Il sorbetto della regina : edizion ELTeC Petruccelli della Gattina, Ferdinando (1815-1890) 70467 COST Action "Distant Reading for European Literary History" (CA16204) Zenodo.org CLIGS version Il sorbetto della regina : romanzo / di F. Petruccelli Della Gattina - Milano : E. Treves, 1890 - 318 p. ; 19 cm. 1890

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IL Sorbetto della Regina ROMANZO DI F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA QUARTA EDIZIONE MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1890.
PARTE PRIMA
CAPITOLO PRIMO. Una buona idea.

Mastro Zungo, che si era coricato alle sei della sera, si risvegliò alle due del mattino.

Mastro Zungo si stropicciò gli occhi, sbadigliò due volte con orribile strepito, balbettò un Pater noster che non era nè italiano, nè latino; s'acconciò sul capo un berretto a spicchi, che imprigionava le nere ciocche dei suoi capelli ribelli, ascoltò brontolando il fragoroso russare della sua compagna e attese gli scocchi dell'orologio della chiesa. Alcuni minuti dopo, infatti, batterono due tocchi.

- Due ore! esclamò mastro Zungo. Sono dunque eterne queste notti! e sbadigliò di nuovo con non minor strepito di prima.

Mastro Zungo era nato coll'istinto della chirurgia. Le cattive condizioni di fortuna ne avevano fatto un semplice barbiere.

La sua intelligenza era organizzata per esser chiara ed acuta; la mancanza di coltura ne aveva fatto uno scopeto, in cui nessuna punta di aratro aveva mai aperto un solco.

Ad ogni modo, mastro Zungo si poteva considerare come un buon diavolo, quantunque egli credesse che l'intelligenza sia un tristo dono del Creatore ed il verme roditore di questo secolo che esamina tutto, dalle encicliche del papa all'elasticità del piede della pulce.

Egli, per esempio, odiava i letterati, i giornali, il carbonarismo (a quell'epoca i democratici si chiamavano carbonari), i Francesi, l'eleganza, la bellezza, i fiori, la primavera, tutto quello che sa di aurora e di armonia. Amava, all'incontro, il cattivo tempo, i gendarmi, i doganieri, la bruttezza, la messa cantata, i cappuccini, la tragedia, la quaresima e la faccia tonda e rubiconda dell'arciprete, ch'egli sbarbava ad occhi chiusi. Aveva sopratutto una specie di frenesia pei sette sacramenti. Ora, siccome il sacramento del matrimonio ha qualche cosa di più sostanziale che quello dell'estrema unzione, aveva finito col maritarsi.

Zia Egidia era predestinata ab-eterno a compiere la sua felicità e cuocere i suoi legumi.

Egidia era la figlia del beccaio del luogo.... Essa sola pregava Iddio, in un giorno, più che tutti gli Americani insieme in un anno. Il nome di Dio le girava sempre in bocca, confuso con qualche truciolo di tabacco da masticare.

Era tozza, grassa, con un adorabile guaime di barba, un naso più lungo di quello di san Carlo Borromeo, gli occhi piccoli, sonnolenti, cisposi, la pelle color d'un vaso etrusco e qua e là butterata dal vaiuolo.

Mastro Zungo non fece caso di tutto ciò: vanitas vanitatum! Egli la sposò, e si misero a lavorare insieme la vigna del Signore.

Dio benedisse questi lavoratori; e nove mesi dopo raccolsero un bel scimmiotto di bimbo. Ma essi si fermarono alla prima posta; poichè da allora Dio li punì con una delle più brutte piaghe d'Egitto: la sterilità - con grande stupore dell'arciprete. Di maniera che messer Bruto, loro figlio, aveva giusto diciott'anni quando principia questa storia.

Mastro Zungo, risvegliato di così buon'ora, nè potendo raccattar il sonno, incominciò a pensare... diciamo pensare!... ma il degno barbiere aveva l'abitudine di parlar da solo, come gli uomini che hanno una coscienza tranquilla.

