gli ghiacciò il sangue, mentre parvegli che al capo gli salisse una vampata.

Se in quel momento una voce umana, fosse stata pur quella del Gigante, del colonnello.... di chicchessia infine.... fosse arrivata fino al suo orecchio, se dietro quella porta ci fosse stato qualcuno da chiamare, non avrebbe esitato un momento, avrebbe detto tutto quello che sapeva d'Arturo, di Bianca, del Guercio....

Si pentì di quello che aveva fatto, disse a sè stesso che giacchè era coi ladri, doveva fare come essi, restar ladro....

- È troppo!... è troppo - gemeva, e sperando che qualcuno potesse sentirlo.... poichè potevano pure essersi fermati sulla scala per aspettare il buon momento.... - Pietà!... pietà.... - gridava - parlerò, dirò tutto.

Nessuna voce rispose a' suoi gemiti, egli era solo - sempre solo in mezzo a quell'oscurità silenziosa, e negli spasimi del dolore gli pareva di vedere dei fantasmi intorno a lui, di sentire delle voci e della risa.

*

Sfinito da questi sforzi, di cui comprese l'inutilità, egli si calmò a poco a poco.

La testa gli ardeva; quel dolore ai polsi erasi però fatto meno vivo, e provava invece un intorpidimento generale alle braccia ed alle mani.

Gli pareva di non sentirsele più e che gli fossero diventate grosse grosse....

Era un effetto del sangue che vi affluiva e che ne faceva battere convulsamente le arterie.

Fu però un momento di calma successo a quel primo dolore così acuto, che se fosse durato di più l'avrebbe reso pazzo.

Con uno sforzo disperato egli cercò di avvicinare la bocca a quelle corde - ne afferrò un nodo coi denti, ed una volta riuscito a far questo, si piegò, si curvò, si raggomitolò, dirò così, su sè stesso, per tenervisi attaccato, per strappare, per mordere....

Vana speranza!

Non fece che risentire più vivo il dolore che aveva provato prima.

Era riuscito però ad una cosa; - ad afferrare un capo della corda: l'aveva afferrato sì, ma afferrato male.

CAPITOLO XIX DENTINI DI TOPO

Il cuore gli batte violentemente. Con un supremo sforzo, vincendo quel dolore che in ogni modo sarebbe reso più insopportabile dall'irritazione, perchè non potrebbe riuscire?

Lo riafferrò, infatti, piegandosi colla sua elasticità da scoiattolo; era troppo ben saldo per poterlo strappare; le sue forze erano troppo affievolite: ma la speranza, raggio vivificatore, leva potente che opera tanti miracoli, era entrata nella sua anima, mentre dal pensiero aveva avuta un'idea.

Egli si rivoltò pancia a terra e piegò le braccia legate in modo che facendo forza contro il terreno su cui giaceva, potesse tenere il nodo alla portata della sua bocca.

Non aveva così più bisogno di muoversi, di far forza colle braccia già intormentite; egli vi pesava sopra col corpo, le teneva lì, ed addentata una volta la corda, rosicchiò, rosicchiò, prima ansante, poi più calmo.

In certi lavori, la smania è un cattivo ausiliare, ed in quello a cui erasi accinto, la forza stava nella pazienza.

Gutta cavat lapidem!

Ad ogni rosicchiatura, i suoi dentini bianchi, veri dentini di sorcio, s'addentravano nella corda, non sentiva quasi più il dolore, rodeva; non si arrestò un istante, non la lasciò più; la corda cedette, ma non bastava; c'era un secondo nodo: fortunatamente era meno stretto del primo, e gli bastò poter afferrare il capo della corda allungatosi, per trarlo a sè dopo uno sforzo supremo che gli strappò un ultimo gemito; sentì che la pressione allentavasi intorno ai polsi, rosicchiò ancora, tirò, strappò, e dopo un'ora e mezzo di lavoro, benchè solcate da un cerchio livido, potè agitare per aria le sue mani.

Sciogliersi da quelle che gli legavano i piedi, gli parve la faccenda d'un momento.

La cosa però non era tanto facile; le dita intormentite avevano perduto il senso del tatto, gli sembrava d'aver attaccato alle braccia qualche cosa di morto, di pesante, d'inservibile.

Peppe provò un vero spavento, ma si rimise tosto.

Il sangue riprendendo il suo corso naturale produceva lo sgranchimento delle dita, quella sensazione di pesantezza sparve a poco a poco, e dopo pochi minuti, che a lui parvero secoli, si trovò in piedi ringraziando col pensiero quel Dio, che forse non aveva mai pregato, ma che sentì in lui.... ed a cui si volse col muto linguaggio dell'anima che sentivasi rivivere.

*

- E poi?...- mi chiederà quella tal bionda lettrice, dagli occhi celesti e dalla testolina pensosa.

- Poi.... che cosa?...

- Sta bene che il povero Peppe si sia sciolto, ma è forse libero per ciò?... Tra lui e la strada non ci sono le mura di quella cantina? Non disse forse il colonnello, che non c'è l'ombra d'un buco?... Non ci sono per di più quelle due porte alle quali si è dato tanto di catenaccio?... Il Gigante non tornerà domani a rilegarlo più solidamente?... ed in tal caso saprebbe resistere egli ancora ad altre sofferenze?...

*

Mi affretto dunque a tranquillare la mia bionda lettrice.

Il buco c'è.... benchè il colonnello abbia affermato il contrario.

Gli altri.... non sanno forse che ci sia, ma Peppe sì.

Oh! che l'avrebbero chiamato per nulla coi titoli di scoiattolo e di scimiotto?...

Egli c'è stato un'altra volta in quella cantina, e fedele alle sue abitudini d'allora.... aveva pensato ad una specie di colpo di stato che doveva avere pieno successo.

Vi avevano portata giù una quantità piuttosto discreta di mercanzia, e fra quelle diverse cianfrusaglie, avanzi di speculazioni più o meno riuscite, vi figurava una pistola a due canne, a cui mancava il martelletto sinistro, ma ci restava il destro, e per Peppe, martelletto più o meno, egli non guardava le cose tanto pel sottile; e una pistola la vagheggiava da un pezzo.

- Come impadronirsene?...- pensava egli.- Se la chieggo non me la dànno, o me la mettono in conto.

Potevano crederlo d'altra parte un oggetto pericoloso, nelle mani di un ragazzo, non per lui ma per loro, e in un momento poco opportuno, poteva benissimo farne qualcuna delle sue!...

Rinunziarvi.... era l'idea più logica - ma la logica intesa a quel modo non entrava nelle sue idee - e nelle sue idee c'entrava invece, predominante, quella di prendersela.

Le pistole, di cui vedeva spesso uscire il calcio dalle tasche del Gigante, del Guercio o d'altri.... esercitavano una vera attrazione per lui.

- Affare fatto! - esclamò un giorno, dopo aver aiutato il Guercio ed il Gigante a trasportare nella cantina un secondo od un terzo frutto del raccolto notturno.

Aveva osservato in un angolo, mezzo nascosto da alcune assi tarlate e da dei cavalletti senza gambe, una specie di piccolo respiratorio che doveva dare accesso, a seconda del suo modo di vedere.... nel cortile della casa stessa.

Era difeso da una grata di ferro, a maglie strette, ma corrose dal tempo, tale da poter essere rotta e levata in un attimo, ed egli col suo corpicino smilzo ci poteva passare comodamente.

Aveva finto di cercare qualche cosa, erasi provato a smuovere la grata, e la grata cedeva.

Erasi dunque ripromesso di farsi chiudere alla prima occasione in cantina, nascondervisi, poichè nessuno badava a lui, s'impadroniva della pistola, di qualche altra cosa anche.... tanto per sfruttare l'occasione.... ed usciva da quel respiratorio.... un buco che poteva servirgli per più d'un affare.

Non doveva far altro, che provarcisi una volta, ed egli avrebbe organizzato per conto suo un vero piano strategico. Essi.... portavano giù dalla scala, ed egli portava via dal buco.

Una specie di giuoco a scaricabarile, fatto in famiglia e che doveva riuscire graziosissimo.

CAPITOLO XX IL BUCO

Nella posizione in cui si trovava Peppe, essersi sbarazzato da quegli incomodi legami, voleva dire esser libero.

Dallo spiraglio non traspariva nessuna luce; potevano essere le due dopo la mezzanotte, ed intorno a lui tutto era buio.

Per mettere le mani sul suo buco dovette orizzontarsi alla meglio, rasentando il muro a sinistra della cantina, e quando inciampò nei cavalletti e nelle assi che lo coprivano, mandò dal petto un sospiro di soddisfazione.

- Ci siamo!...- esclamò.

Rimosse le assi, tolse di là i cavalletti, si chinò e sentì sotto il tocco delle sue dita la grata di fil di ferro.

Dopo tre o quattro strappate, per le quali egli trovò nelle sue gracili membra una forza di cui non si sarebbe supposto capace, la grata cedette, ed egli che tirava troppo forte, andò ruzzoloni a battere la testa contro uno dei cavalletti.

- Bravo!...- pensò Peppe - me la romperei in un momento così poco opportuno?... Piccola.... ma dura.... - borbottò poi con un sorriso di soddisfazione, toccando con la mano la parte che aveva ricevuto il colpo. - Ed ora.... ecco fatto!...

Si rimise ventre a terra, introdusse il capo, poi le spalle, nello spiraglio, e stava già per entrarvi con tutto il corpo, ma invece si tirò indietro improvvisamente.

Erasi risovvenuto della sua idea fissa.

Egli realizzava, è vero, il suo famoso piano in forza di circostanze indipendenti dalla sua volontà, ma in ogni modo lo realizzava, e giacchè si trovava chiuso in quella cantina, giacchè stava per uscirne, facendola in barba ai due omacci che sarebbero rimasti al loro ritorno con tanto di naso, trovando vuota la gabbia, ripensò a quella pistola, scopo di tanti suoi sogni, e gli parve persino di rivederla, benchè il buio fosse completo, col suo bel calcio intarsiato e luccicante, appesa al suo chiodo, come se attendesse soltanto una mano che sapesse staccanela.

- Ci sarebbe ancora?...

Fu questa la domanda che egli rivolse a sè stesso.

La premura d'uscir presto da quella situazione abbastanza pericolosa, fu controminata da quella voglia impadronitasi di lui, e pei ragazzi le voglie sono indiscutibili.

E poi.... gli sembrava che il colpo non fosse completo.

Ci vedeva una burla riuscita a tutto suo profitto, e non badò ad altro.

Egli si alzò, tasteggiò il muro, giunse al posto.... salì sopra una cassa che era ancor là.....come se ce l'avessero lasciata apposta, ed i suoi vispi occhietti dovettero lampeggiare di gioia, poichè la sentì attaccata sempre al solito chiodo, mentre se ne impadroniva con tutto l'entusiasmo di cui sentivasi capace.

- Ed ora.... filiamo!... - esclamò.

Saltò giù dalla cassa, a rischio di rompersi il collo - ritrovò il buco, e vi si cacciò dentro, tenendo salda in pugno la sua arma sognata.

Il buco era stretto, ma il suo corpicino era sottile - le ragnatele gli distesero sulla faccia una specie di velo - ma con una mano egli le tolse via - si spinse in fuori aggrappandosi alle pareti opposte dello spiraglio, si contorse come un serpentello, e sentì finalmente che la sua testa usciva dall'altra parte.

Ebbe però una strana sorpresa.

*

Gli sfiorò il volto un'aria fredda ed umida, che non era nè l'aria libera della strada nè quella d'una corte.... come aveva pensato lui.

A lui d'intorno invece era tutto buio, tutto freddo, come nella cantina dalla quale usciva.

- Dove diavolo sono?... - pensò egli - in ogni modo usciamo.

Una volta sbucato fuori colla testa, vi passò con tutto il corpo, ed un istante dopo era in piedi.

Egli guardò in alto; ma, strana cosa - o, per meglio dire - cosa che a lui parve strana.... il cielo non c'era!

Fece qualche passo tentoni ed urtò in qualche cosa.... era una tavola; voltò a destra, trovò un altro muro e rimase lì, pensoso, agitato da uno sgomento che era ben naturale.

Era uscito dalla cantina del deposito per entrare in un'altra.

Una seconda prigione, dove gli si potevano mettere addosso le mani un'altra volta.

Eppure, la cosa non avrebbe dovuto meravigliarlo.

Dal momento che dalla cameraccia del deposito bisognava scendere sei gradini per arrivare alla cantina dove l'avevano rinchiuso, dallo spiraglio che aveva attirata la sua attenzione era impossibile che si potesse passare nella corte di quella o d'altra casa, poichè la corte doveva essere sopra il suo capo e non al livello stesso della cantina.

Si era ingannato.

Era ancora troppo ragazzo, troppo inesperto, per potersi permettere certi calcoli.

Quel buco era per lui una via di salvezza; aveva creduto che bastasse potervisi cacciar dentro per esser libero, senza pensare ad altro.

Si trovava quindi colpito dal massimo stupore a quell'inatteso disinganno; ma quel suo momentaneo sbigottimento non affievolì però il suo coraggio. Si era trovato in ben altri impicci, e con un mezzo o con un altro se n'era sempre sbrigato.

- Dopo tutto - pensava egli - nè il Gigante nè il colonnello potranno passare dal buco dove son passato io, e le muraglie non le potranno abbattere tanto facilmente!... Qui mi devo trovare in un'altra casa, e se in un modo qualunque non potrò uscirne da me, farò del baccano, chiamerò gente, e qualche cosa succederà.

Queste riflessioni, abbastanza logiche, lo fecero sorridere.

Pensò che pochi momenti prima era là.... in balìa dei suoi carcerieri, torturato da quegli spasimi che avrebbe dovuto sopportare, chi sa ancora per quante ore.... e fremette, ma di gioia.

Tralla... trallà.... la rà.... Sarà quel che sarà!....

canticchiò egli, adattando quella sua improvvisazione poco poetica ad una delle tante canzoni popolari da cui sentivasi rintronare le orecchie nelle taverne dove solevano radunarsi i suoi amici d'una volta.

Dovette anzi imporre il freno più assoluto alla sua manìa acrobatica per non permettersi una capriola su quel terreno ignoto.... capriola che poteva essere troppo pericolosa.

Il fatto è che, superata la prima impressione di quella sorpresa inaspettata, egli sentivasi pieno di vita e di speranza ed aveva in sè stesso e nella sua buona stella la più illimitata delle fiducie.

CAPITOLO XXI AUDACES FORTUNA JUVAT

Presa una volta la sua brava risoluzione, dopo essersi cacciata nelle tasche la pistola, che il buio gl'impediva d'ammirare, egli si diede ad una accurata ispezione della località.

Camminò dunque rasente alle muraglie, inciampò di nuovo nella tavola che aveva già trovata sui suoi passi e la urtò tanto forte da rovesciarla.

- Adagio, Biagio!... - borbottò il monello - non facciamo delle corbellerie. Pare che invece d'andare innanzi io sia tornato indietro. Non importa.... la questione sta nel fare il giro.

Quella tavola e quei due cavalletti era tutto ciò che si trovava in quella specie di sottoscala, che, se serviva di ripostiglio ad oggetti di così poca importanza, non doveva essere necessariamente tenuto con troppa cura.

Peppe stava facendo questa riflessione a tutto suo profitto, quando sentì che il muro a cui appoggiavasi in quella sua passeggiata al buio, gli mancava tutto a un tratto; barcollò, ed urtò contro qualche cosa.

Aveva urtato contro un gradino.

- Buono!... - esclamò egli - siamo alla scala, e se c'è una scala, ci sarà una porta.

La scala era di quattro gradini, e lo colpì nello stesso tempo gradevolmente un debole raggio di luce ed un soffio d'aria ben diversa da quella che aveva respirata sino allora.

Dopo quei quattro gradini, il sottoscala aveva una porta ed era aperta.

Il nostro monello respirò a pieni polmoni, i gradini li fece in un salto, e si trovò nel piccolo cortile d'una casa, vicina a quella nella quale la compagnia aveva stabilito il suo deposito.

Era dunque sovra un terreno neutro, extra muros!... ed erasi sottratto compiutamente alle loro granfie.

