Per un volume di novelline, che vorrebbero essere delle minuscole opere d'arte, Processi verbali potrebbe parere un titolo un po' troppo curialesco. Due parole di spiegazione mi sembrano dunque indispensabili, quantunque io abbia imparato a mie spese, qual poco conto ci sia da fare sulle prefazioni lunghe o corte che sieno.
Processo verbale comune — i puristi ripudiano questa espressione — significa una relazione semplice, rapida e fedele di un avvenimento, svolgentesi sotto gli occhi di uno spettatore disinteressato. Processi verbali, io intitolo delle novelle, che sono la nuda e impersonale trascrizione di piccole commedie e di piccoli drammi colti sul vivo.
Se l'impersonalità ha da essere un canone d'arte, mi pare che essa sia incompatibile con la narrazione e con la descrizione. Nell'esporre in nome proprio gli avvenimenti, nel presentare i suoi personaggi, lo scrittore si tradisce inevitabilmente; ch'ei voglia o no, finisce per giudicare gli uni e commentare gli altri; e le fioriture di stile, con cui egli traduce le impressioni suscitate dal mondo materiale, sono cosa tutta sua. L'impersonalità assoluta, non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l'ideale della rappresentazione obiettiva, consiste nella scena come si scrive pel teatro. L'avvenimento deve svolgersi da sé, e i personaggi debbono significare essi medesimi, per mezzo delle loro parole e delle loro azioni, ciò che essi sono. L'analisi psicologica, l'immaginazione di quel che si passa nella testa delle persone, è tutto il rovescio dell'osservazione reale. L'osservatore impersonale, farà anch'egli dell'analisi, mostrerà anch'egli le fasi del pensiero, ma per via dei segn i esteriori, visibili, che le rivelano, e non a furia d'intuizione più o meno verosimili. La parte dello scrittore che voglia sopprimere il proprio intervento deve limitarsi, insomma, a fornire le indicazioni indispensabili all'intelligenza del fatto, a mettere accanto alle trascrizioni delle vive voci dei suoi personaggi quelle che i commediografi chiamano didascalie.
A questo ideale io ho procurato di avvicinarmi quanto più era possibile. Se il lettore sfoglierà anche rapidamente questo volume, vedrà che tutte le pagine sono piene delle lineette indicatrici del dialogo; due o tre volte appena ho adoperato il dialogo indiretto. Le mie più lunghe descrizioni non oltrepassano le cinque righe e credo che non mi si possa addebitare un sol tratto di narrazione psicologica. In quasi tutte queste novelle c'è unità di tempo e di luogo; non l'unità rigida e spesso inverosimile della ribalta, ma quella che si può cogliere sulla scena del mondo. Io ho cercato di rappresentare, volta per volta, un momento del vero, di quella parte di vero — mi affretto ad aggiungere —alla quale si può adattar questo metodo: perché, sarà bene ricordarlo sempre, ogni soggetto si porta con sé la sua forma, e viceversa. Il compito dell'artista consiste appunto nel trovare, in ogni caso speciale, la pratica applicazione di questa legge d'intima, di assoluta, d'infrangibile convenienza.
Un leggiero colpo di martello all'uscio del giardino: tanto leggiero, da non poter essere udito se non dalle donne che stavano ad aspettare lì dietro.
—Chi è?
—Io, Angela...
Aprirono.
—Che notizie? — chiesero tutte, a bassa voce.
La comare Angela, trafelata, con la fronte in sudore sotto il fazzoletto rosso, rispose, piano.
—Niente!... È morto!... Potete far conto che gli recitino il de Profundis... A stasera non ci arriva!...
Le sorelle Sommatino fecero tutt'e tre lo stesso gesto di stupore doloroso, guardando il cielo dell'alba.
—Ma che non ci ha da essere un rimedio?
—Se vi dico che puzza già di cadavere!
Restavano un poco in silenzio, le une in giardino, l'altra nella via; l'uscio era aperto a metà e Caterina, la maggiore delle vecchie zitelle, ci teneva sopra una mano, per poterlo subito richiudere, come in tempo di peste.
—Adesso, che cosa volete fare? — riprese la donna.
Le sorelle si guardarono, tutte imbarazzate, senza rispondere.
—Quella creatura non potete lasciarla così! È vostra sorella, finalmente. Può restar sola, stanotte, col morto dentro?
Agatina Sommatino alzò di nuovo gli occhi al cielo, e le altre fecero come lei.
—Noi non possiamo nulla, senza mammà!...
—E perché non glielo dite, a vostra madre? È sua figlia, sì o no? Non sarà mai più perdonata, fin che campa?... Io vorrei veder voi, se sapeste che alla vostra figliuola muore il marito, e che resta sola come Maria Addolorata!...
La comare Angela alzava un poco la voce, dall'indignazione; allora le tre zitellone cominciarono a fare:
—Sst!... sst!...
Filippina guardava inquieta verso la casa, in fondo agli alberi; Agatina faceva segno alla donna di andarsene, ma Caterina la tratteneva:
—Aspettate! tornate a portar notizie... ma venite al cancello, è più sicuro... Vedremo che cosa si potrà fare...
Come la comare Angela se ne fu andata via, stringendosi il fazzoletto in capo, Caterina, Agatina e Filippina restarono dietro all'uscio, senza dir nulla.
La maggiore, strettesi le mani con una rassegnazione angosciata, osservò:
—Qui, intanto, non possiamo rimanere tutte e tre... Faremo a turno. Voialtre per ora andate; aspetterò io...
—No, resto io; tu ripòsati...
—Io, piuttosto...
Piene di emulazione, si contendevano adesso il sacrifizio di restare in sentinella dietro al cancello; ma la maggiore, con un tono autoritario, insisté:
—Andate, v'ho detto... se mammà sente che non siamo in casa, sapete!...
Alla minaccia, le altre rientrarono, in silenzio, e si misero a rassettar la casa, sbattendo usci, rimovendo seggiole, schiudendo imposte, perché la madre, chiusa in fondo alle sue stanze, non entrasse in sospetto. Erano in cucina, a prendere consiglio dalla donna di servizio, quando Caterina rientrò, turbata. A voce bassa, in un angolo, come se anche le casseruole potessero sentire, disse:
—Peggio... sta peggio!... Dice che entra in agonia...
Sospirando, si diedero il cambio al cancello, e la comare Angela, venendo e tornando dalla casa dell'agonizzante, poteva credere di trovar sempre la stessa persona, tanto le tre zitellone, l'età delle quali era compresa tra i quarantanove e i cinquantacinque anni, si rassomigliavano: con la stessa corporatura grassa, le stesse guancie rosse, le stesse fronti strette sotto gli stessi capelli grigi.
Le notizie si succedevano di mezz'ora in mezz'ora, e le due rimaste in casa spiavano la venuta dell'altra attraverso i viali.
—Sempre peggio... non riconosce più... ràntola...
Come diede quest'ultimo annunzio a Filippina, che era il suo turno, la comare Angela ripeté:
—Volete andare a confortar quella poveretta, sì o no?...
—Ma come si può fare? Mammà!...
—Sapete che c'è? — dichiarò allora l'altra, — io non torno più!
—E chi verrà ad informarci? Come faremo per sapere?...
La donna, finalmente, mise fuori quel che aveva in corpo.
—E che v'importa, a voialtre, di vostra sorella? Si vede la gran pena che ve ne date!... I vicini, sì, poveretti, cercano di confortarla, di strapparla da quella vista... e l'afflitta creatura che non vuole andarsene e che vi chiama come gli angeli del cielo!...
—Sst!... sst!... — ingiungeva ancora la Sommatino, guardando in fondo al giardino. — Sst, per carità...
—E che carità, se non sapete neppure dove sta di casa!... Vostra madre, almeno, è una pazza che la conoscono tutti, ma voialtre il giudizio non dovete più metterlo, eh?... Bella Madre, queste son cose che io non posso sopportare...
E se ne andò, piantando lì la zitellona, che adesso, arrischiato un poco il capo fuori nella via, chiamava inutilmente:
—Pst!... pst!...
Come non ottenne risposta, richiuse il cancello e rientrò, soprappensieri.
—Ràntola... — riferì alle sorelle, che spiavano la sua venuta. — Dice che quella povera sorella ci chiama... che i vicini vogliono portarla via...
Tutte e tre guardarono per terra, quasi cercando qualche cosa.
—Se non fosse per mammà — disse Caterina — a quest'ora io sarei andata...
—Si capisce! — confermò Agatina.
—Ma come si fa? — aggiunse Filippina.
Dopo aver pensato un poco, la maggiore riprese:
—Potremmo chiamarla, per farle sapere come stanno le cose...
—E risponderà?
—Questo è il dubbio!... Del resto, prova...
—Io? Io non mi ci metto, sorella mia. Provate voialtre!
—Fossi pazza!... Niente!
—Stasera, si può vedere, pel rosario...
Allora, nell'imbarazzo in cui il cognato le metteva con la sua malattia, cominciarono a sfogare:
—Ma vedete che seccatura!... Non poteva morire al suo paese, questo santo cristiano?
—Veramente!... Io, sentite, se mi affliggo, non è per lui; è per la povera sorella nostra...
—Naturale!... Lui anzi è stato causa della sua rovina! Se non le faceva girar la testa, Rosalia non sarebbe fuggita di casa, si sarebbe maritata con chi diceva mammà...
—E non avrebbe fatta una vita così angustiata.
—Ma poi, io dico, quando uno vuol prender moglie, la prima cosa è che la possa mantenere... e non obbligarla a mangiar pane e acqua!
—Come poteva mantener la moglie, se ha fatto sempre la vita di uno scioperato?
—Scioperato? rompicollo!
—Già, noi parliamo come se fosse morto, poveretto; e il Signore può sempre fare un miracolo!...
A un tratto, cessarono insieme di parlare, porgendo ascolto. Lontanamente, dal fondo del giardino, veniva come un rumore di colpi picchiati sui ferri del cancello, e una voce che chiamava, indistinta.
—O Vergine del cielo!...
—Che c'è ancora?
—Correte, non fate gridare... se sentisse mammà!...
—Vieni tu pure... ho paura...
—No, andate!... io resto...
Confuse, con la testa perduta, Agatina e Filippina correvano pel giardino, intanto che al cancello raddoppiavano i colpi.
—Ohè, di casa!... Non c'è nessuno?...
—Silenzio!... Zitto!... — ingiungevano, coi segni, le Sommatino a don Vincenzo Condursi, accorrendo.
—È morto!... — diceva don Vincenzo, gesticolando. — Vostro cognato è morto!...
—E non gridate così!...
Don Vincenzo, turbato, agitatissimo, ripeteva a voce più bassa, dietro il cancello:
—È morto... or ora... Vostra sorella sembra una pazza... lo chiama, lo bacia, non c'è verso di levarla di lì... Adesso, come si fa?
—Come si può fare? — si chiesero a vicenda le due zitellone, con un imbarazzo costernato.
—Non lo volete dire neanche adesso a donna Antonia?
—Caro don Vincenzo — rispose Filippina — voi lo sapete meglio di noi com'è mammà... e che non le si può nemmeno nominare questa figliuola...
—Ma ora? anche ora che le restano i soli occhi per piangere? Scusate, questa è una cosa che non si è letta mai!... Neanche se avesse ammazzato qualcuno!... Finalmente, il male l'ha fatto a sé e non a voi...
—Che possiamo farci?... Lo sa Dio, se la disgrazia di nostra sorella ci affligge...
—Davvero, lo sa Dio!... — confermò l'altra.
—Con mammà, lo sapete, non si può parlare. Tutto il giorno chiusa nelle sue stanze: mangia sola, non vuol veder nessuno. La sua conversazione è la sera, quando diciamo il rosario... Stasera, vedremo...
—E intanto la gente vi legge la vita, che siete dei senza cuore, che è una porcheria tutta nuova, dopo che li avete lasciati morir di fame!.. Lo sapete che non c'è di che pagare il becchino, da vostra sorella?
Come don Vincenzo parlava con una grande concitazione, le Sommatino si consultarono con lo sguardo.
—Chiamiamo Caterina? — disse Filippina.
—No; meglio è che don Vincenzo entri un momento... Don Vincenzo, entrate! Adesso sentiremo che cosa dice Caterina... Entrate... Oh, che disgrazia!...
—Che disgrazia!...
Caterina era alla finestra, e come vide avanzarsi la comitiva, scese anche lei.
—È morto?
—Morto...
Adesso confabulavano tutt'e quattro sul da fare; don Vincenzo ripeteva che la vedova non poteva esser lasciata sola e le sorelle Sommatino si disperavano, dall'imbarazzo.
—Sentite a me, chiamate vostra madre — insisteva l'altro. — Chiamatela; finalmente, non vi mangerà!...
Caterina disse:
—Aspettatemi qui.
Tornò dopo un poco, col muso lungo.
—Mammà non la conoscete!... Ho bussato tre volte; non risponde... Per lei, è tempo perduto; non le potremo parlare prima del rosario. Piuttosto... piuttosto, vengo io.
Agatina e Filippina la guardarono, stupite.
—Vengo io... Mammà non se ne accorgerà; speriamo che non se ne accorga!... Quella creatura non può restar sola, così...
—Molto bene... ma portate qualche cosa di denari: l'affezione è bella e buona, ma la gente bisogna pagarla!
—Denari non ne abbiamo, don Vincenzo, lo sapete... tiene tutto mammà... Però, debbo avere qualche lira da parte...
Andò a prendere i quattrini, a mettersi lo scialle, e nell'andarsene raccomandava alle sorelle, ingelosite della sua iniziativa:
—State attente, per carità... fatele portare il desinare all'ora solita, che non s'accorga di niente... io torno subito... — E dal giardino ripeteva ancora:
—State attente... aspettatemi pel desinare...
Rimaste sole, Agatina e Filippina non dissero più nulla, dandosi da fare per la casa, come se fossero imbronciate. Alle due, mandarono con la serva il cibo alla madre. Poi, nell'ora afosa del pomeriggio, si buttarono un poco sul letto.
—Non viene più, Caterina?
Suonavano le tre, le tre e mezzo, e la sorella maggiore non si vedeva. Quando tornò, alle quattro meno un quarto, era tutta sossopra, e non prese che un po' di brodo, a tavola.
—Povera sorella nostra!... Non si riconosce più, lei così graziosa quand'era con noi... Che miseria, in quella casa!... Non voleva lasciarmi andare... si è afferrata al mio collo, stretta stretta...
E posò il cucchiaio, dal turbamento.
—Il morto l'hai visto?
—No, ci mancava proprio questo!... Stasera lo porteranno via...
All' ave, infatti, s'intesero i primi rintocchi del mortorio.
Le tre sorelle Sommatino si erano già raccolte nello stanzone del presepe, al lume di una lampada a olio, quando l'uscio di mezzo si schiuse e comparve donn'Antonia, col bastone in mano. Malgrado l'età, si manteneva sempre dritta e ferma; era vestita tutta a nero, con un fazzoletto nero in capo che le chiudeva il viso magro, ossuto, dal naso ricurvo e dagli occhi scintillanti. Con un mazzo di chiavi, le pendeva dalla cintura la corona del rosario.
—Buona sera, mammà! — augurarono le tre sorelle, ad una voce.
—Buona sera.
Donn'Antonia sedette nell'ampio seggiolone antico, abbandonò le mani sui bracciali, trasse un sospiro di soddisfazione, guardò un poco in giro, poi disse:
—Caterina, smoccola un po' quel lume; non ci si vede.
—Eccellenza sì.
Come il lucignolo gettò una luce più viva, ella esclamò:
—Così va bene!...
Si mise il bastone a fianco, tossì un poco, prese tabacco e disse:
—Adesso recitiamo il santo rosario.
Le tre sorelle s'inginocchiarono, ciascuna dinanzi ad una seggiola, su cui appoggiarono le braccia. La madre cominciò:
—In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Le altre si segnarono insieme:
—Padre, Figlio e Spirito Santo.
—Gloria al Padre, al Figliuolo ed allo Spirito Santo, così è stato, così è, così sarà per tutta l'eternità.
Donn'Antonia fece scorrere la prima pallottolina rossa, e cominciò:
—Padre nostro che state in cielo, santificato il vostro nome, venga a noi il vostro regno, sia fatta la vostra santa divina volontà così in cielo come in terra... La figlia di massaro Nunzio oggi che non è venuta?
—Eccellenza, sì; le uova erano le sue, — disse Caterina; poi, a coro con le sorelle, riprese la preghiera: — Dateci oggi il nostro pane quotidiano, perdonate i nostri peccati, come noi perdoniamo i nostri nemici: non ci fate cadere in tentazione, liberateci da ogni male, così sia.
—Un'altra volta dovete dirle di non dare a mangiar cipolla alle galline. Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre, Gesù.
—Santa Maria, madre di Dio, pregate per noi peccatori ora e nell'ora della nostra morte, così sia. Sissignora, glielo dirò...
—Adesso che fa caldo, bisogna togliere le robe d'inverno dalle casse, le vesti, le coperte. Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre, Gesù...
—Eccellenza sì... — rispose Caterina — Santa Maria, madre di Dio, pregate per noi peccatori ora e nell'ora della nostra morte, così sia... Domani faremo stendere le corde nella terrazza — aggiunse Agatina, e Filippina chiese: — Le coperte che le diamo a lavare?
—Le laverà la donna.
—È che ha molto da fare...
—Davvero?... — esclamò sardonicamente donn'Antonia.— Poveretta! Voglio prendere un'altra serva che serva per lei!... Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre Gesù... A quest'ora, il pomodoro della Noce dev'essere maturato?
—Con questo caldo, credo di sì... Domenica domanderemo a massaro Di Crispo. Santa Maria madre di Dio, pregate per noi peccatori ora e nell'ora della nostra morte, così sia.
Caterina non aveva detto più nulla, coi gomiti sulla seggiola e le mani congiunte.
Come donn'Antonia, facendo scorrere la pallottolina, tacque un momento, la zitellona tentò di parlare.
—Ave Maria piena di grazia... — riprese subito la madre, e quando ebbe finita la mezza preghiera, domando: — Quella che era in chiesa, domenica, non era la moglie di Corrado Ballanti?
—Eccellenza sì.
—È graziosa. Ma don Filippo Ballanti ha fatto una sciocchezza a maritare quel ragazzo senz'arte né parte.
—Dice che studierà, per un concorso a Palermo.
Donn'Antonia rispose, cantilenando, dopo aver mostrato di nuovo i denti:
—Chi a vent'anni non sa, a trenta non fa; a quaranta non ha fatto e non farà! Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre, Gesù...
—Santa Maria, madre di Dio, pregate per noi peccatori, ora e nell'ora della nostra morte, così sia.
Agatina e Filippina guardavano adesso con insistenza la sorella maggiore. Di nuovo
questa fece per dire qualche cosa, ma donn'Antonia attaccò il secondo
—Padre nostro che state in cielo, santificato il vostro nome, venga a noi il vostro regno... Se non piove, l'uva intanto è perduta. Ci mancherebbe proprio un altro raccolto scarso, come l'anno passato!... Sia fatta la vostra santa divina volontà, così in cielo come in terra...
—Date a noi il nostro pane quotidiano, perdonate i nostri peccati come noi perdoniamo i nostri nemici, non ci fate cadere in tentazione, liberateci da ogni male, così sia... Eccellenza... — aggiunse timidamente Caterina.
Ma donn'Antonia, come se non l'avesse udita, riprese la preghiera sopra un tono più alto:
—Ave Maria piena di grazie... Dice che il negozio del vino non è riuscito a quell'imbroglione di Rava...
—È fallito, anzi... Santa Maria madre di Dio...
—Sacco vuoto non può star in piedi!... Ave Maria piena di grazie...
Così, fra un ave e un pater, sfilavano uno dopo l'altro tutti gli argomenti della
cronaca paesana e domestica. Ogni volta che Caterina faceva per aprir bocca, la madre
riprendeva a pregare, scandendo più nettamente le frasi. Adesso, mentre recitava il
terzo
—Diglielo!...
—Diglielo tu!... Dateci oggi il nostro pane quotidiano, perdonate i nostri peccati come noi perdoniamo i nostri nemici, non ci fate cadere in tentazione...
A un tratto, nel silenzio della sera, da Santa Maria del Rosario venne il suono del mortorio: due tocchi vicini e uno staccato, grave, funebre: 'Ndin, 'ndin — 'ndon... 'ndin, 'ndin — 'ndon...
—Ave Maria piena di grazie...
Le Sommatino guardavano la madre. Donn'Antonia, alzato un poco il capo e socchiuse le palpebre, chiese:
—Chi è che è morto?
—Mammà... — rispose Caterina, facendosi animo. — È morto nostro cognato... — Le sorelle intuonarono subito l'altra mezza preghiera: — Santa Maria madre di Dio, pregate per noi peccatori ora e nell'ora della nostra morte, così sia...
—Come hai detto? — ridomandò la madre sempre col capo ritto e le palpebre socchiuse, quasi guardasse lontano.
—È morto Salvatore... Salvatore Pirrone...
—Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre, Gesù. Ah, è morto?...
—Eccellenza sì... stamattina, alle undici... Quella povera Rosalia...! Santa Maria madre di Dio, pregate per noi peccatori, ora e nell'ora della nostra morte, così sia...
—E di che è morto?
—Non lo so... era malato da tanto tempo... Senza medici, senza rimedii... Bisognava far venire un medico da Palermo...
—Ave Maria, piena di grazie... E perché non lo ha fatto venire?
—E come, se non avevano di che mangiare? Santa Madre di Dio...
—Lo ha pagato, quello che ci ha fatto vedere!... — aggiunse Agatina.
—La pena nostra non è tanto per lui, quanto per quella povera sorella... — finì per dire Filippina.
Donn'Antonia riprese, più rapidamente:
—Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre, Gesù.
—La pena è per Rosalia, che la colpa non fu tutta sua... Che cosa sapeva, lei, a sedici anni?... E adesso la sconta amaramente, sola e senza un aiuto...
Come lei insisteva, donn'Antonia suggerì la ripresa della preghiera, brevemente:
—Santa Maria madre di Dio...
—Santa Maria madre di Dio, pregate per noi peccatori, ora e nell'ora della nostra morte, così sia...
—Ave Maria, piena di grazie...
All'altra ripresa, Caterina ricominciò:
—Vi ha disobbedito, è vero, mammà... si è preso uno che non era del suo stato... vi ha dato tanti dispiaceri... ma adesso! se la vedeste, non si riconosce più... Vuole buttarsi ai vostri piedi... per chiedervi perdono... Sapete: non ha come fare, non ha più nulla!... Volete che venga a domandarvi perdono?...
—Padre nostro che state in cielo, santificato il vostro nome... — Interrompendosi un poco, cogli occhi sempre socchiusi, donn'Antonia disse: — Di chi stai parlando?
—Di Rosalia, mammà... di vostra figlia...
—Venga a noi il vostro regno, sia fatta la vostra santa divina volontà... Io non ho figlie di nome Rosalia. Mia figlia è morta... Così in cielo come in terra... — E suggerendo la ripresa alle figliuole, che restavano mute, con le schiene sulle seggiole, continuò sola sino in fondo: — Dateci oggi il nostro pane quotidiano... perdonate i nostri peccati, come noi perdoniamo i nostri nemici...
—Alla tua salute!
E la donna, alzato il bicchiere ricolmo, lo vuotò d'un fiato. Michele Cardullo non rispose. Ripuliva la sua pipa col coltello da tasca dalla lama acuminata e ogni tanto sollevava gli occhi, girando uno sguardo per la corte dell'osteria, dove un crocchio di curiosi, intorno ai giuocatori di boccie, stavano intenti ai colpi.
—Tu non bevi?... Cos'hai?
Allora Cardullo si rizzò sulla seggiola, conficcò il coltello sulla tavola così forte che fece tremare i bicchieri, ed esclamò:
—Lasciami stare, Selina; sangue di Giuda!...
La donna spalancò gli occhi, si chinò dalla sua parte e lo prese pel braccio, mormorando:
—Michele!... Che cos'hai?... Mi fai paura!... Oggi non sei al tuo solito; me n'ero accorta: non parlavi, non scherzavi...
Lui scuoteva la testa, guardando di sottecchi verso un tavolo vicino, dove Rizzotto e Lalumìa giuocavano a briscola, con le carte in aria; intanto che l'altra, carezzandogli il braccio ed abbassando ancora la voce, con una intonazione amorosa, riprendeva:
—Dimmelo, cos'hai... Se non lo dici a me, a chi vuoi dirlo?... Michelino?...
—Cos'ho? — fece lui, liberando finalmente il suo braccio e cavandosi il cappello a cencio per ricalcarselo sopra un orecchio: — Ho che da quindici giorni sono a spasso, capisci!... e se mi vuoto le tasche sotto sopra, sacra miseria! un soldo che è un soldo non ce lo trovo... questo ho, capisci?...
Céline si trasse indietro, abbassando gli occhi, come contristata, e per un poco non disse niente; mentre Michelino, chiudendo e riaprendo il suo coltello, la cui molla scattava con un rumor secco, dava altre occhiate dalla parte delle boccie.
—Ma dal principale non ci sei stato? — riprese l'altra.
—Il principale, cosa vuoi che vada a farci? Per la miseria d'una lira, quando pure c'è, dover esser comandato come un servo!... Io non ci ero avvezzo, a lavorare per conto degli altri... Nell'officina di mio padre, i lavoranti io li pagavo!...
S'era fatto improvvisamente un viso lungo, con un'aria pietosa, continuando a rammaricarsi a voce bassa:
—Questo si busca, a fare il soldato; che quando uno ritorna a casa, trova un mondo nuovo: il padre morto, gli affari finiti...
Intenerita, Céline tornava ad avvicinarglisi, guardandolo cogli occhi umidi.
—Povero Michelino!...
—Per me, capisci — riprendeva lui, lisciandosi i bei baffi biondi — non me n'importa niente: se ho da mangiare, mangio; se no, Dio provvede! Ma è per don Ignazio, a cui non ho potuto pagare il debito; e di queste figure non sono avvezzo a farne...
Si grattò un poco la nuca, scrollando il capo; poi le disse, senza guardarla:
—Tu non puoi darmi aiuto?
Lei s'era tratta nuovamente indietro, raccogliendosi le mani in grembo.
—Io non ho più niente — disse, secco. — Il libretto l'hai visto: quelle trenta lire erano l'ultime...
—Che cosa ne facesti?...
—Cosa avevo da farne? — esclamò l'altro voltandosi con un moto brusco, quasi avessero sospettato di lui. — Le diedi a don Ignazio; tant'è vero che ha aspettato finora, se no m'avrebbe messo fuori di casa!... Ma non dubitare, che ci arriverà...
Vi fu un silenzio. Cardullo, col gomito sulla tavola e il mento nella mano, guardava i giuocatori battendo nervosamente un tacco: Céline si passava una mano fra i capelli, raccogliendo dietro le orecchie le ciocche che cominciavano a farsi grigie.
—Oggi non è il primo del mese? — chiese l'uomo.
—Il primo.
—...La mesata l'hai avuta?
Céline chinò un poco la testa, assentendo.
—Cosa sono, quindici lire?
—Quindici.