- Ebbene, mastro Zungo, amico mio, brontolava il barbiere, fa un po' i conti, e metti in ordine la tua giornata. Oggi è martedì. È, dunque, il giorno di barba del notaio, della moglie del sindaco e di quel dannato Sacco-e-Fuoco. Se la signora Psiche - che Dio la confonda! con quei mustacchi prendersi un nome che non sta nel calendario - se la signora Psiche non ha l'emicrania, se ha battuto i suoi sette piccini, e accarezzato i suoi sette gatti, in mezz'ora l'avrai spicciata: poi andrai a salassare il bove del Filazolo, che farebbe meglio a salassarselo da sè, quell'ubbriacone! Poi andrai ad applicare il vescicante alla mula di Galeotto. E, poichè sei lì, brigante, alla porta della chiesa, ci entrerai e servirai la messa di don Domenico, che la dice per solito quando gli altri vanno a pranzo. Eh! monsignore dovrebbe pensarci! A quell'ora in chiesa non ci sono che i sorci, che ne fanno di belle fin sotto l'abito di san Francesco, e due o tre mendicanti, che contano i tozzi di pane accattati. Poi, poi... vediamo! non c'è altro, mi pare. Don Martino è andato a Napoli per un'operazione....

Mastro Zungo s'interruppe, poi riprese:

- Finiscila dunque, badessa del diavolo, con codesto tuo russare! e così dicendo dava un punzone a sua moglie! finiscila dunque! Tu disturbi la mia meditazione, e le mie elucubrazioni, direbbe quel mustacchietto di don Timotino. Ah! questi piccoli scellerati di carbonari non si limitano più a non farsi la barba, parlano anche un linguaggio massonico. Che Dio li scortichi, poichè non si lasciano servire da me! Dunque è andato a Napoli e vedrà quell'avaro di mio fratello don Noè, che là giù suona campane e campanelli.

Qui il soliloquio del barbiere fu interrotto da un rumore che s'udì nella stanzuccia vicina. Era Bruto che, sognando di giuocare a saltacavallo, rotolava giù dal letto.

- Ah! esclamò mastro Zungo, che caro bricconaccio è quel mio bambinone. Ha dello spirito anche quando dorme, salta dal letto come un turacciolo di una fiaschetta di birra. Chi direbbe mai che la grossa balena, che grugna vicino a me, ha collaborato meco alla composizione di questo gioiello, che scintilla come ferro in una fucina?

Qui mastro Zungo tacque; poichè una frotta d'idee vaghe, svelte, confuse, multicolori, si sparpagliarono nel suo spirito come uno stormo d'uccelli.

Bruto, lo dico qui per incidente, era un bel ragazzo: rosso come una pesca, alto, agile, svelto, che sotto l'aspetto dell'impassibilità britannica e talvolta di una squisita balordaggine, aveva uno spirito svegliato, una prontezza di maniere e certe eteroclite fantasie. Era un biricchino nella pelle di un John Bull. Sembrava un fiammingo fatto tutto d'un pezzo, ma, girata la chiave, ne zampillava un fanciullo viziato, astuto, ostinato, con degli inattesi lampi di spirito.

Il barbiere, borbonico, l'aveva chiamato Bruto in odio a Murat. La madre, quantunque devota al punto di far venire una vocazione, non aveva potuto persuaderlo a prendere non dico altro che i quattro ordini. Bruto voleva cignere la sciabola e farsi gendarme.

Mastro Zungo ruminava, dunque, quale carriera farebbe intraprendere a suo figlio; perocchè quella delle armi a lui pure pareva troppo rischiosa.