*

Mancava poco ad albeggiare, le finestre della casa erano ancora chiuse, ne era pure chiusa la porta, ma tutto semplificavasi. Non doveva far altro che attendere; qualcuno della casa sarebbe pur uscito, la porta schiudevasi ed egli era libero.

Quei calcoli mentali che egli ruminava col pensiero mentre il petto ansavagli ed ogni minuto gli sembrava un secolo, non potevano infatti essere più logici.

Bisognava però non esporsi ad altri impicci, e poteva essere veduto da qualcuno degli inquilini su cui contava tanto, per poter uscire.

Non si sa mai che cosa si possa pensare d'un individuo che si trova all'alba in una casa non sua, e quel suo futuro liberatore ideale poteva invece prenderlo per il collo e condurlo al primo corpo di guardia perchè potesse dare lo debite spiegazioni.

La probabilità di questa soluzione, che per lui sarebbe stata tutt'altro che una soluzione, c'era...., e non era quella che gli garbasse di più.

Il sottoscala, dal quale era uscito, gli offriva però un comodo rifugio, ed egli ci ritornò, ridiscese i quattro gradini, come se si trovasse in casa propria, sedette sull'ultimo, e attese.

Pensava intanto a ciò che avrebbe fatto appena uscito di là.

Correre in traccia del Guercio e di Arturo, calmare le loro impazienze e le loro inquietudini, raccontar loro quello che gli era successo. Non avrebbero perduto un momento; si sarebbe organizzato il colpo.... e poi.... festa completa.

Non ci sarebbe stato quasi nulla di cambiato, ed il programma presuntivo non avrebbe subìto che una lieve interruzione.

- Tutto per il meglio! - pensava egli - e la festa sarà più bella!

*

Al pian terreno della casa si aperse in quel momento una finestra, alla quale si affacciò una donna. Poco dopo, un'altra finestra pure si schiuse, poscia un uscio, ed un giovinotto, dopo essersi fermato in mezzo al cortile per accendere la sua brava pipa, gettatasi sulle spalle la giacca, s'avviò canterellando verso lo stretto corridoio che metteva alla porta.

Egli l'aperse, poi la trasse violentemente a sè, facendola sbatacchiare contro il muro.

- Fatto! - esclamò Peppe, a cui batteva forte forte il cuore.

Sporse in fuori il capo, ma si guardò prima d'intorno con una precauzione volpina.

La donna era sempre alla finestra.

- Maledetta strega! - borbottò tra sè il monello, tutto intento a divorare collo sguardo il tratto di cortile che doveva attraversare.

- Mamma!...- chiamò dall'interno una voce fresca e giovanile.

- Sta' zitta!...- le rispose adirata la donna.

- Mamma! - ripetè la voce.

- Vengo! - le rispose.

Con sua grande soddisfazione Peppe la vide alla fine rientrare. Sbucò fuori, attraversò in un batter d'occhio il cortile, aprì la porta e si trovò sulla via.

CAPITOLO XXII VENTO IN POPPA

Arturo aveva lasciato il Guercio dopo il rapimento di Peppe, colla mente esaltata da quel contrattempo che rovesciava tutte le sue speranze o che per lo meno incagliava l'effettuazione dei suoi voti, e, col cuore oppresso, andò vagando per le vie di Roma senza direzione alcuna, senza uno scopo, ingolfandosi in un turbine di pensieri che sembrava lo trasportassero come tanti demoni beffardi, intrecciando intorno a lui una ridda satanica.

Di quale fatalità era egli giuoco?... Egli riandava tutto il passato, rivedeva Bianca nella sua cameretta ed intorno a lei quella vecchia brontolona della nonna, incontentabile come tutte le nonne e, come le nonne, pronta a dare tutto il resto del suo sangue per un sorriso della cara fanciulla.

Tutto era calma intorno a lei, la miseria aveva battuto, è vero, a quella porta, ma non aveva spento il lampo di quegli sguardi tutto amore!...

Avevano deposto insieme un fiore sulla tomba della povera madre, l'avevano bagnata con una lagrima, rugiada vivificante, ed avevano sperato.

E poi?...

Come mai era stata ordita intorno a lei quella trama?...

Aveva fatto tanto per ridarle l'eredità perduta, aveva trovato il mezzo di riuscire, ne era quasi certo, e l'opera sua non aveva servito ad altro, invece, che a fare scendere la sventura sul suo capo, farla scopo d'un ricatto, farla cadere nelle mani d'un'orda di miserabili che si erano audacemente impadroniti di quell'esistenza a lui sì cara.

*

Quella sua visita al commissario, le strane parole che aveva intese, quelle del marchese più strane ancora, quella fanciulla ritolta a coloro che l'avevano rapita ad altri.... quel monello, quel ladro a cui erasi avvicinato, e che il caso o la provvidenza avevagli fatto incontrare.... riandava col pensiero tutto ciò, e tutto questo quadro gli si affacciava con delle forme così bizzarre e fantastiche da indurlo a chiedere a sè stesso se non sognasse.

Non sognava pur troppo, e ci volle poco a persuadersene.

Egli soggiaceva ad un ultimo colpo di quella strana fatalità, e mentre si trovava lì.... solo, errante alla cieca per le vie di Roma, senza un'idea di quello che potesse succedere, senza poter far nulla, alla sua Bianca sovrastavano forse altri pericoli.

Quella inattività a cui era costretto, era ciò che gli pesava di più.

Aver un pericolo da sfidare, essere impegnato in una lotta, sarebbe stato almeno qualche cosa!...

Il Guercio non l'avrebbe riveduto che il giorno dopo; s'eran dato appuntamento in un bugigattolo nei dintorni della Rotonda.

I minuti scorrevano eternamente lunghi; gli sembrava quasi di non riconoscersi più, gli sembrava che in quelle strane gite di taverna in taverna, a cui erasi dovuto abituare, ci fosse in lui qualche cosa che si trasformava; si sarebbe, come il Nemorino di Walter Scott, trovato nel caso di fissare la sua immagine riprodotta da uno specchio, e chiederle:

- Chi sei?

*

Le vie erano silenziose, i fanali spenti, sul suo capo il cielo era grigio, non pioveva, ma spirava un'aria di scirocco e la pioggia non doveva tardar molto a cadere; non già però uno di quegli acquazzoni a cui si unisce il rombo del tuono, il baleno dei lampi ed il fischio del vento, ma una di quelle pioggerelle sottili, lente, noiose.

Un'aria tempestosa, satura di elettricità, egli l'avrebbe respirata voluttuosamente.

Negli schianti dei tuoni, nel baleno dei lampi, avrebbe trovato almeno qualche cosa che potesse armonizzare col tumulto della sua anima.

Tutto invece intorno a lui era assopito in una calma letargica; nelle case si dormiva e dalle finestre chiuse non traspariva un raggio di luce.

Camminò così, come trasognato, per molto tempo ancora, senza neppur pensare a recarsi alla sua abitazione, certo che il sonno non ve lo avrebbe trovato.

Pensò alla vecchia Anna, ma riflettè che era meglio lasciarla alle sue illusioni, poichè le aveva data qualche speranza e l'aveva fatta sorridere fra le lagrime, la povera vecchia, al pensiero soltanto di poter rivedere la sua Bianca.

Senza saper come, andando in su, fiancheggiando il Pantheon, egli ristette in mezzo alla strada, sprofondandosi sempre più in quel suo fantastico vaneggiamento.

....................................................................

Fu scosso tutto ad un tratto da una voce che lo fece trasalire, e gli saltò nello stesso tempo, quasi sulle spalle, qualche cosa che poteva essere una scimmia, o qualche animale del genere, caratterizzato dall'acrobaticità ginnastica di quello slancio.

Un grido di gioia uscì però dalle labbra d'Arturo ed il cuore gli battè con sussulto febbrile, mentre Peppe in carne ed ossa, dopo averlo così investito, gli si gettò al collo permettendosi un.... enfoncé!... espressione incommentabile.... che sbalordì lui stesso....

- Tu! - esclamò Arturo.

- Io, mio protettore.... Ah! quelle canaglie - soggiunse poi - me lo volevano far vedere nell'ampolla il diavolo!... ma a me non la si fa, e ne ho mostrato loro le corna! ma andiamo via e svelti, che questo non è posto sicuro, la ciarliera ho una voglia matta di farla cantare, tanto più che me l'hanno messa in quarantena, ma per ora acqua in bocca.... corpo di.... come dice il vecchio Guercio. Sapete che avrei fatto monete false per trovarvi?... Ah se sapeste da dove esco! Canaglia!...gran canaglia.... quella gente là.... ma non ci pensano ai buchi.... ed in certi casi anche quello dell'inferno sarebbe un buco come un altro.... non è vero, mio principe?...

Come si vede, ad onta della sua pretensiosa dichiarazione sulla necessità di abolire le ciarle, Peppe ne faceva per conto suo fin troppe, e tutto quell'affastellamento di apostrofi, di se, di no, di diavoli, di ampolle, di corna e di buchi, in fatto di chiarezza, lasciava molto da desiderare.

La parola però sulle labbra del monello era così viva, e l'abitudine non ancora smessa d'intercalarla colle frasi del suo gergo furbesco vi dava una espressione così bizzarramente strana, che Arturo lo stava ad ascoltare, soggetto ad una specie di fascino.

Da dove fosse saltato fuori, come mai gli era capitato così tra i piedi, come avesse fatto a far veder le corna a qualcuno, e come a lui si fosse cercato di far vedere il diavolo nell'ampolla, come diceva lui, non sapeva spiegarselo.

- Piccino mio.... - esclamò egli - sai che mi caschi proprio dalle nuvole!...

Peppe pensò alla cantina, e se avesse voluto permettersi il lusso d'una risposta, avrebbe trovato che la frase d'Arturo non era esatta, ma tacque invece; pensava al Guercio.

*

Albeggiava. Anche Arturo pensava a lui.

Eransi dato un appuntamento e bisognava non mancare, tanto più ora, che aveva ritrovato Peppe. Egli stesso stava forse cercandolo.

- Andiamo da lui - disse Arturo.

- Da chi?...

- Dal Guercio.

- Ci pensavo.

- Dov'è?...

- Lo so io.

- Benissimo!... ha un occhio che vale per quattro - esclamò giulivamente il monello - scommetto che non m'aspetta, e ho tante cose da dire, ma le diremo là. Un buco lo troveremo, ho una fame indiavolata. Quando penso - continuava egli a borbottare - che alla Stella c'era già tutto preparato, canaglia d'un Gigante! quel suo maledetto tabarro m'impicciava orribilmente, e se l'aveste sentito lui, il colonnello, con quella sua vociaccia!... furbo il colonnello, non saprebbe neppure far cantare un orbo, e voleva sonare; ma.... baie!... oh che!... sono un piffero forse?...

*

S'erano messi la via fra le gambe, come diceva Peppe, e cammin facendo egli abbandonavasi a quel suo chiacchierìo che tradiva in lui una smania irresistibile di raccontare le sue gesta notturne, serbandone i particolari pel Guercio, innanzi al quale si sarebbe posto completamente sul suo piedistallo da eroe.

Egli parlava, come un uccello canta, s'interrompeva per prorompere in una allegra risatina, faceva quattro salti, e via....

L'appuntamento era in piazza Navona.

Peppe sbirciò un viottolo, uno fra quei tanti che vi intrecciano una specie di laberinto.

- Conosco.... - disse egli ad Arturo, che lo interrogava con uno sguardo.

- Strana creatura - pensò Arturo.

Sulla porta d'un'osteria si affacciò un uomo; era il Guercio.

- Tu!... - esclamò egli, abbrancando Peppe pel colletto e traendolo nell'interno dell'osteria.

- Presente!... - rispose il monello, portando militarmente la mano al berretto. - Io.... ed ho fame.

Arturo era entrato dietro lui.

Il Guercio se l'era fatto sedere sulle ginocchia e fissava col suo unico occhio quella specie di apparizione semi-fantastica.

- Tanto meglio!... - ripetè, abbandonandosi al lusso espansivo d'una seconda espansione. - Corpo di...., non l'aspettava questa canaglia!... ma questo è un miracolo!...

- Una zuppa - ordinò egli all'oste.

- Coll'uovo - aggiunse Peppe.

- Coll'uovo - ripetè il Guercio - diamogli anche l'uovo a questo scimmiotto; deve averne fatta qualcuna delle sue; e porta quello che hai, pane, vino, tutto quello che c'è.

Fra una cucchiaiata di zuppa, che divorava a quattro ganasce, ed un sorso di vino che assaporava colla voluttà colla quale Tantalo avrebbe tuffate le labbra nell'onda mitologica che formava il suo supplizio, Peppe si abbandonò alla più loquace delle espansioni e raccontò tutto.

- Bel colpo!... - esclamò il Guercio - l'avrei scommesso, io, che non ne cavavano una parola.... Duro come un mulo!... bravo ragazzo eh!... che ne dite, signor Arturo?

Arturo era commosso.

Peppe seguitava a mangiare.

- Ed ora.... - consigliò il Guercio - chi ha gambe disponibili le adoperi, perchè qui ci fa caldo...; per Gennaraccio è questione di denari.... e garantisco io che saprò aver la merce a prezzi ribassati; bisogna però che egli non vi veda che un impiccio da cui togliersi alla meglio. Volete lasciare che ci pensi io?... Voi ve ne state qui bene appiattato. Vi consiglio di non rientrare neppure in casa vostra. Due nottate si passano presto in una casa qualunque, anche fuori di Roma.... meglio ancora, sulla strada che faremo noi. S'egli s'accorge che c'è di mezzo un terzo, non se ne fa nulla; il posto per metterla al sicuro lo conosco io: un po' di pazienza dunque e tutto andrà bene; che ne dite?

Arturo lo ascoltava preoccupato.

Il Guercio lo guardava.

Al punto in cui erano le cose, un atto di diffidenza avrebbe tutto rovinato, e non ne aveva.

La parola del Guercio era franca.

Non compromettevasi anch'egli coi terribili soci del puntarolo? Non s'era già compromesso?...

Egli trasse il portafogli e lo porse al Guercio.

Il Guercio l'aperse.

Il portafogli conteneva un buon numero di biglietti di banca.

- Sta bene - gli disse il Guercio - c'è anche troppo, e vi renderò i conti esatti. Partiamo io e Peppe, il secondo viaggio sarà un po' più allegro di questo, e vi do parola.... - stava per sfuggirgli - d'onore... - ma disse: - da vecchio, - che lo faremo in tre.

La voce del Guercio tremava infatti. Quell'atto di confidenza cieca, quel sentirsi un ladro a cui si consegnava una somma abbastanza enorme, e nelle cui mani si affidava la vita d'una fanciulla, tutto ciò era tal cosa da spiegare il sentimento da cui sentivasi dominato.

Arturo, non disse una parola di più; si era alzato e gli porse la mano.

Il Guercio provò una stretta al cuore, uno di quei sussulti infrenabili, che trasformano un essere umano, che redimono tutta un'esistenza, e nell'unico suo occhio brillò una lagrima.

Quella lagrima irrigò le sue guance, e scese giù, giù finchè cadde su quelle mani, quella del ladro e quella del giovane, che si tenevano strette, comunicandosi un uguale pensiero, una muta promessa.

Peppe non mangiava più.

*

Un'ora dopo, un barroccio da campagna, che nulla aveva di principesco, ma sotto al quale era attaccato un vispo cavallino grigio dalla chioma svolazzante, ed i cui garetti erano in perfetto buono stato per fare all'occorrenza una diecina di miglia l'ora, correva verso Terracina.

Vi stavano sopra il Guercio che lo guidava da esperto auriga come se in vita sua non avesse mai fatto altro, e accanto a lui, sullo stesso sedile, Peppe.

Il Guercio avrebbe voluto che la strada si accorciasse sotto le zampe ferrate del cavallo per arrivare più presto.

Peppe beavasi invece, allettato dal traballamento del legno, e per conto suo desiderava quasi, che non si arrivasse mai!

CAPITOLO XXIII ANCORA GENNARACCIO

Gennaraccio, il lettore se lo ricorderà, aveva detto al Guercio che l'aspettava.... ed avevano insieme conclusi dei patti. Il Guercio aveva anche detto ad Arturo: - preme a lui di disfarsene.