Michelino colmò di vino il bicchiere, ne bevve mezzo, e porse il resto all'amica, che rifiutò col gesto.
—Grazie; ne ho già troppo.
—Un sorso, con me!... Qui, dove ho bevuto io...
Lei vuotò nuovamente il bicchiere. Il suo viso magro e pallido si animò. L'altro, incrociate le braccia sulla tavola e appoggiatovi il capo come sopra un guanciale, con la schiena piegata in due, le disse, piano, guardandola fisso.
—Stasera... non potresti venire?...
Gli sguardi di Céline si animarono, intanto che lui, avanzando un piede sotto la tavola, le premeva un ginocchio.
—Stasera? — rispose lei, con la bocca leggermente dischiusa, quasi abbandonandosi. — Sì, stasera...
—Ma se sei uscita oggi?... — insisté l'altro, porgendole il bicchiere ancora ricolmo.
—Non importa... verrò... Lo dirò ai padroni... Balbettava, rispondendo alla pressione del ginocchio di lui, mettendo anche lei il braccio sulla tavola per urtare gomito contro gomito.
—Sei contenta?...
—Sì, sì... E senti... i denari ti servono proprio per don Ignazio?...
Egli si rialzò, offeso.
—Non mi credi? Quante volte debbo dirlo? Per don Ignazio, naturale! O per chi dovrebbero servirmi?...
—Va bene, va bene... Ma altre donne non ne cerchi?... dimmi la verità, ne cerchi altre? — e gli piantava gli occhi negli occhi, gli afferrava di nuovo il braccio, stringendolo da fargli male.
—Ahi, ahi!... No, Bella Madre! non ne cerco!... ahi, ahi!...
Si strofinava adesso la manica, con una smorfia tra dolorosa e sorridente; intanto che lei, minacciando col gesto, diceva:
—Se non è vero!... se mi dici una cosa per un'altra!... ti verrò a strozzare, con queste mani!...
Lui sorrideva schiettamente, dimenandosi sulla sedia, arricciandosi i baffi di cui guardava la punta.
—Io dico sempre la verità!... Non cerco nessuna — e, rivolgendole uno sguardo di finta paura, piegando un poco il capo indietro, quasi in attesa di un colpo, aggiunse: — Al massimo... sono esse che cercano me...
—Dillo un'altra volta!... — esclamava lei, tra sdegnata e compiacente, levando il braccio.
—No... m'arrendo!... — rispose l'altro, facendosi tutto umile, strisciando il capo sulla tavola, con la bocca semi—aperta, come un cagnolino che domandi pietà.
E Céline gli si fece nuovamente accosto, tutta tremante:
—Lo sai bene, vile, che puoi farmi quel che ti piace!... lo sai bene... e ne profitti, vile!... — Si ripeteva, impappinandosi, con la lingua impacciata, urtando col gomito nell'ascella di Michelino, che si solleticava.
—Ma giurami che non mi farai le corna, perché sono vecchia...
Lui protestò, ridendo:
—Quelle dell'uomo non sono corna!
—Sì, che sono corna!... Non m'importa: giurami... giurami che non me ne farai...
Michelino stese la mano, serio in viso, giurando: — Bella Madre!...
—Allora... prendi...
E cavato di tasca un fazzoletto dove aveva fatto un gruppo in un angolo, sciolse il nodo, cavò dei biglietti, e li contò, lentamente, stropicciandoli per toglierne via le pieghe.
—Cinque... dieci... quindici... ecco qua: non ce n'è più — e si passò due volte una mano sull'altra. Ma prima di darglieli, ammonì ancora: — Purché servano per don Ignazio!...
Lui lasciò i biglietti dov'erano e versò dell'altro vino, costringendo Céline a bere ancora un sorso.
—Adesso, basta... — biascicava lei, alzandosi, raccogliendo lo scialle per buttarselo addosso; ma non riusciva a piegarlo pel suo verso. — Opera del diavolo!... Mi par d'essere per mare!...
Michelino prese allora i biglietti, li piegò in quattro, e ripostili nel taschino del panciotto si alzò anche lui, salutando in giro i giuocatori. La donna gli si appese al fianco, barcollando, e come furono nella retrobottega, dove non c'era nessuno, gli si strinse tutta addosso, palpandolo.
—Stasera?... E perché non ora?...
Lui la scostò, bruscamente:
—Ora non può essere... Stai ferma, che ci vedono...
Dinanzi al banco dell'oste, per pagare, cominciò a frugarsi in tutte le tasche.
—Dove li ho messi?... Guarda un po'!... Bisognerà scambiare...
Allora Céline disse:
—Lascia andare... Soldi ne ho...
Pagò lei lo scotto, e sull'uscio, intanto che Michelino si adattava meglio il cappello e dava dei buffetti ai capi della cravatta, ripeté:
—Stasera dunque?... all'ave?... Aspettami!...
Se ne andò verso casa, buttandosi indietro lo scialle, pel troppo caldo, urtata di qua e di là dai passanti; e come il portinaio la vide arrivare, accesa in viso, cogli occhi stralunati le domandò:
—Cosa v'è successo?
—Successo?... Niente!... Fa caldo...
Si appoggiò un poco al muro del vestibolo, guardando intorno vagamente, senza dir niente. Dopo esclamò:
—Andiamo! Vi saluto.
—Tante cose!
E quello le fece dietro il segno del trincare.
Per le scale, lei si teneva al bracciuolo, fermandosi spesso a tirare un "auff!". Su in cima, bussato che ebbe, le venne ad aprire Tano, il ragazzo.
—Dove siete stata, tanto tempo?... Buon'è che i padroni sono fuori!
Lei rispose borbottando qualche cosa, e se ne andò nel suo stanzino, a svestirsi. Non ne usciva più. Tano, non vedendola comparire, si mise a chiamarla:
—Ohè, che siete andata a letto?... Le camicie me le lasciate fra i piedi?... Sapete che la padrona le vuole trovar pronte...
Lei comparve, col corpetto mezzo aperto, trascinandosi un poco. Prese i ferri, li guardò lungamente di sotto e di sopra e venne dinanzi al fornello per metterli sul fuoco.
—Buono!... Le camicie si faranno... Col tempo, eh!...
Ma sul fornello c'era la casseruola dello stufato, che fumava, canterellando; e urtatala malamente, Céline la rovesciò. Al rumore, Tano accorse.
—Lo stufato!... Vecchia stolida!... Che non ne avete occhi?... E adesso come faccio?... — gemeva, rimettendo a posto la casseruola mezza vuota.
—Non sono stata io... è il carbone! — diceva Céline.
—Il carbone dovrebbero passarvelo sulle mani!
—Non sono stata io!...
Intanto che il ragazzo bestemmiava, lei cercava di allacciarsi il corpetto; ma non ci riusciva. Poi, impugnato il ferro col cuscinetto di stracci, se ne andò al tavolo da stirare, vi spiegò una camicia e cominciò a ripassarla.
—Uf, che caldo!
Di tanto in tanto, girava il capo, in cerca d'aria, e si apriva di più il corpetto. Un leggiero odore d'arsiccio si diffondeva per la stanza; il ferro, lasciato un pezzo sulla camicia, la bruciava. Allora lei la avvolse fitta e la buttò in un canto.
—Ho sete.
Andò nuovamente in cucina, a versare l'acqua dalla brocca in un bicchiere; ma ogni cosa le scappò di mano, con un fracasso di rottura, mentre l'acqua allagava il pavimento.
Giusto in quel punto risuonò una scampanellata e sopravvenne la padrona.
—Sciagurati!... Animali!...— esclamava, ferma sulla soglia. — Guardate!... Guardate che rovina!...
Ed avanzava in punta di piedi, tenendo sollevato l'orlo della veste perché non s'inzuppasse in quel lago.
—Chi è che ha fatta questa rovina?... Siete ammutoliti?... — e come l'acqua guadagnava ogni angolo della cucina, la sua collera cresceva: — Guardate un poco!... Una brocca nuova!... Ma si può sapere, sì o no, chi è stato?...
Il ragazzo protestò, stringendosi nelle spalle:
—Non sono stato io.
—Allora, è un servizio vostro? — chiese a Céline, piantandosele in faccia.
—Io?.. Che so!... So molto, di servizio...
Si era buttata a sedere sopra una vecchia sedia, spagliata, senza spalliera, e la schiena le s'incurvava, la testa le pendeva, cogli occhi che giravano attorno, vitrei, senza sguardo.
Come il fiato avvinazzato della donna le colpì le nari, la padrona si trasse indietro.
—Dove siete stata, alla taverna?... Datevi da fare, adesso!... Asciugate il pavimento!
E se ne andò nelle sue stanze, tenendosi ancora la veste rialzata; ma Céline non si mosse. Tano, buttato per terra, faceva imbevere dell'acqua riversatasi gli strofinacci che poi torceva in un bacile; e come l'altra restava a guardare, col capo penzoloni e gli occhi imbambolati.
—Vi dolgono le gambe? — le andava dicendo. — Volete che vi porti una poltrona di quelle del salotto, eh, vecchia stolida?... Così starete più comoda!
Lei masticava parole senza nesso, incollerita, guardandolo fisso; ma l'altro le tirava la lingua:
—Sbraita, ubbriacaccia!...
—Zitto, sai!...
—Ubbriacaccia!...
—Zitto, sai!...
—Ubbriacaccia puzzolente!...
Alle voci, tornò la padrona; più irritata di prima.
—Cos'avete?... Volete star zitti, o vi caccio fuori a pedate tutti e due?
Céline si lagnava ancora, sommessamente; ma come la signora scoperse la camicia bruciata e buttata in un angolo, ripigliò per conto suo:
—E queste camicie?... Chi le ha pestate così?... Siete stata anche voi?...
—Io... le camicie... — Cercava le parole; poi disse risolutamente, come ricordandosi: — Sissignora, si debbono stirare!
—Ah, si debbono stirare?... E questa qui chi l'ha bruciata?
Gliela mise sotto il naso, spiegazzandogliela in faccia e gridando:
—Bruta!... Animalaccia, ubbriaca!...
L'altra si difendeva, tirando indietro il capo, agitando in aria una mano, come una zampa, e balbettava:
—Come?... come ha detto?
—Ubbriacaccia!
Il ragazzo se la stava a godere, ma in quel punto il campanello che squillò nuovamente lo fece accorrere. Rincasava il padrone coi bambini.
—Non sai niente?... — disse la signora al marito, tutta scombussolata. — Quella bruta si è ubbriacata... è ubbriaca fradicia! Ha rotto una brocca e un bicchiere, allagata la cucina, bruciata una camicia!
—Non bisognava lasciarla andar fuori! — rispose il professore, e i bambini stavano a sentire, curiosamente.
—Andiamo a vederla!... — propose il più grande.
—Non vi movete di qui! — ingiunse bruscamente la madre.
—E adesso cosa fa?
—È buttata per terra — disse Tano — come un animale.
La signora andava adesso di su e di giù, per mettere in ordine la casa, col servizio che mancava; ed apparecchiava lei stessa la tavola, facendosi aiutare dai figliuoli, poiché si avvicinava l'ora del desinare. Ma giusto in quel punto s'intese un passo lento, strascicato, avvicinarsi dalla cucina, e Céline comparve, cogli sguardi stravolti, i pomelli rossi, i capelli disordinati, reggendo una pila di piatti.
I bambini si accostarono istintivamente alla mamma, e la signora stette un momento in silenzio, vedendo già le stoviglie per terra.
—Cosa fate qui? — disse finalmente. — Posate i piatti! Andate in cucina!
—La tavola, apparecchiare, — biascicò l'altra, appoggiandosi al muro, con le gambe che le si piegavano.
—Andate in cucina!... — riprese la padrona, ma non gridava troppo, e le si avvicinava con precauzione, per paura di una nuova rovina.
Come la videro vicina all'ubbriaca, i bambini si strinsero l'uno accanto all'altro, dalla paura. Ma la signora, presi i piatti e postili al sicuro, spinse la donna per una spalla.
—In cucina, v'ho detto! Andate in cucina!
—Eh, caspita!... — esclamò l'altra, con una mano in aria, e se ne andò a lenti passi, lungo il muro.
La tavola era già apparecchiata, con le posate, i bicchieri, la bottiglia del vino, il pane sotto i tovaglioli, quando di nuovo risuonò il passo dell'ubbriaca che si riavvicinava.
—Un'altra volta?... Questa è un'ira di Dio!
—La tavola... — biascicava Céline.
—Andate via! — Ora la padrona, infuriata, quasi urlava. — Via di qua... Volete rompere ancora qualche altra cosa?
—Io non rompere!...
—Volete bevervi quest'altro vino?
—Io?...
—Sì, voi!
—Io non bere...
—Ubbriacaccia bruta!...
—Lei parla, signora mia... ma io non bere, sa!... io non bere!
—Fuori di qui!
—Fuori, in cucina!... — aggiunse il ragazzo, come portava la zuppa in tavola; e si mise a spingerla pei fianchi.
Céline si voltava ancora indietro, aprendo la bocca e gesticolando, come per dire altre cose, senza badare a Tano che la spingeva.
—Che gente!... che gente!... — mormorava la signora, intanto che il professore, prendendo posto a tavola, tranquillamente, e annodandosi il tovagliolo sulla nuca, ripeteva:
—Lasciala stare; non ti guastare il sangue. Adesso andrà a letto, e domani sarà tutto finito.
—Sì; ma se avessi saputo che aveva questo vizio!...
—Lavora bene, però...
Tano, sopraggiungendo con la seconda portata, annunziò:
—Signora, sa? Selina non ha voluta la minestra, e si sta vestendo!
—Vestendo, come?
—Per uscire. È da ridere! Si mette il corpetto alla rovescia, poi dalla dritta, poi se lo toglie un'altra volta!
—Ah, ah!... — i ragazzi, con la bocca piena, si dimenavano sulle seggiole, intanto che la signora scrollava il capo, annoiata.
Quando tutti si levarono di tavola e il professore s'era già ridotto nel suo studio, comparve l'ubbriaca, con lo scialle in testa. La padrona, alzando gli occhi al soffitto per armarsi di pazienza, disse:
—Che c'è di nuovo?
—Signora, me ne vado.
—Dove volete andare?
—Me ne vado, così... buona sera!...
—Voi volete farmi impazzire?... Andate a letto, piuttosto, che non vi reggete in piedi!
—No, io mi reggo... signora mia! Io mi reggo bene... molto bene!... Ih! ih!... — e si mise a piangere.
—Santa pazienza!... — esclamava la signora. — Adesso perché piangete? Che diavolo vi piglia?
Tra i singhiozzi, Céline rispondeva:
—Ah, signora mia!... Lei offende... lei mi offende!... mi dice ubbriaca... che io mi bevo il suo vino!... Io non bevo, signora mia!
La padrona finiva per sorridere, ma faceva segno di star zitti a Tano ed ai bambini, che si tenevano i fianchi.
—E va bene; non bevete, ho detto male; ma adesso andate a riposarvi, che siete stanca: non lo sentite?
—Niente, signora mia! — rispose l'altra, scrollando il capo. — Me ne vado!... Lei mi ha offesa; me ne vado! — E fece per avviarsi.
—La vedremo! — esclamò la padrona.
E passata innanzi, andò a chiudere a chiave l'uscio di casa, portando la chiave a suo marito.
—Quella pazza ubbriaca vuole andar via! Non possiamo lasciarla andare in quello stato... Poi, domani saremmo senza servizio. Ho chiuso l'uscio; ma cerca di persuaderla tu.
Il professore fece col capo una piccola mossa di fastidio; ma posò il giornale che stava leggendo e lasciò la sua stanza.
Céline, sempre con lo scialle in testa, era nella sala, accanto all'uscio, cercando di aprirlo.
—Cosa fate? — disse il padrone. — Non vedete che è chiuso?
—Signore, mi apre?
—Per far che cosa?
—Perché, signore... perché la padrona è... così... un poco offensiva... Mi ha detto che io che io bevo il suo vino... Io, signore, non bere... no, signore!...
Di nuovo, s'inteneriva. Il professore, con un tono di persuasione pacata, rispose:
—Non può essere. La padrona vi vuol bene; non può avervi detto questo. Avrete sentito male...
—No, che ho sentito bene... molto bene!...
—Ma poi, vedete, la padrona era in collera; ha avuto dei dispiaceri, l'hanno fatto irritare...
—Veramente?... — chiese lei, guardando meravigliata e smettendo di piangere.
—E come!... Perciò, se nella collera le è scappata qualche parola, voi non dovete prendervela; non era detta per voi.
Lei restava a pensare, scuotendo appena il capo, come sul punto di persuadersi, intanto che il padrone riprendeva:
—Poi, vi ho detto niente, io?... Le donne sapete come sono, hanno tante cose per la testa. Ma il padrone sono io, ed io v'ho forse rimproverata?...
—Lo so... lo so... Lei è buono!... ma niente, signore... me ne vado!...
Il professore tacque un poco, per ripigliar fiato, poi disse:
—E se volete andarvene, io non posso tenervi per forza. Ma ve ne andrete domani, col giorno; vi porterete tutte le vostre robe, sistemate; non ora, che sta per imbrunire.
Allora ella disse fermamente, con voce un poco stridula:
—Niente, signore... Quando ho detta una cosa, quella è. Mi apre?
—Non vi apro un corno! — gridò il padrone.
Tranquillamente, l'altra rispose:
—È inutile inquietarsi; io ho detto che me ne vado, e me ne vado!
Il professore l'aveva piantata e se n'era tornato nel suo studio, a sfogarsi con la moglie.
—Ci mancava proprio questa seccatura, stasera!
—E mi piace che te la pigli con me!
—Me la piglio con te, perché non bisognava mandarla fuori... È una buona cameriera, in tutto il resto; ma non bisognava darle l'occasione... Adesso mi dirai come finisce!
—Come vuoi che finisca? Non darle retta; la porta è chiusa: non potrà sfondarla, infine!
Egli passeggiava ora in lungo e in largo per la stanza, senza rispondere a delle leggiere picchiate che davano all'uscio, dall'altra parte. Di tanto in tanto si sentiva la voce di Céline: "Signore, mi apre?...". Il professore fingeva di non sentire; ma come non otteneva risposta, l'altra riprendeva più forte; finché egli, spazientito, dischiuse la porta.
—Chi diavolo è?
—Signore, mi apre?
—Un'altra volta?... V'ho detto che ve ne andrete domani... Dove avete imparato a lasciar così le case della gente?... senza che uno si sia trovata un'altra cameriera?... Chi ci servirà stasera?... — A poco a poco, il professore si faceva più persuasivo e più insinuante. — Mi lascerete così, stasera? E chi mi farà il caffè? dovrò farmelo da me? E i bambini, vediamo, chi li spoglierà, poverini? chi li metterà a letto?
Lei stava per piangere un'altra volta, dalla commozione. — Sissignore!... Sissignore!... Ha ragione!...
—Vedete? Dunque, tornate dentro, riprendete il vostro lavoro; e poi domani ne riparleremo...
L'ubbriaca, infatti, se ne andò in cucina, e il professore, tratto un sospiro, ripassò nel suo studio.
—Si è persuasa, finalmente! — disse a sua moglie.
—Purché non ricominci quando Tano se ne andrà!
—Già!... Allora, senti che cosa facciamo: lo faremo andar via di nascosto.
Così mentre Céline si dava da fare in cucina, il ragazzo, che non riusciva a frenar le risa, perché l'ubbriaca canterellava adesso allegramente canzonette francesi, se la svignò; e l'uscio fu richiuso a chiave.
Il professore e sua moglie stavano facendo dei conti, intanto che i bambini giuocavano, quando Céline ricomparve, con lo scialle di nuovo sulle spalle.
—Che c'è ancora?
—Il caffè è fatto... i letti pure... Adesso, mi apre?
—Questa ubbriacaccia non ci lascerà in pace! — esclamò la padrona.
Ma il professore la prese per una spalla, la guidò fin dinanzi all'uscio di casa e disse, facendo finta di sforzarsi a tirarlo:
—Vedete? È chiuso a chiave. E la chiave s'è perduta! Non può uscire nessuno, neanch'io. Domani, se non verrà il fabbro, moriremo di fame...
Céline guardò il padrone, cogli occhietti luccicanti, dimenandosi un poco sul busto.
—Lei fa la commedia, eh?... Lei ha la chiave... Tano se n'è andato...
—E voi non ve n'andrete... gridò. — Non posso farvi andare così; — riprese, più calmo; — non sentite che avete la febbre?... Se vi succede un guaio per istrada?
Annaspando con le dita, l'altra disse allora:
—Non succede niente!... Lei ci ha in testa, che io, così, abbia bevuto... Lei non credere che io bevo!...
—E va bene; ma adesso è notte; le donne che si rispettano non vanno sole di notte per le strade!
Sopra un tono musicale, e con uno sguardo duro, Céline rispose:
—È inutile! Me—ne—vado.
Il professore si mise a passeggiare per la stanza: ogni volta che le si avvicinava, lei lo guardava paurosamente, quasi fosse minacciata. Stettero un poco in silenzio.
—Céline, ditemi una cosa, — riprese l'altro; — di che paese siete?
—Di Lione, signore...
—Ed è molto tempo che non siete tornata in Francia?
—Venti anni, signore... venti anni!...
—E vostro marito è morto lì?
—Nossignore... è morto a Milano, che è morto... Ah, poveretto... lui mi rispettava!... lui non mi lasciava far la cameriera... Questo fu quel socio assassino, che il Signore possa perdonarlo.
—Che socio era?
—Socio che aveva la dolceria, signore; di confetture, sissignore... E così, gli rubava tutte cose... che mio marito si fidava, vedete... e lui teneva la cassa... E poi, così, è morto... ed io mi sono messa a cameriera; e sono stata con l'ammiraglio Franchi... che era tanto un buon signore, non disprezzando lei... e la signora pure, che riceveva, così, l'amico; di nascosto del marito, e mi faceva tante cose, poveretta... come ad una sorella!... E poi sono stata anche a Napoli, a Roma, sissignore; con la principessa Tripoli brava signora!... che era, così, separata dal suo marito... e la manteneva il marchese Daura...
—Davvero? Ah! Ahi
—Eh! sissignore... quante ne ho viste, io... quante!... — e di nuovo minacciava di intenerirsi.
—Che cosa eravate, femme de chambre?
—Femme de chambre, oui monsieur!
—Credete che io non sappia il francese? Venite un poco con me...
La condusse nel suo studio, aprì una libreria, prese un volume e gliene fece vedere il frontespizio.
—Come fa qui?
—Essai sur l'esprit. Questo è bello!...
—L'avete letto? — chiese il professore, ridendo sotto i baffi.
—Sissignore!
E ad uno ad uno, il padrone le mostrò tutti i libri francesi, lasciandole leggere i frontespizi, senza stancarsi, arricciando soltanto il naso alle zaffate avvinazzate dell'ubbriaca; poi, ad un tratto, lei esclamò:
—Adesso, buona sera; me ne vado.
—Un'altra volta?
Il professore rimise i libri a posto, chiuse lo scaffale e le disse:
—Non potete andarvene, perché siete digiuna; non avete preso un boccone! Posso farvi andar via digiuna?...
Lei si mise a scrollare il capo.
—Lei è buono... è caritatevole... ma io me ne vado!
—Io vi dico che non ve ne andrete!
—È inutile...
—Non ve ne andrete, avete capito, corpo del diavolo?...
—È inutile...
—Ubbriacaccia!
—Lei può parlare; ma io me ne vado...
Allora egli la spinse fuori dello studio e si chiuse dentro. Venne sua moglie:
—Siamo sempre da capo?
—Stasera non finisce bene...
—Sai che vogliamo fare? Annotta: accendiamo i lumi e fingiamo di andare a letto. Ci chiuderemo nelle nostre stanze. Finirà per coricarsi anche lei...
Fecero così; ma mentre accendevano i lumi e si chiudevano nelle stanze coi bambini, Céline, più insistente, con voce più stridula, attaccandosi al braccio del professore, esclamava:
—Mi apre?... Mi apre?...
—Andate a dormire!
Come si furono chiusi, il professore ingiunse ai bambini, a voce bassa:
—State zitti!... Bisogna fingere di dormire.
E si misero tutti ad origliare dietro l'uscio, per sentire che cosa faceva l'ubbriaca.
—Minchione!... — diceva Céline, rimasta sola al buio. — Cosa crede?... Io me ne vado... Eh!... All'ave.... me ne debbo andare!... Credono di farmela... bella questa commedia!... — A voce più alta, riprendeva: — Signore, mi apre?... signore?...
Il professore, cominciando a perder la pazienza, diceva piano a sua moglie:
—Credi pure che questa vecchia non smetterà!
—Se vuoi lasciarla andare!...
—Ma adesso è notte proprio... Se cade per istrada, se la schiaccia una carrozza, che cosa diranno di noi?...
—Signore, mi apre? — gridava adesso Céline, borbottando un'altra filastrocca incomprensibile.
Poi tacque, ma s'intese il suo passo avvicinarsi all'uscio, su cui venne a picchiare.
—Signora, buona sera; me ne vado.
I bambini dettero in una risata.
—Volete star zitti? — ingiunse il professore irritatissimo, intanto che l'altra ripeteva:
—Lei è alzato, signore; mi apre?
Vi fu un nuovo silenzio, quando a un tratto l'uscio cominciò a scuotersi, dai calci, dai pugni che l'ubbriaca vi assestava.
—Me ne vado... buona sera...
—Ah, sì?...
Come una furia, svincolandosi dalla moglie che cercava di trattenerlo, il professore corse ad afferrare un bastone e schiuse l'uscio con violenza.
—Non la volete finire?
—Mi apre!...
—Ah, no?... — e le assestò una prima legnata.
—Aiuto!... Me ne voglio andare... Aiuto!...
Allora, uscito dalla grazia di Dio, il professore cominciò a picchiar sodo, col bastone, con le mani. Buttata per terra, l'altra gettava acute strida, intanto che la padrona correva a chiudere le finestre perché i vicini non sentissero, e che tornava vicino al marito, scongiurando:
—Lascia che se ne vada!... per carità... lasciala andare!...
Con le mani rosse, cogli occhi accesi, il professore andò a schiudere l'uscio di casa.
—Esci, troiaccia!... Esci, o t'accoppo!...
Gemendo, tastandosi per tutto il corpo, Céline non si muoveva, e poi che il professore minacciava di ricominciare, la signora la sollevò lei, spingendola fuori.
—Andatevene... presto!... scappate!...
Come fu sul pianerottolo, Céline tacque. Si passò le mani sulla faccia, si mise lo scialle in testa, e cominciò a scendere i gradini della scala, ad uno ad uno, barcollando. E barcollando, costeggiando i muri, minacciata dai cavalli, dalle fruste dei cocchieri nel traversare le vie, se ne andò verso la Vicaria, per le straducole strette e sporche che adesso erano mezzo buie e deserte. Dietro i magazzini di Vasta, fermossi dinanzi ad una casupola e picchiò alla porta tarlata.
Non rispose nessuno, ma si sentivano delle voci venire dall'interno.
Céline riprese a picchiare più forte, e come non aprivano ancora, cominciò a chiamare:
—Michelino!... Michelino!... Sono io... Apri, sono io!... È tardi... Quei porci non volevano lasciarmi andare... Ahi!... sono tutta pesta...