E continuò il suo monologo:

- Egidia non arriverà mai a fare di Bruto un sotto-diacono. Quando io salasso, egli si accoccola sopra una sedia e ha l'aria di saperne più di me; mi sconcerta con quel suo sguardo serio ed intrepido. Ha scritto un sonetto sul brachiere dell'arciprete, un altro sulla gamba che il suo maestro ha obliato non so dove, andando dietro a quel giacobino di Bonaparte. Stuzzica tutte le ragazze del paese. Bestemmia come un granatiere; rompe i vetri alle finestre di tutte le sgualdrine del villaggio. Ha dato due temperinate al prefetto della scuola. Poi scaglia sassi come un angelo, conosce il suo latino come un benedettino, fuma come un vecchio piloto, ammacca ogni tanto le teste dei suoi condiscepoli, riceve regolarmente le spalmate due volte al giorno, sagra in francese come un turco... e tutti questi - che Dio ne faccia un milord - non mi sembrano sintomi di sottodiaconato. Ne farei un procuratore? Ma il disgraziato ha troppe fantasie. Un farmacista? ma sa leggere e capisce il latino. Per esser cappuccino ha troppe tendenze al peccato. Avvocato, darebbe piuttosto il suo, che prendersi quello d'altrui. Si potrebbe forse tirar su un architetto di quel diavolaccio: ha la mania di demolire e ha bucata tutta la casa; ma Sacco-e-Fuoco dice che non sa le matematiche. Potrei sbozzarne fuori un cantante, poichè ha la voce più stonata del mondo; ma quel mestiere lì non mi piace con un pubblico che fischia quando deve applaudire ed applaude quando dovrebbe fischiare, senza contare i giornalisti. Preferirei quasi che facesse il commediante perchè, quando ripete le sue lezioni, canta e grida come un'anima del purgatorio; ma quella carriera conduce quasi sempre alla miseria. In quanto al mio mestiere, l'è sporco, e Bruto, piuttosto che toccare una goccia d'acqua ed un pezzo di sapone, si tiene una bella macchia d'inchiostro sul naso per sei mesi. Di maniera che io non veggo altro per lui che di farne un medico o un chirurgo. Il sangue non lo spaventa. Non l'ho mai veduto affliggersi per la morte di chicchessia. Mente, come sua madre dice, un'Ave Maria. È grave, parla poco, non va mai a messa, giuoca alle carte, ha una bella fisonomia ed un corpo solido; è infingardo come un vescovo. La sua vocazione è, dunque, predestinata.

Pieno di questa magnifica idea, mastro Zungo si alza, si veste, mette il suo panciotto alla rovescia, dimentica la cravatta, rimbocca le maniche fino al gomito, afferra la sua berretta, il piatto di stagno, la busta dei rasoi, un pugno di tele di ragno, e via! Allo spuntar del giorno, il primo colpo di rasoio toccava al mento del maestro di scuola, il sergente Sacco-e-Fuoco.

Seguiamolo, o meglio, precediamolo.

CAPITOLO II. Il sergente Sacco-e-Fuoco.

Questo personaggio era figlio d'un povero avvocato del paese.

Il padre l'aveva avviato a scuola da un ex-gesuita ritornato in famiglia dopo l'abolizione del suo convento; - quest'uomo, pieno di probità - quantunque, o perchè gesuita - gli aveva insegnato tutto quello che si insegnava nelle scuole del suo ordine.

Il giovane sapeva correntemente il latino, il greco, il Decolonia; fabbricava delle odi saffiche e pindariche in onore di san Luigi Gonzaga e del cuore di Maria, balbettava il francese. Il R. Padre si era trovato in un convento di Francia, quando il suo ordine cadde sotto le leggi rivoluzionarie - e l'allievo si dimenava a meraviglia in mezzo ai Darii, ai Baralipton, e conosceva le finezze dei Barbara celarent ferio del Caraco, del Fessino e Frisisso morum.

E si venga poi a dire che i RR. PP. non insegnano nulla d'utile.

Pietro Colini - ora il sergente Sacco-e-Fuoco - aveva sostenuto sette ore la discussione sulla tesi: se uno può essere impiccato a Roma all'istess'ora che si marita a Parigi? e se sant'Antonio poteva domandare due minuti di permesso al suo uditorio a Padova, per andare ad assistere suo padre che montava sul patibolo a Lisbona.