Il Guercio aveva un'intuizione particolare per certe cose....

Uscito da Roma, sottrattosi al contatto dei soci del puntarolo, vagheggiando la futura subbia di cui doveva essere il capo, Gennaraccio si sentiva impiccolito da quella partecipazione ai piccoli furti, ai piccoli raggiri, alle truffe, ai ricatti, scopo delle operazioni che si concertavano nella bisca di Ester, e nelle sale del deposito. Egli, figlio d'un brigante che fu colonnello sotto il cardinal Ruffo, onorato della protezione speciale di due papi, egli si sentiva brigante, ed un brigante, inteso il mestiere a modo suo, non doveva essere nè un manutengolo, nè un ladro. Quelle pianure immense, quei boschi di faggi, quei monti, quelle vallate, risvegliavano nel suo animo altri sentimenti. Essere leone od aquila, era essere qualche cosa! Quando aveva ordinato che portassero la fanciulla nella sua barca, non aveva pensato ad altro che a fare un affare, ma quando solo su quella barca vogava, colla sua ricattata, verso Porto d'Anzio, solo, circondato dalle tenebre della notte, dopo avere imposto agli altri.... di fare ciò che voleva lui, dopo essere stato obbedito, egli si sentì ridivenire ciò che era, non aveva semplicemente concorso coll'opera sua ad agevolare quel rapimento, la rubava lui!... si metteva in lotta cogli altri, da complice diventava padrone. In Ciociaria aveva i suoi: chi avrebbe osato di venirgliela a riprendere senza patteggiare prima, e senza restrizioni?...

Bianca era dunque sua, e quel ritenerla sua, inavvertitamente, senza che egli quasi lo volesse, quel sentimento di ribellione agli altri che l'aveva portato a toglierla ad essi, faceva nascere nel suo animo un sentimento proclive quasi.... alla benevolenza per quell'essere di cui si era impadronito.

La vecchia della capanna gli aveva sghignazzato in faccia quando egli, Gennaraccio, non aveva voluto entrare nel sotterraneo dove giaceva Bianca.

- Siamo teneri eh!... per quella pupattola!... - avevagli detto la vecchia.

Per tutta risposta egli avevale detto che se le torceva un sol capello avrebbe fatto i conti con lui.

Dopo la partenza del Guercio volle vederla però.

Quale ne fu l'impressione?...

*

Il giorno in cui arrivò il Guercio, l'atteso era lui.

- Che cosa mi porti?... - gli chiese.

- Mille lire - rispose il Guercio.

- Per conto di loro forse.... - gli rispose Gennaraccio corrugando le ciglia, e con tale accento di sprezzo che il Guercio lo guardò impensierito.

- Che diresti - rispose egli - se te le dessero i suoi?...

Gennaraccio trasalì.

- Dici sul serio?... - chiese.

- Tutto rotto - affermò il Guercio.

- Per l'inferno!... - esclamò Gennaraccio - ti avevo quasi capito - meglio così. Vieni.

Il barroccio era fermo a pochi passi dalla capanna, il Guercio aveva lasciato l'incarico a Peppe di far la guardia al cavallo.

Il bucefalo aveva fatta abbastanza strada per non aver nessuna voglia di continuare la sua corsa, e questa sosta, per quanto potesse essere momentanea, non gli tornava punto sgradita.

Egli si era messo dunque a mangiare un po' d'erba, mentre Peppe si era seduto sul margine di un fossato guardando verso la capanna.

*

Bianca si levò spaventata dal suo giaciglio, quando i due uomini varcarono la soglia del sotterraneo.

Le sofferenze di quei quattro giorni l'avevano così indebolita, che dovette appoggiarsi con una mano alle umide pareti della grotta.

- Non temete.... - dicevale il Guercio con voce commossa e trattenendo con un gesto il compagno - non veniamo per farvi del male.

L'accento con cui erano dette quelle parole era così espressivo, che la povera fanciulla volse supplice verso l'uomo le sue mani tremanti e cadde in ginocchio, mormorando:

- Abbiate pietà di me.

La torcia di resina, portata da Gennaraccio, ne rischiarava il volto, ed era così pallido, che la torcia tremò nella mano del bandito, mentre il Guercio lanciavasi verso lei.

Bianca gettò un grido disperato e svenne.

- Presto.... - diceva il Guercio a Gennaraccio - aiutami a portarla fuori di qui, un po' d'aria la farà rinvenire. Come deve aver sofferto!...

Gennaraccio gettò a terra la torcia che arse ancora, presero fra le braccia la fanciulla, la portarono fuori e l'adagiarono sull'erba.

Splendeva un sole magnifico, le allodole volavano a stormi per l'ampia pianura, qualche calandra librata sulle ali, in alto, salutava quella giornata quasi primaverile co' suoi gorgheggi.

Peppe era accorso lui pure; i due uomini ed il monello le stavano d'intorno, Peppe raccoglieva in una scodella di terra un po' d'acqua limpida da un vicino ruscello, la vecchia soltanto stava immobile sulla soglia della capanna come una specie di sinistra sfinge, colle labbra contratte da un sogghigno beffardo.

- Oh!... acqua in bocca.... - le disse il Guercio avvicinandosele.

La vecchia assentì con una specie di grugnito, e fissò il Guercio con quei suoi due occhietti la cui espressione non passò inosservata.

Aveva un occhio solo, ma gli serviva a meraviglia.

Trasse di tasca uno scudo e glielo fece luccicare sotto il naso.

La vecchia lo afferrò inchinandosi umilmente e lo voltava e rivoltava fra le mani, quando dinanzi a' suoi occhi abbagliati dal luccichio della moneta lampeggiò qualche cosa di diverso.

Era la lama d'un coltello che la fece fremere di spavento ed incurvarsi ancora di più verso il suolo, come se vi volesse sprofondare.

- Sono sempre in tempo, per fartene assaggiare la punta - dicevale nello stesso tempo il Guercio - e sono conti che si fanno presto.... lo sai....

- Vergine benedetta!... - esclamò la megera, giungendo supplice le mani - dubitereste di me?...

- Non dubito, ti avviso - concluse il Guercio - è meglio spiegarsi per evitare dei malintesi; qui non c'è venuto alcuno, non hai vista anima viva - e guarda di chiudere quei tuoi occhiacci da spiritata per non vedere dove andremo; in Ciociaria c'è posto per tutti.... e ad essere curiosi ci si può perdere qualche cosa - è vero che del fiato in corpo te ne resta ancora poco, ma se ti preme di conservarlo, la maniera la sai - all'inferno non ci staresti male e la strada per mandartici si trova in un momento.

Il Guercio ricacciò nelle tasche della giacca il coltello e s'accontentò di dare una scrollata alle spalle della vecchia, una scrollata che la scombussolò tutta.

....................................................................

La fanciulla intanto, di cui Peppe spruzzava la fronte coll'acqua raccolta dal ruscello, e più forse pel contatto dell'aria fresca del mattino, rinveniva.

Le parve di sognare, trovandosi in faccia a quel cielo azzurro, respirando quell'aria, sentendosi avvolta dal tiepido calore del sole.

Il bandito e Peppe erano chini su lei, ma non ebbe paura, girò soltanto a sè d'intorno gli sguardi, come se cercasse qualcuno....

Le pareva impossibile.... che altri.... che non fosse quel qualcuno.... avesse potuto operare quel miracolo.

Un secondo pensiero la fece impallidire di nuovo.

Era essa libera o l'avrebbero forse portata fuori da quella tomba per riportarvela?

Avevano forse avuto paura che morisse? e quell'aria e quella luce ridatale per pochi istanti, gliel'avrebbero forse ritolta?

*

- Sono un amico d'Arturo - le disse Peppe.

Bianca gettò un grido che ebbe la virtù di far trasalire perfino Gennaraccio.

- Oh, grazie, grazie!... - mormorò essa baciando le mani del monello e bagnandole di lagrime.

Era tale il suo trasporto per quelle sole parole pronunciate da Peppe con quel suo slancio fanciullesco, mentre i suoi occhi, nei quali c'era pur qualche cosa che brillava, dicevano tante e tante altre cose, che ogni apprensione ed ogni paura si dileguò dal suo animo e non sentì più che il bisogno di abbandonarsi ad una confidenza intera, senza limiti di alcuna sorta.

Si volse verso colui che aveva veduto chino egli pure su di lei, e, benchè fosse quegli che l'aveva chiusa in quella tomba, gli rivolse uno sguardo, come se a lui pure volesse dirigere una parola affettuosa; ma Gennaraccio erasi alzato e stava parlando col Guercio.

- Parola da bandito - gli diceva - ti dico io dove devi condurla. A Roma no. Sono dei miei, e quando ho detto loro una parola io, è più sicura che in chiesa.... non ve la stanano neanche se ci si mettessero tutti, e ci si fa ammazzare se non li accoppiamo prima loro. Ti garba?

- Sì - rispose il Guercio dandogli la mano.

- Sta bene.

- È lontano?

- Tre miglia. Mi presti il tuo cavallo e m'aspetti qui.

Gennaraccio s'avviò verso il barroccino, vi montò sopra, scambiò un cenno col Guercio, frustò il cavallo ed in breve disparve.

Il Guercio ritornò verso la fanciulla. Tra lei e Peppe s'erano già dette tante cose, che il Guercio non ebbe bisogno di aggiungerne delle altre.

Le fece comprendere soltanto che non potevano rientrare in Roma per non compromettere quello che avevano fatto - le disse che le avrebbero trovato un ricovero sicuro e che Arturo sarebbe informato di tutto.

- Coraggio - concluse egli - siamo poco di buono.... ma che volete? in certi casi quando si può uscire dal peggio è già qualche cosa; il fatto si è che vogliamo salvarvi.

Un lieve sorriso sfiorò le labbra di Bianca.

Peppe sentì il dovere di spingere la sua galanteria fino a baciarle le mani, e Bianca lo lasciò fare.

Non era stato il primo lui a dirle:

- Sono un amico d'Arturo?...

*

Le ore, quando si parla di tutte quelle cose di cui parlavano essi, quando si danno e si chieggono spiegazioni di cose.... che non si sanno neppur spiegare del tutto, passano in un attimo, e Bianca, Peppe ed il Guercio parlavano ancora quando arrivò Gennaraccio.

Egli non fece che scendere dal barroccino, scambiò qualche parola col Guercio e si ricambiarono una nuova stretta di mano, affermando il loro patto.

Bianca fu fatta salire sul barroccino, il Guercio si pose al suo fianco, Peppe si accomodò di dietro alla meglio.... tributando un sorriso, forse non di compiacenza, alle sue antiche abitudini.

In meno di mezz'ora essi fermavansi dinanzi ad una piccola casetta alle falde di monte Circello, in giù.... a destra verso Terracina.

La casetta era circondata da una siepe - le passava d'innanzi un largo fossato che tagliava, per così dire, una vastissima pianura, e bisognava passare, per entrarvi, sopra un ponticello di legno.

Tutt'intorno, non l'ombra d'un villaggio, - non una mandria, - non una capanna; - e di fianco la boscaglia - i massi neri dei monti - a sinistra una lunga fila di pioppi che fiancheggiavano un lungo tratto di terreno coltivato a granturco ed a frumento - qualche vite - dei fossi; l'aspetto però del luogo dove stava per essere ospitata Bianca, ad onta di quell'isolamento che poteva destare delle apprensioni, era invece rassicurante.

Dal cortile cantava un gallo e strepitava per venti; i passeri cinguettavano sui pioppi, i colombi tubavano sulle grondaie, o svolazzavano, inseguendosi per gittarsi nel fitto della boscaglia; nei fossi gracidavano le rane.

- Ci siamo - avevale detto il Guercio.

- Ohè!... là.... Tito - gridò egli, dopo aver fatto scendere la fanciulla dal barroccio ed affidato il cavallo a Peppe. A quel grido seguì un fischio acutissimo.

La fanciulla se ne spaventò quasi.

Il Guercio sorrise.

Una delle finestre della casetta si aperse subito e vi si affacciò un uomo.

- Sai chi siamo - gli disse il Guercio.

L'uomo rispose con un gesto, la finestra si rinchiuse.

Pochi momenti dopo la porta del ponticello veniva aperta; l'uomo avvisato dell'arrivo dei nuovi ospiti s'era messi indosso i suoi abiti da festa e faceva loro tanto di cappello.

Di cappello però non ne aveva; egli girava e rigirava tra le dita una berretta che accusava un bisogno assoluto d'essere cambiata con una nuova, e la fanciulla non avrebbe dovuto far altro che credersi una principessa qualunque reduce dopo lunga assenza al castello de' suoi padri, per vedere in lui il vecchio servo che umiliava a' suoi piedi tutta la sua devozione.

Bianca però, sorpresa da tutto quell'insieme di strano che succedeva intorno a lei, era troppo agitata per poter permettersi il lusso di simili fantasticherie; essa accontentavasi di guardare quell'uomo sul cui volto la paura ed il rispetto, ma un rispetto più pauroso che devoto, alternavano la loro impressione.

Travolta in tali avvenimenti dove il reale era assorbito dal fantastico, essa lasciavasi andare.

Dove si arriverebbe?....

Non lo sapeva.

Abbandonarsi all'ignoto.... era la sola cosa che potesse fare.

*

Il Guercio s'avvicinò al contadino, lo trasse in disparte, si parlarono. Bianca osservava; vide che egli traeva dalle tasche una borsa di cuoio, sentì un suono metallico di monete, la bocca del contadino espresse un enorme sorriso, quella del vecchio un sogghigno; essa notò il sorriso del contadino ed ebbe quasi voglia di sorridere essa pure, ma notò pure il sogghigno del vecchio e le si riaffacciarono alla mente vaghe ed istintive paure.

Per quale scopo infatti quell'uomo e quel monello a lei sconosciuti l'avevano tratta di là?... era poi vero che fossero mandati da Arturo?...

Da qualche parola che intese potè capire che anch'essi avevano concorso coll'opera loro al suo rapimento. L'avevano tolta, è vero, da quella caverna, avevano fatto sparire dinanzi a' suoi occhi quella vecchia, come spariscono i fantasmi in un sogno; - quella casa, quella campagna dove era condotta, nulla aveva che potesse spaventarla; ma poi? che volevano essi fare?... quale era il loro scopo?...

Intorno a lei tutto era mistero. Si trovava l'eroina o la vittima d'un romanzo bizzarro quanto strano?...

Che cosa poteva esserci al di là di quella cortina fatale dietro cui non arrivava il suo sguardo?...

*

Tito era rientrato in casa col suo passo più svelto, aveva salutati tutti col suo inchino più cerimonioso.

Il vecchio l'invitò gentilmente ad entrare nella casa, Peppe li aveva seguiti, ed un'ora dopo essi sedevano ad un desco che, se non poteva dirsi sontuoso, dopo tante e tante commozioni, non era disprezzabile.

*

Il gallo che li aveva salutati col suo chi-ri-chi-chi più impertinente, non cantava più e, vittima espiatoria, aveva dovuto offrire le sue ossa per un brodo.... di cui Bianca aveva troppo bisogno.

Della polpa ne aveva poca, ma pel Guercio bastava, e Peppe l'aveva trovata d'una squisitezza inqualificabile.

Bianca pure ne assaggiò, e finì col riavere sulle gote quel po' di roseo che le stava tanto bene, nello sguardo una espressione più serena, e nel cuore un palpito di speranza.

*

Ecco quanto s'era stabilito.

Per dar tempo ad essi di abboccarsi con Arturo per far le cose in modo che non dovessero succedere altri guai, essa dovrebbe starsene quieta in quella casaccia campestre dove nessuno avrebbe potuto sospettare che fosse ricoverata.

Cambierebbe i suoi abiti con altri abiti da contadina, che le sarebbero dati, mentre si andava a fiutar l'aria, come diceva Peppe, ed a farla in barba ai gatti, come affermava il Guercio, in quel gergo che per lei avrebbe avuto bisogno di troppe spiegazioni.

Tutti questi conforti erano stati dati alla fanciulla con franchezza sincera, e si passava così dal dramma all'idillio, compìto dalla faccia bianca e rossa del contadino, il cui sorriso semi-ebete lo privava della possibilità d'essere sospettato un personaggio da tragedia.