Non aprivano neanche adesso. Per la strada non passava nessuno e solo si sentiva da lontano il martellare dei guardiani, sulle grate del carcere.
—Michelino!... — gridava Céline, picchiando più forte come le voci dall'interno si facevano più allegre, con dei canti e un tintinnio di bicchieri. — Michelino... non sei solo!... Me l'hai fatta, porco!... Con chi sei?... Apri, Michelino... Mi hai detto tu di venire!... Chi è questa ciabatta?... Ti sei presi i miei denari, ladraccio svergognato!... Sono stata picchiata per te!... Aprimi, Michelinuccio...
Poi di nuovo urlava, poi si faceva ancora supplicante, poi tempestava: "Apri!" finché l'uscio si spalancò improvvisamente.
Come la donna voleva irrompere nella camera, Michelino le dette uno spintone violento, mandandola per terra in mezzo alla via.
—Sangue di Giuda, che cimice!
E tornò dentro, sprangando.
Erano seduti sulla panchetta a strisce gialle e rosse, sotto i platani nudi, e il viale del giardino si allungava dinanzi, allagato dal sole, tra due file di statue sulle basi delle quali l'edera s'abbarbicava. In fondo, la montagna tutta candida di neve, come una campana di zucchero.
Uno era piccolo, giallognolo, con un collare di barba bianchissima: teneva una fascia di lana sulle spalle e le mani appoggiate al pomo d'avorio antico di un grosso bastone. L'altro era robusto, rosso nel viso tutto sbarbato e liscio malgrado l'età: il colletto della camicia si abbatteva sul bavero della giacca di panno grossolano, mostrando a nudo il collo bronzino. In mezzo a loro, due soldati che parlavano in dialetto.
Il grande vecchio gettava di tanto in tanto delle occhiate timidamente curiose sui militari, esaminando le ghette di tela che ricoprivano gli scarponi, i pantaloni filettati di rosso, le stelline del bavero, la sciabola—baionetta. D'altro lato, il piccolo vecchio si passava a momenti una mano sulla bocca, tossiva, si guardava intorno, come preparandosi a dire qualche cosa e non sapendosi ancora decidere.
Rannicchiatosi meglio nel suo angolo, chiese finalmente:
—Lor signori sono continentali?
I soldati continuavano a parlare, come non fosse.
Dopo un poco, egli tossi di nuovo, più forte e riprese:
—Di che paese sono lor signori?
—Mi sun mudnes — rispose il soldato che gli stava vicino, e riattaccò il discorso col suo compagno.
Il vecchio parve meditare un poco quella risposta; cavò di tasca un fazzoletto a scacchi rossi e neri; si soffiò il naso scuotendo il capo, rimise in tasca il fazzoletto dopo averlo piegato accuratamente, e ripigliò:
—Quanto hanno ancora da stare sotto l'armi?
Il soldato chiese, bruscamente:
—Cuss l'ha ditt?
—Dico, se tornano a casa presto?
—Minga adess! — e si mise a ridere.
L'altro vecchio stava a sentire, guardando discretamente. Pel viale, a quando a quando, una carrozza sfilava, al passo; dei ragazzi si rincorrevano, sotto gli occhi delle governanti.
Come i soldati si alzarono, una balia venne a prendere il posto vuoto. Il bambino girava intorno gli occhi senza sguardo, col braccio disteso, annaspando.
Il piccolo vecchio riprese ad armeggiare, cercando di attaccar discorso. Sorrise al piccolino e gli mise sotto il naso il manico d'avorio del suo bastone.
—Bellino!... Bellino!... Come si chiama?
Quello fece una smorfia e scoppiò in pianto.
—La ninna, Ninì; bello Ninì... — ripeteva la balia, sballottandolo. — La ninna di mamma tua...
Ma come il vecchietto gli mostrava ancora il pomo d'avorio, il bambino ripigliava a piangere. Della gente si fermava; due seminaristi che si tenevano per mano ridevano.
Esaurito ogni tentativo, la balia andò via. I pretini sedettero al posto lasciato vuoto. Si cavarono entrambi i tricorni, posandoli sulle ginocchia, e avvicinate le teste tonsurate, cominciarono a parlottare.
Il vecchietto esclamò:
—Bel tempo!... — Poi, rivolgendosi ai seminaristi: — Avete la passeggiata tutt'i giorni?
—Tre volte la settimana — e non gli dettero più retta.
Allora egli si mise a scavare la terra con la punta del bastone, masticando a vuoto; e come i pretini se ne andarono via anch'essi, tenendosi sempre per mano, egli si trascinò, lentamente, senza alzarsi, verso il grande vecchio, in modo che nessuno potesse sedersi più in mezzo. Arrestandosi a fianco del vicino, guardò per aria e disse:
—Bella giornata!
L'altro rispose subito, con un tono di deferenza:
—Bellissima giornata, sissignore!
—La neve è a Nicolosi — e additava la montagna. — Nicolosi è qua; lì c'è Trecastagni... Dall'altra parte, se uno scavalca il Mongibello, trova Bronte. Ci siete stato, a Bronte?
—Io, nossignore.
—Io ci sono stato molto tempo, dopo il sessanta, un affare di ventisei anni addietro... misuratore del catasto, che non era una cosa liscia... Bisogna sapere, già, prima di tutto, che coi Brontesi non si scherza... a segno, che successero i fatti del sessantuno...
Fece una piccola pausa, aspettando di essere interrogato; come l'altro lo guardava rispettosamente, pendendo dalle sue labbra, riprese:
—Io glie l'avevo detto, in Casino, ai signori, proprietari, civili, che il popolo non mi andava, e guadagnava la mano ogni giorno di più. A chi dicevo, a questo bastone?... Avevano il capo alla politica, che doveva arrivar Garibaldi, e i borbonici se ne stavano rintanati nelle loro campagne. "Ma badate che la mala gente va attorno!... che tiene consiglio nella taverna di Piede—di—banco!... che un giorno o l'altro non potremo più scender nelle vie!...".
—Giustamente!... — approvava l'altro, chinando il capo.
Il vecchietto si grogiolava dentro il soprabito, si adattava meglio la fascia al collo, si tirava le maniche sulle punte delle dita e riprendeva:
—A chi dicevo, a questo bastone? Niente!... Invece, davano loro fucili, polvere e palle, col pretesto della rivoluzione; come se non fossero bastati i temperini, certi temperini lunghi così, che ognuno di quegli amici portava alla cintura!... Ma tanto va la secchia al pozzo, finché si rompe! E lascia fare oggi, e lascia far domani, finì col sacco e fuoco...
—Madonna del Carmine!
—Il pretesto erano le tasse, che l'annata era stata cattiva e l'esattore succhiava il sangue della povera gente. Ma la vera tassa era la vendetta, e il denaro del prossimo. Voi mi avevate fatto un torto? Io venivo a casa vostra, a farmi giustizia con le mie mani, sfondando, bruciando, ammazzando...
—Ma i civili, niente?... — chiese l'altro, passandosi una mano sul mento.
—I civili?... Volevano scendere in piazza; non mandarono a chiamare anche me? Fossi stato pazzo! Quando lo dicevo io, che si poteva mettere un riparo senza ammazzare una mosca, nossignore: "Questa è polvere! Questi son quattrini!... Abbasso Francesco II!...". Ora che il popolo si scatenava contro i cappelli, bisognava andare incontro a morte sicura; che prima di scendere in istrada dovevate confessarvi e comunicarvi!... Com'erano curiosi! Pelle una ne abbiamo, e pelle per pelle, sapete come si dice, meglio la tua che la mia!...
—Eccellente!... dice bene vossignoria!...
—Se dico bene! Dio ci liberi a furore populi!... — Allora, il vecchietto si mise a sentenziare, con un'aria di beatitudine, alzando un dito per aria: — Il popolo è come una bestia di cavallo, generoso, che si fa caricare come un asino, ma guai a toccargli la coda. Così sentite i giornali pigliarsela col governo, perché intasca le tasse. Io vorrei dir loro: O bestie, se pagate le tasse non avete il gas, le ferrovie e le scuole gratis?
—Sissignore! Tal'e quale!
Il grande vecchio approvava sempre, deferentemente, tutti gli argomenti dell'altro che citava la gazzetta e vantava la propria esperienza.
—Io ne ho visto di tutti i colori, e mi fanno ridere, quando dicono!... Questi che adesso vedete consiglieri e commendatori, prima erano borbonici più di Satriano. E non parliamo di chi mise fuori una bandiera al 48 o al 60! Invece, chi ha fatto il suo dovere!...
Com'egli si fermò un momento, piegando il capo a destra e a sinistra, l'altro che si grattava un orecchio volendo parlare anche lui e non osando interromperlo, disse:
—Anch'io ho vista la rivoluzione.
—Sì? O quando?
—A Leonforte, nel quarantotto... Ecco qua: io ero a Caltanissetta, col mio padrone, l'intendente Ramondino, il prefetto di quei tempi. Un giorno, arriva un galantuomo da Leonforte, in carrozza, con una bandiera a tre colori; ma non diceva niente. La popolazione, come le mosche. Che si fa, che non si fa, l'intendente lo manda in fondo a un carcere... Tutt'in una volta, arrivano quelli di Palermo: "Se gli torcete un capello, qui non resta pietra su pietra; ci sono ventimila Palermitani pronti a marciare!". Voci, grida: "Viva Palermo!" e il galantuomo è liberato, che mentre si parlava di morte, festa e quarantore! L'intendente, visto come si mettono le cose, mi chiama e dice: "Calogero, io son padre di famiglia, dice, e me ne vado a Napoli: tu fai quel che ti piace: ma se vuoi venirtene a Napoli, ti raccomando di portarmi la roba...". Allora, c'era la bella gioventù, e la gioventù non conosce pericoli. Nientedimeno, me ne andai dal mio padrigno che era una bestia, sant'anima, più di me. Dico: "Il padrone vuole che gli porti la roba a Napoli; che cosa debbo fare?". "Portala" dice, "il padrone è un brav'uomo, tu sei giovane"; poi, dice: "carcere, malattia, necessità, si conosce l'amistà". Sia fatta la volontà di Dio; metto la roba in tredici carri, e la carrozza con la serva che fanno quattordici, e me ne vado per Castro—Giovanni. Arrivo a Leonforte. La piazza, piena come un uovo, e appena mi vedono: "Questa è roba dell'intendente; diamola al fuoco!". Viene uno e m'afferra pel colletto: "Tu ora vai fucilato!".
Il narratore s'era alzato, facendo il segno, con le braccia un po' tremanti, di sparare un fucile; l'altro, ammutolito, spingeva gli occhietti curiosi sul compagno ancora imponente malgrado la curvatura dell'età.
—Immaginate un po' che spavento!
—Cose viste con quest'occhi; non racconto favole! Dunque, Beppe Franco, non so se vossignoria l'ha sentito nominare, un pezzo di giovanotto alto così, punta il fucile e dice: "Carogna, sei morto!...". Frattanto, diciamo che il padrone, prima di partire, mi aveva consigliato: "Fatti una coccarda coi tre colori; se mai, ti potrà servire". Io avevo fatto la coccarda, e la tenevo sotto il ferraiolo, che non si vedeva. Allora, come Beppe Franco fa per sparare, io apro il ferraiolo e mostro i tre colori... Se no, ero spacciato! Ma andiamo che la popolazione gridava sempre: "A morte!... fucilato!..." e i carrettieri che tremavano come foglie! Viene quello, e dice: "Consegniamolo al comitato!". Mi tirano al comitato, che appena entriamo il portone si chiude dietro. Chi parla di qua, chi parla di là, e non si sapeva di che morte dovessi morire. Al comitato, c'era il cavaliere; il cavaliere San Vincenzo; e come mi vede, che ero stato anche al suo servizio, 'viene a dirmi: "Chi dia volo ti porta qui?". Io gli racconto tutta la storia, che venivo con la roba di Ramondino, e non sapevo niente. Frattanto il presidente mi domanda: "Di che paese siete?". Io dico: "Eccellenza, sono di Girgenti". Voleste vedere? Il cavaliere mi butta le braccia al collo: "È di Girgenti! Il primo paese che si è ribellato! Viva Girgenti! Viva la libertà!...". E così il mio paese porco mi salva la vita...
—Oh! Oh! Oh! — Il vecchietto si dimenava sulla panchetta, dal piacere, dalla meraviglia. Un piccolo cerinaro si era fermato lì innanzi e stava anch'egli a sentire.
—Allora, il comitato dice: "Facciamolo accompagnare a due miglia di via e se ne vada dove gli piace". Prima, vogliono le chiavi delle casse per vedere se c'era niente. Io dico: "Le chiavi non ve le posso dare, per la ragione, dico, che le ha il padrone". Un altro casa del diavolo! Basta, come Dio vuole, cinque nobili, gran signori, cacciatori, mi mettono in mezzo, per accompagnarmi a due miglia fuori il paese; una folla, gran quantità di torcie, fucili e pistole, le donne alle finestre: l'inferno! Il cavaliere mi tira pel soprabito e ci perdiamo in mezzo alla gente. Cammina, cammina, entriamo in una farmacia; il cavaliere mi raccomanda allo speziale e se ne va. Resto tre giorni chiuso; al terzo giorno, so che la roba è partita per Troina. Scappo, di notte; raggiungo la roba e la carrozza con la serva, e arrivo a Troina. Appena arrivo, viene uno, armato come un porcospino, e domanda: "Che roba è questa?". Quella bestia della donna non risponde: "È la roba dell'intendente? ". Come se fossero tempi! Ma quello, vedendomi tramutato in faccia, dice: "Denari ve ne trovate?...".
—Meglio! — e il vecchietto strizzava un occhio, con aria d'intelligenza. Adesso anche il giardiniere si era avvicinato, e tutti restavano in ascolto come dinanzi ai cantastorie della Marina.
—Meglio difatti! Mi restavano, di denari, trent'onze, delle cinquanta che mi aveva consegnato il padrone; ne do dieci: "Bastano dieci onze?". Dice: "Vedremo quel che si può fare". E mi nasconde in un magazzino. Torna un giorno dopo: "Bisogna aspettare, dice; denari che ne avete ancora?...". A farla corta, tutte le trent'onze se ne vanno, a poco a poco. Allora faccio una pensata, di scrivere al padrone... Che padrone e padrone! Il povero signore era scappato, di nascosto, fino a Trapani; si era chiuso, lui, sua moglie e i bambini, dentro la stiva di un bastimento francese, ed era partito per Marsiglia...
—Oh che storia! che storia! — esclamò l'altro, ricavando di tasca il suo fazzoletto e portandoselo al naso.
—Aspetti, ancora non è niente! Arrivo, con la grazia di Dio, a Messina. Senza danari come si fa? Vendo la carrozza, che era costata trecent'onze — bisognava vederla! — la vendo per quarant'onze, a Litteri, dirimpetto l'ospedale. Vendo un asino, di tredici onze, per quaranta tarì...
Il vecchietto era rimasto col naso fra le dita e il fazzoletto pendente, immobile nella stupefazione.
—E m'imbarco con tutta la roba. Da Messina, il bastimento fa cinque miglia e torna indietro. Una tempesta dell'inferno, che le budella uscivano di bocca. Stiamo due giorni a Messina, e mettiamo una settimana per arrivare a Napoli. A Napoli arrivo il 14 maggio, giusto in punto per vedere il quindici. Vossignoria sa che cosa fu il 15 maggio?
—Sicuro, sicuro! — ma il misuratore del catasto non levava gli occhi dal vicino, aspettando curiosamente.
—Il 15 maggio era tutta Napoli in fuoco, con la rivoluzione che pigliava piede, e la truppa sotto l'armi: reggimenti della guardia, reggimenti svizzeri, battaglioni cacciatori: che il giovane del caffè Benvenuti si metteva ogni giorno alla finestra, col fucile spianato, per sparare addosso a Ferdinando, se si affacciava. Io ero dai parenti del padrone, che stavano chiusi in casa, dalla paura; ma, quanto a me, potevo andare dove mi piaceva, che i Siciliani erano trattati come signori. Quaranta mila Siciliani c'erano in Napoli, e quelli che non trovavano alloggio se li prendevano nelle case, a tre e a quattro per volta, come fratelli, viva la libertà! "Ma se i realisti vincono" mi dicevano i parenti del padrone, "tu vai fucilato!". Ora, la notte del quattordici, vennero a picchiare all'uscio, cercando legname, per barricate; vossignoria conosce, la strada murata...
—So bene, so bene; per sparare al sicuro...
—Giust'appunto. Allora, fatte le barricate, la mattina alle undici e un quarto prima di mezzogiorno cominciò il fuoco. Sa com'era il fuoco? Ha sentito i mortaretti, per Sant'Agata? Più forte, e fino alle cinque di sera, senza cessare un momento. Il comandante di Sant'Elmo — che la famiglia reale, se perdeva, doveva calarsi nei trabocchetti — aveva l'ordine di tirare cannonate sopra Napoli, che è tutta di sotto, come la palma d'una mano; ma bisogna esserci stato, per averne un'idea... Il comandante, invece, tirò tre sole cannonate, a polvere. Ma fino alle cinque, i realisti perdevano. Alle cinque vengono fuori il primo e il quarto reggimento svizzero; e, Madonna del Carmine! succede una carneficina: case sfondate, bruciate; uomini, donne e bambini: un macello, che nella notte Ferdinando fece nascondere tutti i morti, per non farli contare...
—Lo credo bene!
—Ma se non erano il primo e il quarto reggimento svizzero, gliene toccavano di quelle da dirle al medico. Il secondo e il terzo reggimento erano pronti a venir fuori, ma non ce ne fu bisogno... Andiamo intanto che in casa non c'era né pane né acqua, e la signorina era ammalata! Viene sua madre e si butta alle mie ginocchia: "Calogero, bisogna che tu vada a comprar la medicina!...". Vado fuori, a Dio la sorte, e trovo uno speziale, alla Carità; ma mentre faccio per picchiare, una pattuglia esce da San Liborio, e spiana i fucili... Madonna del Carmine, questa volta non c'è scampo!... Il sergente dice: "Inginocchiati!...". Come se le gambe mi reggessero! Io m'inginocchio, più morto che vivo. Dice: "Grida: Viva lo Re". Io non avevo fiato in gola; dico: "Viva lo Re!". E così sono salvo...
A un tratto il misuratore del catasto si alzò, incappucciandosi meglio nella sua fascia di lana: il sole era declinato e un brivido di freddo passava per l'aria.
—Tanti guai per la roba del padrone! — esclamò, sul punto di andarsene. — Se ero voi, dico la verità, la roba l'avrei spedita, ma io me la sarei battuta!
Nella notte, la carrozzella venne a fermarsi dinanzi alla Questura. La guardia di piantone chiamava, verso la scala:
—Trovato!
—Vengo!
Il brigadiere, intanto che Trovato finiva di passarsi, in un angolo della camerata, al lume d'un mozzicone di candela, un abito mezzo da borghese e mezzo da operaio, gli ripeteva:
—Prendi qualcun altro!... È un'operazione delicata, potresti aver bisogno d'aiuto!...
—Brigadiere, non lo dite neppure — rispose Trovato, annodandosi una cravatta verde.
—E tu fa come vuoi!... Per me, piglierei almeno un compagno, da tener sotto mano. Non per nulla fanno quel mestiere: sono gente furba, che non si lascerà cogliere...
—E se loro son furbi, io sono più furbo di loro!
—Beh, lo so che sei furbo! Per questo i superiori t'hanno scelto. Ma non vorrei che facessi fiasco...
—Brigadiere! — esclamò Trovato, piantandosi in testa un berretto a barca, con due piccoli capi svolazzanti sulla nuca, come quello dei carrettieri. — Io l'ho detto al signor questore: questa è spedizione che bisogna fare o soli, o niente! Non si tratta solamente di arrestarli, ma di acchiapparli in flagranti. E il signor questore m'ha dato ragione!...
Il brigadiere si strinse nelle spalle.
Trovato dette un'ultima occhiata al suo camuffamento, si tirò un poco più innanzi sulla fronte il berretto e uscì nella corsia. La lanterna la rischiarava un poco nel mezzo; le estremità si perdevano in una tenebra fitta. Passando dinanzi alla camera del delegato, Trovato vide luce dalle commessure dell'uscio e si sentì chiamare:
—Chi è?
—Son io, Trovato.
L'uscio s'aperse; il delegato, in maniche di camicia, si affibbiava una cintura di cuoio intorno al ventre.
—Dove vai?
—Alla Viagrande... per l'affare della donna—di—casa... quella che fa morire la gente, coi suoi rimedi.
—E vai così, solo?
Trovato sorrise, portando l'indice alla fronte.
—Ho il mio piano!
Il delegato si mise a ridere. Poi chiese:
—Non mi fate sbagliare il treno? Parte proprio alle quattro e cinque?
—Sissignore!
—Va bene; puoi andare. Buone cose!
—Grazie, signor delegato!
Scese le scale. Il portone era socchiuso, e il piantone, avvolto in un ampio cappotto, stava sulla soglia del corpo di guardia, fregandosi le mani.
—Dove vai?
Trovato fece un segno col braccio, accennando lontano. L'altro lo strinse alla vita, per chiasso; ma sentendo che non teneva armi sotto i panni, chiese, meravigliato:
—Non sei a cavallo?...
—Sono in carrozza, — rispose Trovato, saltando a cassetta, accanto al cocchiere.
La carrozza partì, con un tintinnìo di sonagli. Le vie erano deserte e mezzo buie, con la metà dei fanali spenti. Di tratto in tratto, qualche passante, colle mani in tasca e la testa china, alzava un poco gli occhi a guardare verso il legnetto. All'ufficio del Dazio—Consumo, sotto il lampione, due guardie incappottate fumavano. Per la salita, la carrozze si mise al passo.
Trovato aveva accesa la sua pipa, ascoltando dal compagno il fatto della spedizione di Picanello.
—Ci fece vedere cavalli verdi, quel brigante d'un pecoraio! Dietro il muro, tirava dei sassi che arrivavano meglio d'una revolverata! Io avevo tirato il cavallo dietro la casina, vedendo il pericolo; perché i sassi piovevano tutti da quel lato...
L'altro interruppe:
—Un momento: sei sicuro che alla Viagrande nessuno conosca la carrozza?
—Nessuno; è la nuova.
—Va bene.
La guardia che faceva da cocchiere riprese la sua narrazione; ma Trovato non gli dava retta, guardando per aria. La carrozza andava sempre al passo, per la via della Barriera, fra le vigne e i giardini. Cominciava ad albeggiare e il freddo era frizzante.
—E così se il tenente non comandava di far fuoco, dopo che Erasmo Brigida mandava sangue dalla bocca e il maresciallo si buttava a terra, con la gamba rotta, non l'avremmo preso nemmeno...
—Senti un po' — avvertì a un tratto Trovato; — tu non entrerai in nessuna stalla, non parlerai con nessuno: ti metterai invece ad aspettarmi dove ti dirò io...
—Va bene.
—Paglia pel cavallo n'hai portata?
—Per due giorni!
—Va bene!
Scendevano dei carri pieni di casse d'aranci: i carrettieri, distesi sopra una pelle, dormivano; lasciando ai muli di trovarsi la via. Ogni tanto, quando la strada era in pianura e la carrozzella trottava, la guardia gridava un ohé: guarda—voi!... facendo schioccar la frusta.
—Da canto! Tiratevi indietro!...
Alla Punta, il sole sorgeva; qualche imposta si apriva.
—Adesso, siamo vicini...
L'ultimo tratto della via fu fatto di carriera. Giunti che furono dinanzi alle prime case della Viagrande, Trovato disse:
—Prendi a mano manca.
Sulla strada del Fleri, all'ombra di un muro alto, fece fermare. Allora saltò a terra, ripetendo al compagno le ultime raccomandazioni.
—Tu resterai qui. Non ti muovere, siamo intesi?
—C'è tempo?
—Eh! chi sa...
E scese per la via di Sant'Antonio. Alla Vena, entrò in un'osteria che stava all'angolo d'una viottola.
—Comare, mezzo litro di quello buono!
L'ostessa portò un boccale ed un bicchiere. Trovato, prima di bere, chiese:
—Come va la vendemmia da queste parti?
—Sia lodato, non possiamo lamentarci.
—Buono! — esclamò, bevuto che ebbe. — E ditemi una cosa: questa vigna qui a fianco di chi è?
—La nostra, questo pezzetto; ma è niente, due palmi di roba.
—Eh! vorrebbe averla ognuno!
L'ostessa sorrideva di soddisfazione, passandosi una mano sul ventre pieno. Un bambino di tre anni, sbucato di dietro il bancone, si avanzava balzelloni e venne a tirare la madre per la veste.
—Gioia! figlio! — fece lei, prendendoselo in braccio.
Trovato sorrideva al piccolino che apriva e chiudeva la manina sudicia.
—Dice che qui c'è il vaiolo?
—E come, scansàtene! L'altro giorno è morto il bambino di massaro Francesco, una gioia di figlio che bisognava vederlo quant'era bello!... E intanto, nel tempo di tre giorni se n'è andato!...
—Ma i medici?
—Sanno assai, i medici! Fanno morire i cristiani, dopo averli smunti a ricette...
—E allora, che si deve morire come i cani?...
La comare disse, a voce più bassa:
—Noi abbiamo la comare Pina...
—Chi è la comare Pina? — chiese curiosamente Trovato.
—La comare che sta qui vicino... in fondo a questa viottola. Lei conosce tanti rimedii, che ha un libro di magia pieno di figure, e anche leva e mette gl'incantesimi, se uno, figuriamoci, non può togliersi di testa una cosa, oppure se vuole che un'altra persona pensi a lui...
—Guarda! guarda!... — esclamava Trovato, pieno di stupore. — Allora, è una magàra?
—Già... ma lei non vuole che la chiamino così.
—E perché?
—Lo sa lei! — rispose l'altra, stringendosi nelle spalle. — Ma quando dà un rimedio oppure fa, diciamo, un incantesimo, non vuole che si dica, che se ne parli con nessuno...
—No, eh?
—Niente!
E, quasi temendo di aver parlato troppo, non aggiunse altro.
—Ma, ditemi un po', — riprese Trovato — i suoi rimedii fanno sempre guarire?
—Certe volte, sì; certe altre, si muore...
—Ah, si muore?
—Coi medici, non si muore? — replicò l'altra.
—Giusto!... giustissimo!... E poi, una volta bisogna pur morire!...
—Eh!
Ma l'ostessa si guardava intorno, guardava sospettosa verso l'uscio.
—Mi figuro che si farà pagare — disse ancora Trovato.
—Ah, per questo, sì!... Due lire, cinque lire, dipende... oppure, una misura di fave, una quartàra di vino, quelli che non hanno denari.
—Vi dico la verità!... — esclamò allora Trovato: — Se fa morire come i medici e si fa pagare come i medici, io non ci avrei fiducia... Che cosa direste voi, se per causa sua vi morisse, Dio ne scansi, qualcuno in casa?
—Scansàtene!... — esclamò la donna, stringendosi al petto il figliuolo. Poi aggiunse: — Eh!... certamente...