Aveva dimostrato tutto ciò in maniera inconfutabile coll'aiuto di testi greci e latini, dell'autorità dei SS. Padri e di Cicerone. Avea in seguito discusso sulla parola Blictri, e "se essa dentro o fuori di una proposizione può significare qualche cosa," sul chiodo di Sisara e sopra il sesso degli angeli di Sodoma. Ed era stato ammesso a ricevere i quattro ordini.

Ma una mattina il secolo si risvegliò d'improvviso con certi capricci stravaganti. Invece della campana che suonava a messa, si udì il rullo del tamburo che proclamava la coscrizione. Invece di gridare: Viva il Re per la grazia di Dio, si gridava Viva la Nazione! Pietro Colini baratta allora la sottana con un uniforme blù a mostre rosse; il collare d'abate con una brutta cravatta di cuoio; il Decolonia e lo Storkenau con una sciabola ed un fucile, e il Pater noster in un mille diavoli! La caserma si sostituisce alla chiesa, ed il prete, trasformato in soldato per ordine di Acton e della regina Carolina, parte per la guerra. Addio paese; addio speranze di arrivare un giorno a cantar messa; addio parenti e dolce far niente; addio le cose le più soavemente dilette e le abitudini di diciotto o vent'anni. La patria chiama Pietro Colini - e a quell'epoca quegl'ingenui figli del diciottesimo secolo non scherzavano colla parola e col sentimento di patria.

Pietro nondimeno cominciò la sua carriera colla più bella ed edificante vocazione cristiana. Faceva precedere una fucilata da una benedizione in articulo mortis; un colpo di baionette da un "Perdonami, o mio fratello in Gesù Cristo!" Condiva un bacio ad una ragazza con un buon consiglio, ed accoppiava una bestemmia con una giaculatoria "che il nome di Gesù e Maria sia benedetto."

Quella buona natura cattolica però non si conservò a lungo. Pietro fece in breve tali progressi, si immedesimò talmente nel mestiere, che dopo alcuni mesi era il bestemmiatore più originale dell'esercito, precisamente perchè conosceva la teologia. Dopo la campagna - campagna di gambe, campagna di fuga davanti all'esercito francese - Pietro Colini si trovò a mala pena sergente, sebbene i suoi atti straordinari di valore gli avessero meritato venti volte la spallina di ufficiale.

Pietro seguì l'esercito francese, quando abbandonò Napoli nel 1799 e traversò le guerre del Consolato e dell'Impero.

La famosa esclamazione di Chambronne pronunziata, Napoleone relegato a Sant'Elena, i Borboni di Francia non seppero più che farsi di un esercito. Pietro Colini raccolse allora tutto ciò che gli restava dei membri del suo corpo e ritornò a Napoli.

La patria era stata abolita. I fedeli napoletani se ne andavano in brodo di giuggiole davanti ad un re per la grazia di... Talleyrand. Ora che cosa un re consagrato inviolabile ed adorato, sbocciato dall'uovo divino del Congresso di Vienna, avrebbe mai potuto farsi d'un invalido? Ahimè! codesto invalido non era buono a nulla, neppure a fare il ciabattino: la sua mano sinistra era restata nei ghiacci di Mosca. Non a far il corriere; una palla a Waterloo gli aveya forato lo stivale dritto ed il suo contenuto. Non lo si poteva neppure arruolare, qual veterano, nel corpo delle spie di Stato: il Re legittimo non voleva saperne di lui.

Ma Pietro Colini che dal suo lato era logico come Satana, ricordandosi del suo ex-gesuita, rispose: Nego minorem, e si trovò buono ancora a qualche cosa. Gli restava, per esempio, la lingua per gridare, la mano dritta per sferzare, la memoria passabilmente imbrogliata, e la infingardaggine la più volontaria, che l'è mai sempre la più completa.

Poteva dunque ancora mettersi maestro di scuola, dopo aver assopito gli scrupoli dell'altare ed i sospetti del trono. Fu creduto. Abiurò Bonaparte; andò a messa ed al confessionale. Recitò bene la sua parte.

- E, se il ventre prese davvero il posto dell'anima, di chi la colpa?