CAPITOLO XXIV AI MONTI

- Gli è venuta al certo

- Che cosa?...

- La voglia di parlare.

- Lo credi?...

- Per l'inferno, se lo credo. Scommetto che bastava essere tornato a fargli una visita mezz'ora dopo.... egli stesso non avrebbe chiesto di meglio.

- Chi ci va?...

- Ci andiamo noi - rispose il Gigante, accennando il paino.

- Sta bene - rispose il colonnello, parlando al Gigante - mi verrai a raggiungere da Ester; ho qualche cosa da dirle, e dovrebbe saperne qualche altra per un certo.... affare....

Le parole di questo dialogo erano scambiate tra il colonnello e gli altri due onorevoli soci, nella taverna stessa nella quale si erano data la posta Peppe, Arturo ed il Guercio.

Avevano interrogato il taverniere, ma il taverniere nulla sapeva, non li aveva veduti che due o tre volte, se n'erano andati pei fatti loro. Egli, di quelli degli altri.... non se ne immischiava; conosceva, è vero, Peppetto per uno della lega, ma non aveva più riveduto alcuno, e quella notte ci aveva rimessa la consumazione.

Il Gigante ed il paino, che sostituiva il colonnello in quell'escursione, s'avviarono dunque verso il deposito, entrarono nella cameraccia del pian terreno, e cavate dalle tasche della giacca le chiavi della cantina che aveva portate con sè, il Gigante aperse la prima porta.

- Scommetto - disse al compagno - che lo troviamo più morto che vivo.

Il paino non rispose: gli andava dietro dondolante e svogliato; per lui quello non era il suo genere, e gli affari suoi non sapeva farli che nella bisca di Ester o nelle galanti riunioni nelle quali pescava i tordi per il paretajo.

- Accendi la lanterna - ordinò al Gigante - laggiù non c'è pericolo che ci si veda, e, al buio, ci potrebbe essere per me quello di rompermi l'osso del collo.

Il Gigante obbedì brontolando.

Avevano scesi i sei gradini della scala, e la seconda porta fu aperta come la prima.

- Quando ne avrà detto quello che sa - soggiunse il Gigante - lo lasceremo qui sino a stasera e verrò poi io a dargli aria; per l'inferno!... ne deve aver bisogno.

- Ohè!... marmotta!... - gridò egli, mentre entrava nella cantina.

Nessuno gli rispose.

- Scimmiotto!... stupido!... - seguitò a strillare il Gigante - dove sei?...

- O è morto o è svenuto - pensò fra sè - e andò direttamente verso l'angolo della cantina dove ricordavasi d'averlo deposto, borbottando più stizzito di prima: - Eppure non si deve neanche essere mosso, questo mascalzone!...

- Lo credo io - affermò il paino.

*

Una di quelle sonore bestemmie di cui egli solo aveva il privilegio nelle grandi occasioni, tenne dietro a quelle parole.

- Che c'è?... - chiese il paino.

- C'è.... che non c'è più - rispose il Gigante.

Al paino sarebbe venuta la voglia di prorompere in una risata, se la faccia sconvolta del Gigante non gli avesse fatto comprendere che poteva costargli troppo cara.

Egli s'accontentò di prendere la lanterna da terra, dove l'aveva posata il Gigante, e fatto un passo innanzi, ne proiettò la luce sull'angolo su cui il Gigante fissava istupidito i suoi occhiacci da gufo.

Una seconda esclamazione dello stesso genere, benchè non così sonoramente maschia come l'altra, uscì pure dalle sue labbra.

Per terra c'erano delle corde, che il paino raccolse.

- Tagliate - mormorò.

- No, rosicchiate - osservò il Gigante - il colonnello aveva ragione, bisognava legargliele di dietro.

Egli non stette pensoso che un istante, ed un sorriso contrasse subito dopo le sue grosse labbra. - Faccenda da ricominciare - borbottò - la legatura non ha fatto effetto, ma in cantina ci deve essere, e se ci rimetto sopra le mani....

Il suo occhio feroce scintillò, e le sue grosse dita si chiusero rabbiosamente, come se avessero sentito il bisogno di stritolare qualche cosa....

- Ohè!... scimmia!... canaglia!... animale!... - urlava egli.

E quei due uomini gettarono sottosopra in un attimo stracci, cassoni, assi, cavalletti, frugando ogni angolo della cantina, con una furia indescrivibile.

Non un gemito, non un grido, non un alito rispose a tutto quel tramestìo indiavolato.

Non sentivasi in quella cantina che l'ansare affannoso dei loro petti.

Il Gigante si arrestò spossato.

- Non c'è più - disse - sparito, ma per dove?...

Il paino si era fermato in quel momento dinanzi allo spiraglio, a cui nessuno aveva mai fatto attenzione, nascosto com'era dai diversi oggetti che Peppe stesso vi aveva ammonticchiati contro perchè non lo vedessero, e che aveva poi rimossi.

- Per di qui - esclamò egli, accennando lo spiraglio al Gigante.

Il Gigante fissò alla sua volta, sul buco accennatogli, il suo sguardo da belva, inebetito dalla sorpresa.

Vi si scorgevano infatti tutte le tracce che egli aveva lasciate sul suo passaggio, unica cosa che trovarono di lui.... e che attestavano solamente la realtà del suo svignamento.

- Sicuro!... - mormorò il Gigante - che fare ora?...

Il paino si strinse nelle spalle.

- Dal momento che ha preso il volo - rispose - che vuoi che ci facciamo noi?... chi ha avuto ha avuto!...

Il Gigante andò innanzi, ed uscì dalla cantina a testa bassa, sentendo tutto il peso d'una umiliazione che lo rendeva feroce.

Era stato canzonato da un fanciullo.... lui!...

- Se lo prendo!... Se mi capita ancora fra le unghie!... - mormorava il Gigante.

Non restava loro a far altro che ritornare dal colonnello, di cui paventavano le furie.

L'atteso era il Gigante.

Il paino se n'era andato per i fatti suoi.

*

La rabbia provata dal colonnello alla notizia datagli, è facile a indovinarsi.

Aver fatto tanto e trovarsi con un pugno di mosche in mano.... mentre quel ragazzaccio, che volevano far cantare ad ogni costo, sfuggiva loro in un modo quasi miracoloso, e se la rideva della loro cantina, delle loro corde, del loro rapimento e delle loro minacce!

Era troppo!... e mentalmente, per non menomare la sua autorità al cospetto de' suoi subalterni, si diede dell'imbecille, sbuffando e strepitando come un ossesso.

- Se lo riagguanto!... se ci rimetto sopra le unghie! - ripeteva anch'egli come il Gigante.

*

Da qualche giorno tutto andava male nelle file dell'associazione.

Gennaraccio faceva affari per conto proprio, il Guercio voltava faccia, Peppetto giocava loro dei tiri a cui essi avrebbero risposto, se lo avessero potuto, dandogli il di più di ciò che gli veniva.

E quale era la causa per la quale succedevano nelle fila della loro associazione questi screzi che potevano riuscire fatali?...

Una fanciulla.

Tutto andava così bene!... ed ecco che per una pupattola.... come diceva Ester, presa così, per essere consegnata ad un bellimbusto, per uno di quegli affarucci.... che non valeva la pena neppure di fare, Gennaraccio tradisce, il Guercio si abbandona a del sentimentalismo, Peppe si crede qualche cosa di diverso d'un semplice tiraborse, egli, tenuto da loro come un cane che si metteva di guardia alle cantonate. Il marchesino stesso si era squagliato ed aveva disertato il gabinetto di Ester.

- Col marchesino Giulio faremo i nostri conti - mormorava stizzita Ester - ma questa fanciulla la odio!...

Essa rientrava nel suo gabinetto dopo aver parlato col colonnello, e vi entrava fremente, lacerando colle sue unghie rosee uno de' suoi guanti che si era tolti.

- Fatemi attaccare un cavallo da sella - ordinava Ester dopo alcuni istanti al colonnello.

Il colonnello s'inchinò.

- Per donna?... - chiese.

- No, per uomo.

- Non è per voi dunque?

- È per me.

- È pazza - pensò il colonnello, che ad un altro suo cenno stava per uscire.

- Fate che sia pronto fra un quarto d'ora - aggiunse Ester.

- Qui?... - chiese il colonnello.

- Sì.

Il colonnello, ad un nuovo cenno della donna, infilò la porta e non disse altro.

Il Gigante l'avrebbe seguìto con tutta l'anima, ma uno sguardo di Ester lo inchiodò al suo posto colla sua berretta fra le dita, la cui ala era già ridotta alla più miserevole delle condizioni, e si accontentò di accompagnarlo con un sospiro.

Ester si rovesciò contro la spalliera d'un divano e stettero così l'uno in faccia all'altro; il Gigante terminando di compiere lo stracciamento del suo berretto, Ester slacciandosi l'altro guanto, che stracciò come il primo, non togliendone, ma strappandone fuori la mano.

*

- È vero, tutto ciò che è successo?... - chiese ella.

Il Gigante s' inchinò.

- Sparito, dunque.

- Già.

- Da un buco.

- Precisamente.

- Come i sorci.

- Già....

- Ed era legato?

- In piena regola.

- Pare.... non tanto.

- Pare....

- E il Guercio?...

- Non si vede più.

- Un disertore!...

- Era con lui quando l'abbiamo preso.... c'era con loro anche un altro.

- Ah!... quel tal giovinotto!... A quello là, avrebbe dovuto pensarci il marchesino, quell'imbecille.... - proruppe Ester, alzandosi irritatissima. - Così che - continuò essa - non ne sapete nulla voi; vi ci mettete in tre per impadronirvi d'un ragazzo, lo legate, fate da aguzzini, vi preparate a farla da tormentatori, lo chiudete in una cantina, ve lo lasciate, dicendo a voi stessi: ecco una buona idea, quando sarà stanco di soffrire parlerà, ha bazzicato con loro, e qualche cosa ne deve sapere, egli è ben accomodato, si va a berne una bottiglia e torneremo domani: imbecilli!...

Il Gigante curvò il capo sotto quella sfuriata.

Si era già rassegnato a sentirsela scatenare sulle spalle, ed era un affare preveduto.

Ester gli si era fermata dinanzi, guardandolo in faccia.

- So io - gli disse - come farla finita. Impadronirvi d'un fanciullo?... - continuò essa - bell'affare, egli non ha voluto parlare e se l'è svignata.... Sta bene, che cosa avreste saputo?... quello che sappiamo già, che il Guercio ha delle velleità filantropiche per uno spasimante e del tenerume arcadico per la piccina!... avrebbe potuto dirvi dov'era.... e poi....

Di sotto alle finestre, s'intese lo scalpitare d'un cavallo.

Gli ordini dati da Ester al colonnello erano dunque già eseguiti; il colonnello entrava infatti nel salotto, annunciandole che tutto era pronto.

- Sta bene - rispose Ester.

Sonò il campanello, e la cameriera accorse.

- È preparato tutto? - chiese ella.

- Tutto - rispose la cameriera.

Ester la invitò con un cenno a precederla e la seguì nel suo spogliatoio ..............................................

....................................................................

Il colonnello ed il Gigante rimasero soli.

- Ci capisci qualche cosa tu? - chiese il colonnello al Gigante.

- Io?...- rispose il Gigante - no.

- Che t'ha detto?...

- Me n'ha dette una d'ogni colore.

- Che cosa credi che voglia farne del cavallo che mi ha mandato a far sellare?...

- Oh, che vuoi che sappia io!

- Mi pareva però....

- A me.... non pare più niente.... Ha detto che ci pensa lei.... Ci pensi....

- Ah!... - esclamò il colonnello - dunque ha detto?...

Ester, meravigliosamente bella sotto gli abiti maschili che aveva indossati, e compiutamente trasformata in un elegante giovinotto, interruppe il dialogo dei due uomini, entrando nel salotto.

Essa si fermò sulla soglia, battendo sulle risvolte dei suoi stivaloni colla punta del frustino.

- Signori.... a domani - disse loro Ester, degnandosi appena di ricambiare un saluto, ed uscì.

CAPITOLO XXV LA VECCHIA DELLA GROTTA

I lettori se lo ricorderanno - quando il Guercio e Gennaraccio entrarono nella grotta, rischiarata dalla luce della lampada, mentre di fuori fischiava il vento e balenavano i lampi, pareva qualche cosa di orridamente fantastico.

Nè il Guercio nè Gennaraccio vi abbadarono più che tanto.

Era così magra, così macilenta, che avrebbe dovuto appena appena poter reggersi sopra le gambe, stinchi spolpati in attesa della fossa che avrebbe lor fatta subire l'ultima trasformazione.

Quando portarono via Bianca chi si era curato di lei?... - nessuno.... ed era ben giusto; chi avrebbe potuto occuparsene?...

Le erano state rivolte poche parole con tutto il disprezzo che poteva meritare un essere come lei - la vecchia si era inchinata umilmente - aveva sorriso e s'era rincantucciata borbottando nel fondo della capanna.

*

- Sfido il diavolo a venirla a stanare quì - aveva detto il Guercio, lasciando Bianca affidata alla vigilanza di Tita nella casetta di campagna che sembrava armonizzare così bene co' suoi pensieri.

Eppure, quando a quella bella giornata piena di sole successe la notte colle sue tenebre, lungo la via che avevano prima percorsa il Guercio, Bianca e Peppe sul loro barroccio, seguendone i solchi lasciati sul terreno dalle ruote e le impronte delle zampe ferrate del cavallo, chinandosi, alzandosi, per chinarsi ancora, una figura umana, orrida, brancolante, appoggiandosi ad un bastone per portarsi innanzi più strisciando che camminando, veniva in giù da quella stessa via, e prima che la notte fosse finita, al disopra d'una siepe di pruni selvaggi, una testa deforme si sporse in fuori, e due piccoli occhietti da vipera si fissarono su quella casa.

L'ombra ritornò poi sovra i suoi passi, e prima di rientrare nella grotta:

- Vedremo!... - borbottò - vedremo.... è sempre meglio sapere ......................................................

....................................................................

E vide.... vide infatti - vide un uomo aggirarsi per quei paraggi coll'aria di un bracco che fiuta la selvaggina.

Aveva una di quelle facce che farebbero tirar diritto per la sua strada un galantuomo, ma che ad uno non galantuomo.... fanno allargare tanto d'occhi, perchè vi saprebbe scorgere qualche cosa di servibile.

Sì.... i buoni come i malvagi, si sentono, si attraggono e si assimilano.

È l'armonia eterna che intreccia la sua catena e che congiunge la myosotis al ruscello, l'aliga al mare, l'aquila alla rupe, la capinera al verde dei tigli e del mirto, il leone al deserto, la farfalla alle margherite dei prati ed alle aiuole dei giardini, come i serpenti alle liane delle foreste.

*

L'uomo e la vecchia si attrassero; erano fatti l'uno per l'altra.

Egli.... veniva in cerca di qualche cosa.... non precisamente di lei.... ma era una cosa come lei, che voleva trovare.

Essa.... aspettava qualcuno come lui.

- Occhio attento - disse l'uomo alla vecchia, dandole una moneta che essa strinse avidamente colle sue dita da arpìa - il resto l'avrai a suo tempo.

CAPITOLO XXVI «ORLANDO» ABBAIA....

Da due giorni Bianca poteva dirsi contenta.

In quella modesta casetta, la mancanza di un'agiatezza sardanapalesca era sostituita dalla quiete serena di quell'angolo remoto di terra.

Pensava che il suo Arturo saprebbe presto dov'era, pregustava coll'immaginazione quel momento in cui avrebbe avuto tante cose da dirgli, e pensava fors'anche, che nella piena di tanto affetto sarebbe stata molto imbarazzata a dirgliele tutte.

Ma che importa?... gliele avrebbe dette con un bacio, con uno sguardo...., ed il primo giorno era passato abbastanza rapidamente, assorta come era nei tanti sogni accarezzati dal pensiero.

Tita e sua moglie, benchè si potesse indovinare che avessero avuto col Guercio qualche piccolo affaruccio, nel quale ci si potevano immischiare i signori della nera presi a modo loro, erano due bravissime persone, e prodigarono alla fanciulla un'infinità di cure.