Si mise a sedere vicino al banco, col bambino sempre in braccio, e scuoteva il capo.
—Certamente... — riprese — ci sono quelli che mormorano... ma non gli conviene di parlare...
—Perché?
L'altra aggiunse, a bassa voce, paurosa: — Perché lei è donna—di—casa...
—Davvero?
Trovato era rimasto, dallo stupore; e si grattava la testa.
—E sentiamo... cosa fa? — chiese, dopo un poco.
—Che cosa?... quello che fanno le donne di casa. La notte, mentre pare che sia a letto con suo marito, va attorno per il mondo, entra nelle case, mette tutto sottosopra, getta malefizii per le campagne, fa inacidire il vino...
—Tutte le notti?
—No; quella del sabato e del mercoledì.
—Voi l'avete vista?
—Io?... lontano sia!... — E l'ostessa si fece il segno della croce.
Trovato restava pensieroso.
—E suo marito che cosa fa?
—Lui fa lo zappatore; ma la aiuta anche nelle magherie.
—Ah, è mago anche lui?...
Dei carri vennero a fermarsi dinanzi all'osteria; i carrettieri entrarono a bere. Allora Trovato s'alzò, pagò il suo vino, salutò l'ostessa e s'avviò per il viottolo della donna—di—casa.
Esso girava, stretto e ingombro di sassi, fra i campi chiusi di muri alti, in mezzo ai quali, di tratto in tratto, era praticato un uscio, grigio e sgangherato dal tempo e dall'uso. Dopo un centinaio di passi, il viottolo si allargava in una specie di piazzetta con una Casupola in fondo.
Era tutta chiusa. Trovato picchiò sulla porta, con le nocche delle dita. Dopo un poco, una voce femminile rispose: — Chi è lì?
—Amici!
—Quali amici?
Trovato rispose subito, con tono d'intelligenza:
—Sono io, comare Pina; mi manda il compare Matteo.
Per un poco non si sentì nulla. Una finestrella, praticata sull'alto dell'uscio, si aperse: vi si s'affacciò una donna sulla cinquantina, dalla pelle rugosa, dalle labbra un po' storte, dagli occhi inquieti. Aveva il capo avvolto in un fazzoletto giallo, e una banda di capelli che le scendevano giù sulla fronte.
Chiese, guardando attentamente il visitatore:
—Chi è il compare Matteo?
—Non ve ne ricordate più?... quello che gli levaste la malaria, — spiegò Trovato, sottovoce, benché non ci fosse nessuno; — con una certa polvere, che benedice sempre la mano di chi glie la diede!...
La comare scosse il capo.
—Io non penso a questa malaria.
—Sissignora, — affermava Trovato — il compare Matteo, mio cugino; che, a portar segno, mi ha mandato lui, per una carità che mi potete fare voi sola: e anzi, mi ha detto di portarvi questo...
Introdusse due dita nel taschino del panciotto, vi frugò un poco e ne trasse un biglietto da cinque lire, nuovo fiammante. La comare Pina, scrollando ancora il capo, scomparve dalla finestrella.
Dopo un poco, s'intese un rumore di serrature e l'uscio si schiuse.
—Entrate... che cosa volete?
L'altro entrò, dando un'occhiata alla cameraccia dalle pareti sgretolate da cui pendevano una lanterna a mano, delle reste di agli, delle chiavi e dei vecchi panni. Vi era, in fondo, una tavola sgangherata con due deschetti intorno, da una parte, e dall'altra un letto a due; in un angolo stavano disposti delle zappe, delle vanghe e uno schioppo.
Trovato sedette sopra un deschetto, si cavò il berretto, si prese la fronte in una mano, come soffrisse molto al capo, e disse, alzando uno sguardo alla donna che gli stava ritta dinanzi:
—Comare, se sapeste: ho un chiodo qui, da una tempia all'altra, giorno e notte, che non mi dà requie... Ho fatto le umane e le divine cose, per farlo andar via; ma è stato tempo perduto... Intanto, io debbo pigliar moglie; che anzi tutto era pronto il mese passato; ma ecco questo chiodo che non mi dà pace. La mia promessa, poveretta, mi vuol bene, non pensa che a me, e io intanto, per questo chiodo, la tratto male, le faccio sgarbi continui. Poi me ne pento, e invece comincio da capo: una cosa, comare, che non si può dire!...
Trovato aveva lasciato cadere il braccio penzoloni, dallo sconforto; e la comare Pina si annodava meglio il fazzoletto sotto il mento, senza dir nulla. Dopo un poco, andò all'uscio e lo chiuse, lasciando aperta solo la finestrella.
—Eh!... — cominciò ad esclamare, guardandolo fisso e torcendo di più la bocca naturalmente storta. — Eh!... questa tu me la dài a intendere!...
L'altro protestò, inquieto:
—Che io possa essere privo degli occhi, se non vi dico la verità!
—Non me la dài a bere! Questo sai cos'è? Te lo dico io.
—Cos'è, comare?
—È che tu pensi ad un'altra!
Trovato spalancò gli occhi e dischiuse un poco le labbra, intanto che levava un dito per aria.
—Ho indovinato, sì o no?
—È vero, comare!
—Vedi, figlio mio? E impara che a me bisogna dir tutto, meglio che al confessore; perché io mi accorgo subito quando uno non dice la verità.
—Sissignora...
—Tu non sei di queste parti; è vero?
—Sissignora...
—E non parlare più di cotesto chiodo! Il tuo chiodo è che pensi ad un'altra.
—Sissignora, questa è la verità. Ma la cosa è che io non ci voglio pensare; e intanto, più non voglio, e più ci penso!
—Eh!... — rifece la maga, con un tono di preoccupazione. —Questo è un incanto che ti hanno gettato; e fino a quando non te ne sarai liberato, avrai che vedere!...
—E come si fa per farlo passare?
—Ah!... — esclamò di nuovo, in aria di mistero. — Come si fa? Tu non lo sai, come si fa! Si fa, che ci vogliono tante cose... — Alzatasi, aprì uno sportello praticato nel muro e cavò da un ripostiglio una pupattola di cera, deforme, rosa dall'uso, con tante spille dalle grosse capocchie appuntate sulla testa e sul petto.
—La vedi questa? questa serve per levare l'incantesimo. Tu, figliuolo, dove lo senti il chiodo?
—Qui, comare, a questo punto... — e Trovato si appuntava l'indice sulla tempia sinistra.
—Qui? — domandò la maga, mostrando lo stesso punto nella testa della pupattola.
—Sissignora... e un'oppressione alla bocca dell'anima! — Adesso, raccolte tutte e cinque le dita della destra, Trovato se le appuntava fra lo stomaco e il petto.
—Va bene; va bene. Ma per ora non possiamo far niente!...
—E perché?... c'è bisogno di vostro marito?... — chiese l'altro, guardando verso l'uscio.
—Eh, troppe cose vuoi sapere, figliuolo!... Cos'hai da farne, di mio marito?
—Niente, scusate!... dicevo così, per sapere... Allora, quando si potrà?
—Quando?... — La maga restò un poco assorta, guardando per terra. Poi riprese: — Quando?... venerdì mattina, figliuolo... Puoi venire venerdì mattina?
—Sissignora, quando volete voi! Intanto, vi prego di accettare questo fiore, per amicizia...
Trovato s'era alzato, e tratto di tasca il biglietto da cinque lire, lo aveva deposto in un angolo del tavolo.
—Comare, intanto io vi ringrazio! Venerdì dunque ci vedremo, nella mattina... Farò il possibile di venire. Ho una sorellina a cui sono saltati i vermi, reverenter, e anzi bisogna che le compri la polvere...
—I vermi?
—Sissignora...
La maga stette un poco in attenzione; poi chiese:
—E che polvere vuoi comprare?
—La polvere per ammazzarli, per farli andar via...
—Bah!... Bah?... — fece l'altra, lentamente, scuotendo il capo. — La polvere non serve a niente! Non buttarli a mare i tuoi quattrini!...
—Ma come faccio, allora? Un rimedio chi me lo dà?
—Eh!... un rimedio...
—Comare! — insisté Trovato. — Se voi lo sapete, fatemi la carità completa: datemelo voi. Ai medici e agli speziali, io non gli ho mai creduto. Io credo più a voi, come il compare Matteo: ché siete la provvidenza dei poveretti...
La donna—di—casa socchiudeva un poco gli occhi, beatamente; poi, riapertili, disse:
—Senti un po', figliuolo: il rimedio io te lo darò; ma bisogna stare bene attento, e non dirlo a nessuno!...
—Comare! — protestò Trovato, alzando un braccio.
—Vedi, figlio mio; tu mi sembri un buon figliuolo; ma il mondo è pieno di mala gente, che non si può fare una cosa senz'essere invidiati... Perciò ti dico: non parlare con nessuno, sai?...
—A chi lo dite, comare!... Lo so io quel che si passa, a voler fare del bene al prossimo...
—Vedi, figliuolo?... Dunque, silenzio!...
—Privo degli occhi!...
Come Trovato attestò un'altra volta la sua discrezione, la maga s'alzò e, tirata la cassetta della tavola, vi prese un gomitolo di spago e una forbice. Silenziosamente, intanto che l'altro guardava con un'espressione di attenta ammirazione, tagliò una dozzina di pezzi di spago, lunghi tutti press'a poco quanto un verme intestinale; poi prese un bicchiere dall'armadietto a muro, vi versò una cert'acqua giallognola da una bottiglia verde, e infuse nel bicchiere i pezzi di spago. Intanto che questi si sgrovigliavano lentamente, come veri vermi, nell'acqua sporca, la donna—di—casa guardava il bicchiere, intenta, immobile, con le mani sulle ginocchia. Poi prese il bicchiere, assaggiò un poco di quell'acqua e la sputò. Finalmente trasse i pezzi di spago, li asciugò con le mani e li porse a Trovato.
—Ecco qui: questi li metterai sullo stomaco a tua sorella. legandoli con una fascia di lana; e poi vedrai!
Pieno di meraviglia, Trovato esclamava:
—Guarda un po'! Quanto sapere c'è al mondo!...
—Eh, figliuolo, lo sai dire? Bisogna sudare per apprendere!...
—Comare, io vi ringrazio un'altra volta!... E vi prego di gradire anche questo...
Egli mise un'altra lira sulle cinque e restò in piedi, sul punto di andarsene.
—Che gran sapere! I medici queste cose non le conoscono! Sono tanti ignoranti presuntuosi!... Volete sentirne una? Io ho un cognato che è stato alla Motta, per certi lavori, e vi ha preso le febbri. Sapete quanto tempo è che i medici glie le coltivano addosso? Due anni! E quel poveretto che è ridotto giallo come se avesse l'itterizia, e trema tutto, che neanche se fosse tra le nevi!...
—Questa è malaria!
—Sissignora! E intanto i medici la curano per febbre gastrica!
La maga scosse il capo, si alzò nuovamente, andò all'armadio, vi frugò dentro ficcandovi il capo, poi venne a presentare a Trovato, che volgeva tratto tratto lo sguardo dalla parte dell'uscio, un piccolo involto di carta.
—Prendi questo. A tuo cognato darai un pizzico di questa polvere la mattina e un pizzico la sera, in mezzo bicchiere di vino: hai capito? Questa te la regalo; ma, ricordati di non dir niente!...
—Oh!... E di cos'è fatta cotesta polvere, si può sapere?
—Di cos'è fatta? — ripeté misteriosamente la donna—di—casa. — Ecco qua: si pigliano dei galletti; li sai, i galletti? e gli si strappano i ventricelli. La pelle dei ventricelli si mette a seccare, e quand'è secca s'inforna. Infornata che è, si pesta ben bene, e così si fa la polvere...
Trovato spalancava gli occhi; ad un tratto, come colpito da un sùbito pensiero, disse:
—Ma, comare, allora può farla ognuno!
—Eh!... Così ti pare, eh?... — La maga sorrideva, passandosi una mano sulle labbra storte. — Ma poi c'è bisogno d'una certa acqua... e poi bisogna dirci su due parole che so io!...
—Allora!...
La comare andò verso il letto, introdusse un braccio tra le materasse e ne cavò un libro dalla copertina così sporca d'unto che non ci si vedeva niente.
—Questo cos'è?
—Questo?... Ah! questo è un gran libro! il meglio libro del mondo che tre sole persone posseggono sulla faccia della terra, io e altre due... — Intanto lo sfogliava, mostrando le pagine figurate.
—Voi dunque sapete di lettere, comare?
—Io? no. Ma cosa credi, figliuolo, che questo sia un libro come tutti gli altri? Qui lettere non ce n'è: sono tutte combinazioni e fenomeni!...
—Ah!... — E Trovato vi guardava dentro, con rispettosa curiosità.
A un tratto s'intese un rumor di passi e dalla finestrella si affacciò uno.
—Apri!
—Vostro marito? — chiese Trovato, sussultando.
—Già.
L'uomo, coi calzoni negli stivali infangati, un panciotto scuro, e senza giacca, entrò buttando in un angolo la zappa.
—Che c'è?
—Niente; questo cristiano voleva sapere certe cose...
Trovato salutò il nuovo venuto, il quale, visti i denari sulla tavola, se li mise in tasca.
—Gran libro! — esclamava Trovato. — E, s'è lecito, chi ve l'ha dato, comare?
—Ah!... Me l'ha dato un vecchio, figlio mio, un vecchio che ne sapeva più di me e più di tutti: quello sì!... Mi voleva bene, vedi; perciò, quando fu in punto di morte, mi lasciò il libro, che a pagarlo non bastano tutti i tesori che ci sono sulla faccia della terra...
—Altro!... Potete vantarvi di possedere un vero tesoro! —esclamava Trovato, voltandosi verso il marito. Poi, tratti dei sigari di tasca, li offrì: — Compare, volete favorirmi di accettare?...
—Grazie, — rispose l'altro, prendendone due: e acceso uno zolfanello sullo spigolo della tavola, si mise a fumare in silenzio.
—Dunque, comare, venerdì?... E quella polvere, mattina e sera, un pizzico in mezzo bicchiere?...
—Sì, figliuolo.
—Allora, tante grazie. Io adesso vi saluto...
—Ti saluto!
—Salute!
Trovato se ne andò. Fatti una diecina di passi, tornò indietro.
—Comare... compare!... scusate: mi potreste dire dove si può mangiare un boccone?
—Dal Brontese, — rispose l'uomo; — dietro la piazza, a mano manca, dopo il fruttaiolo...
Trovato guardava per aria, come smarrito.
—E di dove si va?... Scusate, non sono del paese... — Poi aggiunse: — Volete farmi una compitezza? Accompagnatemi, e piglieremo un boccone insieme...
L'uomo si alzò.
—Grazie; eccomi qua...
—E voi, comare, mi volete onorare?...
—Io non posso, figliuolo! Ho da fare! ho tante cose per la testa!...
—Come volete!
I due se ne andarono insieme. Per istrada, Trovato si mise a chiacchierare; raccontava la storia delle febbri, dei vermi e del chiodo, prodigando ringraziamenti alla comare che era una provvidenza. All'osteria, diede il miglior posto al compare, e ordinò un arrosto di costato; intanto fece venire del formaggio e del salame e un boccale del miglior vino. Il compare mangiava a due palmenti, e Trovato gli versava da bere.
—Gran donna, vostra moglie! — esclamava di tratto in tratto.
—Eh, gran donna!... — rispondeva l'altro. — Ma non crediate che faccia tutto lei! So anch'io dove metter le mani...
—Ah, sì?... Alla vostra salute!
—Grazie!... Non c'è male, questo vino...
—E ditemi un po': per tutte le malattie v'è un rimedio?
—Per tutte! Peste, scarlattina, gruppo, colèra: c'è rimedio per tutte...
—Bevete, compare!
L'altro tracannava, faceva scoppiettar la lingua contro il palato, stirava le gambe e girava intorno gli occhi socchiusi voluttuosamente.
—E per le malattie dei tumori?
—Anche quelle! Enfiagioni, usciture, bubboni, tumori maligni, si guarisce tutto...
—E voi li sapete distinguere uno dall'altro?
Come il compare sorrideva, tanto la cosa era facile, Trovato si dette un colpo sulla fronte.
—Compare, voi potete darmi aiuto!
—Dite, compare! Dite pure, noi siamo amici...
—Ecco qua: io ho una nipote che sta al Borgo e da tre mesi ha una cosa in una natica, che non si sa che cosa sia! Intanto, non si può muovere, non si può alzare, inchiodata tutto il giorno sopra un letto, sempre da un lato!... Se mi volete fare un favore, venite a vederla! Ho qui la carrozza che m'ha portato: vi servirà per farvi una scampagnata!...
Il compare, all'idea della scampagnata, si fregò le mani:
—Ai vostri comandi, compare!...
—Un altro bicchiere!...
—Grazie!
Trovato pagò lo scotto e uscì col mago. A un tratto si dette un secondo colpo.
—Non ne possiamo far niente!
—E perché? Chi l'ha detto?
—Perché!... Perché l'ammalata è una ragazza, di quindici anni, capite! e non si lascierebbe vedere da un uomo... Se venisse anche vostra moglie!...
—Andiamo a prenderla.
Entrando in casa sua, l'uomo esclamò:
—Questo bravo compare! Abbiamo fatto una buona colazione. Adesso andiamo tutti in città, in carrozza!...
—Per far che cosa?
Trovato ripeté la sua preghiera, intanto che l'uomo ingiungeva:
—Andiamo, lesta! È al Borgo...
—Ma, così... adesso?
—Comare, non mi dite di no!... Non è poi un viaggio. Tornerete anche in carrozza, e ci saranno per voi altre dieci lire!
—Andiamo!... — insisteva l'altro.
La maga si decise. Buttatosi addosso un vecchio scialle ed uscita, chiuse a chiave l'uscio di casa. Marito e moglie, guidati da Trovato, se ne andarono fino alla carrozza, dove la guardia stava seduta, fumando.
—Andiamo, di carriera!... Voi accomodatevi qui...
Cedette ai due i primi posti; egli si pose a sedere sulla panchetta dalla parte del cocchio. La carrozza si mise in moto.
—Compare, un altro sigaro!...
Il mago fumava come la Montagna, con le gambe distese e la faccia all'aria; la maga stava a sentire Trovato che parlava per tre, facendo la relazione di quest'altra malattia che non si sapeva cosa fosse, descrivendo le sofferenze dell'ammalata e chiedendo informazioni sulla cura.
—E questa ragazza che cosa fa? — domandava l'altra, avvertendo coi gesti di parlar piano, perché il cocchiere non sentisse.
—La serva... fa la serva; ma da tre mesi non può lavorare: considerate! con quella razza di malanno — neppure ai cani! — che le capita addosso! Ma speriamo che con la vostra carità anche lei possa uscir dai guai; che il Signore ne rimeriti voi e vostro marito!...
—Ma, mi raccomando, che non ci sia nessuno presente!...
—Nessuno, compare! — avvertì pure l'uomo, alzando un dito.
—State tranquilli!
La carrozza andava allegramente, col tintinnio argentino delle sonagliere, per la via tutta in discesa. Il cocchiere, di tanto in tanto, faceva schioccar la frusta, trionfalmente.
Dalla Barriera, tutta la città si dominava, e il mago ammirava la vista, gettando buffate di fumo. Ma al Borgo la carrozza non si fermò, e si mise per la via maestra.
La donna disse, guardando intorno:
—Ma di qui dove andiamo? Il Borgo è passato...
—È passato, comare, perché al Borgo sta la famiglia di mia nipote, ma lei è coi padroni!
La carrozza traversava il centro della città, e agli angoli delle vie c'erano dei carabinieri e delle guardie.
—Ma, — riprese la maga, inquieta; — se è malata, com'è che sta a servizio?
—I padroni la tengono ancora, per carità...
—E dove stanno di casa?
—Alla stazione.
Invece, la carrozza risalì verso Sant'Agostino.
—Compare, — disse ancora l'uomo — mi pare che alla stazione ci si vada da un'altra parte...
Trovato si mise a ridere.
—Si vede che siete contadini! Non sapete neanche dov'è la stazione. Scommetto che non siete mai stati in ferrovia!...
Non risposero né il marito, né la moglie. L'uomo aveva buttato il suo sigaro, e tutti e due guardavano da un lato e dall'altro della via.
La carrozza si fermò un po' prima del portone.
—Siamo arrivati, — disse Trovato, scendendo.
Gli altri scesero anch'essi. Il compare esaminò il fabbricato.
—Questo mi pare un convento...
—Sicuro; è l'antico convento del Rosario, ma adesso il governo l'ha venduto...
Entrando pel portone della Questura, il mago alzò gli occhi e vide lo stemma. Procedeva a piccoli passi, scuotendo un poco il capo.
—Ho paura, — borbottò, — che questa colazione mi faccia peste...
Delle guardie sbucarono da un uscio. Marito e moglie fecero per scappare, ma furono subito presi in mezzo, intanto che Trovato saliva le scale a quattro a quattro, gridando con accento di vittoria:
—Brigadiere!... Brigadiere!...
—Il figliuolo della Lupa!
Vedendolo passare, i mulattieri raccolti nell'osteria di Mazzaglia, sotto il pergolato, lo chiamavano ad una voce: "Lupetto!... Lupetto!... Vieni un po' qui!" e si mettevano a strapazzarlo, buttandogli giù il berretto con uno scappellotto, fingendo di dargli un pezzo di pane: "To', prendi!..." e ficcandoselo invece in tasca; aizzandogli contro il cane e allungandogli delle pedate, come egli si voltava per difendersi dalla bestia.
—Ahu!... Ahu!...
Egli emetteva quel grido che pareva anche esso un latrato, e sgangherava la bocca fino alle orecchie, con una smorfia da scemo, vedendo la roba da mangiare disposta sulla tavola: una minestra di fave, dei peperoni al pomodoro; ma i mulattieri gli tiravano delle buccie, degli ossi nettati come un coltello, delle croste di pane più dure degli ossi; ed egli acchiappava tutto a volo, con la bocca, senza mancare un colpo.
—Ahu!... lì... quello lì... — e indicava il pane fresco.
—Aspetta, aspetta...
Contarino si chinava, fingendo di raccogliere un tozzo di pane cadutogli, ma prendeva invece un pugno di terra compatta e gliela tirava sul muso.
—Ahu!... Ahu!...
—Giufà!
Egli era un allocco peggio del Giufà della favola, quello che aveva scardinata la porta di casa quando sua madre, andando a messa, gli aveva lasciato detto: "Se esci, tirati dietro l'uscio!". Aveva dovuto esser come lui, Giufà: secco e lungo, con le braccia fino alle ginocchia, le spalle alte, la testa grossa, il viso sudicio di peluria e i capellacci come quelli dell'uomo selvaggio.
—Ma l'ingegno gli si sveglia — diceva il compare Lucio della Motta — quando si tratta di rubare galline o colombi nelle fattorie!
—Ne hai toccate altre legnate da massaro Nicola?
—Io?... Gliele do a lui, le legnate!
—Stai attento, che se ti coglie un'altra volta, ti spacca la zucca!
—Io?... A lui!... — ripeteva Lupetto, badando a rosicchiare quel pezzo di pane che finalmente gli avevano gettato.
—Giufà!...
Tutt'in una volta, con una mossa da gatto, egli s'era slanciato contro il muro della vigna, appiastrandovi una mano.
—Cos'è?... Cos'è stato?...
Chiudendo a poco a poco le dita lungo il muro, Lupetto staccò il braccio e mostrò ridendo la lucertola che aveva acchiappata e che dimenava furiosamente la coda.
—Ahu!... Ahu!...
—Adesso che cosa fai, la mangi? — chiese Contarino.
—La mangi tu, piuttosto!...
E schiacciata un poco la testa alla bestiola, se la ficcò tra il petto e la camicia. Sorridendo maliziosamente, si frugava ancora lì dentro, come cercando qualche cosa che gli sfuggiva, e finalmente trasse fuori una specie di fune grossa e nera, chiazzata di giallo: un serpe ancora mezzo intorpidito.
—Com'è brutto!... — gridava l'ostessa, dalla soglia della taverna, venendo a sparecchiare. — Buttalo via, animale!... Va via!...
Ma Lupetto fingeva di tirarle addosso il rettile che teneva per la coda: "Ahu... a voi!..." e sogghignava, mostrando una fila di denti bianchi ed aguzzi.
—Sta buono, Giufà!... non le far paura!... Hanno poi ragione le donne, quando ti fuggono peggio del diavolo!...
—Bestie!... Femmine bestie!... — borbottava lui. E riprendeva a giuocare coi suoi rettili.
—Questa cos'è? — chiedeva Contarino. — La caccia di stamani?...
—Già, la caccia!...
—Conigli che ne hai presi?... I laccioli dove li hai messi?
—Laggiù.
—Dove, laggiù?
—Là, nella sciara,.
Questa adesso era la sua occupazione: tendere lacci e vendere la cacciagione, dopo che don Ignazio, il merciaio ambulante, la cui carrettella egli aveva tirato per le strade, di paese in paese, lo aveva mandato via a pedate.
—Come gridavi quand'eri con don Ignazio?
Lupetto si metteva una mano aperta vicino alla bocca, a foggia di portavoce e cantava a tutta gola:
—Fazzo—o—letti di seta!... Fazzoletti alla mo—o—da!...
—E quand'eri con l'arrotino?
Come un pappagallo, Lupetto rispondeva:
—Arrota forbici e rasoi!...
Anche quell'altro era stato costretto a cacciarlo, malgrado le raccomandazioni della Saponara, a cui la Lupa aveva lasciato il figliuolo sul punto di morire. Nessuno aveva potuto durare a trattarlo, tanto era sciocco e maligno, con l'istinto della rapina, l'astuzia unicamente pronta quando si trattava di far del male. Ed aveva finito per crescere come la mal'erba, solo, a modo suo; perché la Saponara, che gli aveva fatto da madre, se n'era andata anch'essa pel mondo, e suo padre nessuno aveva mai saputo chi fosse.
—Un porto di mare, la Lupa!
—Alla larga! È fortuna che sia morta!
Adesso i mulattieri sparlavano della madre di Lupetto, ricordavano tutto il male che aveva fatto, e la triste fine; ma egli, che non l'aveva mai conosciuta, essendo rimasto orfano a quattro anni, non se ne dava per inteso. Sdraiato per terra giuocava col serpe e con la lucertola, e solo di tanto in tanto si voltava verso gli altri, uggiolando:
—Ahu!... Pane...
—Va via!... — gli gridava ancora l'ostessa, da lontano, com'egli le mostrava le bestie. — Va via, animale!...
Lui s'era alzato, avvicinandosele, col serpe e la lucertola in mano, per godere dei suo spavento.
—Ah!... ah!... — strillava l'ostessa, indietreggiando dal ribrezzo; e chinatasi a terra, prese un sasso e fece per tirarglielo.
—Fuori!... Hai sentito?... fuori!... O ti pare che qui ci sia quella ciabattaccia della Saponara?...
Allora Lupetto si scagliò furiosamente contro la donna, che se i mulattieri non lo afferravano a tempo, le sarebbe finito male.
—Giufà, sta buono!... Si tratta a questo modo con le donne?