Pietro Colini, volendo nondimeno volgere la sua ipocrisia a vantaggio dei suoi allievi, aveva principiato ad insegnar loro tutt'altro che il latino, il catechismo, la storia sacra e la mitologia.

I parenti insorsero. I missionari aprirono un'inchiesta. Il giudice di pace fece delle rimostranze. Il sergente capì che aveva presa una falsa via. Egli lasciò i suoi allievi in balìa della grazia operante, e li abbrutì col latino.

Codesti allievi non imparavano nulla, giuocavano alle carte, correvano per la campagna a rubacchiar le frutta ed i legumi. I più grandicelli leggevano anche dei libri osceni. Ma baciavano le mani dei superiori con un'aria beata, servivano la messa, accompagnavano il Santissimo, miagolando il Tantum ergo, salutavano il signor arciprete quando lo incontravano, recitavano l'Ave in latino... ed i RR. Padri, il trono e l'altare si dichiararono soddisfatti.

Non la fu così però di Bruto.

Egidia aveva ammaliato l'invalido.

Egli rifrugò nella sua testa. Riunì tutto ciò che gli restava di scienza, quello che aveva veduto ed appreso nelle sue corse attraverso l'Europa, ciò che leggeva qua e là e rimpinzò tutto ciò nel cranio di Bruto a furia di sferzate.

Bruto sapeva quindi il latino, la metafisica, la storia moderna e la geografia, come poteva insegnargliela un uomo che aveva girato il mondo; e Bruto cinguettava anche un tantino di francese.

Un pizzico di questo, un pizzico di quello, senza contare le pratiche della vita militare.... C'è da stupirsi, dunque, se le lezioni del maestro bollivano nel cervello dello scolaro, come i diversi ingredienti della zuppa di zia Egidia? di guisa che mastro Zungo non aveva torto quando affermava che suo figlio non era della stoffa di cui si tagliano i soddiaconi.

Il barbiere entrò dall'invalido. La casa del sergente offriva lo spettacolo dell'abbandono.

Vi si respirava qualche cosa di più pungente che miseria; vi si sentiva la povertà che soffre, che si rassegna con indifferenza o disdegno. La polvere copriva le mobiglie, e le ragnatele si stendevano sulle pareti a guisa di tappezzerie.

Il fumo del camino, che preferiva spandersi nella stanza anzichè per la cappa e andar a far visita alle nuvole, aveva incrostata una vernice nera e lucente sopra i travi ed i muri che parevano d'ebano. L'era lugubre, una tomba, piuttosto che la dimora di una creatura vivente.

La casa portava il lutto dell'uomo.

Si entrava a terreno in una vasta sala, che serviva nello stesso tempo di salotto, di scuola, di camera da pranzo, di gabinetto da lavoro, d'anticamera, di cucina, di tutto, eccetto che di stanza da letto. Nella sala era stata praticata una specie di alcova con una finestrina nel fondo che dava in una viuzza molto sucida. Il sergente dormiva in quel buco.

Si vedevano nella sala alcune seggiole di legno, un gran banco colla spalliera sì alta, che serviva di paravento dalla parte del camino esposta alla porta d'entrata, ed una grande tavola. Poi un armadio, con un battente rotto(1), appoggiato al muro, alcuni libri, delle bottiglie e dei cocci da cucina. Ma tutte queste cianfrusaglie erano vecchie, sudicie, sformate, ammaccate. Domandavano la giubilazione, o almeno la mano d'una donna, quella mano che dà vita, luce, gioventù, sorriso a tutto.

La donna è l'aurora: illumina.

Il sergente portava un abito borghese, un paio di brache molto vecchie d'un panno un dì turchino, un panciotto nero abbottonato fino al collo, che era senza cravatta, e, sopra tutto ciò, una casacca della stoffa di cui si fanno le tonache i Cappuccini. Sul capo, per bizzarria, un berretto greco.

Il tutto, vergine di spazzola, ed infetto dell'olezzo del tabacco.