Del Guercio poi.... ne dissero il bene che meritava, ed aggiunsero, per tranquillare Bianca, che dove ci si metteva lui, tutto andava a gonfie vele!...

Quando ci si metteva lui per far andare tutto a gonfie vele!... e col buon accordo di compar Tita, si trattava forse di altre faccende.... Ma in ogni modo, se quelle andavano bene, perchè non doveva andar bene anche questa.... dal momento che c'entrava lui?...

Il buon Tita ragionava dunque da brav'uomo com'era, e Bianca sperava.

La casetta era rustica, ma pulita - i vignaioli le cedettero la loro stanza da letto, e s'accomodarono alla meglio in altra stanza - e dopo le quattro notti passate nella grotta, da dove era appena uscita, quella stanza e quel letto le parvero una vera provvidenza.

Era stanca, e s'addormentò tanto profondamente, che al suo svegliarsi il sole era già ben alto.

Tita potava le viti dell'orto, sua moglie preparava il desinare del mezzogiorno, mentre un marmocchio di circa cinque anni si avvoltolava sull'erba giocando col cane.

- C'è qualcosa di nuovo?... - avrebbe voluto chiedere Bianca, che si era affacciata alla finestra. Non sapeva però come fare - presentiva un no, e sperava nello stesso tempo una parola che il vignaiolo non poteva al certo ancora poter dirle.

Si vestì dunque in fretta e scese nel cortile.

Tita le diede il buon giorno dagli ultimi piuoli di una scala che aveva appoggiata al pergolato.

Bianca vi corrispose appena e l'interrogò con un nuovo sguardo, ma il vignaiolo sorrise allegramente.

- Ne avremo!... ne avremo presto delle buone nuove - le disse - Diamine!... laggiù.... avranno da fare, e prima che annotti c'è tempo. Vi annoiate già tanto, signorina, a star qui?...

Il modo con cui il contadino aveva accentuate quelle parole era così franco, e si sentì così ben indovinata, che fattasi rossa rossa:

- Oh!... non è già che mi annoi - balbettò.

Il marmocchio che giocava nel prato lasciò il cane appena la vide e corse subito da lei, o, per meglio dire, le furono intorno tutt'e due: il bambino portandole una margherita, il cane complimentandola a modo suo e con tanta espansione, che Tita dovette gridargli dall'alto della scala:

- Ohè!... fermo, Orlando, e alla cuccia!...

Orlando era uno di quei grossi cani da pagliaio, dal pelo fulvo, che di notte bastano per tenere in rispetto tutta una banda, e le cui carezze avrebbero finito col gettare per terra la fanciulla, che ne sentiva già una specie di paura.

Il bambino lo prese per il collare e lo trascinò verso la cuccia.

Si scambiò qualche altra parola, fra Tita e Bianca. Gli abiti contadineschi che aveva indossati le stavano a meraviglia. Divise, al desinare, parte della sua zuppa con Orlando, parte del pollo col bimbo, tornò nell'orto, rientrò, ed il sole stava per tramontare, che da Roma non si era avuta alcuna notizia.

La sera fu triste, la notte più triste ancora; la povera fanciulla ebbe un bel cercare sull'origliere il posto più comodo per posarvi il capo: lo alzava ad ogni tratto, ad ogni istante le pareva che in mezzo al silenzio solenne della campagna si sentissero dei rumori - vedeva nelle tenebre delle ombre che venivano verso di lei - ma tutto, invece, intorno alla casa era silenzio, e quel silenzio stesso le pesava sull'animo come un incubo.

Tutto a un tratto trasalì però.

Il cane latrò furiosamente dal cortile.

Bianca sentì involontariamente come una stretta al cuore.

Quell'abbaiamento lasciava supporre che qualcheduno si avvicinasse a quella casa - ma chi?... - amico o nemico?... uno de' suoi.... o uno degli altri?...

Non poteva essere il Guercio, poichè essa ben se lo ricordava con quali feste il cane di Tita aveva accolto il vecchio, riconoscendolo al certo per uno di casa....

La fanciulla levò il capo dall'origliere ed ascoltò.

- Alla cuccia, Orlando - strillava Tita, dalla cucina.

Invano però.

Il cane latrava più forte e dava tali strappate alla catena, da mettere in dubbio che la sua solidità potesse resistere per molto tempo.

Tita si affacciò alla soglia dell'uscio e si guardò d'intorno.

- Che ci sia qualche cosa di nuovo? - mormorò.

Il cane cessò dall'abbaiare, ma brontolò a modo suo e rivolse sul vignaiolo i suoi occhioni neri e scintillanti.

Tita gli andò vicino.

- E così?... - disse egli parlando al cane - che c'è, eh?... si può sapere con chi l'hai?...

Il cane latrò, diede un'altra strappata alla catena e volse lo sguardo verso la boscaglia, arruffando il pelo e strisciandosi ai piedi del padrone coll'atto supplice di chi implora una grazia.

- Lasciami andare - pareva che volesse dirgli - e vedrai; ho io mai sbagliato?... chi è potuto entrar qui ed avvicinarsi alla tua casa, da tanti anni che vi faccio io la guardia?... Tu non puoi vedere che cosa c'è là fuori, ma io lo sento.... ho buon naso io, ed una pesta la fiuto anche quando è lontana.

*

Bianca si affacciò alla finestra. Era pallida pallida, e la mano colla quale aperse le imposte tremava.

- Niente paura, signorina - le diceva Tita - niente paura, e vivaddio!... che se ci si gironza d'intorno, peggio per chi tocca.

Egli staccò il gancio che univa la catena all'anello del collare d'Orlando.

Il cane mandò un latrato più furioso ancora.

Non aspettò neppure che Tita gli aprisse il cancello.... saltò per di sopra alla siepe, si gettò nel fosso, lo attraversò a nuoto, e si diresse a tutta corsa verso il bosco.

Tita lo seguiva collo sguardo inquieto, rizzandosi sulla punta dei piedi, e Bianca, dalla finestra alla quale si era appoggiata, sporgendo in fuori la sua vaga testolina, lo vide sparire dietro una siepe.

Era scesa nel cortile anche la moglie del vignaiolo, e il bambino le si era attaccato alle gonnelle.

Trascorsero alcuni minuti d'impazienza, d'ansietà per tutti.

Tita, per ogni buon conto, aveva staccato dal chiodo al quale stava appeso il suo bravo fucile a due canne, pensando fra sè:

- Di qualunque genere sia la selvaggina, è meglio avere qualche cosa in pronto.

*

I latrati d'Orlando risonarono così spaventevoli, che fecero fremere gli spettatori di quella scena, cagionando in essi una penosa apprensione.

Ai latrati era seguito un gemito, e dopo quel gemito s'intese da lontano una voce umana che gridava lamentevolmente:

- Aiuto, aiuto!

Per alcuni istanti ancora non s'udì più nulla, poscia un altro strido, poi silenzio assoluto.

Tita passò il ponticello che divideva il fossato dalla strada, e si slanciò a corsa dalla parte da cui partivano quelle grida e dove si sentivano distinti i latrati di Orlando.

Il cane teneva afferrata coi denti qualche cosa che sembrava un mucchio di cenci, e voleva che quella cosa, diventata sua, passasse attraverso ai pruni della siepe.

- Orlando, lascia!... - gridava Tita al cane.

L'animale ringhiava sordamente, levando sul vignaiolo i suoi occhi neri e lucenti, senza abbandonare la propria preda.

Sotto quei cenci che Orlando aveva ridotti irriconoscibili, Tita non tardò a ravvisare la vecchia della grotta di Terracina.

Egli doveva al certo saperne qualche cosa su quella grotta, e.... qualche altra.... sul conto di quella vecchia.

S'avvicinò a lei, e guardò con un sogghigno quella sua fronte tutta grinze e quelle sue labbra livide, agitate ancora da un lieve tremito.

- Ce l'ha inchiodata, l'anima, in questo suo corpaccio.... - mormorò egli - e non morirà per così poco.

I pruni della siepe, attraverso ai quali era passata trascinata per forza da Orlando che aveva a quanto pare la lodevole voglia di procurarle un nuovo genere di locomozione, avevanle graffiato discretamente il viso, e quelle righe sanguinolenti lorde di fango le davano un aspetto ancora più orrido.

- Ohè! comare.... - esclamò Tita, scotendola - comare!... - ripetè egli.

La vecchia cercò di alzare una mano - il cane glie l'addentò prima che il vignaiolo avesse potuto trattenerlo nè con un gesto nè con una parola.

La vecchia mandò un altro gemito.

- Deve avergliene fatta qualcuna di grossa - borbottò il vignaiolo, al cui comando il cane obbedì, benchè a malincuore, lasciando la mano che aveva addentata, ma sulla cui pelle floscia e gialla aveva però già lasciata l'impronta poco delicata de' suoi denti.

- Una morsicatura, quattro strappi alla faccia e qualche segno alle gambe, non è poi gran che - continuava a borbottare il vignaiolo, preoccupato mediocremente dai gemiti della vecchia. - Ti rinfreschi la rugiada - concluse egli - che quando vorrai andartene, non sarò io quello che ti riterrò.

- Qua, Orlando!... - gridò al cane - a rifar la strada ci penserà lei, poichè pare che l'abbia saputa trovare per venir qui; ma ci sei venuta in mal punto, vecchia carcassa maledetta.

Egli afferrò Orlando pel collare e si dispose a ritornarsene verso la casa.

L'erba del prato, come la pensava lui, aveva abbastanza stille di rugiada per lavare la faccia insanguinata della vecchia, e l'aria della notte era abbastanza fresca per farla rinvenire.

- Orlando.... vecchio com'è, ha ancora buone gambe e denti tali da non fargliene augurare l'incontro una seconda volta; l'ha lasciata mezza morta laggiù in fondo. Che cosa veniva a fare?... il diavolo solo potrebbe saperlo, che deve essere con lei in buone relazioni.... ma qualche brutto affaraccio ci deve essere sotto: egli l'ha sentita da lontano, e tra lui e lei avevano al certo qualche vecchio conto da regolare; in ogni modo li hanno accomodati; ho avuto un bel gridargli dalla finestra mentre urlava come un ossesso: sta' zitto, Orlando!... fermo là.... Che!... Se non lo scioglievo io, addio catena.... avrei dovuto fargliela riaccomodare per saldarne gli anelli.

Così ciarlando, mentre il Guercio stava aspettandolo senza ribatter parola, i due uomini si erano avvicinati alla siepe.

- To'!... - esclamò Tita, improvvisamente...., spalancando tanto d'occhi per la sorpresa.

- Che c'è?... - chiese il Guercio.

- Era qui.

E gli accennò colla mano un posto dove il terreno era calpestato e messo sottosopra.

Il Guercio vi gettò uno sguardo e comprese subito che quello doveva essere stato il campo di battaglia sul quale Orlando aveva compiuto le sue gesta.

Ebbero un bel cercare però, un bel farsi largo attraverso alla siepe; Orlando l'aveva pur fatto passare di là il corpo di quella carcassa, come aveva detto Tita, nelle cui membra il diavolo doveva averci inchiodato l'anima col martello.

La vecchia non c'era più.

- Sparita.... - mormorò Tita.

- Sicuro - affermò il Guercio.

Egli stette lì muto guardandosi d'intorno, ma non cercava la vecchia; di lei, poco gliene importava.

Che se ne fosse andata, o l'avessero trovata, come credeva Tita, certo come era che i denti di Orlando le dovevano aver lasciato più d'un segno sulla pelle, la questione non stava in ciò.

Se non era morta, potevano, è vero, sapere qualche cosa sui fatti suoi, e, per amore o per forza, il mezzo di farla cantare l'avrebbero trovato; ma per sapere quello che avrebbe potuto dire, non c'era neanche bisogno d'interrogarla.

Per il Guercio era evidente che aveva fiutato le peste della fanciulla, e che il suo scudo, come le sue minacce, innanzi alle quali aveva mostrato tanto spavento, era stata roba sprecata, come si spreca col somaro ranno e sapone, che tanto resta sempre com'è.

Egli era stato un imbecille e niente altro, perchè avrebbe dovuto prender meglio le sue precauzioni, agevolandole la maniera di tirare il fiato con una fattura da beccaio.

Ora ciò che era fatto era fatto; restava soltanto da sapere se l'affare avesse delle complicazioni, e se quella vecchia strega avesse fatto ciò dopo essersi messa in relazione cogli altri.

Il Guercio pensava a questo ed a tante altre cose, ritornando con Tita verso la casa.

A Tita era passata la voglia di ciarlare, e lo seguiva di cattivo umore, masticando dei mannaggia a li mortacci tui.... all'indirizzo della vecchia, e confermandosi sempre più nell'idea che tra il diavolo e lei ci dovesse essere qualche patto.

*

Bianca ed Arturo avevano intanto dato pieno sfogo alle loro confidenze.

Avevano ancora tante altre cose da dirsi, ma ne facevano economia per non sprecare tutto in una volta il loro tesoro.

Per fare economia di parole avevano abbondato di baci, e Bianca sentiva tale un bisogno di darne, che cercava cogli occhi il monello.

Non l'aveva anche lui forse un po' di diritto alla sua parte?

Il nostro piccino, tutt'altro che umile in tanta gloria, aveva trovato che ai piedi del faggio, sotto cui si era sdraiato, era in una posizione troppo bassa.

- Si deve star meglio, lassù.... pensò egli: dominiamo la posizione! laggiù mi hanno cacciato in cantina, qui montiamo in alto!...

Egli si arrampicò sull'albero, senza pensarci sopra due volte, e si pose a cavalcioni del più grosso dei suoi rami.

Aveva così qualche cosa dell'uccello e dello scoiattolo e vedeva tutto di lassù; vedeva Tita ed il Guercio che tornavano verso la casa, il cane sdraiato davanti alla sua cuccia, col muso per aria, intento forse a meditare sulla ingratitudine umana che ricompensava così male i suoi servizi prestati, e vedeva Bianca ed Arturo, sempre ritti dinanzi al cancello, assorti nei loro chiacchierii e nei loro silenzi.

Il suo nome non poteva sentirlo pronunciare, ma quando Bianca sorrideva, era così certo che si parlava di lui, che batteva le mani, applaudendo sè stesso, e non potendo star più nella pelle, si sarebbe permessa una capriola persino sul ramo di cui trovavasi in legittimo possesso. Era però troppo in alto, e la smania acrobatica di Peppe era tenuta a freno, per questa volta, dalla stessa altezza in cui erasi collocato.

Bianca ed Arturo lo videro.

- Ohè!... che fai là?... - gli disse ridendo Arturo.

Egli avrebbe risposto volentieri: - Passeggio.... - tanto per dirne una delle sue, ma visto che le posizioni alte impongono una certa dignità e che non per nulla si devono occupare certi posti:

- Faccio la guardia.... - rispose.

*

Strane intuizioni dell'anima!... o, per essere più realisti, strane bizzarrie del caso, che si diverte qualche volta a dare una forma alle manifestazioni di quel lavorìo misterioso che ha dato vita a tante superstizioni, a tante credenze!

Peppe aveva appena terminato di pronunciare quelle parole, che trasalì improvvisamente, e rizzatosi in piedi sul ramo, tese la mano accennando un punto lontano della campagna.

- Un cavallo.... - gridò.

Stette quindi là, ritto, coll'orecchio teso e l'occhio attento.

- Un cavallo - ripetè.

Bianca ed Arturo si guardarono in viso e si strinsero istintivamente l'una contro l'altro, come si sentissero minacciati da un nuovo pericolo.

Un uomo a cavallo correva infatti a briglia sciolta sulla strada già percorsa, sul barroccio, da Peppe, da Arturo e dal Guercio.

Peppe si fece visiera agli occhi colle mani per appuntar meglio lo sguardo su quella specie di apparizione, ma una nube di polvere ravvolgeva cavallo e cavaliere.

Sul volto di Bianca e d'Arturo riflettevasi come in uno specchio tutta la inquieta agitazione della loro anima.