Adesso egli digrignava i denti e si dimenava, uggiolando più di prima, guardando torvo l'ostessa che aveva osato dir male della Saponara: l'unica persona che avesse avuto un potere su di lui ed a cui egli si fosse affezionato.
—Stai buono, Giufà... To', prendi!
Dinanzi ai resti della tavola che Contarino gli presentava in un piattello, Lupetto si chetava, e si metteva a divorare quella roba, ridotto al silenzio dal cibo, ma volgendo ancora occhiate minacciose verso l'interno dell'osteria. Il cane gli ghignava dinanzi, ma restava inchiodato sulle quattro zampe, dallo sguardo con cui egli lo fissava.
—E quant'è che non vedi la Saponara? — chiese compare Lucio.
A bocca piena, rispose con un gesto largo del braccio.
—Anni!... Tant'anni!...
—Adesso, tu quanti ne hai?
—Io?... che so!
—Deve avere diciotto anni — disse Contarino, facendo un conto. Poi aggiunse, a voce bassa: — La Saponara l'ho vista alla Mascalucia, l'altro giorno...
—E che fa?
—Chi ne sa niente! È una vecchia, adesso!
—S'è divertita, ai suoi tempi, con la sua amica la Lupa!...
Come Lupetto sollevava il capo, ascoltando, i mulattieri lo mandarono via:
—Adesso, scappa!
—Via!... E se prendi dei conigli, fàlli assaggiare agli amici, hai capito?
—Ahu!
Egli se ne andò dalla strada dal Calvario, su per l'erta arenosa, e tutti i contadini che venivano da Malpasso o dai Monti Rossi, incontrandolo, si fermavano a salutarlo.
—Addio, Lupetto!
—Ahu!
I Monti Rossi, sulla cima, erano coperti di nuvolaglia e il maestrale fischiava tra le ginestre alte più di un uomo. Sul Calvario, Lupetto si fermò un poco e guardò in giro, con la mano tesa sulla fronte, per tutte le sciare scure, il mare di lave vomitate un tempo dalla montagna. Poi si mise di nuovo in cammino, verso Mompileri. In mezzo alle conche formate dalle ineguaglianze della lava, sulla poca terra che il vento vi aveva accumulata, si vedevano le traccie delle lepri e dei conigli, tutte rivolte verso levante; e Lupetto si fermava, di tanto in tanto, esclamando:
—Cani! cani!...
I suoi laccioli erano tesi sotto Mompileri, fuori della direzione giusta, e come egli arrivava alla dágala dove li aveva disposti, sotto le macchie delle ginestre, li ritrovava tali e quali.
—Cani! Figli di cani!...
Da Massa Annunziata, la chiesa del villaggio sepolto dal fuoco, veniva un suono di campane; ma tutt'intorno, per la sciara nereggiante, non si vedeva anima viva, e solo il vento fischiava sempre fra gli sterpi. Adesso la giornata andava guastandosi, e la montagna era tutta coperta di nuvole, che non si scorgeva neppure Monte Fusara e la Serra.
—Cani! cani!...
Ma come egli disfaceva i suoi lacciuoli, si intese un passo, e in mezzo alle cime della lava, che parevano tanti cappucci, comparve una donna. Il vento le sbatteva le gonne fra le gambe, ed essa si studiava di raccoglierle con una mano, reggendo con l'altra una cesta che aveva sul capo. Il fazzoletto, tirato in avanti, le nascondeva il viso; ma come fu giunta dinanzi alle macchie, si fermò, gridando:
—Oh, Lupetto!...
—Tu?... Tu?... Turututù!...
Dalla gioia, egli si era messo a saltellare dinanzi alla Saponara, pigliandole le mani, guardandola in viso, facendo scoppiettare la lingua sul palato, come faceva lei quando lo cullava, bambino.
—E come sei qui?... Hai già la barba!... Aspetta, aiutami a metter giù la cesta...
Sbarazzatasi del suo peso, ella sedette per terra, accanto al folto delle ginestre, tenendosi vicino Lupetto che si dimenava quant'era lungo.
—Sono stanca! — esclamò la Saponara, con un sospiro. — E con l'arrotino non ci sei più?
—No! — rispose Lupetto, strizzando un occhio. — Era bestia.
—E adesso, che cosa fai?
—Io?... Niente!
—Quant'è che non sei più con l'arrotino?
—Uh! — fece lui, per dire che era molto.
—Sei fatto un uomo!... Adesso quanti anni hai? Diciotto!
Lei adesso contava: ne eran passati quattordici che era morta sua madre: e siccome lo aveva lasciato orfano a quattro anni, facevano giusto tanti.
—Passa il tempo! Io ne ho quaranta!...
Si sentiva stanca come se avesse fatto trenta miglia, ed era soltanto un'ora che s'era messa in cammino, da Mascalucia per Nicolosi, dove aveva da consegnare a don Paolo Fiandaca quella cesta e una lettera per conto del suo padrone. Faceva la serva, cogli anni che pesavano sulle spalle; e ogni fatica l'abbatteva.
—Te ne ricordi di tua madre?
—Io, no!
—Perché non cerchi lavoro?
Lupetto si strinse nelle spalle, facendo sporgere sprezzantemente il labbro inferiore.
—Alla piana c'è bisogno di braccia, per le vigne che piantano. Adesso tutta la piana è un vigneto, che bisogna vederlo. Vuoi venirci?
—E tu? — chiese Lupetto, che le si fece più vicino, e le si mise fianco contro fianco, come quando era ancora piccolo e non si staccava mai dalle sue gonne.
—Io sono a servizio, non posso lasciare il padrone! E poi per le donne non c'è da fare, altro che la spulegra, quando móndano la vite; ma questo è lavoro delle donne dei mezzadri... Ah, ah! sta' fermo!...
Con un filo di ginestra egli la solleticava ora in un orecchio, e come la Saponara gli scostava il braccio con la sua mano rugosa e incallita, egli fingeva di smettere, si faceva serio, per riprendere dopo un poco.
—Sta fermo!... La comare Santa che la vedi?
—Io? No!... Sono tutte bestie, queste femmine...
E spiegava che scappavano, quando lo scorgevano.
—Perché? — chiedeva la Saponara.
—Lo sanno loro!... Tu, no!...
—Il perché te lo dico io: perché stai sempre in mezzo alle strade, senz'arte né parte... Fermo, ti dico!... Bisogna fare qualche cosa, mettersi a lavorare...
Come lui faceva il muso lungo, imbronciato, lei appoggiò una mano per terra sollevandosi un poco.
—Me lo devi promettere!... — e cominciò a parlare della Lupa, che le aveva voluto bene come ad una sorella, e glielo aveva raccomandato bambino, in punto di morte; per questo s'inquietava del suo stato, quasi gli venisse figlio. — Allora, non è vero che mi vuoi bene!
—Ahu, ahu!...
—Se ti procuro lavoro alla piana, ci vai?
—Ahu! — egli diceva di sì, tutto allegro, e si fregava la schiena per terra, come un asino.
—Ti voglio bene... a te sola!...
Si mise un dito in bocca, come cercando di dargliene una prova.
—Vedi... a te sola...
E le saltò addosso, brancicandola.
—Eh, lo so... ma lévati!
—No, ti voglio bene...
Prima la Saponara si mise a ridere, mentre egli le nascondeva la testa sul seno, tenendola stretta pei fianchi; poi, come gli occhi gli si accendevano, tentò di svincolarsi.
—Lasciami... lo senti?... Mi soffochi... Ah!... No... majale!... Aiuto!...
—Ahu, ti voglio bene...
—Aiuto!... aiu...
Esasperato dalla resistenza, l'aveva afferrata pel collo, stringendo, digrignando i denti, squassando la testa; e poiché la Saponara cogli occhi stravolti, la lingua nera, non rispondeva, egli si alzò, scuotendola.
—Bestia!... Alzati!... Ahu, alzati, bestia!
Ma la donna non si moveva più.
—Alzati, bestia!... Non mi fare spavento!...
E come il compare Lucio della Motta passava di lì, colla sua mula carica di ginestra, lo trovò che la scuoteva ancora, dicendo:
— Alzati, bestia!...
—Principale, leviamo mano?
Brasi Spataro, che ad ogni due colpi di piccone sentiva il bisogno di riposarsi, asciugandosi il sudore, tirandosi su i calzoni o frugandosi nelle tasche e attaccando discorsi coi compagni, rivolgeva per la terza volta quella domanda a Santavita l'imprenditore, il quale non gli dava retta e badava a prendere misure, sotto il sole cocente, da cui lo riparava appena un vecchio cappellaccio di paglia.
—Si leva mano?... È mezzogiorno!...
—L'orologio l'hai nella pancia, scanza—fatiche? Lavora!...
—Boia!... — borbottò l'altro, riprendendo a grattare il vecchio muro, mentre, accanto a lui, Amaddio buttava giù, ad ogni colpo, un monte di calcinacci rotolanti sull'impalcato fra una nuvola di polvere secca che entrava in gola.
—Mezzogiorno è suonato, sì o no, a San Francesco?
—Non l'ho sentito — rispose breve Amaddio, continuando ad abbattere, tutto intento al suo lavoro.
—Sangue d'un cane!... — riprendeva Spataro, appoggiandosi sul manico del piccone. — Mannaggia la miseria!... Almeno, sbancassi la trovatura!... — E tastava il muro e il pavimento, per sentire se risuonava a vuoto. — Chissà quanti denari debbono esser sepolti in queste vecchie case!... Gli antichi li seppellivano sotto i mattoni, per le rivoluzioni e i colèra... Mastro Alfio Mazzarà s'è arricchito, con la trovatura sbancata a Caltagirone... Sangue d'un cane!...
Ma giusto in quel momento il primo rintocco del campanone del Duomo segnava l'ora del riposo, e Brasi Spataro scese il primo lungo la scala a piuoli, come un gatto, scappando subito alla taverna, pel boccone della colazione.
Adesso, uno dopo l'altro, tutti i manovali lasciavano le vanghe, i picconi, le mazze, le cazzuole e i fili a piombo, per raccogliersi all'ombra, seduti per terra, o sui rottami, o sulle travi accatastate, col pane in mano e la bottiglia fra le gambe. I carrettieri smettevano anch'essi di far viaggi per la calce e la terra rossa, e attaccati i muli ai pali della nuova fabbrica, si univano agli operai. Gli scarpellini, che lavoravano la pietra di Siracusa sotto la tettoia di canna, pieni di polvere fin sulle ciglia come tanti fornai, venivano anch'essi a merendare, e non si sentiva più rumor di seghe o di piccozze. Nunzio e gli altri ragazzi che apprendevano il mestiere, andavano e venivano dall'osteria, facendo le commissioni dei più grandi, e finivano per riposarsi anche loro, con un soldo di fichi d'India disposti sopra un sasso. Spataro aveva del formaggio, delle ulive, roba sott'aceto: due o tre piatti dinanzi, e li presentava ai compagni, messo di buon umore dalle prime sorsate alla fiaschetta.
—Compare!... Mastro Menico!... Per amicizia, gradite!...
—Che l'hai sbancata, la trovatura? — gli chiedevano intorno, celiando, come lo vedevano trattarsi così bene.
—Lasciatemi stare! Mannaggia la miseria!... — rispondeva, masticando a due palmenti. — Ma le trovature ci sono; gli altri le sbancano!... Io soltanto non posso affondare il piccone nel posto buono!...
—Sicuro che ci sono!... — disse allora mastro Menico l'anziano, che buttato il crivello sul monte della terra rossa veniva a mangiare un pezzo di pane con due arancie. — Tu non lo sai quel che dice la storia?
—Che dice?... Sentiamo! Sentiamo!
E mentre l'uditorio lavorava di mascelle, mastro Menico, che ne sapeva tante, ed era anche stato fuori regno, a Malta, cominciò:
—Dunque, si conta e si racconta che c'era una volta un figliuolo di re, il quale tanto studiò e si scervellò, che imparò la magia e l'arte di sbancare le trovature...
—Ma se era figliuolo di re, che bisogno aveva?... — chiese Nunzio, sbucciando i suoi fichi d'India.
—Zitto, bestia! Era figliuolo di re, ma suo padre campava e perciò non lo faceva valere più di un corbello sfondato!... Dunque, il figliuolo del re, imparata l'arte della magia, scoprì un bel giorno una trovatura ad una parte; poniamo: nel banco di Ddisisa...
—Qual è il banco di Ddisisa?
—Il banco di Ddisisa? Adesso ve lo dico...
Mastro Menico, finito d'inghiottire un boccone, ci bevve su due sorsi e riprese:
—Il banco di Ddisisa è un gran tesoro che si trova nel feudo di Ddisisa. Raccontano gli antichi che c'è una gran massa di denari, di monete d'oro e d'argento; e chi è che la piglia non trova più la via di uscir fuori. Se vi menano un cane e gli fanno inghiottire una di quelle monete in un poco di mollica, neanche il cane può uscir fuori, se non la rimanda dall'altra parte: considerate!... Ma, per sbancare la trovatura, c'è la maniera che dicono i libri. Bisogna pigliare tre uomini che si chiamino Santi Turrisi, di tre capi di regno, e poi anche una giumenta bianca, per ammazzarla e strapparle le budella. Queste, uno se le deve mangiare a frittelle, dentro la grotta; poi si ammazzano anche i tre Santi Turrisi, e così il tesoro si sbanca...
—Quanti ammazzamenti!... — esclamarono i manovali. — È una beccheria!...
Brasi Spataro, con la faccia all'aria e il fiasco attaccato alle labbra, badava a sorseggiare, e delle goccie di vino gli rigavano le guancie sporche di terra.
—Ah!... — Egli trasse un profondo sospiro di soddisfazione, si forbì la bocca col rovescio della mano ed esclamò: — Questa è trovatura che nessuno troverà!
—Ma il figliuolo del re?... — domandò Nunzio, col mento tutto giallo di sugo.
—Un momento...
Il vecchio mastro Menico, pulito che ebbe il suo coltello sulla manica della camicia, triturò dei mozziconi di sigaro, cacciò il tabacco nella pipa, cercò nel taschino del panciotto i zolfanelli di legno e ne accese uno strofinandolo sui pantaloni.
—Il figliuolo del re — riprese, fumando — scoperta che ebbe la trovatura, disse: "Oh! adesso la sbanco!...". Ma andiamo che, per sbancarla, era necessario che dieci milioni di milioni di formiche passassero, ad una ad una, il fiume di Gianquadara sopra una barchetta di mezza scorza di noce!...
—Guarda, guarda il diavolo!...
—Il figliuolo del re, — continuò serio serio mastro Menico — piglia la scorza di noce, la mette nel fiume e comincia a far passare le formiche· E una, e dui, e tri... e seguita ancora così!
—Ah, ah, ah!...
Il piccolo Nunzio e gli altri ragazzi si sbellicavano dalle risa, e i manovali sorridevano anch'essi, con la bocca piena, o accendendo le pipe, come finivano di merendare.
—Questo è per dire, — commentava adesso assennatamente mastro Menico, appuntandosi l'indice sulla fronte — che a cercare i tesori nascosti si perde il tempo e la fatica, e che la vera trovatura sono un paio di braccia forti e il giudizio nel cervello.
—Giusto, — confermava Spataro, riempiendo anch'egli la sua pipa. — Ma se uno trovasse dei quattrini, come se vincesse un terno, cosa dovrebbe fare, guardarli e lasciarli lì?
—Tu ne hai trovato mai?
—Io, no; ma Alfio Mazzarà...
—Gli è finita bella, a mastro Alfio! Quattro giorni di allegra vita, e poi la fame peggio di prima; che aveva perduta la voglia e la forza di buscarsi il pane!...
Allora Amaddio, che non parlava mai se non per dire cose giudiziose, aggiunse:
—Tristo chi perde per andar cercando.
—Questo è! — approvò mastro Menico.
—La mia trovatura è il salvadenaio — disse Nunzio. — Quando lo rompo, ci trovo una lira, due lire, secondo...
E ognuno raccontava una storia di ricchezze improvvise che avevano fatto finir male i fortunati ai quali erano capitate, mettendoli in superbia, persuadendoli a sdegnare i compagni, a unirsi con gente che li rubava o li sbeffeggiava, riducendoli a una miseria più trista. E come passava Santavita il principale, grondante sudore, cogli abiti sporchi di calce e il metro sempre in mano, lo stesso Spataro esclamò:
—Allora, a che serve il danaro?
Santavita aveva fatto quattrini a palate, col suo mestiere, cominciando da semplice muratore, e adesso aveva case in città e villini in campagna; ma sfacchinava ancora, più dei primi tempi, al sole e al vento, senza riposarsi mai, senza conoscere svaghi, mangiando una minestra soltanto, vestendosi peggio dell'ultimo dei mastri.
—È come se avesse messo da parte carta sporca, invece di polizze di banca!
—I danari sono carta sporca!
—E il barone di Donnatrovata?...
Il padrone del palazzo che buttavano giù per rifabbricarlo di sana pianta, il barone di Donnatrovata anche lui, che cosa ne faceva delle sue ricchezze? Quello non era un imprenditore arricchito; era un signore figlio di signori, nato nella bambagia, tirato su a zuccherini, e con tutti i malanni che aveva addosso i suoi denari se li godevano i medici e gli speziali...
—Ma la salute non si compra!
—Quando c'è la salute, c'è tutto!
—Io sono meglio del barone, — riconobbe Spataro, fumando beatamente, come un turco, e incrociando le braccia sotto il capo, a modo d'origliere. — Piuttosto pane e cipolla ma lo stomaco sano. Fin quando c'è gioventù, non c'è bisogno d'altro...
—Lo sai dire anche te?... — domandò in quel punto Santavita, venendo a riposarsi un istante fra i suoi operai, cavandosi il cappellaccio e annodandosi intorno al collo un fazzoletto diventato color della terra. — La cerchi ancora, la trovatura?
—Che cosa ho da farne, della trovatura? Io lavoro e mangio; quando non potrò più lavorare, provvederà Dio.
—Bravo!... Poi, se anche la trovassi, la trovatura non sarebbe tutta per te.
—Questo lo so!... Ma io la dividerei cogli amici: tutti allegri, festa grande!...
—Adesso dimmi una cosa: l'orologio tu l'hai sempre nell'orecchio quando si tratta di levar mano; quando è l'ora di rimettersi al lavoro che cosa fa, si ferma?...
I manovali ridevano allo scherzo del principale, mentre Brasi Spataro si levava in piedi, precipitosamente, ricacciava la pipa nella tasca dei pantaloni, e si riboccava le maniche, esclamando:
—Come, sangue d'un cane?... Eccomi qui: che cosa bisogna fare?...
Ma restò male, con i compagni che gli ridevano sul muso, quando Santavita, che non aveva preso neppure il tempo di rasciugarsi il sudore, si alzò, dicendo:
—A noi, ragazzi! Il muro maestro stasera non dev'esserci più!
—E avanti! — soggiunse Spataro, stringendosi nelle spalle e arrampicandosi anche questa volta il primo su per le scale, seguìto a poco a poco da tutti gli altri,
Il muro, al primo piano, era a un metro dal pavimento, e ad ogni colpo di piccone e di mazza ne rovinava un pezzo, fragorosamente. Nunzio e gli altri monelli portavano via i calcinacci e tornavano coi corbelli vuoti, a processione, fischiando; e anche Spataro canticchiava allegramente, lavorando con nuova lena:
Te l'ho detto, e son tre volte,
Non far l'amore coi cocchieri...
—Avanti, ragazzi! — esclamava, volgendosi a mastro Menico e ad Amaddio che gli stavano a fianco, e facevano lena con le mazze pesanti, serii e silenziosi. — Avanti; che stasera il principale ci darà da bere... — E strizzava un occhio. — Non è vero, principale?...
—Senza chiacchiere! — ingiunse dal basso Santavita, che aiutava due uomini a sollevare una trave enorme; e adesso, nel pomeriggio soffocante, non si udiva più che il martellare dei ferri sulla selce, il rovinio dei rottami e lo stridore delle seghe, sotto la tettoia.
Brasi Spataro taceva anch'egli, e i suoi compagni si voltavano un poco dalla sua parte, tanto la cosa era rara. Egli era arrivato quasi a livello del pavimento e scagliava grandi colpi di piccone, quando a un tratto il suo strumento, conficcandosi nel muro, fece un piccolo rumore, come di stoviglie rotte.
—Ohi!... cos'è?... — dissero gli altri, fermandosi.
Spataro era giallo come un risuscitato e rispondeva: — Niente... niente!... — cercando di nascondere il buco, tirandovi sopra della terra.
—Lévati di lì!... — urlò Amaddio, buttandoglisi addosso e afferrandolo per le spalle, intanto che mastro Menico balbettava, buttato con le ginocchia e le mani a terra:
—La trovatura!... La trovatura!...
—Sangue di Cristo!... Lasciatemi! Ci ho messa la mano io!...
—Indietro tutti!
Il vecchio brandiva ora la mazza, dandone terribili colpi nei fianchi agli altri due; e tutti e tre finirono per ruzzolare, afferrati pei capelli, mordendosi e graffiandosi.
—La trovatura!... Una pignatta piena di monete!... — e tutti i manovali accorrevano, Santavita alla testa, brandendo gli arnesi del mestiere, buttandosi nella mischia, cadendo e rialzandosi, afferrati gli uni cogli altri, fin quando Nunzio, ficcato il capo dentro il buco, gridava con la sua vocetta squillante:
—Rame vecchio!... È piena di rame vecchio!
— Mamma, per carità!... diteglielo voi, per carità, che non ho colpa!... che se avessi voluto, oggi non morirei di fame, io e questi innocenti... lo stesso sangue suo!...
La piccina che ella teneva in braccio le strappava i capelli, rabbiosamente; e il ragazzo, con la testa avvolta in un vecchio fazzoletto e le labbra screpolate dal freddo, domandava pane, tirandola per la gonna rattoppata e scolorita.
— Allora, se fosse vero, sarei ridotta a tanto?... Ma lui non può crederlo, se non mi vede... Io la conosco, quella che lo mette su contro di me... è sua madre!... Che cosa le ho fatto? Perché l'hanno tutti con me?... Ah, che sarebbe stato meglio se m'aveste gettata in fondo a un pozzo, quando nacqui!...
E le lacrime cominciarono a solcarle le guancie scarne.
Donna Tira, vedendo piangere la figliuola, si alzò di scatto tirandosi lo scialle sul capo.
— Andiamo! Cammina con me! Andiamo dall'avvocato, andiamo dal capitano!... Li voglio far ballare, lui, quella vecchia strega, tutti quanti sono.
— No! No! — protestava Mara, sfiduciata. — Con le minaccie che cosa guadagneremo?... È la ragione che deve sentire; sono questi innocenti che devono parlargli per me... Poi, in fondo all'ospedale, solo, come può reggergli il cuore di non vedere i suoi figli?... Non regge a me, di saperlo in pericolo di morte... Io gli voglio sempre bene!... Non me ne sono scordata!...
— Cammina! — insisté donna Tina. — Andremo all'ospedale, gli faremo parlare dal capitano; dovrà vederti per amore o per forza!...
— Mamma, pane!... — piagnucolava il grandicello, attaccato alla sua veste; e donna Tina lo prese per mano.
— Qui, Neli, con la nonna!... Adesso compreremo il pane, e anche le mele: ti piacciono, le mele?... Tu fai presto; andiamo!...
Mara si aggirava per lo stambugio umido e scuro, cercando lo scialle, la chiave, con la testa smarrita, non sapendo più dove metter le mani, facendo il segno del bacio dinanzi alla stampa dell'Addolorata.
— O Cristo della Croce! Mi par d'essere impazzita... Ah, la chiave è qui... Zitta, Ninuccia; zitta, gioia mia!... Adesso andremo dal babbo... tu vuoi venirci?... Zitta, figlia bella!...
Donna Tina l'aiutò a mettersi lo scialle e tirò la spranga dell'uscio. Come Mara apparve sulla soglia, tutte le comari sedute al sole, nella corte, smisero di cicalare, voltandosi a guardarla. Erano occhiate dure, diffidenti, che l'accusavano, la perseguitavano, la scacciavano, lei e tutta la sua grama figliuolanza.
— Buon giorno, comare Vanna... Come state, comare Filippa?...
Mentre sua madre chiudeva l'uscio a chiave, ella salutava le vicine, sforzandosi di sorridere, per disarmare la collera di tutte quelle altre a cui non aveva mai fatto nulla; ma le comari la lasciavano andar via, senza rispondere, o borbottando qualche cosa che non si capiva.
— Chiudete, chiudete, donna Tina!... — esclamò soltanto quella monella di Grazia. — Potrebbero, non si sa mai, rubare le gioie di vostra figlia!...
E tutte si misero a ridere.
Donna Tina stava per replicare con una mala parola, quando Mara l'afferrò per un braccio, supplicante:
— Lasciatele stare!... Andiamo via!
Allora, come madre, figliuola e bambini furono scomparsi sotto l'androne, ognuna, nel cortile, disse la sua contro quella ciabatta che disonorava il quartiere.
— Ci vuole una bella sfacciataggine, a pretendere che suo marito la riveda, dopo la vita che ha fatta! — diceva la Sampietrese, filando.
— Mentre quel povero Pietro Tosto era soldato e buttava sangue dal petto, lei se l'è spassata con questo e con quello...
— E poi canta miserie, fa la pietosa, per intenerire i gonzi!...
— Come non si sapesse — riprendeva la Sampietrese, più accanita di tutte, — che Vito il limonaio le ha speso un occhio del capo!...
Egli l'aveva presa con la ciurma per la raccolta degli aranci, a Monserrato; ma che cosa gli era piaciuto in quel manico di granata, in quella faccia smunta e gialla di veleno? Solo per non sentire i continui piagnistei di quegli affamati dei marmocchi, ogni altro si sarebbe fatta la croce, evitandola come la malanova! Adesso che suo marito era tornato, e dal fondo d'un letto all'ospedale militare le aveva intentato il processo che si meritava, lei faceva l'afflitta e l'innocente, trascinava i bambini dal giudice all'avvocato, e s'era messa in testa di rivederlo!...
— Vuole star fresca!... Tosto è tosto davvero, malandato com'è!...
— Chi, il soldato? — disse mastro Nunzio, entrando, con la sporta delle scarpe vecchie sotto il braccio. — Sta meglio; me l'ha detto il piantone dell'infermeria...
— Allegramente!... Quando ne uscirà, vorranno esser legnate per sua moglie!...
Il ciabattino scosse il capo.
— L'avete sempre con quella creatura?...
Ma come suonava mezzogiorno, egli accendeva il fuoco, metteva a cuocere la minestra; e le comari rientravano anch'esse, a darsi da fare in casa. Solo la Sampietrese, che aveva la biancheria distesa intorno al pozzo, sulle cordicelle sostenute da aste forcute, restava a staccare i panni asciutti e a stirarli sulle ginocchia, disponendoli poi uno sull'altro in un canestro.
Ad un tratto, l'intesero gridare:
— Il fazzoletto di seta!... Dov'è il fazzoletto di seta?