Tre cose si trovavano successivamente nella bocca del sergente: la pipa, una bottiglia di alcool e una parola d'impazienza in una lingua qualunque d'Europa. I suoi denti erano neri e solidi come chiodi. La faccia porfirizzata da macchie rosse e grigie. Due occhi rossi gli sprizzavano dalla fronte, come due carboni accesi. Una selva di capelli, grigi, indomabili, irti, si rizzavano sul suo capo come le ciocche di Medusa, non risparmiando che la fronte, alta, senza una ruga, pura, liscia come quella di una ragazza.

Due orecchie enormi s'incollavano come due coccarde agli orli laterali del suo berretto frigio. Aveva il mento della bontà e le labbra della voluttà. Se i patimenti, le privazioni, le fatiche, i liquori forti, i pensieri, i dubbi, l'infinito sarcasmo, che solcano di rovine le anime ed i sembianti, non avessero devastata quella figura maschia e serena, il sergente sarebbe forse stato ancora un uomo passabile. Così non era più che un rudero.

Le cinque del mattino lo trovavano sempre in piedi, passeggiando o piuttosto correndo a passo di carica nella sua sala, le mani dietro la schiena, zufolando non so che, pensando a Dio sa chi. Un osservatore avrebbe indovinato senza sforzo che sotto il cranio di quell'uomo nelle pieghe le più recondite del suo cuore c'era qualche cosa che si agitava eternamente.

Chi gli avesse frugato sul petto, sotto una camicia di tela da vele, avrebbe veduto che il vecchio soldato vi ascondeva uno scapolare, cui baciava la sera quando si coricava e ribaciava la mattina levandosi. Ma gli era proprio uno scapolare?

Il barbiere si presentò, dunque, all'invalido. Mastro Zungo gli voleva bene: primo, perchè istruiva suo figlio, secondo, perchè lo invitava spesso a bere dell'acquavite, del rhum, del cognac, del gin, o checchè altro; terzo, perchè non lasciava crescere pelo sul viso, e sopratutto perchè dava a succhiare a sua moglie della radice di nicoziana.

Il viso di quell'uomo, però, faceva arrabbiare il barbiere. Bucherato, gibboso, cincischiato qua dalla mitraglia, là dai bernoccoli, altrove dalla sciabola o dalla baionetta, gli era impossibile di raderlo, senza tigrarlo di nèi, di tela di ragno, come gli spruzzi di inchiostro zebrano lo scartafaccio di uno scolaro.

Quando il barbiere ebbe deposto tutti i suoi utensili, schiaffeggiato il viso del sergente, giacchè quel bravo mastro Zungo non insaponava con un pennello ma colla mano; quando ebbe fissata l'attenzione del suo uditore, perchè, senza accorgersene, il sergente era un incorreggibile interruttore, e se parlava adesso correva il rischio di vedersi tagliata la pelle della faccia, mastro Zungo principiò:

- Dovete dunque sapere, signor sergente, che....

- Olà, mastro scortica del diavolo, vociò il veterano respingendo il barbiere con un pugno nello stomaco, cos'è codesto? mi fai la barba con una sega stamane?

- Cosa dite mai, signor sergente? come siete collerico! rispose il barbiere prendendo fiato. Gli è un vero inglese.... Oh che bestiaccia che sono! Mille scuse, signor sergente, ero distratto. Ho confuso il vostro rasoio con quello che adopero pei vescicanti dei cavalli.... L'è quella figlia di una botte, Egidia, che me lo ha cacciato nella borsa. Ma guardate, questo qui è il vostro. Non sbaglio più, è questo, è proprio il vostro rasoio.

- Andiamo avanti, udiamo le belle notizie che mi racconti questa mattina. Ma non ismarrirti per via, sai. Parla alla militare: "Soldati, quaranta secoli vi contemplano dall'alto di queste piramidi," e pif, paf, in meno tempo che una pentola mette a bollire, una battaglia era guadagnata, un regno conquistato. Oh giganti! giganti! esclamò il veterano con voce commossa. Ossa e Pelio, senza l'Olimpo.