Essere lì... l'uno fra le braccia dell'altra, appressare avidi le labbra all'orlo di quella coppa incantata, di quel calice dorato, in fondo al quale vedevano splendere l'Eden; l'Eden sognato con tutti i suoi fascini, con tutte le ebbrezze ripromessesi nei deliri della mente.... e vedere, tra essi ed il sogno, sorgere dall'abisso, dal vuoto, un mostricciuolo beffardo che vi strappa quel calice dalle labbra, che vi guarda ridendo, e che vi dice colla più impertinente delle sue smorfie da satiro:

- Non ancora!...

Parve ad essi di vederla, quella bizzarra figura, a cui le leggende dell'Oriente hanno dato il nome fantastico di Eblis.... l'angelo delle tenebre.

Che abbiano proprio veduto lui, l'Eblis orientale, non saprei, nè vorrei assicurarlo, ma qualche cosa di simile la videro.

Che strane idee!... mi par di sentire esclamare da più d'una delle mie lettrici; che bisogno c'era di tirar fuori la coppa dall'orlo dorato, in fondo al quale si vede l'Eden?... - e il satiro?... come c'entra?...

Ebbene, l'idea non è neppur mia; l'ho avuta da un quadro di non so quale Induno persiano, che mi colpì di stupore e d'ammirazione.

Eccovi il quadro.

Un giardino fra i cui boschetti di rose del Bengala e di leandri cantano gli usignoli ed i ciptos, un vago uccellino dalle penne multicolori, delizia delle fanciulle di quei paesi, dove il sole è più ardente, gli alberi son più verdi, i prati un sol fiore.

Un giovane ed una fanciulla stanno, come Bianca ed Arturo, abbracciati sotto una specie di padiglione formato dalle bizzarre ramificazioni di due enormi cactus, i cui rami lunghi e contorti, come le spire d'un serpente, si sono insieme avviticchiati.

Quelle spire sono coperte di spine e di fiori rossi, i leandri e le rose olezzano, i ciptos cantano, ed i due giovani, che si sono già letti negli occhi tutto quello che avevano da esprimere le loro anime, col capo chinato leggiadramente, hanno in mano un calice dorato e pare che stiano per berne insieme il contenuto; ma no.... vi guardano invece nel fondo lucente e vi cercano tutto ciò che può dar loro, di voluttà desiderate, di sogni intravveduti, di estasi nuove; ed il fondo di quel calice si apre compiacente.... e lampeggia dinanzi ai loro occhi abbagliati il paradiso orientale, colle sue onde di luce, co' suoi fiori, più belli di quelli del loro giardino, colle sue uris che s'avvolgono in mezzo a quella luce, che si cercano, che si baciano, che danzano.

È quella la felicità sognata!... È quello il regno fatato che si offre al loro sguardo: un bacio a quella coppa.... ed il paradiso è lì.

Mi pareva che le labbra dei due amanti fremessero eccitate da quel pensiero; ma in mezzo a quelle ninfe, a quei veli, a quella luce, a quei fiori, sbuca fuori non visto un mostriciattolo deforme, strappa loro il calice dalle mani, e fugge, lasciandoli lì istupiditi per terrore e per sorpresa.

Bisognava far più presto.... - mi pareva che egli gridasse loro fuggendo - sono tiri che ci tengo io.... a giocarli, se me ne lasciano il tempo.

Perchè pensarci tanto?... era meglio bere subito!... Quello che c'era in fondo.... l'avreste gustato dopo....

Bianca ed Arturo, però, l'avevano intravveduta con spavento quella tal sorpresa.

Il cavaliere non venne direttamente verso la casa. Peppe dal suo faggio lo vide fermarsi ad un tratto, poi spingere il cavallo attraverso all'immensa pianura e slanciarsi verso il bosco.

Egli scese dall'albero colla sua agilità da scoiattolo, e mentre i due innamorati si chiedevano che cosa dovessero fare:

- Per fianco destr.... marsh!.... - esclamò il monello, suggerendo loro, con quelle parole, la sola risoluzione logica che potessero prendere.

Il barroccio era pronto, il cavallo vi era ancora attaccato.

Il Guercio, informato di tutto, indovinò subito di che potesse trattarsi, e cinque minuti dopo, Bianca, Arturo, Peppe ed il Guercio correvano a rotta di collo.... Dove?

Non lo sapevano.

Il Guercio forse.... sì.

A Bianca e ad Arturo bastava fuggire.

*

Come parve deserta quella casa e quella campagna, a Tita stesso ed alla sua nerboruta metà!

L'arrivo di quel barroccio, quel demonietto che vi era saltato su, i chiacchierii di Bianca e d'Arturo, l'affannarsi inquieto del Guercio, tutto ciò vi aveva comunicato un movimento insolito.

C'era del pittoresco in quel quadro.

Perfino sul largo camino scoppiettava più viva la fiamma, ed un'anitra, dopo essersi fatto correr dietro per un quarto d'ora il marmocchio del vignaiolo, erasi rassegnata a lasciarsi prendere, offrendo il suo lungo collo al piccolo coltello dalla punta bene aguzza di Tita, che la sacrificava, vittima espiatoria di quel giorno di festa.

In un momento tutti i personaggi di quel quadro si erano staccati dalla tela ed erano spariti.

E sì che Peppe dall'alto del suo faggio se ne era ripromesse delle monellate.

Del posto ce n'era, lì.... per scarrozzarvi a capriccio - con Orlando e col piccino; egli ne avrebbe fatte di tutti i colori - e per quanto si fosse sentito, agli occhi della fanciulla, nella pelle di un piccolo eroe, egli non era tale da darsene molto pensiero.

Bianca avrebbe sorriso alle sue smorfie, ed Arturo le avrebbe susurrato intanto all'orecchio, mentre essa gioiva della sua gaia spensieratezza: «È stato lui che mi ha posto sulle tue tracce - è un po' per lui che ci troviamo riuniti ora.... - ha un cuore d'angiolo.... quel ragazzaccio insatanassato.»

La fanciulla un bacio o due non glieli avrebbe rifiutati, e tra una carezza di Arturo ed uno scappellotto del Guercio, che aveva un modo tutto suo per esprimere i suoi trasporti, tutto sarebbe andato a gonfie vele nella migliore delle occasioni possibili.

Dal dire al fare c'è però di mezzo il mare, come dice il proverbio, e certe cose non basta pensarle perchè succedano.

Il mare era abbastanza lontano, è vero.... ma nell'impiccio in cui si trovavano, c'erano da fare invece dei seri conti, precisamente con quel certo mostricciuolo della leggenda persiana - un guasta uova nel paniere, che salta fuori come nella leggenda, quando meno si aspetta, disposto sempre a buttare tutto per aria. - Toglietelo alla sua allegorica fantasticità, ed in quel mostricciuolo avrete Ester.

Il cavaliere sparito nel bosco era lei.

*

- Che farne di tutta questa grazia di Dio?... - pensarono Tita e sua moglie, guardando la tavola preparata, da cui toglievano tutto, lasciandovi soli due posti.

- Mangiarcela - rispose la donna - ci servirà per più d'un giorno ed è roba pagata.

- Tutto il male non vien per nuocere - deve aver pensato Tita da buon filosofo, perchè sedette, brandì un enorme coltellaccio, ed incominciò dall'anitra, che fece a quarti.

*

Erano a metà circa del loro pasto luculliano, quando dal cortile intesero prima un latrato d'Orlando, poi una voce.

- Ohè!... là... non c'è nessuno qui?... - chiedeva la voce.

- Alla cuccia, Orlando - gridò Tita, affacciandosi alla soglia.

Egli vide a pochi passi da lui un elegante e gentil damerino, e lo salutò con una tale aria da galantuomo, sorpreso sì, ma niente affatto inquieto, che Ester non potè frenare la stizza mal celata dalla quale si sentiva rodere.

- Se V. S. ha dei comandi - gli disse il vignaiolo, girando e rigirando fra le dita il suo cappello.

Ester si trovava impacciata. Aveva creduto d'arrivar lì, e di trovarsi dinanzi a dei volti atterriti - aveva ideato un dramma con tutte le sue peripezie patetiche, erasi sentita o creduta una specie di Nemesi innanzi a cui tutto doveva tremare; e l'aria ebete e sorridente di quel paesano che le veniva dinanzi come ad una persona qualunque alla quale si può rendere un servizio, distruggeva tutta la fantasticheria tragica di cui erasi compiaciuta.

Quando, per evitare d'essere veduta.... e credendosi anzi, se non veduta, non riconosciuta, attraversò la campagna gettandosi a briglia sciolta verso il bosco, Ester aveva legato colle briglie il suo cavallo ad un albero, ed era venuta in giù a piedi verso la campagna, per vedere che cosa succedeva nella casa dalla quale trovavasi distante al più un tiro di fucile.

Vi aveva intravveduto un gruppo di gente: suppose chi fossero.

Dal bosco gli alberi fitti le impedivano di vedere, bisognava poter avvicinarsi non veduta alla casa.

Dall'interno del bosco intese un gemito.

Ester s'arrestò sorpresa, si guardò intorno, ma nulla vide.

- Mi sarò ingannata - pensò, e riprese la sua via.

Il gemito si rinnovò.

- Per l'inferno!... - mormorò essa - che è successo?...

Tornò indietro, tese l'orecchio, e vide, dietro il tronco di un grosso albero, una forma umana che si agitava.

Quella forma umana era la vecchia della grotta.

La vecchia dibattevasi agonizzante, si strisciava carponi, cercava aggrapparsi all'albero contro il cui tronco appoggiò il capo - le usciva dalla gola un rantolo soffocato, s'era strappato colla mano convulsa e raggrinzita il davanti del vestito, e mostrava al collo una profonda morsicatura, uno strappo sanguinoso.

Ester impallidì.

La faccia della vecchia, già orrida, era resa più orrida dal sangue e dal fango che le impiastricciavano tutto il viso.

La parola non usciva già più intelligibile dalle sue labbra; i suoi piccoli occhietti soltanto conservavano ancora un'espressione d'odio e di ferocia selvaggia.

- Saprò qualche cosa - pensò Ester; ed essa, l'elegante damerino, si chinò su quell'immondo cencio e fissò in volto la vecchia, chiedendo a quelle labbra, sformate più ancora dagli spasimi dell'agonia, una parola; a quella mano sudicia e sanguinolenta, un gesto.

La mano si stese verso la casa - i piccoli occhietti della vecchia accompagnarono quel gesto colla loro espressione feroce.

- Chi c'era là?... - chiese Ester.

La donna fece uno sforzo per parlare, ma non le uscì dalla bocca che una bava sanguigna.

- Là!... - ripetè essa - là!...

Provò un ultimo sussulto, le si arrovesciarono le pupille, agitò le braccia, e ricadde.

Era morta.

*

Quando Ester uscì dal bosco, dove era stata trattenuta provvidenzialmente da quella agonia a cui fu costretta ad assistere, mentre Bianca, Arturo, Peppe ed il Guercio se la svignavano, ella aveva tutto il diritto di intravvederlo il dramma; non l'aveva forse ancora innanzi agli occhi in quella vecchia agonizzante? quale prologo per una catastrofe che avrebbe forse provocata lei!...

Ester si sentì defraudata.

Dal dramma ideato ed intravvisto, si passava alla commedia più piana; una scena alla Goldoni invece d'un finale alla Dennery - laggiù una morta mezzo sbranata - qui un campagnuolo a tavola colla sua metà, col suo berretto in mano, colla faccia sorridente, e che null'altro pareva chiedere tranne il permesso di tornare a sbocconcellare il resto dell'anitra già attaccata.

Tutt'intorno, una calma serena - un bimbo che tirava le gonnelle alla mamma, chiedendo la sua parte.

Orlando, soltanto, incatenato nella sua cuccia, stonava, in mezzo a quel sereno quadro d'una placidezza tutt'affatto pastorale.

Egli ringhiava cupamente dal fondo della cuccia, e parve ad Ester che sulle sue zampe, come sulle grosse sue labbra, avesse del sangue.

CAPITOLO XXVII ALLA «COLOMBA BIANCA»

Quest'insegna spicca alla porta d'un modesto albergo, in una di quelle vie che fiancheggiano il lungo muraglione della villa reale di cui va superba Caserta.

La colomba c'è, anzi ce ne sono due, tantochè potevano anche chiamarlo: l'Albergo delle due Colombe.... molto più che sono dipinte abbastanza bene, sull'insegna, in atto di prodigarsi le più dolci carezze.

Sembra quasi che le loro ali siano agitate da un fremito - pare che si becchino, che si bacino - mentre alle due finestre da cui si vede il parco colla sua cascata, co' suoi viali ombrosi, colle sue aiuole di fiori, adorne di statue, fanno spesso capolino e appaiono e scompaiono per riapparire, due.... anzi quattro affascinanti occhioni neri, proprietà assoluta e naturale delle due figlie dell'ostessa, rispettabile proprietaria dell'albergo.

Gli avventori ed i forestieri che, all'ora della colazione o del pranzo, ne affollano le modeste sale, vi trovano quasi del lusso, i giovanotti casertani trovano che, oltre al pranzo od alle mezzette, gli occhi delle due colombe sono anch'essi qualche cosa di più, e trovano che il pittore dell'insegna non poteva avere avuta migliore ispirazione. Alle fanciulle non costa alcuna fatica il sorridere - la mamma non va in collera - e si è infine beati e felici nel migliore degli alberghi.

*

Siamo in piena fiera - la piazza è ingombra di baracche - un cavadenti arringa il popolo dall'alto del suo carrozzone a due cavalli - vende per 15 centesimi un toccasana per tutti i mali possibili - fa raddrizzare i gobbi, correndo loro dietro con un enorme spadone - unge le gambe ai rachitici, che vanno via svelti come se non lo fossero mai stati - ed opera miracoli tali da sbalordire san Gennaro, che in fatto di miracoli continua a farne anche dopo morto, per non perderne l'abito.

Si vendono scialli di Persia per due lire, e fazzoletti che sembrano lenzuoli per dieci soldi - i bimbi soffiano a perdifiato nelle trombettine e negli zufoli e ne traggono di quelle armonie che farebbero impazzire un sordo - si grida da ogni parte - si urla - si strepita, e la folla ride, guarda, mercanteggia e compra, poichè è un'occasione che capita una volta l'anno e le buone occasioni non bisogna lasciarle scappare.

Innanzi ad un baraccone di saltimbanchi c'è schierata un'infinità di gente; un pierrot, sul cui volto la terra rossa colla quale si è imbrattato impedisce di scorgere il macilento pallore, ha steso a sè dinanzi un tappeto, e per dare un'idea, al popolo, di quello che saprà compiere nell'interno della baracca, giuoca con un piccolo marmocchio, che egli qualifica per la meraviglia delle meraviglie in fatto di acrobatismo.

Egli è sdraiato colla pancia in su sovra il tappeto, servibile a tutt'altro che ad impedire l'ammaccatura delle ossa sul ciottolato della strada, prende il bambino coi piedi sotto le ascelle e gli dice:

- Attento!...

Volgendosi quindi alla folla, nella strana ed abbastanza incomoda posizione in cui si trova, rivolge ai presenti questo discorso:

- Signori.... la scimmia è una scimmia!... si sa.... e le scimmie hanno una speciale elasticità nelle membra, che le rende atte a qualsiasi slancio. I jaguari delle foreste americane sono capaci di appostarsi sopra un albero alto più di cento piedi per aspettare la preda e gettarsi poi sulla suddetta.... che afferrano per il collo e sbranano coi loro denti, come colle loro unghie.

La folla freme all'idea di quel salto a cento piedi di altezza, con relativo squartamento, specialità selvaggia dei jaguari, ed il pierrot, approfittando del prodotto effetto, continua:

- Ma un bambino non è una scimmia.... o signori.... - e non è neppure un jaguaro delle foreste americane!...

Uno scroscio di risa accoglie queste parole.

- Sapete che cos'è questo bambino?... - prosegue il pierrot, imprimendo qualche lieve sobbalzo a quel povero corpicino esile e malaticcio: - è la meraviglia delle meraviglie, o signori, rivale nientemeno.... che del celebre Sbalatoff! Lo conoscete voi Sbalatoff?... No.... mi risponderete, ma che importa? A Pietroburgo, Sbalatoff è soprannominato l'aquila del Mississipì!... Sapete voi che cosa sia l'aquila del Mississipì? - No.... mi risponderete.