Le vicine s'affacciavano agli uscì, domandando che cosa fosse successo, e la Sampietrese, buttando all'aria ogni cosa, ripeteva:
— Non c'è più!... Non sono cieca!... Il fazzoletto bianco... l'avevo appeso qui, dietro il lenzuolo, con le mie mani!... Non c'è più... è sparito!...
— Cercate bene— disse mastro Nunzio scodellando. — Cercate in casa...
— In casa?... Cosa ho da cercare?... Non c'è! Me l'hanno preso!... Trovatelo voi, se siete buono!
E come, strillando più di prima, gli occhi le andarono all'uscio chiuso della catapecchia di Mara, esclamò, stendendo il braccio:
— Questo è lei che l'ha rubato!... Ch'io perda la vista degli occhi, se non è lei!
— Perciò sua madre ha chiuso a chiave! —confermò Grazia. — Le tiene il sacco!
— Vi dico che è lei! Chi dev'essere?... Ma se non lo restituisce, com'è vero Dio! glie lo tiro dal naso!
Se ne andò dentro, gridando ancora, e tutte le vicine le davano ragione; solo mastro Nunzio, ingoiando un boccone, ripeteva che prima bisognava cercar bene.
Egli rigovernava la pignatta, disponeva di nuovo gli arnesi, le forme e le scarpe nella sua sporta, se la passava al braccio e s'avviava. Sotto l'androne, incontrò Mara che tornava, coi bambini sonnacchiosi e un viso sconsolato.
—Cos'avete fatto?... — le chiese, fermandosi un poco.
— Ah, mastro Nunzio, lasciatemi andare!... Niente! Non vuol vedermi, non sente ragione!... Gli ha parlato il colonnello; tutto è stato inutile... Io non mi fido più — e pareva che stesse per cascare.
— Andiamo! — esclamò lui, con un gesto largo. — Non vi perdete d'animo! Solo alla morte non c'è rimedio.
— Ed io che cosa faccio a campare?... Ditelo voi, che cosa faccio?... Mio marito non vuol più sentirne di me, la miseria ci mangia vivi, la gente mi perseguita... Ah, che meglio sarebbe attaccarsi una pietra al collo e buttarsi in fondo al. mare!...
Mastro Nunzio restò a seguirla cogli occhi, mentre lei traversava la corte e, cavata di tasca la chiave di casa, apriva. Al rumore, la Sampietrese venne fuori, come una furia; le corse addosso, la prese per una spalla, le piantò gli occhi in faccia quasi volesse mangiarla, e gridò:
— Anche ladra, sei?
Mara la guardava, spaurita, non comprendendo; e l'altra la scuoteva per una spalla, le mostrava il pugno.
— Il fazzoletto?... Il fazzoletto di seta?... T'è piaciuto, non è vero?... Il limonaio non te ne comperava così?
— Che fazzoletto?... Io non so niente... per la Vergine Immacolata, non so di fazzoletto...
— Lascia stare l'Immacolata, che non sei degna di nominarla!... e restituisci il fazzoletto che era appeso qui, dietro il lenzuolo, hai capito?
— Io non so niente... non l'ho preso: possa morire di morte súbita!... Domandatelo a tutti, se sono uscita nella corte, stamattina...
E con lo sguardo invocava la testimonianza delle vicine; ma queste, che stavano a godersi la scena, non dissero una parola.
— Ah, no?... non lo vuoi restituire?... Aspetta ch'io vada dal delegato... — S'allontanò di due passi, poi si fermò, voltandosi, e le sputò in faccia:
— Ladra!
Mastro Nunzio, deposta la sua sporta, era tornato indietro, per cercare di placar quella furia; ma la Sampietrese se la pigliava anche con lui, chiamando Dio e i santi a testimoni, volendo andare subito subito alla Questura. Le altre donne l'avevano attorniata, facendola rientrare in casa, dandole ragione, ma persuadendola a non guastarsi il sangue per questo.
— Un fazzoletto che valeva più di lei! Non era neanche un anno che l'avevo comprato!...
Mastro Nunzio spinse uno sguardo dentro lo stambugio di Mara; la vide mettere a letto i bambini, baciarli e coprirli col proprio scialle. Poi venne fuori: era più pallida di prima, ma non diceva niente. Si diresse al pozzo e si mise ad attinger acqua.
Allora egli scosse la testa, infilò di nuovo la sporta sotto il braccio e riprese la sua via. Ad un tratto, il cigolio della carrucola s'arrestò e s'intese un tonfo cupo.
—Patriarca san Giuseppe!...
Dinanzi al pozzo non c'era più nessuno e la corda della secchia era scappata.
— Aiuto, cristiani!...
Mastro Nunzio urlava come un ossesso, correndo, alzando le braccia; le donne venivano fuori, spaventate, finendo per gridare anch'esse, senza sapere:
— Aiuto!... Cos'è?... S'è buttata all'acqua!... Chi, Mara?... Gesù e Maria!... Chiamate aiuto!... L'avete ammazzata!... La corda è rotta... Aiuto!...
Accorreva gente dalla via, si raccoglieva una folla di curiosi che s'interrogavano, si spingevano a gomitate per arrivare al collo del pozzo.
— Si vede, sventurata!...— gridava mastro Nunzio.— C'è poca acqua... eccola lì!
— Delle funi!... Una tavola!...
Non sapevano come disporre il salvataggio, ognuno diceva la sua, la confusione cresceva, e solo quando vennero i carabinieri col delegato, due uomini a cavalcioni a una grossa trave tenuta ad un canapo furono calati nel pozzo.
— Legatela—comandava il delegato, e la voce echeggiava nella cavità profonda.— Legatela forte...
— Corda!... Molla!... — gridavano gli uomini di sotto.
E in quel momento arrivò donna Tina, scarmigliata, come una pazza.
— Mara, figlia mia!... — Le guardie non volevano farla passare; essa le ricacciò indietro.— Figlia, figlia mia!... Assassino infame, è lui che me l'ha uccisa!...
— Silenzio! State quieta... — ingiunse il delegato; e i carabinieri tiravano ora il canapo, lentamente, spezzati in due, grondanti sudore.
— Adagio!... Arriva al collo... Attenti!...
Donna Tina che stava a guardare, ansiosamente, si nascose a un tratto la faccia nelle mani, lanciando un grido acutissimo.
Mastro Nunzio la sorresse, e come i bambini, a cui nessuno aveva più badato, uscivano nella corte, egli si mise a far segni con le mani alle comari istupidite:
— I figli!... Portate via i figli!...
Veniva su un mucchio di panni gocciolanti; i capelli impiastrati nascondevano il viso lordo di sangue. Le contusioni del capo, però, sarebbero state niente, senza la gamba sfracellata; e il dottor Valenti, a Santa Marta, diceva che bisognava tagliarla; se no sarebbe morta. Ma per questo era necessario il permesso della famiglia.
— Sia fatto come vuol Dio!... Meglio la gamba che la vita...
E nell'anticamera dell'ospedale, accanto alla sala delle operazioni, donna Tina era messa ad aspettare, accompagnata dalle altre sue figliuole, da mastro Nunzio e dalla Sampietrese, che aveva poi trovato il suo fazzoletto dietro la gabbia dei polli e veniva a sentir notizie dell'inferma.
— Almeno, l'allòppiano? — chiedeva, a bassa voce.
— Vorrei vedere!— rispose mastro Nunzio.— Li allòppiano tutti e non sentono dolore...
Dalla sala, si udivano le parole del dottore che faceva anche la lezione agli studenti arrampicati sulla galleria; e dopo un'ora di quel limbo vi fu un rimescolìo.
— È finito— disse mastro Nunzio.
L'uscio si spalancò e comparvero gl'inservienti reggendo da testa e piedi la barella coperta di tela grigia. Il viso di cera pareva, tra le bende, ancora più pallido.
— Mara!... Hai nulla?...
Ella alzò un poco gli occhi lucenti.
— No, mamma... non ho sentito niente... — e sorrise, a tutti.
Ma come, nella sera, andò peggiorando, e donna Tina nascondeva le sue lacrime per non farla abbattere di più, ella disse con un filo di voce:
— Mamma, non piangete... Lo so che io sono morta; ed è meglio... Piuttosto, mandate a dire a Pietrino che vorrei vederlo, almeno in punto di morte...
— Quell'assassino? Pensi ancora a quell'assassino?...
— ...In punto di morte!...
L'infermeria militare era dirimpetto all'ospedale di Santa Matta, e donna Tina vi fu in quattro salti. Tornò coi pugni stretti e il viso scuro.
— Non vuole?... Mandatemi a chiamare il padre cappellano...
Col padre cappellano, Mara si confessò.
— Mio marito non vuol vedermi, neanche ora... perché gli hanno dette tante cose di me... che mentre lui era soldato, io mi divertivo con questo e con quello... Non è vero, innanzi a Dio!... Fu una volta sola, col limonaio, per dar da mangiare alle creature... Glielo dica vossignoria, che vorrei vederlo, prima di morire... Lui si può muovere e io no... Sono due passi, non gli farà male...
Il cappellano corse anche lui; ma tornò solo, che Pietro Tosto diceva sempre di no.
— Allora, sia fatta la volontà di Dio!... Mamma, vi raccomando i bambini...
Ed all'alba morì.
Questa la raccontava don Giacomo Spatafora, ai villeggianti seduti al fresco, sotto i platani, dinanzi al Casino di conversazione di Sant'Antonio al Monte.
Come passava il fattorino che saliva ogni giorno, a cavallo all'asina, a Barreale per portarvi e prendervi la posta, Giovannino Paternò aveva detto:
— To': Pietro Micca!
— A proposito!— chiese il barone Ventimiglia. — Volevo domandarlo da un pezzo: si chiama proprio Pietro Micca, come quello dell'assedio di Torino?
Don Giacomo Spatafora, che era il sindaco del paese, rispose:
—Nossignore. Lui si chiama, a casa sua, Saverio Rosicalerba. Pietro Micca glie l'hanno appiccicato, quando fu del colèra del sessantasette.
— E com'è stato?
— Avrà fatto qualche atto di coraggio?
— Altro che!...— esclamò il sindaco, e stava per cominciare il suo racconto; ma il segretario comunale gli fece segno di star zitto.
Pietro Micca, avvicinandosi alla comitiva, si cavava rispettosamente il berretto filettato di rosso, e teneva abbassata come una sciabola la verga d'oleastro che gli serviva per frustare e punzecchiar l'asina restia, quando andava per la posta. Era basso di statura, con una faccia magra e piccola dal grosso naso ricurvo, dagli occhietti grigi e dalla barba rada, grigiastra, dura come ciuffi di setole.
— Che c'è, Pietro?...— chiese il sindaco, vedendolo restar piantato lì, in quell'atteggiamento quasi militare.
— Al brigadiere gli debbo dir nulla? — chiese, a voce bassa, come continuando un discorso.
— Niente. Gli dirai che i certificati non li posso fare, per la ragione che lui sa. Ma nell'ufficio c'è spiegato tutto.
Allora Pietro Micca alzò la sua verga di oleastro salutando in giro la comitiva, girò sui tacchi e si allontanò per la sua via.
— Se non pare un vecchio sergente in ritiro, con quel berretto e quella verga!...— riprese il sindaco Spatafora, ridendo.
— No; il bello sapete cos'è? — osservò il barone. — È la gran serietà, l'aria di riflessione, il suo laconismo!... E dunque sentiamo: come andò che gli misero quel nome?
— Eccomi, signore, e vi servo. Fu pel colèra del sessantasette, che i cristiani cascavano freddi come le mosche. Ma a Sant'Antonio, niente: non c'era stato per fortuna nessun caso, altro che quello della lavandaia del vicario; ma era stato un falso allarme. Per questo, appunto, la gente che scappava di qua e di là voleva venirsene da noi, a portarci il malanno in casa nostra. Autorità, polizia, non se ne parla: neppure l'ombra; che la società era in dissoluzione. Ecco signore che per guardarci la nostra pelle, noi abbiamo chiamato tutti gli uomini validi del paese per armarli e fare la guardia.
— La guardia a che cosa?
— Al paese, per non lasciarvi entrare nessuno di fuori via!
—Al solito!... Selvaggi!...— esclamava il barone, gesticolando dall'indignazione. — Sempre selvaggi sarete?...
— Selvaggi, perché mettiamo un cordone sanitario? — rispondeva il sindaco, con grande pacatezza.
— Ma che cordoni... e cordoni!... Ma non sapete che sono tutte sciocchezze?... Ma nei paesi civili...
— E se ci pigliava un colèra fulminante, chi ce lo toglieva, la vostra civiltà?
Come era un pezzo che don Giacomo Spatafora ed il barone non si bisticciavano, quest'ultimo riprendeva, stringendosi nelle spalle:
— Con voi, caro don Giacomo, ve l'ho detto tante volte, è inutile discutere!... Il colèra, se viene, è una disgrazia, come tante altre... ma non per questo si deve tornare al medioevo, coi cordoni, le sentinelle e le barricate!... È una disgrazia—ripeteva, cavandosi il cappello e abbassando un poco la testa — che manda Domineddio ma voialtri la rendete più terribile, con tutte queste paure... Col colèra, vedete fuori: si va, si viene, tutti restano al loro posto, cosa vuol dire! e le autorità dànno l'esempio...
— Sicuro, col contravveleno che hanno in tasca...
Il barone lo fissò un poco, poi si alzò come per andarsene. — A questo siamo?... V'ho inteso, a rivederci...
— Aspettate!... barone, venite qui!... — diceva don Giacomo, intanto che tutti gli altri ridevano di cuore, dimenticando la storia di Pietro Micca.
— Prendete fuoco?... — ripiglia don Giacomo, costringendo il barone a sedersi nuovamente. — Andiamo, ditemi un po': lo sapete cos'è che produce il colèra?
— Sono i microbi.
— Ma gli scienziati, ce n'è che non ci credono?
— E cosa volete concludere?
— Che ognuno ha la sua opinione! E la mia è che sia malefizio...
A questa dimostrazione, fatta da don Giacomo con un sorriso ambiguo, come per dare a intendere che egli non credeva poi molto a quel che diceva, il barone Ventimiglia stava per andarsene un'altra volta, perdendo la pazienza, col maggior gusto degli astanti, quando Giovannino Paternò disse:
— E la storia di Pietro Micca?... Lasciamo per ora tutti questi discorsi, e sentiamo la storia.
— La storia!... La storia!...
Mentre il barone gesticolava ancora, don Giacomo Spatafora che lo guardava con la coda dell'occhio, riprese il suo racconto, interrompendosi un poco da principio, fingendo di aver paura di lui:
— Dunque... abbiamo detto, signore, che, chiamati tutti gli uomini validi... ci siamo armati per far la guardia al paese. Di armi, quelli che ne avevano: doppiette, o pistole d'arcione, o carabine, portavano le proprie; per gli altri, c'erano i fucili della Guardia Nazionale; ma non bastavano a tanti. Saverio Rosicalerba, che ancora non si chiamava Pietro Micca, ma aveva sempre quell'aria di serietà, ed era uomo di poche parole, viene da me e mi dice che vuole un fucile, per prestare il suo servizio. Io dico: se non armiamo lui, chi vogliamo armare? Basta: la distribuzione, allo scopo di evitare favoritismi, l'abbiamo fatta a sorteggio ed ecco signore che io ho letto il nome di Saverio Rosicalerba invece di quello di Pietro Strano, che era veramente uscito. Potevo sapere?... Il grazioso era che gli schioppi — dei ferri vecchi — erano molto lunghi; e a vedere Rosicalerba, quando teneva il suo a spall'arme pareva uno che portasse una canna da pesca!
Gli astanti cominciavano a ridere, e il barone Ventimiglia, rabbonitosi, prestava anche lui ascolto al narratore.
— Armati tutti gli uomini, ecco signore che abbiamo disposto il servizio. Prima di tutto, ci siamo divisi in due squadre: una per la guardia di giorno e l'altra per la notte. Per non usar preferenze, abbiamo diviso a metà gli uomini di tutti i ceti: metà dei proprietari il giorno e metà la notte, così i contadini e gli operai: in tutto, saremo stati due centinaia. Di giorno, era niente: dai posti di guardia si dominavano le strade e i campi, se mai qualcuno avesse voluto entrare saltando i muri, venendo dalle traverse. Il più del tempo, si passava giocando alle carte, oppure chiacchierando, coi fucili a portata di mano. Ogni tanto, ma di raro, perché sapevano le nostre intenzioni: drlin, drlin,, lo scampanio delle sonagliere. Una carrozza: all'armi! Eccoci in fila in mezzo alla strada, sbarrandola, coi fucili spianati: "Alto là!...".
— Selvaggi!... — borbottava ancora il barone.
Don Giacomo Spatafora, senza badargli, riprendeva:
— "Alto là... Di dove venite?". "Da Barreale". "Dietro —fron'!". "Ma" dice "abbiamo il certificato del sindaco; abbiamo questo, abbiamo quest'altro...". Le donne pregano, i bimbi guardano spaventati. "Dietro—fron'!... Cocchiere: volta!". E il cocchiere, vedendosi le bocche dei fucili, voltava subito. "Buon viaggio!...".
Come il barone si dimenava sulla seggiola, don Giacomo s'interruppe.
— Avete nulla, barone?...
— Ho che è più forte di me!... Son cose che non posso neppur sentirle.
— E perché... Vi pare che abbiamo fatto andare indietro tutti quanti? Nossignore! La famiglia di Tornabene non l'abbiamo ricevuta? "Alto là!... Di dove venite?". "Da Regalmini". "Avete il certificato?". "Eccolo qua". "Spiegatelo e mettetelo in mezzo alla via". Come il foglio di carta, aperto era per terra, uno di noi s'avvicinava e ci guardava. "Vengono da Regalmini: c'è il bollo". A Regalmini si godeva perfetta salute: li abbiamo lasciati entrare!
Gli astanti ridevano più di prima, all'aria di serietà astuta con cui don Giacomo diceva quelle cose. Il barone guardava per aria, arruffandosi i baffi.
— Dunque, di giorno la guardia era niente. I guai erano di notte: prima di tutto per la stessa oscurità, pel sonno mancato; poi perché, non potendosi dominare le posizioni, bisognava scaglionarsi per tutta la cinta del paese, in mezzo alle vigne ed ai boschetti. Ecco signore che don Antonino Laspina, il capitan d'arme, dispone il servizio delle sentinelle: alla torretta dei Ficarazzi, a San Giovanni, al palmento di Giacomia, nella sciara dei Pollastrella, e così tutto in giro. L'ordine era: al primo all'arme — fuoco! Tutte le sentinelle vicine, appena sentito lo sparo, dovevano concentrarsi nel punto dove si era tirato. Ogni uomo era sempre posto allo stesso punto, per abituarsi a conoscere la località. Un piano di guerra, in tutto e per tutto, ché don Antonino ci aveva genio, e ai villani non raccontava altro che storie militari, e anche quella di Pietro Micca, il vero, che avevano sentita a bocca aperta... Veniamo adesso al posto della Macalubba, quello dove montav a la guardia Rosicalerba, che era il più difficile da guardare. La Macalubba, sapete com'è: il gruppo dei Casalini qui; dinanzi, il boschetto; poi le viottole scorciatoie che s'incrociano dietro il poggio. Marasca e Falsaperla erano stati messi al crocevia; cento passi più là, Rosicalerba, fra il boschetto e le case; poi Nino il cacciatore nelle vigne di massaro Nicola, poi don Giuseppe Frássari, e poi altri... Eccoci arrivati, signore, alla notte di mezz'agosto, che c'era una luna piena da vederci come a mezzogiorno. Don Antonino Laspina, a un'ora di notte, prima di andarsene al corpo di guardia centrale del Municipio, aveva passata la ronda, per vedere se tutto stava bene; e, come ogni sera, ripeteva a Rosicalerba e a tutti gli altri la consegna: "Il primo cristiano che s'affaccia dietro un muro o dietro un albero sparate subito all'aria per fare accorrere gli altri. Se invece sentite sparare, non fate fuoco, mi raccomando; ma correte sul luogo, per dare mano forte. Se veniste col f ucile scarico, non potreste essere di nessun aiuto... Avete capito?". Rosicalerba chinò il capo, senza dir niente, come al solito. E così, passata la ronda, ognuno restò al suo posto. Io mi trovavo di guardia alla torretta dei Ficarazzi ed avevo accesa la pipa. Con quel chiaro di luna, si vedeva distintamente tutto in giro per la campagna e si sarebbero potuti contare i sassi della via; ma il cuore si stringeva, pensando a quello spavento della peste. Non era ancora tardi, ma non si sentiva il più piccolo rumore, il più piccolo segno di vita. A Barreale, dove morivano a cinquanta per giorno, non si vedeva un solo lume; mentre, in altri tempi, a due ore di notte, c'era come una luminaria. Per le strade, qui, non un sonaglio di mulo, non stridore di ruote, non un canto di carrettiere. Al paese, tutti tappati in casa. Silenzio e solitudine. Vi dico che, con quel chiaro di luna, era una cosa che stringeva il cuore... Io avevo finito di fumare la mia pipa e l'avevo riposta in tasca. In coscienza, avevo un po' di sonno; pensai: "A quest'ora chi vuole andare a ttorno?". Così, appoggiato il fucile al muro della torretta, mi misi a sedere sopra un grosso sasso... e credo che mi appisolai... Tutt'ad un tratto, due colpi, uno dopo l'altro: pon... pon... Salto in piedi, col fucile in mano. Venivano dalla Macalubba. Dico: "Ci siamo!...". Possono passare cinque secondi, quando si ode, dalla stessa parte, un terzo colpo: pan!... Sangue di bacco, la cosa è grossa!... Mi metto a correre verso la Macalubba. Alla guardia di San Giovanni non c'era nessuno; la sentinella era accorsa come me. Corro più presto; da lontano, nella vigna di massaro Nicola, dov'era il posto di Nino, vedo un gruppo di gente. "Che è?... che è?..." grido da lontano. Rispondono, agitando le braccia: "Niente!... Niente!...". Cos'era? Nino il cacciatore aveva visto saltare un coniglio tra le vigne e gli aveva tirate due piombate, freddandolo...
— Ah! ah! ah!... — una risata scoppiava nell'uditorio.
— Un coniglio che pareva un maiale: non ne ho visto mai uno così grosso! Nino lo teneva per le zampe di dietro dandolo a pesare: "Erano tre sere che me la faceva in barba, saltandomi fuori tiro. Sangue d'un ulivo, ci avevo rabbia. Stasera m'apposto dietro il muro, col fucile. Tutt'in una volta: fru—fru... pon—pon!...". E pesava la bestiola, che sarà pesata quasi dieci chili. Intanto, altra gente accorreva, da tutti gli altri posti, e don Antonino Laspina anche lui. "Chi va là?... Amici!... Cos'è stato?... Niente, il coniglio...". E ognuno voleva sentire quanto pesava, tanto era grosso, la bestia! "Ma tu," dice don Antonino Laspina a Nino il cacciatore, "quanti colpi hai sparati?". Risponde Nino e dice: "Due signore". "Io però ne ho sentiti tre" dico io, dicono tutti gli altri: "Sicuro, tre!". "Dunque, chi ha sparato l'altro colpo?". Nino, col capo al coniglio, non si era accorto di niente. Ecco Marasca che dice: "Il terzo colpo è partito dai Casalini, dev'essere stato Rosicalerba". "Ma dov'è Rosicalerba?". Fra tutti gli accorsi, Rosicalerba non c'era. "Andiamo a vedere...". Ci siamo buttati, signore, i fucili sulle spalle e ci siamo avanzati fra i Casalini e il boschetto: Rosicalerba non si vedeva! Si ferma don Antonino e si mette a gridare, in quel silenzio della notte, con le mani fatte ad imbuto intorno alla bocca: "Ohé!... Ohé!...". Non risponde nessuno. Ad un tratto, io inciampo in qualche cosa . Mi chino, e che trovo? Lo schioppo di Rosicalerba. "Don Antonino, qui c'è lo schioppo!...". Si avvicinano tutti. "Com'è", dice, "carico?". Fiuto dalla parte del cane e dico: "È stato sparato or ora!". Ci fermiamo allora a tenere consiglio: c'è il caso che quel povero Rosicalerba abbia passato un guaio? La consegna era precisa: non sparare, ma accorrere. Se ha sparato anche lui, sarà stato per qualcuno che voleva passare per forza?... Don Antonino Laspina ci dispone in fila, ed ecco che ci siamo messi a battere il boschetto. "Rosicalerba, ohé!... ohé...". Niente Rosicalerba. Tornati tutti dinanzi ai Casalini, ognuno dice la sua, e non sappiamo che cosa fare. A un tratto don Antonino si batte la fronte e ci fa segno di seguirlo dentro le rovine. "Cosa volete fare?". "Niente, venite con me...". Dentro, c'era buio come in un forno. Abbiamo fatto dei fasci d'erba secca e li abbiamo accesi. Subitamente, come abbiamo sbattuto per terra i calci dei fucili, s'è sentito un grido: "Aiuto!...". "Ah, carogna!..." fa don Antonino, "l'avevo detto io che ha avuto paura e s'è nascosto!". Ecco che siamo entrati in fondo all'ultima stanza, e abbiamo visto Rosicalerba con la faccia al muro. "Ohé", grida Laspina, "sei sordo?...". Lui risponde, senza voltarsi, con una voce pietosa: "Chi siete...?". "Siamo noi!... Cosa fai qui dentro? Così stai alla consegna?...". Era giallo come un morto e noi ci tenevamo i fianchi, dalle risa. "Cosa fai?..." tuona don Antonino, per non ridere anche lui. Dice, come domandando perdono: "Niente". "E perché hai sparato?". "Perché ho sentito sparare... per chiamare aiuto...". "E il fucile?...". "Mi è cascato a terra...". Allora don Antonino si avanza e gli batte sopra una spalla: "Bravo Pietro Micca! Evviva! Evviva!...". Voleste vedere? Una convulsione di risa, da non poterne più... Pietro Micca! bravo Pietro Micca!... Da quel momento, Rosicalerba si è chiamato Pietro Micca!
Il barone Ventimiglia, Paternò, il segretario, tutti ridevano; quando, finita la storia, s'intese uno scalpiccio di ferri sul selciato, e comparve Pietro Micca, a cavallo all'asina, con la sacca della posta e la verga in mano. Dietro, venivano due carabinieri a cavallo.
— Se non pare un generale!
L'asina, sentendo i cavalli, si mise a recalcitrare, e Pietro Micca lavorava a frustarla di santa ragione, per non fare cattiva figura dinanzi a tanti spettatori. I carabinieri passarono innanzi e l'asina continuava a girare su se stessa.
— Dàlli, Pietro... attento!...
A un tratto, come uno dei cavalli nitrì da lontano, essa partì al galoppo, con Pietro Micca che, afferrato alla criniera, sollevava la verga in atto di trionfo.
— Bravo Pietro Micca!... Evviva! Evviva!...
Fra un interrogatorio e l'altro, il cancelliere aveva cominciato a narrare al pretore il fatto dei Sortino: "Una vera battaglia: i due fratelli Sortino col padre, da una parte e dall'altra gli Sgraia padre e figlio... In mezzo, Anna Sortino, che strepitava come una gallina spennata viva... Tutta la scena è stata per lei...". Ma non gli era riuscito ancora di completare la storia, per l'andirivieni continuo degli avvocati, dei testimoni e di tutta la gente che aveva da fare con la giustizia.
Ad un tratto, come il magistrato aveva finito di udire un carrettiere accusato di ribellione alla forza pubblica, dal fondo del gabinetto si avanzarono due contadini, due giovanotti alti, robusti, snelli, dalle fisionomie larghe ed aperte. Arrivati dinanzi al tavolo, si fermarono nello stesso tempo, tenendo i berretti con tutte e due le mani.
— Che c'è? — disse il pretore, fissandoli, mentre il cancelliere gli faceva dei segni d'intelligenza, come per dire: "Eccoli qui!".
— Siamo venuti, Vossignoria, all'oggetto di dare una querela.
— Come vi chiamate?
— Sortino... Salvatore Sortino... Cosimo e Salvatore... — risposero, suggerendosi a vicenda.
— Contro chi date querela?
— Contro Giuseppe Sgraia e Gaspare Sgraia, padre e figlio.
— Che cosa vi hanno fatto?
— Qui... Vossignoria può vedere... — e tutti e due si voltarono di profilo, mettendo un dito sopra un punto della faccia.
— Venite da questa parte.
Nella sala attigua, c'era il dottore, che fattosi alla finestra, prese a ciascuno dei querelanti il capo con tutte e due le mani, rovesciandolo un poco ed esaminandolo alla luce.
— Ferita lacero—contusa nella regione mascellare destra, lunga cinque centimetri, guaribile in dieci giorni. Cos'era, un bastone?
— Nossignore, una sedia...
— Contusione al zigomo sinistro, con lacerazione ed ecchimosi. Guaribile in sei giorni.
Il cancelliere prendeva nota di tutto, seguitando a far segni al pretore. Tornato nel suo gabinetto, questi continuava ad interrogare.
— Sentiamo: com'è andata la faccenda?
— Ecco qua, signor Pretore: — disse Cosimo. — È stato per difendere nostra sorella Anna, che sempre suo marito Gaspare Sgraia le faceva maltrattamenti.
— Cosa faceva, la bastonava?
— Sissignore, —confermò Salvatore.
— A segno, — riprese l'altro — che nostro padre era andato a prendersela per ricondursela a casa.
— Ma suo marito poteva opporsi! — obiettò il pretore.
— Ecco qua... — aggiunse Cosimo Sortino, con un mezzo sorriso, quasi a significare che il pretore aveva ragione di avanzare quella difficoltà ignorando le circostanze del fatto. — Ecco qua: essi non sono maritati...
— O dunque?
— Stanno insieme.
Il pretore che badava a suggerire al cancelliere le risposte da scrivere nel verbale, domandò:
— Allora vostra sorella sta a serva con lo Sgraia?
— Nossignore...
— Ma insomma, cos'è questo pasticcio?
Cosimo disse:
— Stanno assieme, così...
Il pretore prima guardò lui, poi l'altro fratello, che allargò un poco le braccia, con un gesto di adesione.
— Ho capito. E per questo siete venuti alle mani?...
— Nossignore... sissignore... — I due fratelli Sortino si confondevano, intanto che il cancelliere se la rideva sotto i baffi.
— Insomma: è stato per questo, sì o no?
— Signor Pretore, ecco qua: — disse risolutamente Salvatore, facendo passare il berretto da una mano all'altra. — Che sono insieme, è un affare di un anno e mezzo. Gaspare Sgraia s'è portata in casa nostra sorella all'altro San Giuseppe: giusto fa un anno e mezzo il diciannove di questo mese. Intanto, Vossignoria deve sapere che la maltrattava da mattina a sera, che perfino i vicini se ne scandalizzavano. Questo sapendo, noi abbiamo detto in famiglia: "Andiamo a pigliarci Anna, e finiamo la commedia". Siamo andati tutti e tre, col signor padre; ma io e mio fratello siamo rimasti in istrada. È salito solo il signor padre, in casa di Gaspare Sgraia. Alla salita, il signor padre dice: "Gaspare, questa commedia è durata assai; e se devi trattare così mia figlia, io me la riporto a casa!". Quello risponde che non e vero, che Anna l'ha mantenuta e rispettata; e alza anche la voce. Il signor padre gli risponde, invece, qualmente l'ha presa a legnate, e che ci sono i vicini pronti a far testimonianza, e che lui è un bugiardo. Allora comparisce il padre di Gaspare Sgraia, a difendere suo figlio ed a minaccia re ad alta voce il signor padre.Alle minaccie, siamo saliti anche noi; qui le lingue si sono confuse e io non mi ricordo niente. So che le sedie sono volate, e che quando sono venuti i vicini a dividerci, io e mio fratello che è qui, ci siamo trovati con questi segni in faccia.
Il pretore restò un poco a considerarli.
— E due giovanotti come voi, — disse lentamente — si fanno sfregiare, per soprammercato, dopo che hanno preso loro la sorella?
Cosimo e Salvatore Sortino non risposero nulla; aprirono soltanto un poco le braccia.
— Non siete stati soldati?
Cosimo rispose:
— Io, sissignore.
In quel momento, s'intesero delle voci; l'usciere esclamava: "Vi dico che c'è gente!..." e altri replicavano: "È per la stessa causa!... Se è per la stessa causa!...". L'uscio finalmente si schiuse e due altri individui si fecero avanti. Questi, che parevano di condizione un poco più elevata dei due giovanotti contadini, vennero a mettersi dall'altro lato del tavolo.
— Voialtri chi siete?
— Io sono Giuseppe Sgraia, signor Pretore — disse il più vecchio— e questo è mio figlio Gaspare.
— E che cosa volete? — riprese l'altro, irritato; intanto che il cancelliere gli faceva dei segni con una mano per significare: "Li lasci dire; ne sentiremo delle belle!".
— Signor Pretore, sono venuti a fare una violenza di domicilio, minacciando, in casa nostra!...
— Chi è venuto?
— Salvatore e Cosimo Sortino — rispose lo Sgraia, additando i due fratelli, che se ne stavano lì, ritti e tranquilli.
— Perché vi minacciavano?
— Signor Pretore, la servo io, — disse Gaspare, facendosi un poco più avanti. — Due anni addietro...
— Un anno e mezzo, — corresse Cosimo Sortino.
— Sissignore, dice bene; ma questo non importa. Un anno e mezzo addietro, la loro sorella Anna se ne venne a stare con me...
— Se ne venne, o la faceste venire per forza? — chiese il pretore.
— Se ne venne lei, di sua sponte!— protestò Gaspare.
— Quanti anni aveva?
— Sedici anni compiti, signor Pretore...
— E la famiglia di lei non si oppose?
— Nossignore; siamo stati un anno e mezzo insieme, come marito e moglie...
— In casa di mio figlio, — commentò il vecchio — Anna Sortino è stata sempre trattata bene, ché, grazie a Dio, non siamo ricchi, ma un poco di provvidenza l'abbiamo...
— E durante quest'anno e mezzo, suo padre, i suoi fratelli, non hanno fatto nulla per riaverla?
— Cosa dovevano fare? — ridisse il vecchio. — Era trattata come una signora!...
Il pretore si volse verso i fratelli Sortino; chiese duramente:
— In tutto questo tempo, voialtri non avete dunque fatto nulla per la situazione di vostra sorella?
— Nossignore, — rispose Salvatore alzando il capo.
— Ah! va benissimo! Dunque, — riprese, voltandosi verso quegli altri, — sono venuti a riprendersi la sorella? Perché se la volevano riprendere?...
— Signor Pretore, — disse Cosimo Sortino — perché la maltrattava...
— Non è vero! — sostenne Gaspare Sgraia. — Io non l'ho maltrattata. Facciamolo dire a lei stessa, allora!...
— O dunque: perché sono venuti a casa vostra?
— Perché... ecco qua...
Come Gaspare si confondeva, suo padre gli dette una piccola spinta in una spalla, per farlo tacere.
— Signor Pretore, la verità sacrosanta come l'Evangelo, la vuol sapere? È questa che le dico io. Quando mio figlio si prese Anna Sortino, fu col piacere della famiglia di lei. Lo sapevano, che in casa nostra non le sarebbe mancato nulla! E anzi, il padre della ragazza aveva promesso a mio figlio che gli avrebbe dato un pezzetto di vigna. Gaspare, anzi, se la prese con questo patto. Se non era un ragazzo, la vigna doveva farsela dare prima; ma Vossignoria sa com'è la gioventù, che non considera. Ora, ogni volta che mio figlio mandava a dire a Sortino di mantenere la sua promessa, si sentiva rispondere: "Oggi, domani, stasera..." ma non si concludeva mai niente. Passa un anno, passa un anno e mezzo, e ancora non abbiamo visto né vigna, né uva!
Il pretore guardava i due fratelli, che restavano impalati, con le braccia lunghe pendenti, stando a sentire come non fosse il fatto loro.
— E poi?
— E poi, signor Pretore, i Sortino erano ben contenti di aver collocata la ragazza senza metter mano alla tasca! Ma queste sono azioni che non si fanno, ingannare un giovanotto, promettendogli questo e quest'altro, e poi lasciandolo solo nel ballo, coi figli che possono venire di momento in momento!...
— Allora, — osservò il pretore— se la ragazza era di peso in casa vostra, perché non l'avete lasciata andare, quando sono venuti per riprendersela?
Gaspare Sgraia disse:
— Ma, signor Pretore, consideri lei: dopo un anno e mezzo che siamo stati insieme, anche se fosse stata una cagna ci avrei preso affezione!...
— Già, l'affezione!... — ripeté Cosimo Sortino, sorridendo. — L'affezione era per avere la roba!
— E non l'avevate promessa, eh? — chiese il vecchio, picchiando con una mano sul tavolo. — Bisognava darla, se l'avevate promessa!...
— Già; e per costringerla a farvela dare, pigliavate a legnate nostra sorella!
— Non è vero, per Gesù Sacramentato! — attestava Gaspare Sgraia. — È vero, sissignore, che io le dicevo di persuadere i suoi parenti a dare il convenuto; ma con le buone, sempre con le buone!...
— Già!... già... — ripeteva Salvatore Sortino, con un tono d'incredulità, ma senza scomporsi.
— Com'è vero Dio, signor Pretore!...
— E le lividure che vide la comare Giovanna?
— Le lividure?... quali lividure?
La discussione procedeva calmissima, specialmente da parte dei Sortino. Il pretore tagliò corto, rivolgendosi a questi ultimi:
— Insomma, voialtri avevate promesso sì o no di dare la roba?
— Sissignore! — affermò Salvatore. — Ma di darla se nostra sorella era ben trattata, e se le cose andavano come dovevano andare!
— Allora, volevate costringere costui a sposarla, per poi dare la roba?
— Nossignore! — protestò Sortino. — Noi siamo andati per riprenderci nostra sorella!
— E per non dare il convenuto! — esclamò lo Sgraia.
— Naturale! per non dare niente! Dopo che la trattavano così!... Il pretore guardò il cancelliere, che se la godeva, grattandosi un'orecchia col portapenne, e faceva delle smorfie con la bocca, come per dire: "Che gente!".
— E vostra sorella adesso con chi è?
— Eh! con lui... — rispose Salvatore, additando Gaspare Sgraia.
— Benissimo! — esclamò il magistrato. — Adesso finiamola. Voialtri Sgraia volete dar querela per violazione di domicilio?
— Una volta che sono venuti a darla loro!
Il cancelliere stropicciava i piedi sull'impiantito.
— Allora, siete voialtri Sortino che vi querelate per aggressione e ferimento?
I due fratelli si consultarono con lo sguardo. Cosimo disse:
— Eh! se si querelano essi...
Il pretore picchiò con una mano sul banco, e sorse in piedi.
— Non c'è fretta. Quando poi vi deciderete!... Usciere, chiamate l'udienza.
Nell'anticamera, molte persone aspettavano il proprio turno per essere introdotte; e come don Rosario Leone entrò, tutti si voltarono a guardare il nuovo venuto. Egli si mise a sedere sopra uno spigolo di poltrona, guardandosi intorno timidamente, quasi vergognoso della sua giacca di panno grossolano, del suo berretto contadinesco che non sapeva in qual mano tenere, fra tanti signori che si baloccavano con le mazze dai pomi d'argento.
— Chi è?... — si chiedevano nell'altro angolo della sala, additando quel faccione tutto liscio, quella figura tozza e bonaria.
— Don Rosario Leone, il primo coltivatore della provincia!— rispose il sensale Faranda, che si alzò e gli andò incontro, battendogli sopra una spalla: — Voi qui, don Rosario?... Da quando bazzicate coi banchieri?...
Don Rosario si alzò, rispettosamente, balbettando qualche parola: era molto confuso.
— State comodo! — disse l'altro, come fosse in casa sua, e mettendoglisi a sedere vicino. — Beato voi, che ve ne state in campagna, e mettete il vostro denaro in buone terre. Qui c'è l'inferno, lo sapete?... A proposito, come sta vostra moglie?
— Sempre a un modo...
— Mi dispiace!... Ma, i medici?
— Non sanno niente. Si dovrebbe andare a Napoli, per consultare un dottore...
— Perché non vi andate? Vostro figlio è ancora lì?
Ad un tratto don Rosario prese la mano del sensale, abbassando ancor più la voce:
— Sentite, don Salvatore, non mi parlate. Non ne posso più. Sono sfinito, non ho forza, non ho coraggio...
— Ma che cos'è stato?... Avete nulla?... Volete qualche cosa?... — chiedeva l'altro premurosamente, facendoglisi più accosto.
Don Rosario disse, tutt'in una volta, quasi avesse fretta:
— Ho bisogno di denaro: mio figlio ha da pagare dei debiti: perdite di giuoco, vuoto di cassa, che cosa so io? Se non paga, se non gli mando i denari, subito, è rovinato, la sua carriera è finita. Coi militari, non si scherza; capite? E quell'altra sventurata che è buttata in fondo a un letto! E dei creditori che non mi dànno pace: carta bollata su carta bollata; sapete com'è dei piccoli impegni, che ne abbiamo tutti, contratti con la sicurezza di poter far fronte... Chi avrebbe previsto questo inferno?..
Adesso il sensale s'era appoggiato allo schienale della poltrona, scuotendo la testa e torcendo un poco la bocca.
— Eh!... Sono guai serii... Ma voi, così accorto?...
— E che accortezza volete che basti, se le tegole vi cascano sul capo?... Bussare a tutte le porte, salire e scendere scale, e tornarsene sempre con le mani vuote; perché? certe volte mi viene da ridere, perché! Per otto mila lire, che solo l'ingrasso delle stalle di Primosole vale di più! Otto mila lire, anche meno per tre mesi, anche per due! con la certezza di pagarle fino all'ultimo centesimo, anche prima della scadenza, non si possono avere, capite?...
— A chi lo dite!...
— Ora mi resta questa speranza, del commendatore. Dicono che lui può tutto, gli ho fatto parlare... Voi che speranze mi date? Dirà di sì?...
— Eh! se lui vuole...
Tacquero. Don Rosario, girando penosamente il capo come in cerca d'aria, picchiò colla mano grossa, corta e pelosa sul proprio ginocchio.
Tutt'intorno, si parlottava sommessamente, come nell'anticamera di un dottore. Ad intervalli, la bussola si schiudeva, qualcuno usciva indietreggiando e salutando; e il cameriere introduceva un altro. Dall'uscio dirimpetto, si vedeva una fila di stanze divise per il lungo da uno steccato basso, oltre il quale gl'impiegati stavano curvi sui loro registri. Ogni tanto, il campanello elettrico tintinnava, il cameriere andava a prendere gli ordini, e un commesso, con la penna all'orecchio, un libro dal dorso verde sotto l'ascella, traversando rapidamente l'anticamera, passava di là, dal commendatore.
Il sensale non interrogava più l'amico; si gingillava con la catenella dell'orologio, per darsi un contegno. Poi venne il cameriere a dirgli:
— Tocca a lei, vuole accomodarsi?...
— Allora, permettete? Due parole, e vi cederò il posto.
Infatti, dopo qualche momento la bussola si riaperse; Faranda venne fuori e don Rosario Leone entrò.
Il commendatore, seduto al grande scrittoio a ribalta, s'era voltato dalla sua parte, si era tolto il sigaro dalla bocca e gli aveva stesa la mano, invitandolo ad avanzarsi.
— Oh, lei! Qui, s'accomodi; tenga in testa, la prego!... È un tempaccio... Metta dunque il suo cappello!...
Don Rosario sedette sull'orlo d'una seggiola di Vienna, senza osare di appoggiarsi alla spalliera.
— Lei vorrà perdonarmi — cominciò — se vengo a disturbarla...
— Lei non mi disturba niente affatto; mi fa un vero piacere. Si è molto onorati...
— Per carità!...
— Di ricevere una persona del suo merito!
— Il cavaliere Pagliari, — disse allora don Rosario, cogli occhi che gli ridevano, — le avrà parlato...
— Signor sì, è stato qua stamani; lui e tutta la Camera di commercio, e tutti i direttori delle banche. Come mi vede, io non ho ancora preso un boccone...
— Mi dispiace...
— Eh, fosse questo soltanto! È che la cosa non può durare. L'affare è serio, gravissimo! Più tempo passa, più la situazione si complica. Sa che è fallito Serrigliano?
— Non so...
— Ma è naturale, signori miei! I nodi vengono al pettine. È finito il tempo delle lusinghe! Prima si pigliavano i quattrini da una parte e si pagavano all'altra, e poi da capo; e con questo va e vieni si tirava via. Ora è finita! Non si scherza! Se lei scende in piazza, per mille lire, può avere la firma di Torlonia —dico, di Torlonia! —non ne trova neppur cento. Ieri, non più tardi di ieri, una persona che non posso nominare — ma si figuri: una delle migliori firme, due milioni di proprietà, una gestione di affari considerevole — ebbene, lo crederebbe? cercava otto mila lire, ed era disposta a pagare anche il dieci! Capisce bene, non è a dire che fosse il sei, o l'otto; perché tutto è relativo. Sono venuti da me, ed io sono l'ultimo! Vuol dire che non hanno trovato a nessun'altra parte. Ma è naturale: le banche non ne vogliono saper niente, nessuna fa operazioni nuove, i depositi sono tutti ritirati, e ognuno seppellisce il numerario sotto un mattone! I privati, non ne parliamo; chi ha quattro soldi se li tien cari. C'è più, gli strozzini? Ma senta dunque un poco: il Chiara cerca lui denari!...
E il commendatore riaccese il suo virginia.
Don Rosario girava intorno uno sguardo vago, facendo macchinalmente dei conti sulle dita. Poi disse:
— Allora, una metà, lei non crede?...
— Io credo — riprese subito il commendatore infilando il pollice nello sparato del panciotto — che chi ha coraggio e quattrini, in questo momento può far quel che vuole, e tiene in pugno un paese. Quando vi vengono ad offrire la firma di Gerandi e Milio —di Gerandi e Milio, signori miei! — per cinque mila lire, all'otto!... Gerandi e Milio che cercano cinque mila lire!... Ma una cambiale con la firma di Gerandi e Milio, se io la chiudo dentro la mia cassaforte, è meglio che se ci tenessi altrettanti napoleoni d'oro! Capisce bene, io non le avevo, le cinque mila lire; ma avrei impegnato gli orecchini di mia moglie, per dire; tanto l'affare era vantaggioso. Non si scherza: Gerandi e Milio!... E tutti, tutti gli altri, i più grossi, tutti inclusi e nessuno escluso. Lei vede: le riferisco fatti, fatti che parlano chiaro! Per venire da me, costoro, vuol dire che non hanno trovato nulla alla Banca Nazionale; Gerandi e Milio, che in tempi ordinarii, se scontavano un milione era come se io scontassi mille lire! Ma il direttore ha le sue istruzioni, non c'è cristi, ed ieri lo ripeteva in pubblico casino: "Nessun effetto nuovo! Fuori i sensali! Fuori gli strozzini! Qualche operazione limitatissima con chi è stato sempre esatto come una sentinella". Certuni, non si crederebbe, se la pigliano con lui, come se quello i denari li cavasse dalla propria saccoccia. Non lo voleva mandare a sfidare, il barone Giammaria? Dice: "A me respinge una cambiale di sei mila lire? O non lo posso comperare, lui e tutti i consiglieri di sconto?". Ma, signori miei, io domando e dico: quelli che colpa ci hanno? Quelli hanno una consegna, e la consegna viene dall'alto. Il direttore dice: "Io sono direttore commerciale e industriale; il denaro della Banca serve al commercio e all'industria, non ai proprietari! Il proprietario faccia l'operazione del credito fondiario; il credito fondiario è istituito per questo". Ma, fra di noi, caro signore, possiamo confessarlo: la rovina della piazza non è cagionata da questa facilità di credito al proprietario? Piglia oggi e piglia domani, invece che per migliorare le terre il denaro si inverte ad altri usi — lasciamo star quali! — e quando un bel giorno il più corto riman da piede, mandano a sfidare il direttore della Banca Nazionale! C'è serietà? Questo si chiama fare gli amministratori?...
— Ma, una cifra più piccola... — interruppe ancora don Rosario, facendo sempre dei conti, con un'espressione febbrile nello sguardo: — Soltanto tre mila...
— Io glie l'ho già detto: cifre, interessi, scadenze: tutto è relativo. Se ne sono fatte delle operazioni, per diecine e centinaia di migliaia, a lunghi termini, al sei ed anche al cinque, che pareva una usura! Ora come ora, cento lire, creda a me, è bravo chi le trova. Stia sicuro che non esagero. Ma senta un poco qui: c'è più dell'anticipo sopra pegno? La cambiale è un pezzo di carta firmata — la fiducia, sta bene; tutti siamo galantuomini, eccetera, eccetera — ma la carta, carta è! Il pegno ha un valore intrinseco, il pegno rappresenta qualche cosa per se stesso! Io vi porto un oggetto che vale, puta, dieci, e vi dico: "Questo è un oggetto che vale dieci" oppure: "Dite voi stesso che cosa vale!... Quanto dite che vale? Otto? sei?... Ebbene, io vi domando di prestarmi quattro, tre...". Nossignore! Non è più possibile! Non si fanno nemmeno anticipi! Quando si rifiutano gli anticipi — contro il pegno! — non c'è più dove arrivare!... È una cosa che n on si è mai vista. Krak ce ne sono stati tanti, difficoltà ne abbiamo incontrate; ma come ora? È il finimondo! Gli avvisi di protesto raccomandati ogni giorno alla posta, sa a quanto sommano?... Dica lei... Non si crede: a duecento, a trecento!... C'è questo di buono, che i notai hanno affari!...
E il commendatore si mise a ridere.
Ora, don Rosario Leone non diceva più nulla, non faceva più conti sulla punta delle dita. Se ne restava lì, come non avendo più la forza di alzarsi, inchiodato su quella seggiola dalla stanchezza, dall'avvilimento, tenendo il suo berretto in mano come se domandasse l'elemosina, cogli occhi stranamente fissi sopra un calendario americano appeso al muro.
— Ma, dice, il denaro è finito? — riprendeva il commendatore, rovesciandosi un poco sulla poltrona. — Il denaro è nascosto, in questi paesi di provincia, che rappresentano il forte dei depositi. Tutti i depositi furono ritirati. I milioni ritirati non saremmo buoni neanche a contarli. Che cosa ne fanno? Si contentano di starli a guardare. Questa, io dico, è cretineria bella e buona. Ma comprate dunque; perché occasioni come queste, con tante espropriazioni iniziate, non se ne presenteranno mai più!... Qualcuno se ne comincia a persuadere. L'altro ieri, Montesani ha firmato il contratto per la compra dei cinque feudi di Roccellara: due milioni e settecento trenta mila lire, cinque feudi che valgono cinque milioni, ad occhi chiusi. La Bisaccia, qui alle porte, è stata venduta duecento mila lire; per mezzo milione avrei creduto di fare un bell'affare. Questo Montesani prima era un fallito; furono i zolfi che lo salvarono. Ora è il più forte proprietario del la provincia. Si vendono anche le Terre grosse, mezzo milione; il feudo della Barca, un milione...
Allora, don Rosario si alzò. Appoggiandosi ai bracciali della poltrona, il commendatore si alzò anche lui.
— Questo è il momento di fare buoni acquisti. Chi ha quattrini, e non sa profittarne, è uno sciocco. Pel credito, ci vuole del coraggio. Se si trovasse un uomo di coraggio, potrebbe fare la sua fortuna; i galantuomini ci sono ancora, quelli su cui si può aver fiducia... Ma bisognerebbe stare con tanto di occhi spalancati, perché i tempi sono difficili, e il più onesto di questo mondo, con gl'imbarazzi sempre crescenti, non so a che cosa potrebbe essere tentato!... Lei dunque va via? Si stia bene, a rivederla...
Sull'uscio, mentre girava la maniglia per dargli passaggio, il commendatore riprese:
— Vede, il sicuro è comprare, con la proprietà così rinvilita. Tutti i generi sono in ribasso: il grano, il vino, l'olio — non parliamo del resto! Ma la reazione che non ha da venire? Staremmo freschi! Allora, chi avrà avuto naso, se ne troverà bene...
La bussola era aperta; don Rosario mormorò qualche cosa come un saluto.
— Di nuovo, si stia bene. Lo ripeto: comprare è il mio consiglio.
La lavandaia, entrando, s'era tolto di capo il fazzoletto, e buttatasi carponi dinanzi al sottoscala dove stavano i panni sporchi, aveva cominciato a cavarneli.
— Come sei venuta tardi! — disse la padrona, preparando una striscia di carta per scriverci su la nota.
L'altra sospirò:
— Signora, mi lasci stare!
E con un ginocchio piegato a terra, l'altra gamba arcuata e il capo dentro il ripostiglio, cominciava a buttar fuori camicie e mutande, fazzoletti e strofinacci.
— Perché t'affliggi?
Inginocchiata ancora, la lavandaia levò un momento la testa, si grattò i capelli ruvidi come la lana e disse, lamentosamente:
— Per mia figlia, signora!... per quella povera creatura, che anche se fosse calato un angelo dal cielo apposta per dirmelo, mai e poi mai avrei potuto credere a quello che doveva succederle!...
Adesso, sospirando, s'era alzata in piedi e piegatasi in due sul monte della biancheria, andava separando le lenzuola dalle calze e le tovaglie dai corpetti.
— Chi doveva dirmelo che sarebbe rimasta sola, a ventun anni, con quattro figliuoli sulle spalle, nel meglio della gioventù? e che nella vecchiaia io avrei dovuto lavorare per lei, per darle da mangiare?...
I panni sporchi erano finalmente disposti in tanti piccoli mucchi, e la padrona, con un mozzicone di lapis in mano, cominciava a chiamare:
— Lenzuola?
— Uno, due, tre, quattro, cinque. Scriva: cinque lenzuola. Lo potevo sapere, quando le davo quel malacarne, che le davo un galeotto? e che l'avrebbe lasciata vedova prima del tempo?
— Perché? Dov'è?...