La folla spalanca tanto d'occhi, abbagliata da quello sfoggio di erudizione inqualificabile.

- Che cosa sarà l'aquila del Mississipì?... - pare che ciascuno si chiegga.

- Essa non è... ciò che è questo fanciullo.... - conchiude il pierrot.

Delusi nella loro aspettativa, tutti i componenti quel gruppo che attorniava il pagliaccio si guardano in faccia e sembra loro che la definizione dell'aquila del Mississipì non sia nè molto chiara nè troppo persuadente.

Quello che sembra chiaro a qualcuno è una cosa sola.... - ed è, che quella meraviglia delle meraviglie, il celebre e grande Sbalatoff, non sa far altro che starsene da un quarto d'ora sospeso per aria col piede del pierrot sotto le ascelle, e si persuadono, che in fatto di esercizi ginnastici egli non sia quella tale aquila di cui parlava il pagliaccio.

Del Mississipì non se ne curavano, e poco premeva loro di sapere, che cosa fosse; ma, come aquila, avrebbe pur dovuto fare qualche cosa.

Il pagliaccio, dal canto suo, nella posizione in cui si trovava, così poco adatta per fare un discorso e per tenerlo così lungo, ansava penosamente.

Grosse stille di sudore gli gocciolavano dalla fronte, e lo sguardo che volgeva sulla folla, in attesa che a qualcuno fosse venuta la buona idea di gittare qualche soldo sul tappeto, aveva qualche cosa di straziante.

Tutti invece aspettavansi d'assistere alle prodezze del rivale di Sbalatoff; quel preambolo a nulla aveva servito, e visto che le prodezze suaccennate si facevano troppo aspettare, stavano già per andarsene.

Da comica.... come era incominciata, la scena stava per diventare drammatica.

Il volto del pagliaccio, anzi, diremo meglio, del povero padre di quel fanciullo, impallidiva sempre più sotto alla truccatura rossa e gialla che lo mascherava; la parola usciva a fatica dalle sue labbra contratte, e dopo aver rivolto alla folla quell'ultimo suo sguardo supplice, lo fissò sul bambino, che, sebbene sostenuto dai piedi del pagliaccio, non poteva più reggersi e si era lasciato ricadere sul petto la bella testolina.

Non aveva mandato neppure un gemito, la povera creaturina, ma era certo che da un momento all'altro sarebbe caduta sul tappeto, e null'altro poteva forse desiderare se non che quell'estremo intorpidimento, per essere sottratta ad uno strazio che sorpassava le sue forze.

L'uno e l'altro avevano fame!...

Eppure nessuno indovinava l'angoscia di quei due esseri, a cui sarebbe bastato un po' di forza, un salto, od una capriola, per strappare dall'ammirazione popolare pochi soldi da potere sfamarsi.

Che cos'era invece per essi quel marmocchio mezzo morto.... colle sue maglie sdrucite e col suo giubbettino stellato?...

Una cosa.... floscia, che pareva uno straccio.

Che cos'era quel pagliaccio disteso da un quarto d'ora su quel tappeto, colle reni ammaccate, e che parlava loro di meraviglie, di aquile e di Sbalatoff?

Era qualche cosa di grottesco, fino a cui non arrivava la pietà.

Essi erano là per ridere e per vedere dei giuochi.... e.... tanto peggio per lui, se non manteneva le sue promesse.

Bisognava dunque risolversi, finirla; ed il pagliaccio, con supremo sforzo, sollevatosi a metà del corpo, si riaccomodò il bambino sui piedi come meglio potè, e colse quel momento per susurrargli all'orecchio a bassa voce, mentre egli rivolgeva sopra lui i suoi occhi languidi:

- Coraggio.... fa' un salto.... attento, mangeremo poi.

- Signori....- disse subito dopo, volgendosi alla folla - sapete che cosa fa l'aquila del Mississipì?...

Il bambino battè l'una contro l'altra le sue due manine e sorrise.

Il pierrot si atteggiò in modo da poter imprimergli un vigoroso slancio.

- Attento!... - gridò il pagliaccio.

- Pronto!... - rispose il bimbo.

Il bimbo fu lanciato in aria, l'uomo fece per rizzarsi, sdrucciolò; dalla folla si levò un grido di spavento.

Mentre l'uomo sdrucciolava, aveva veduto il bimbo ripiegarsi su sè stesso, e sarebbe caduto malamente sul selciato della piazza, se un monello, fattosi strada fra quella massa, non si fosse slanciato innanzi e non l'avesse ricevuto fra le sue braccia.

*

Il colpo di scena era imprevisto, la folla applaudì.

Il monello deponeva il bimbo fra le braccia del pagliaccio, e dopo averlo accarezzato, trattosi dalle tasche della giubba un piccolo pane, glielo spezzò e glielo diede, noncurante del mormorìo che facevasi intorno a lui.

Era una scena strana, bizzarra; non si rideva più: ma il monello doveva avere un programma ben più completo da mettere in esecuzione, poichè, rivoltosi alla folla con un risolino canzonatorio:

- Volete sapere che cosa fa l'Aquila? - esclamò egli, riprendendo, per così dire, la scena dal punto stesso in cui l'aveva interrotta: - Prima di volare, mangia.

Egli accennò il bambino, che divorava il suo pane, mentre il pierrot se lo stringeva al petto coprendolo di baci.

- E sapete che cosa faceva Sbalatoff? - continuò il monello.

Egli si tolse la giubba, e sullo stesso tappeto che doveva essere il campo d'azione delle gesta del pagliaccio, spiccò tali salti, e d'una tale acrobaticità, che la folla, commossa, si abbandonò ad uno di quegli entusiasmi che non si possono descrivere.

Al programma del monello mancava però ancora la coda.

Egli accennò il piatto di stagno, su cui lo sguardo supplice del pagliaccio aveva cercato invano di attirare l'attenzione degli spettatori, e disse loro con un inchino pieno di grazia:

- Signori, per l'Aquila che ha fame, se volete che voli più tardi!

Sul tappeto come sul piatto cadde una vera tempesta di monete.

Le donne ed i vecchi piangevano. Si fece tale un chiasso, che la piazza si gremì di popolo.

*

Il saltimbanco era così sbalordito da quanto succedeva intorno a lui, che sul suo volto scorgevasi una specie di inebetimento.

Egli volgeva lo sguardo ora sulla folla, ora sul suo piccino, occupato esclusivamente a divorare il suo pane, e non sembrava neppure impressionato da quel monello che, rimessasi la giubba, raccoglieva le monete gettate nel suo berretto che minacciava d'esserne sfondato, mentre con un'occhiataccia furba, che faceva sorridere gli astanti, li induceva a dargliene delle altre.

Egli aveva forse salvata la vita al suo piccino; erasi improvvisato acrobata, erasi fatto provvidenza.... e sembrava non accorgersi neppure d'aver fatte tutte queste belle cose, occupato com'era da quel suo affaccendamento. Si pavoneggiava un po', sì.... dinanzi alle mamme che lo divoravano cogli occhi, ed alle fanciulle che gli sorridevano, ma lo faceva però con tanta grazia, ed in quella sua spavalderia birichinesca c'era tanta semplicità, che a più d'uno veniva la voglia di saltargli al collo.

- Ecco per l'aquila! - esclamò egli, presentando al pierrot l'enorme cumulo di monete che aveva raccolte nel berretto.

Il pover uomo si sentì come scosso improvvisamente da un sogno al suono di quella voce; la commozione a cui era soggetto gli fece groppo alla gola, mentre avrebbe voluto pur dire qualche cosa.... - fissò il monello, gli si empirono gli occhi di lagrime, dal petto gli eruppe un singhiozzo, si gettò su lui con una specie di slancio selvaggio, e lo coperse di baci con una frenesia delirante.

Le monete ricascarono sul tappeto, la folla battè le mani.

Si era improvvisata sotto a' suoi occhi una di quelle scene da gran dramma, col suo bravo Deus ex machina che accomoda tutto, colla sua brava mano di Dio.... nel momento della catastrofe.

E questa scena, prima straziante in ogni suo particolare, ora resa stupenda dall'imprevisto.... era reale.

Vi avevano preso parte tutti.

Ne erano protagonisti quel bambino e quel padre che avevano fame, quel ragazzaccio.... saltato fuori Dio sa da dove, e quegli spettatori che eransi fatti attori, poichè avevano concorso coll'opera loro a compirne lo scioglimento.

- Viva!... bravo!... bene! - si gridava da tutte le parti - e quello che naturalmente doveva succedere, successe.

Una brava donna, dalla faccia rubiconda, si prese fra le braccia quel bel fanciullo che pareva un amorino, ad onta delle sue magliettine sdrucite e della sua giubbettina a stelle.

Un vecchio contadino vestito da festa, con una coda di rondine di fustagno, con tanto di cilindro e col suo bravo panciotto a quadrettoni rossi e neri, diede braccio al pierrot - il monello ebbe un da fare indiavolato per non essere portato in trionfo da quella brava gente, che nel suo entusiasmo avrebbe compromesse le sue ossa, stritolandogliele a forza di espansivi soffocamenti.

Si fece un involto delle monete, che furono consegnate al pagliaccio, e si cercò un'osteria.

Che cosa non finisce all'osteria?...

I trionfatori romani si potevano permettere il triclinio; per quella brava gente, invece, ad onta che lì.... sotto il loro naso.... sfolgorassero le magnificenze del palazzo di Ferdinando di Napoli, Caserta non poteva offrir loro che le modeste sale d'una locanda, e le colombe della Colomba bianca sembrava che battessero le ali per chiamarveli.

- Alla Colomba bianca.... - gridò il contadino.

- Alla Colomba bianca!... - ripetè il monello, e vi aggiunse un....

- Corpo di!... - come dice il Guercio - ce lo troveremo anche lui.

Capitolo XXVIII IN FAMIGLIA

Anche senza quell'esclamazione rivelatrice, i lettori e le lettrici l'avranno riconosciuto.

Un'azione come quella non poteva essere fatta che da lui.... da quella canaglia del nostro Peppe, e sarebbe stato un volergli rubare la parte di simpatia che gli spetta di pieno diritto, sostituendogli un altro eroe qualunque.

Ma che fa a Caserta?... e se c'è lui.... allora....

Precisamente!...

Il resto viene da sè: ci deve essere Bianca, ci devono essere Arturo ed il Guercio.

*

Arturo, lasciando il casolare di Tita in Ciociaria, l'ha pensata infatti da persona che non ha la testa nelle nuvole.

Bisognava allontanarsi da Roma; la più semplice misura di prudenza glielo imponeva: aveva delle faccende a Capua, avea trovati protettori a Bianca per farle patrocinare dinanzi al tribunale della curia vescovile di Roma l'affare dell'eredità contestatale.

Bianca aveva bisogno di calma, a Caserta ne troverebbe; egli vi conosceva una brava famiglia, che della brava gente ce n'è dappertutto, senza che per questo vi manchi.... anche quella che non c'è.... e vi portò la sua Bianca.

Vi è dunque da due giorni; la vecchia ne è stata avvisata, e non le dovrebbero mancare presto neppure i baci della sua vecchia nonna, che deve morire dalla voglia di sentirsela un po' sulle ginocchia per tirar giù quattro brontolatine a modo suo.

....................................................................

All'albergo della Colomba bianca si era in piena baldoria. Si andava a gara per riempire il vuoto operato dal digiuno nello stomaco del saltimbanco, ed in quell'entusiasmo umanitario, che si scatenava su lui con una specie di delirio, le sue facoltà digestive erano poste alla più assoluta delle prove.

Al piccolo Sbalatoff avevano fatto bere persino del Marsala, i suoi begli occhiettini luccicavano, e tutto l'idealismo di quel suo visettino pallido che si poteva paragonare a quello dei putti di marmo scolpiti sulle colonne, sui cornicioni o di fianco agli acquasantini delle chiese, aveva subìto una trasformazione compiuta.

Si poteva paragonare ad un piccolo Bacco, a cui non mancasse che la botte per montarci su.

Era però incantevole anche così.... e la donna che l'aveva preso in braccio se ne augurava una copia conforme, lanciando verso il marito delle occhiatacce che lo colpivano sul vivo.... nella sua doppia qualità d'uomo.... e di consorte....

- Bisognerebbe dirglielo, adesso!... - gridava il saltimbanco fra una risata ed un bicchiere - bisognerebbe dirglielo, adesso.... di fare il volo dell'aquila!...- ed il piccino, a quell'invito, smaniava come un ossesso e pestava i piedi, trattenuto a stento dalle braccia erculee della sua protettrice, e seguitando a strillare, che voleva fare il volo dell'aquila!...

Peppe, re alla sua volta di quella festa, finì col calmarlo porgendogli un pezzo di pasticcio sul quale, in mancanza di artigli aquilini, egli cacciò i suoi denti bianchi che fecero mirabilia!...

*

Un nuovo personaggio, sconosciuto a quelli della brigata, ma ben noto alle lettrici, erasi fermato da qualche momento sulla porta della sala - godevasi quella scena col più espressivo de' suoi sorrisi, e guardava tutto e tutti col suo unico occhio, che in certe occasioni sapeva far valere per quattro.

Era il nostro Guercio.

Aveva sapute le gesta di quella canaglia di Peppe, e veniva a goderselo tutto, fiero di quella specie di paternità a modo suo che aveva esercitata su lui.

- Ne faremo qualche cosa.... corpo di!... - mormorava egli - certo, che ne faremo qualche cosa!...

Il monello lo vide e gli corse incontro.

- Evviva papà Pietro!... - esclamò egli, e trattolo per mano fino alla tavola, lo presentò ai commensali.

- Pare che comandi lui.... qui.... - borbottò il Guercio contraccambiando i saluti della brigata.

- Ed ha ragione!... certo.... che ha ragione.... - gridò un vecchietto rubizzo, che provò a Peppe con uno scappellotto tutto lo slancio della sua ammirazione; - dopo quello che ha fatto, egli non ha che da chiedere.

- Un posto per papà Pietro - urlò il monello, saltando sopra una sedia.

Tutti si alzarono.

Era un'ovazione per riverbero, che il Guercio non si sarebbe aspettata, ma egli sapeva far bene le cose sue.... ed avere, a tempo.... della dignità.

S'inchinò, sedette, furono riempiti i bicchieri, ed un'ora dopo, il Guercio anch'egli, benchè avesse premesso che i ragazzi sono ragazzi, e che non è bene riscaldar loro il cervello, trasportato a sua volta dall'entusiasmo generale e dalle bottiglie sturate, finì coll'intonargli un osanna.

Le idee predominanti del Guercio in fatto di doveri.... compreso quello di rubare onestamente.... quando si appartiene onestamente ad una banda.... come d'essere galantuomini quando non si voglia più.... esser ladri, i lettori le conoscono...., ed egli sfoderò tali teorie, che gli ospiti della Colomba bianca, sbalorditi e sorpresi, se avessero avuta a loro disposizione una cattedra, gliela avrebbero offerta per acclamazione, certi che i loro figli sarebbero diventati qualche cosa di straordinario.

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- E dire.... - pensava il Guercio tra sè - che quella canaglia di laggiù.... non mi ha mai voluto comprendere.

Dall'altezza a cui erasi elevato, egli aveva trovato una frase olimpica.... per fulminare i suoi ex-soci del puntarolo.... Li aveva chiamati: quella canaglia di laggiù!...

Se quella infatti era la bolgia, questo era l'Eden, un Eden dove, invece degli incensi, fumavano, è vero, degli intingoli con patate, e dove, invece del nettare, si beveva dell'Orvieto, dell'Asprigna e del Caluso!...

CAPITOLO XXIX TURBAMENTI

Mi permetto di far da guida a quella mia tal.... bionda lettrice...., ed è un ufficio che assumerei tanto volentieri....

Sentirei il mio braccio appoggiato al suo.... si camminerebbe l'uno accanto all'altra, pensando molte cose.... senza dirsene forse alcuna.... ma scommetto che indovinerei tutto quello che mi vorrebbe dire....; indovinerebbe ella ciò che vorrei dirle io?...

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Ebbene, Bianca ed Arturo passeggiano propriamente così.

Li vuol vedere?...