— Alle Isole, dove vuole che sia? Galeotto infame, che ammazzò il suo principale a tradimento!... Fu alla Guardia dell'Ognina: di dietro, gli diede una pugnalata, e quando lo vide cadere, continuò ancora a sbudellarlo. Il principale, che lo aveva riconosciuto, gli diceva: "Basta!... Basta, fratello mio... Che cosa ti ho fatto?...". E lui continuava: galeotto infame!... E pareva un agnello, chi lo avesse visto, un santo spiccicato, incapace di far male ad una mosca!...
— Camicie?
— Camicie, una, due... dieci, undici.
— E perché lo ha ammazzato?
— Perché!... Questa è l'infamità... — esclamò la lavandaia, che s'era di nuovo inginocchiata in mezzo alla biancheria sudicia, e lasciava pendere le braccia, dall'accasciamento. — Questa è l'infamità: che ha fatto nascere una mala fama intorno a mia figlia, dicendo che lei se la sentiva col suo principale, e che per questo l'ha ammazzato... Innanzi a Dio! — giurava, incrociando adesso le braccia sul petto e alzando gli occhi al soffitto. — Innanzi a Dio, signora bella: una infamità che ha inventata lui!... Mia figlia? queste cose?... Mia figlia non sapeva altro che la casa e la modista, la modista e la casa! Tutto il giorno al lavoro, per buscarsi il pane — ché quel malarnese era buono soltanto a sciupare — e la sera coi figli, a rassettar la casa, e a pensare anche per lui, scellerato, a rappezzargli gli abiti, a cucirgli un poco di biancheria, perché potesse fare una buona figura... Una, due, tre... tre... — ma, tenendo ancor il quarto paio di calze in mano, la lavandaia lasciava di contare, per riprendere, come parlando col galeotto:
— E poi, scellerato, questa era l'affezione che portavi a tua moglie, che la lasciavi sola per andar dietro alle ciabatte, e ad ubbriacarti; che se ti diceva mezza parola la pigliavi a ceffoni, e le bastonavi i bambini — con qual cuore, quegli innocenti?... — questa era l'affezione?... Tre, quattro, cinque...
— Calze?
— Cinque... nossignora, ce n'è un altro paio; sei: calze, sei. Neppur la testa mi regge. Ogni volta che penso a queste cose, la testa non mi regge...
E chinata sul monticello dei fazzoletti, ricominciava a contare: "Uno, due, tre..".
— Ma, allora perché lo ha ammazzato? — chiedeva la padrona.
— Perché, lo sa lui e la sua coscienza!... Per questioni di ciabatte, dice la gente; che faceva una mala vita: tutta la notte in bagordi col suo principale, che gli dava troppa confidenza; e poi, bene gli sta come gli è finita!... Fazzoletti, dodici... Ma per questo doveva infamare mia figlia, inventando quelle porcherie, e che io le davo mano — bugiardo svergognato! — con la speranza di avere alleggerita la condanna?... Uno, due... La condanna non poteva mancargli; la giustizia c'è per tutti, a questo mondo... Tre, quattro, cinque...
Si curvava e si rialzava, secondo che contava i capi di biancheria o che riprendeva a narrare la storia della figliuola. La signora, mano mano, veniva chiamando:
— Mutande?
— ...Sei, sette, otto... Tu lo sapevi quello che avevi fatto, e la pena che t'aspettava; dunque, scellerato — e la lavandaia alzava un braccio, venendo a tu per tu coll'assassino; — dunque, scellerato, perché infamare quella creatura, che è la madre dei tuoi figli e sai se t'ha voluto bene?... Dunque perché rovinare quella creatura? Non ti bastava di lasciarla moglie di un galeotto; bisognava anche macchiarla nell'onore?...
— Ma lei non si è difesa?
— Difesa, sissignora, si è difesa, piangendo a lacrime di sangue, che perfino i giudici si sono inteneriti, e i carabinieri all'udienza!... Per tutta l'udienza, non ha fatto che piangere, povera creatura: "Io non so niente!... gli ho sempre voluto bene... signore, io non so niente!...". Questo solo, poveretta, sapeva rispondere al presidente. Che cosa poteva rispondere? Che cosa sapeva lei, povera creatura messa a casa sua, delle infamità che andavano inventando?...
La madre si commoveva, al ricordo; ed anche la signora scrollava un poco il capo e metteva un eh! di compassione.
— Corpetti?
— Cinque e sei: corpetti, sei... Non poteva saper niente, mia figlia; e tanto gli voleva bene, a quel forca, che sarebbe stata capace di accusarsi, per fargli scemar la pena. Ma c'è una giustizia al mondo! E la pena che si meritava, lo scellerato, l'ha avuta! E questo è niente; che il Signore lo deve punire nell'altro mondo di tutto quello che ci ha fatto soffrire! Per lui, quella creatura è stata mandata via dalla modista, e non ha più trovato lavoro, e tutti la maltrattano, con un bambino che sta per andarsene!... Morirebbero tutti di fame, se non fosse per queste mani...
Ora la lavandaia tendeva le sue mani, rugose, screpolate, color mattone vecchio sul dorso; rosee, liscie e dure sulle palme.
— Tutto per causa tua, scellerataccio!... — Levando a un tratto un pugno, imprecò: — Arsa l'anima!...
— No, no... — avvertì la padrona; — quelle sono mutande; non le confondere lì.
— Sissignora, ha ragione... Sottoveste, una... Signora bella — riprese, dopo un momento di silenzio! — giacché siamo a questo, vorrei dirle una cosa... Me la fa una carità?
— Che cosa vuoi?
— Lo dice al cavaliere se fa entrare mia figlia ai Tabacchi? Sarebbe una grazia di Dio se dicesse di sì...
La signora chinò un poco il capo:
— Glie ne parlerò; ma sta poi a vedere se è possibile...
— Oh!... — esclamò la donna, sorridendo. — Se vuole il cavaliere, è cosa fatta. A lui non dicono di no! Sì che sarebbe una grazia di Dio, se potesse avere questo posticino!... Lei, creatura, non domanda che di lavorare...
— E adesso cosa fa?
— Cuce, stira in casa, per conto di qualche signore; che, per sua bontà, qualche benefattore c'è ancora... E se lei avesse bisogno di cucire biancheria, e anche di ricami di bianco, ricami fini, mia figlia sa far di tutto...
— Va bene... vedrò... Questi strofinacci quanti sono?
— Uno, due, tre: sono tre.
La nota era completa e la biancheria stava di nuovo riunita tutta in un monte. Preso un lenzuolo e spiegatolo a terra, la lavandaia adesso vi buttava su tutti gli effetti.
— Sono belle le cifre di questi fazzoletti... Ma, non disprezzando, mia figlia ne sa fare di migliori... Alla baronessa Lanzeria, quando la serviva lei, glie ne fece certune, pel corredo della baronessina, che erano una galanteria....
Sul lenzuolo, il monte dei panni cresceva, in bell'ordine.
— Un corredo che non c'erano occhi per vederlo, quello lì... Era una brava signora, la baronessa, non disprezzando; che se campava, non ci saremmo trovati in tanti guai!...
Adesso disponeva sui fazzoletti le calze, ed esaminandone un paio, osservava:
— Lavorano bene, con queste macchine; ma qualche maglia comincia ad andarsene...
— Eh...
— Bel damasco! — disse poi, palpando la tovaglia da tavola, e strisciando un poco sulle ginocchia verso il balcone, per osservarla meglio alla luce. — Bella roba!... roba forte!... Questa dove l'ha presa, da Giammona?
— No, da Fischetti.
— Ah! giusto!... Le buone cose le ha lui!
Finito di ammonticchiare i panni, si alzò, e presi i quattro capi del lenzuolo, li annodò per ammaccare la grossa pila.
— Lei ha una bella roba... La meglio dei signori che servo io!... — Poi sospirò: — Anche mia figlia potrebbe avere qualche cosa di suo, a quest'ora, se non fosse capitata con quello scellerato!...
Il fagotto era fatto. Intanto che si rimetteva in testa il fazzoletto, la lavandaia esclamava:
— Ma la colpa è anche mia!... Bene mi sta! ci ho colpa anch'io se mia figlia è ridotta a questo stato!...
Afferrato il fagotto pel nodo, con una prima spinta brusca lo appoggiò al fianco, con una seconda se l'assestò sul capo.
— E come? — chiese la padrona.
— Come? — proruppe lei finalmente. — Che la voleva il marchese Malvizzi! Mi mise in croce per averla, prima che la maritassi. Quante me ne disse! quante me ne fece dire, da mia comare, da mio zio, da tutti! Che la ragazza gli piaceva, e non avrebbe badato a spesa!... Anche una casa le avrebbe comprata, al Fortino!...
Nel suo rammarico, la lavandaia faceva dei movimenti bruschi col capo, e il fagotto tentennava; per non farlo cadere, lo sorresse alzando un braccio ad arco.
— A quest'ora starebbe per casa sua, vestita e spesata in tutto e per tutto, come una signora!... Bene mi sta!... Il marchese è un signore ed uomo di parola; che anzi ne ha arricchite tante altre, ed anche la figlia del suo servitore... Bisogna vederla come esce, in carrozza, piena di cose d'oro!... Bene mi sta! Fui io che non glie la volli dare!... La colpa è mia!...
Mentre stava per andarsene, la signora avvertiva:
— Ti raccomando le tovaglie; non ci mettere troppo cloruro...
— Sissignora, non dubiti!... Ma quanto me ne sono pentita, signora mia!... Più di quanti capelli ho in testa...
Come era giorno chiaro e il sole penetrava dalle fessure dell'uscio, Carmela saltò dal letto.
— Adesso, lasciami andare...
— Un momento!... vieni qui... T'ho a dire una cosa, veramente!... — esclamò Nitto Larosa, allungando un braccio e afferrandola per la camicia.
Ma lei si difendeva, sorridendo, protestando, dandogli dei pizzicotti per impedirgli che le facesse il solletico.
— Lasciami andare... è tardi!... a quest'ora tua moglie m'aspetta!...
— Ha aspettato me tutta la notte!... Può aspettare ancora un altro poco...
Allora lei cominciò a ridere, difendendosi sempre meno contro l'armeggio di Nitto, che l'attirava a sé; poi esclamò, finalmente liberatasi:
— Glie ne fai vedere di tutti i colori, a quella tua povera moglie!
— Io?... E tu no, dunque?...
— Certe volte, anche mi sa male!... Se si dovesse accorgere di qualche cosa...
— Lei?... ah! ah!... — Larosa rideva, rivoltandosi voluttuosamente nel letto. — Tu non la conosci!...
— L'altra volta, però, alla sartoria, l'ho sentita minacciare, che mi parve come volesse dire a noi!...
— Cos'è, hai paura?... Se ti dico che non la conosci!... —ripeteva Larosa, intanto che Carmela, aperta la finestrella che dava sulla corte, cominciava a vestirsi. — Sentirla, pare che debba mangiarsi mezzo mondo; ma cane che abbaia molto, morde poco... Un ragazzo l'abbìndola...
— La fortuna, dici piuttosto, è che io sto tutta la giornata insieme con lei, e che i nostri quartieri sono lontani... Se no, potrebbe succedere, Dio liberi, un guaio!...
— Ti dico di no!...
— Eh!... tu non l'hai sentita a parlare!... A te, non dice niente...
In gonnella dinanzi allo specchio, con le braccia nude, s'acconciava i capelli, perdendo tanto tempo, che Larosa, dal letto, esclamò:
— Adesso fretta non ne hai più?... Per chi sono tutte queste spese?
— Per chi hanno da essere? — rispose Carmela, voltandosi di scatto. — Credi che la gente sia tutta falsa come te, che dici di volermi bene, e quando te ne vai di qui, lo sa Dio dove vai?...
Fingendo di non capire, lui riprese:
— E alla sartoria, uomini non ce ne vengono?
— Perché non lo domandi a tua moglie?
Datagli quella risposta con un tono di finto corruccio, come una rappresaglia, Carmela gli voltò le spalle per finire di pettinarsi.
Cominciando anche lui a vestirsi, Larosa la chiamava, con parolette dolci, con supplicazioni insistenti, chiedendo perdono; ma lei, come fosse offesa, non gli dava retta, passandosi la veste rosa, assestandosi in capo lo scialle di merletto nero e inquadrandovi il viso.
— Vieni qui, simpatia!... — insisteva Larosa, ma solo quando fu pronta lei gli s'avvicinò. — Fermo, senza sciuparmi!... — avvertì indietreggiando, come l'altro minacciava di brancicarla.
— E adesso, quando ci vedremo?
— Quando si potrà... Sono inquieta per tua moglie!...
— Un'altra volta?
— Che cosa le dirai per l'assenza di stanotte?
— Le dirò che sono stato alla stazione, per lavori straordinarii... — rispose Larosa calcandosi sul capo il berretto gallonato con la R e l'S della rete sicula.
— Basta!... Ora me ne vado. Ti raccomando la chiave: mettila al solito posto... Fermo, non mi sciupare!...
E sgusciandogli di mano, uscì nella via. Camminava a piccoli passi, battendo i tacchi, tutta raccolta nello scialle, dalle cui maglie traspariva il rosa tenero della veste, e abbassava un poco gli occhi, con un principio di sorriso, alle occhiate che le rivolgevano i maschi con cui s'incontrava. Arrivata in Piazza del Carmine, si fermò dinanzi all'uscio di donna Venera Larosa e picchiò.
Nessuno rispose.
— Se n'è già andata?... — chiese alla vicina fornaia, che stava seduta sulla soglia della sua bottega.
— No; non ha ancora aperto.
— Dormite ancora, comare? — esclamò allora, dietro l'uscio, continuando a picchiare. — Andiamo, che a quest'ora Madama aspetta!
S'intese un rumore di paletti e donna Venera s'affacciò al finestrino.
— Sono qui... vengo...
Parlava con una voce così rauca, ed aveva gli occhi così rossi sul viso patito, che l'altra disse:
— Cos'avete, comare?... Vi sentite male?
— No... non mi sento niente... m'ero un poco addormentata... — e intanto finiva di aprire.
— Ma dove avete dormito, se il letto non è disfatto? — disse la fornaia, entrata anche lei. — E vostro marito, dov'è?...
Allora donna Venera si mise a piangere, silenziosamente.
— Non è tornato a casa, tutta la notte... L'ho aspettato in piedi, senza chiudere un occhio!... Ogni passo che sentivo, mi pareva lui... Dicevo: Madonna delle Grazie, fatelo tornare!... Niente... non s'è visto!... Non gli bastava di piantarmi giornate intere... anche la notte, adesso!...
I singhiozzi le spezzavano le parole. Carmela guardava per terra, costernata; ma la fornaia disse:
— Che gli sia successo qualche cosa?
— Già... — ripeté allora Carmela — se gli è successo qualche cosa?
Allora donna Venera esclamò, con violenza:
— Cosa volete che gli sia successo? Questa è la vitaccia che fa sempre, lo svergognato! con le peggio ciabatte!... Ma se ne capito una, com'è vero Dio, le strappo gli occhi! con queste mani! prima a lei e poi a lui!... — E stendeva il braccio, coll'indice e il medio minacciosamente appuntati.
— Ma, comare... — prese allora a dire Carmela, timidamente, aggiustandosi lo scialle addosso. — Alla ferrovia sapete com'è... ci sono lavori straordinarii... specialmente se si guasta qualche macchina, e il convoglio non arriva.
— Che macchina e che convoglio!... — riprese l'altra, con impeto. — Alla ferrovia non gli è piaciuto di restare sui treni, quando guadagnava due e tre lire al giorno di più, secondo le miglia che faceva, e in casa si vedeva un poco di grazia di Dio!... Ma sui treni non poteva andare a caccia alle ciabatte!... e prima si fece mandar via, poi è tornato alla stazione dove non fa niente, e quel poco che guadagna lo scialacqua con questa e con quella!... La disgrazia è che non ne ho trovata nessuna, ancora; ma se la trovo!... vorremo ridere!... non vi dico altro!...
Carmela disse, con un tono convinto:
— Per me, non ci credo!... Vostro marito si vuol divertire, come tutti gli uomini, come voleva divertirsi il mio — sant'anima! — ma a questo non ci credo... Per me, è successo qualche cosa alla ferrovia.
— Sentiremo, quando verrà — disse la fornaia.
— Sì, starete fresca!... Come se dicesse mai la verità!... È più bugiardo dell'eternissimo diavolone!... Ma saperlo, devo!... saperlo!... — e donna Venera picchiava con una mano sull'altra.
La fornaia, dopo un poco di silenzio, suggerì:
— Allora, perché non fate un viaggio a San Vito?
— Giusto, perché?... — ripeté Carmela.
— Ci avevo pensato! — rispose donna Venera. — Ma io a San Vito non ci sono mai stata; il viaggio non so come si fa...
— Come si fa? Non ci vuol niente — spiegò la fornaia. — Bisogna essere in due: una dice le devozioni e l'altra sta attenta ai discorsi che tengono i passanti. Voi andate, per esempio, di qui alla chiesa di San Vito: la sapete dov'è? Sopra i Cappuccini... Ah, lo sapete? va bene; dunque, tutte le persone che incontrate per la strada dicono qualche cosa. Ora San Vito, nei discorsi della gente, vi dà la risposta che volete sapere. Arrivata alla chiesa, vi buttate ai suoi piedi per lodarlo e ringraziarlo.
Donna Venera stava a sentire, attentamente.
— Un santo miracoloso!... che prima, anzi, c'era la sua statua tutta d'oro, con gli occhi che si muovevano, come fossero di carne... ma ora non c'è più, con questi scomunicati del governo che hanno spogliato i conventi!...
— Voi l'avete fatto, il viaggio?
— Eh! tante volte, per me e per altre!... E San Vito mi ha fatto sempre sapere quello che volevo. Sentite questa: una volta, perdetti la chiave della cassapanca; cerca di qua, cerca di là, la casa fu messa sottosopra, ma non era chiave che si trovava. Allora dico a mia comare: "Facciamo il viaggio a San Vito". Cammina, cammina; mia comare diceva le devozioni e io stavo attenta ai discorsi delle persone... Niente! Non si capiva niente!... Quando siamo vicini alla porta d'Aci, che si sta per salire ai Cappuccini e arrivare a San Vito, la comare dice: "Sapete che cosa vi dico, comare? Questo è viaggio che bisognerà ricominciare un'altra volta". Perché si fa due, tre volte, il viaggio, fin quando San Vito dà la risposta. Io rispondo: "Adesso che l'abbiamo cominciato bisogna finirlo". Tutt'ad un colpo passando davanti al banco del notaio Distefano — sapete, sotto il palazzo Toscano — c'è uno che legge un avviso ad un altro, e dice: "Si vende il giardino". Il giardin o! Bisognava cercare in giardino!... Cerco la chiave nel giardino e la trovo sotto le lattughe!...
Donna Venera stava a sentire, cogli occhi aperti.
— Se volete sapere cosa fa vostro marito — rispose la fornaia — fate il viaggio a San Vito! San Vito non sbaglia. Io v'accompagnerei, se non fosse che ho la fornata pronta
— Voi ci siete stata? — chiese donna Venera a Carmela.
— Altro!... — rispose questa, prontamente. — Anzi, se vogliamo andarci insieme...
— E Madama?
— Possiamo domandarle il permesso.
Allora, passandosi una mano sugli occhi rossi, donna Venera prese lo scialle, se lo buttò addosso, ed uscì, dopo aver chiuso.
— Se viene, questa è la chiave; — disse alla fornaia che rientrava nella sua bottega.
— Va bene... E attente ai discorsi — avvertiva ancora— a tutti i discorsi. Certe volte pare che non vogliano dir niente, ma bisogna stare attenti, pensare sempre, fin quando viene l'ispirazione...
Donna Venera e Carmela s'avviarono insieme per la sartoria. Dapprincipio, nessuna parlava; ma donna Venera chiese:
— E voi, il viaggio a San Vito lo avete fatto molte volte?
— Come! L'ho fatto sempre, e l'ultima volta, anzi, per la malattia del mio povero marito —sant'anima! che i denari se ne andavano tutti a medicine, e intanto non aveva sollievo... San Vito mi fece indovinare, perché due cristiani ai quali passavo accanto dicevano: "Chiamane un altro...". Così chiamai un altro dottore e stette meglio... Ma poi il nuovo medico se ne andò in campagna, tornò l'antico... e il Signore me lo prese!...
Carmela spiccicava le parole a una a una, e scrollava mestamente il capo, tirandosi in su lo scialle; poi riprendeva, con voce amara:
— Almeno, se vostro marito vi dà qualche dispiacere, voi lo avete sempre; non come me!... che sono rimasta sola al mondo!... Ah, comare, non vi lamentate!... Voi non sapete che cosa vuol dire questo!... Bisogna aver pazienza, vedete, che al peggio non c'è fine!...
— Questo è vero...
— Altro, se è vero!... Ma vostro marito vi vuol bene; non è capace di farvi tanto torto, credete a me...
— San Vito lo dirà! — e donna Venera alzò gli occhi al cielo. Erano arrivate sotto il
portone col cartello:
— A quest'ora, venite?...
Carmela parlò per tutt'e due:
— Madama, mia comare non sta bene... non ha potuto chiudere un occhio tutta la notte... a segno che l'ho trovata a letto... Ora, lei deve farle la carità di permettere che vada dal medico, con me... Mezz'ora, non mancheremo più di mezz'ora.
Come Madama voltò loro le spalle, esse ridiscesero.
— San Vito mi deve perdonare la menzogna, — riprese Carmela — ma le potevo dire la vera ragione?
— Giusto, — riconobbe donna Venera, chinando il capo.
Sul punto di uscire dal portone l'altra raccomandò:
— Adesso voi cominciate a dire le devozioni, che io sto attenta...
— Padre, Figliuolo e Spirito Santo... — donna Venera cominciò a dir Credi e Salve regine, col capo basso, e Carmela le andava accosto, guardando a destra e a sinistra.
Pel vicolo di San Giuseppe un fruttaiolo, spingendo la sua carrettella piena d'aranci, gridava: "A tre palanche, dolci come lo zucchero!..."; una madre picchiava un ragazzo dinanzi alla bottega: "Ah, non la vuoi finire? ah, no?..." e due uomini discorrevano sul marciapiede: "Io glie l'ho detto: se non la buttano a terra...".
— Ancora niente, — osservò Carmela, intanto che donna Venera continuava a borbottare le sue preghiere. — Ma San Vito ancora è lontano...
"A chi dici?... A te!..." due monelli venivano alle mani; una donna spingeva un asino: "Aha... aha!...". Intanto sul corso un crocchio di persone stava raccolto dal lato opposto a quello in cui si erano messe le donne. Carmela disse:
— Andiamo lì... sentiamo cosa dicono; — e traversò la via. Ad un tratto, un carro fu quasi addosso a donna Venera, che col capo chino non vedeva niente; il carrettiere, con la frusta levata, bestemmiava:
— Sangue di Giuda, che siete sorde?...
Ancora tutta tremante pel pericolo appena scansato, donna Venera si lasciava guidare per mano da Carmela, la quale esclamava:
— Avete sentito? "Che siete sorde?". Questo è un avvertimento; vuol dire che bisogna stare più attente, che adesso sapremo qualche cosa!...
E si fermò vicino al gruppo degli uomini.
"Sono tutte castronerie!... Vorrei vedere, se fosse un altro paese!... La colpa è del Prefetto... Dice che gli faranno una dimostrazione contro... Chiacchiere! Chiacchiere!...".
Le due donne restavano a sentire, intente; e donna Venera dimenticava di recitare le sue preghiere. Ma come uno di quelli si voltò, vedendo Carmela, e si mise a sorriderle, lei riprese subito per mano la comare.
— Andiamo via, questi l'hanno col Deputato... Niente ancora; ma non siamo neppure a mezza strada!...
"Col tempo, diventano croniche, brutte malattie!...".
Dei frammenti di conversazione, dei saluti, delle frasi spezzate dove non si capiva nulla.
"Chi, l'avvocato?... Io non vi andrò... I miei rispetti... Bisognava scriverlo...".
Risalendo pel Corso, passavano rasente alle botteghe, per sorprendere quello che vi si diceva. Un signore, uscendo da un orologiaio, insisteva, col capo dentro: "Mi raccomando, che sia presto"; un vecchio, nella farmacia di Guglielmino, esclamava: "Una cosa mai veduta!..." e Scuto, il sarto, consegnando un involto di robe a un giovane, ordinava: "Portali a casa, per gli occhielli...". Carmela, rallentando il passo come stavano per arrivare alla Porta d'Aci, si guardava inquieta intorno, porgendo l'orecchio, non perdendo una parola, intanto che donna Venera, scrollava un poco il capo, recitando avemmarie.
— Pazienza, comare!... Il viaggio non è finito ancora... e poi, ve l'ha detto anche la fornaia: si fa due e tre volte, fin quando San Vito risponde...
— Dell'Ògnina, sono!... pesci dell'Ògnina!... — gridava un pescivendolo, con le sporte sotto il braccio.
— Non dubitate; che San Vito ce lo dirà dov'è stato vostro marito...
In quel momento, come sboccavano alla Porta d'Aci, un signore saliva rapidamente in carrozzella e diceva al cocchiere: "Presto, alla stazione...".
— Comare!... Comare!... Avete sentito?...
Carmela urtava col gomito il braccio di donna Venera, che aveva nuovamente smesso di pregare e si guardava intorno.
— Avete sentito?... Alla stazione!... È stato alla stazione: è chiaro sì o no?... Ve lo dicevo io!...
— Alla stazione?...
— Ha detto così... Questo è San Vito che parla, comare! Andiamo presto in chiesa... voi intanto dite un paternostro e un'avemaria... Alla stazione; lo dicevo io!...
E come voltarono pei Cappuccini, alcune persone ferree sotto il Tribunale leggevano un gran cartellone, con una testa di pagliaccio dipinta in rosso, nel mezzo.
"Entrata dei fratelli Zirilli... L'uomo volante, fatica straordinaria...".
— Comare!... Comare!... — Carmela riprendeva a dar gomitate a donna Venera: — Avete sentito?... È stata una fatica straordinaria... pel convoglio!... Vostro marito ha lavorato alla stazione, comare: qui non c'è dubbio!...
Donna Venera aveva adesso un'espressione di meraviglia nel volto.
— È vero... hanno detto così...
— Questo è San Vito, comare... San Vito che parla con la sua stessa bocca!... Lo vedete, se avete torto di prendervela con vostro marito?... Ah, San Vito sia lodato... Venite qui, comare; leviamoci l'arsura...
All'acquaiolo del chiosco ordinò due ponci: limone, anice e acqua; porse lei stessa il bicchiere alla comare, bevve poi d'un fiato e pagò.
Adesso, forbendosi la bocca col fazzoletto cifrato e odoroso, su per l'erta dei Cappuccini, riprendeva:
— Io ve l'avevo detto!... Non era possibile, quello che voi dicevate!... Adesso a San Vito gli credete? San Vito non inganna i suoi devoti... Ora siamo quasi arrivate... Io ci ho piacere, perché m'angustia vedere discordie tra marito e moglie...
Parlava rapidamente, come liberata da un gran peso, cogli occhi luccicanti, tirando lunghi respiri.
— Eccola là, la chiesetta... San Vito miracoloso!... È aperta!... Adesso dobbiamo accendergli una lampada...