Venga con me: siamo in una casetta piccina piccina, una specie di nido...., verso cui Bianca ed Arturo si avviano guardando il cielo, i monti, i campi, e guardandosi un po' anch'essi....

Il nido non l'hanno fatto loro, come le rondini.... ma che importa?...

L'hanno trovato bell'e fatto.... per mezzo della famiglia alla cui protezione aveva già ricorso il nostro innamorato, perchè gli innamorati.... si sa.... metterebbero sottosopra tutto il mondo.... ed il resto per sopra più.... pur di conseguire il loro scopo.

- Sono in Caserta?...

- No, fuori....

- Distanti?...

- No.... poco.... In campagna.

Le labbra della mia lettrice si compongono ad un grazioso risolino: un risolino che mette in mostra tutta la doppia fila de' suoi dentini bianchi; e con quel risolino vuol dirmi:

- Ma sa.... che la sua Bianca ed il suo Arturo.... hanno una grande smania per la campagna!...

- Darebbe loro torto?...

- No.

- Dunque?...

- Vada per la campagna casertana!... Mi ha detto che passeggiano, mi pare.

- Già.

- Li ha veduti?...

- Non ancora....

- Sono là.

- Dove?...

- Sotto quel viale.... un luogo delizioso.... per discorrere di tante cose.... per guardarsi quando non si voglia discorrere.... per starsene colle mani nelle mani.... guardando il cielo, gli alberi ed i passerotti.... - Il cielo è azzurro come i loro pensieri - gli alberi sono verdi come la speranza e come le tasche di un poeta - la vecchia nonna se la divora cogli occhi la sua Bianca! - le ha già dati tanti baci, da lasciargliene il segno sulle guance - ha dato ad Arturo la sua brava lavata di capo, come si deve - l'ha baciato anche lui.... però, ed ha finito con esclamare, gettandoli uno fra le braccia dell'altra: - Amatevi.... e se anche non la spunteremo coll'affare dell'eredità.... ora che ho saputo tante cose.... i conti col marchese saprò farli io. -

- Idillio compiuto, dunque!...

- Mi pare!....

- Compiuto?... - insiste la mia bella lettrice.... che non sembra persuasa.... - e Peppe?...

- Sicuro!... me ne dimenticavo.

Le sue prodezze acrobatiche si sono sapute da tutti, ed egli non ha mancato di raccontarle anche a chi non le voleva sapere.

Bianca ed Arturo e la nonna ne andarono in estasi - le padroncine della Colomba bianca hanno fatto altrettanto; era ospitato all'albergo, ma la vecchia lo volle con sè - il saltimbanco, in grazia sua, vede affollata ogni giorno la baracca che ha potuto erigere in piazza - e Peppe vi fa delle scappate di quando in quando, insegnando dei salti nuovi al piccolo Sbalatoff, che si è fatto bianco e rosso come una pesca.

*

Di tutti i personaggi, infine, che sono riuniti in quella specie di oasi - il solo che si tenga in disparte, cupo e preoccupato da tristi pensieri, è il Guercio. Si direbbe un mastino che gironza qua e là, intorno alla casa di cui fu fatto il custode, inquieto ad ogni rumore che giunga fino a lui, colle orecchie dritte, col naso per aria, mandando ad ogni istante dei ringhi cupi e minacciosi.

Ad onta però degli irrequieti brontolamenti del Guercio che vi gironzava dintorno, nella casetta alla quale abbiamo accennato si è in pieno affaccendamento.

La bella testolina di Bianca non è mai stata tanto raggiante - non dirò di pallore, ma di gioia - d'una di quelle gioie così vere, così sentite, che sentono l'istintivo bisogno di traboccare dall'anima.

Del resto, il movente di tale effusione non poteva essere più legittimo, più naturale.

Arturo è presso di lei; ha con sè la nonna, ha Peppe, il quale è tutto affaccendato a scombussolare tutto ciò che la vecchia Anna mette in ordine, e che ad ognuna delle sue occhiate fulminanti risponde con una smorfia.

Egli ha fatto ruzzolare per terra, e c'è montato su coi piedi, nientemeno che un velo bianco diligentemente disteso sopra una tavola, mentre accanto a quel velo c'era una splendida veste bianca a cui non mancavano che pochi nastri per essere compiuta.

Anche a Bianca doveva esser caro quel velo!

Peppe lo pensò. Raccolse il velo con un sorriso, e lo rimise accuratamente al suo posto.

La fanciulla di quando in quando sorride e si fa rossa.... Arturo la contempla con occhi pregni d'amore e.... e la vecchia si soffia il naso sbirciando al di sopra dei suoi occhiali quella coppia innamorata, con un par di occhiettini a cui una bella lagrimona aggiunge una lucentezza maggiore.

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Sono circa le undici, e l'affaccendamento continua.

Sulla strada che conduce alla casetta c'è un viavai di gente. Arrivano due carrozze. Da esse scendono quattro persone, due uomini e due signore; entrano in casa, ci stanno un momento. Intanto arriva un'altra carrozza. Bianca vi sale, sorretta dalla nonna, che per la solenne occasione s'era indossato l'abito riservato da sessanta anni per le grandi occasioni, con nastri alla cuffia e con un magnifico scialle di pizzo.

Bianca, col suo candido velo, con la bianca veste adorna di fiori, sembra un essere aereo, una di quelle visioni intravviste soltanto nei sogni.

I cocchieri fanno schioccare allegramente le loro fruste; i cavalli sbuffano, s'impennano, partono; e le carrozze, ravvolte in una nube di polvere, non si fermano che dinanzi alla chiesa maggiore di Santa Lucia.

Un'ora dopo, tutto era finito.

*

La casetta animata prima da tanto movimento è rimasta deserta. La vecchia Anna un po' colle brusche un poco colle buone era riuscita a persuadere Peppe di restarci ad attendere il ritorno degli sposi.... ma che!... Peppe sentiva di morirci.... aveva il suo abito da festa anche lui da sfoggiare; perchè starsene lì.... ad aspettarli? Egli si affacciò alla finestra - stette immobile ad ascoltare, finchè non sentì più lo scalpitar dei cavalli - seguì collo sguardo la nube di polvere che si lasciavano dietro e che avvolgeva tutto in una specie di nube gialla....

- Filiamo!... - disse a sè stesso.

Stava per staccarsi dalla finestra, ma trasalì improvvisamente.

Eragli sembrato di vedere un uomo dietro la siepe dell'orto su' cui sentierucci aveva sfoggiato un'infinità di capriole.

Egli si trasse indietro colla sua furberia abituale, ma il cuore gli palpitava in petto con strana violenza.

Ebbe egli forse istintivamente il presentimento d'una sventura? Fiutò vicino un pericolo? Non lo sapeva.

Eragli sembrato che quell'uomo si fosse chinato e nascosto dietro la siepe quando egli per caso guardò verso l'orto.

La vecchia Anna, per assicurarsi che egli non potesse disturbare colle sue monellate la severità della cerimonia, persuasissima che le sue raccomandazioni, come le promesse di Peppe, erano valide sino ad un certo punto, ma non erano moneta corrente su cui fare troppo calcolo, aveva pensato bene di chiuderlo in casa.

Era dunque prigioniero, ma che cos'era per lui scavalcare un balcone? attaccarsi ad una ferrata e trovarsi là mentre uscivano dalla chiesa, per provare loro che era capace di fare.... quello che voleva lui?...

Il suo piano egli l'aveva già ideato, ma se l'uomo da lui veduto, o che aveva creduto di vedere, era là.... per qualche scopo, si trattava di ben altro che di farne una delle sue.

Qualche cosa, che non avrebbe saputo definire, gli diceva che non si era ingannato.

Dopo essersi ritirato rapidamente, egli guardò ancora con molta preoccupazione verso l'orto, senza mettere fuori il capo dalla finestra, ma attraverso ad una fessura della persiana.

L'uomo, credutosi solo, poichè c'era, stava in quel momento scavalcando la siepe.

Peppe impallidì.

Aveva riconosciuto il Gigante.

Il Gigante aveva scostati alcuni rami della siepe, e col suo passo da sciacallo erasi inoltrato nell'orto.

Che fare?...

Calare dalla finestra era impossibile, sarebbe stato veduto.

Eppure una risoluzione bisognava prenderla, ed egli non poteva restare lì.... inerte, dinanzi alla certezza del pericolo, rappresentato troppo evidentemente dalla presenza del puntarolista in quel luogo.

Era solo?... C'erano altri.... con lui?...

Questi e tanti altri pensieri agitavano Peppe, che non lo perdeva di vista.

Il Gigante guardava verso la strada, colla mano nelle fonde....

- Ci deve avere qualche cosa.... nelle fonde.... - pensò Peppe.

*

La strada era deserta, nessun rumore neppur da lontano, polvere e sole...., null'altro. Doveva al certo aver luogo in quel momento la cerimonia nuziale.

*

Quando dopo un istante riguardò nell'orto dalle fessure delle persiane semichiuse, il Gigante non c'era più.

Doveva però essersi appiattato in qualche posto, e stava forse cercando un mezzo per entrare in casa.

Quando uno vuol fare un colpo del genere di quelli a cui egli preparavasi, gli arnesi indispensabili.... non possono mancare.

Peppe, con quel tatto speciale che lo distingueva, si scostò dalla finestra, uscì dalla camera, imboccò in punta di piedi, per non far rumore, un piccolo corridoio, ed invece di guardare fuori, ascoltò.

Quello che aveva intuito, successe.

Sentì lo stridìo sottile che produce un grimaldello introdotto cautamente in una toppa.

Si stava sforzando la porticina di dietro.

Dalla parte dell'orto, dunque, la via era libera.

Mentre il Gigante stavasene occupato nella sua operazione, egli poteva sgattaiolare giù dalla finestra, lanciarsi sulla strada e arrivare in tempo per sventare il colpo.

Concepire il pensiero e metterlo in esecuzione, fu per Peppe l'affare d'un momento.

Egli era al secondo piano, e le finestre del primo erano munite di un'alta inferriata, servibilissima anche quella.

- Par fatta apposta - pensò Peppe, che era già penzoloni fuori del balcone, aggrappandosi colle mani al parapetto. Non poteva però toccare coi piedi l'inferriata.

C'era almeno un mezzo braccio di distanza.

- Uno.... due, tre!... - disse mentalmente a sè stesso - rinnoviamo i prodigi dell'Aquila del Mississipì - e si lasciò andare con tale colpo d'occhio, da aggrapparsi come uno scoiattolo alla sbarra sporgente della ferrata.

Il ferro gli scorticò abbastanza il palmo delle mani, ma egli non vi abbadò più che tanto!... sdrucciolò sui ferri, toccò coi piedi il secondo davanzale, spiccò un salto e si trovò in piedi a pochi passi dalla strada.

In quel momento, dal fondo della strada sentì uno scalpitìo di cavalli, un rimbalzare di ruote, un rumore di sonagli.

- Arrivano ora.... - mormorò Peppe, impallidendo - per l'inferno.... potevano bene aspettare un po'....

Il Gigante si slancia verso la strada prima di lui - non lo vede neppure, perchè Peppe si china rapidamente dietro la siepe che fiancheggia la via, e che divide la casa dalla strada.

Due carrozze vengono infatti verso la casa, ravvolte in una nube di polvere. Dinanzi al Gigante però, e strappando un grido di sorpresa a Peppe, sorge improvvisamente, sbucata non sa egli pure da dove, una figura umana; si sentono due colpi d'arma da fuoco, vede due uomini che si gittano l'uno contro l'altro, che si avvinghiano, che lottano - quel gruppo si agita in mezzo alla strada per un istante, poi uno dei due uomini barcolla e rotola nella polvere, trascinando nella sua caduta l'altro, che si solleva però quasi istantaneamente.

Peppe l'ha riconosciuto; è il Guercio - egli ha messo un ginocchio sul petto del Gigante, vede un braccio che si alza - sotto il raggio del sole vede balenare un ferro, il braccio si abbassa; sente un grido rauco, un rantolo.

Il coltello del Guercio ha squarciata la gola del Gigante.

Il Guercio si rialza, lordo di polvere e di sangue, che i cavalli della prima carrozza gli sono quasi sopra.

Dalla seconda carrozza due grida di spavento avevano già risposto alle due detonazioni.

Bianca, pallida e tremante, si stringe spaventata contro il petto d'Arturo.

- In tempo!... - dice loro il Guercio, accennando il Gigante che dibattesi nelle ultime convulsioni dell'agonia - purchè mi resti quello di svignarmela.... - aggiunse; - coi gendarmi avrei troppi conti da regolare.

*

Due mesi dopo, Arturo, che erasi stabilito colla sua Bianca e colla vecchia nonna a Capua, validamente appoggiati per propugnare al tribunale ecclesiastico la eredità di Bianca contestatale dal marchese D..., riceveva da Terracina questo avviso:

«CIRCO Sbalatoff

Direttore-proprietario Pietro Strini (detto il Guercio).

Oggi domenica, doppia rappresentazione alle ore 5½ ed alle ore 8.

Vi si vedranno le più grandi meraviglie del mondo.

Compresa l'Aquila del Mississipì.

Il più grande fenomeno acrobatico.

Si eseguiscono giuochi impossibili.

Si presenterà al pubblico un asino ammaestrato.

Vi si vedrà un selvaggio che parla e che mangia del fuoco vero.

Primi posti centesimi 30 - secondi 20 - terzi 10.»

L'avviso era accompagnato da questa lettera:

«Egregio signor Arturo,

«Grazie alle generosità della S. V. che si è degnata di aiutarci, io e Peppe siamo quasi.... proprietari.... Peppe sbalordisce me a forza di ciarle ed il pubblico a forza di capriole.

«Siamo soci del famoso Sbalatoff, che mi ha aiutato a svignarmela sulla sua carretta; mi travestì da saltimbanco, e, visto che un mestiere ne vale un altro, tanto per cambiare il primo, approfittai dell'occasione.

«Gli entusiasmi di Caserta hanno deciso Peppe ad abbracciare la carriera, e se non è ancora del tutto.... diverrà un fenomeno.

«Laggiù.... hanno finito col questionar troppo, ed è successa una retata, a favorire la quale deve esserci concorso l'amico Gennaraccio.

«Se l'è sempre intesa.... colla nera.... ed avrà pensato bene di sbarazzarsi dei puntarolisti dei Monti per favorire la sabbia del Trastevere.

«Noi stiamo benissimo, alla larga.... e sono stato tanto canaglia io, che ci metterò tutto il mio impegno per fare di Peppe un galantuomo.»

INDICE

A EDMONDO DE AMICIS

ULISSE BARBIERI - Schizzo di Edmondo De Amicis

CAPITOLO I Gennaraccio

CAPITOLO II I soci del puntarolo

CAPITOLO III Bianca

CAPITOLO IV Filantropia d'un milionario

CAPITOLO V Zio e Nipote

CAPITOLO VI Amore

CAPITOLO VII Un Commissario

CAPITOLO VIII Ester

CAPITOLO IX Seduta

CAPITOLO X «Fervet Opus»

CAPITOLO XI Buon Segugio

CAPITOLO XII Questioni in famiglia

CAPITOLO XIII In Ciociaria

CAPITOLO XIV Per Via

CAPITOLO XV Dio?

CAPITOLO XVI Colpo di mano

CAPITOLO XVII Peppe

CAPITOLO XVIII Apprensioni

CAPITOLO XIX Dentini di Topo

CAPITOLO XX Il buco

CAPITOLO XXI Audaces Fortuna juvat

CAPITOLO XXII Vento in poppa

CAPITOLO XXIII Ancora Gennaraccio

CAPITOLO XXIV Ai Monti

CAPITOLO XXV La Vecchia della Grotta

CAPITOLO XXVI «Orlando» abbaia

CAPITOLO XXVII Alla «Colomba Bianca»

CAPITOLO XXVIII In famiglia

CAPITOLO XXIX Turbamenti

NOTE (1) Fece pure la campagna del 1866 come volontario garibaldino; fu ferito, fatto caporale, e fu nello Ospedale di Brescia che scrisse le sue Scene del Campo, ripetute dieci sere al Fossati di Milano. (2) Nebbia, in gergo furbesco, erano chiamate le pattuglie dei gendarmi. (3) Non esserci alcuno.