- Sarete obbedito, signor sergente. Ho deciso, dunque, che mio figlio divenga il più bel medico della provincia.

- Cosa dici?

- Sì, signore, il primo medico della Basilicata.

- Ah! ah! ah!

- Non ridete, signor sergente, perchè vi ho già tagliato in due siti.

- Un medico? Al postutto un medico l'è il soldato in metafisica.

- Che cosa ne dite, dunque, signor Sacco-e-Fuoco? Quella bestiolina è un prodigio!

- Probo majorem, nego minorem, distinguo, avrebbe risposto il mio gesuita. Va più adagio, imbecille! non sono mica già io una groppa di un cavallo, ove tu applichi un vescicante.

- Dite, signor sergente, se mi parlaste nella lingua dei cristiani battezzati sarebbe meglio. Non ho nessuna confidenza nei vostri gesuiti. Parlano calmucco.

- Diceva, dunque, che approvo il mestiere; probo majorem. Ma nego.... Mille satanassi! va leggiero e bada all'orecchio. Ho finito di far la guerra colle sciabole e mi batto contro i rasoi! Lascierò crescere la barba, alla fine!

- Non ci mancherebbe che questa! Per farvi mettere in prigione come carbonaro.

- Dico, dunque, che mi sembra che tuo figlio abbia la stoffa che occorre per farne un buon medico, o almeno, distinguo. Se non si tratta che di fabbricare un chirurgo di reggimento, o un medico d'ospitale, l'andrà ancora benone, nel nostro felicissimo regno di Napoli. Al reggimento, come all'ospitale, si fa spreco della vita dell'uomo, come tu, briccone, fai spreco della mia pelle. Ma un medico, genericamente parlando, no. Dove hai mai trovato che tuo figlio abbia le qualità necessarie?

- Ah! ecco qui, signor sergente. Prima di tutto, perchè non saprei che cosa farne, se non ne fo un medico.

- L'è una ragione sufficiente, avrebbe detto il gesuita, rispose il sergente parlando col naso, poichè il barbiere lo teneva per questa parte importante del suo viso.

- Secundo, perchè alla fin fine deve fare qualche cosa, senza di che creperà di fame.

- È giusto, e tu ragioni come mastro Schiaccia.

- Tertio, perchè, dalla testa ai piedi, ha tutto quanto occorre per farne un medico.

- Jour-de-dieu! come mi martirizzi questa mane.

- Quarto infine....

- Infine, infine, atqui non è buono a nulla, ergo egli è buono a esercitare la medicina. Ecco come la pensava appunto un tamburo del mio reggimento che restò in Egitto a far il dottore. Andatene, dunque, a tutti i diavoli tu e tuo figlio e fanne pure un carnefice, che ciò m'è indifferente. Io non ho più nulla da insegnargli. Gli ho dato le ultime lezioni di intrepidezza, di disinteresse e di onestà. Ho finito. Felice notte. Avrei voluto vederlo soldato. Tu invece dici: medico. Impiccatevi dove volete. Del resto, hai forse ragione. Il soldato ora fa concorrenza al gendarme. È uno sbirro. Addio.

Il sergente si sforzava a parere volgare, pedante e ruvido, per non eccitare l'invidia, e quindi le denunzie de' suoi maligni compatriotti alla polizia ed al vescovo.

Parlando dunque così, egli fece un saluto alla bottiglia che era sulla tavola e ne tracannò una golata.

Poi misurò un calcio per di dietro al barbiere, lo spinse fuori e si pose a gironzare su e giù per la sala, zufolando. Pareva commosso.

Nel frattempo mastro Zungo, contento delle approvazioni del maestro di scuola, andò a raschiare gli altri suoi clienti, annunziando dappertutto la vocazione che aveva scoperta in suo figlio. Poi, a mezzo giorno tornò a casa,

In pari tempo arrivava Bruto, duro duro, tutto di un pezzo, tranquillo come un dio Termine, col viso sporco, un pacco di libri e di carte sotto il braccio, col naso rosso e la testa coperta da un berretto di carta a due corna, sopra il quale stavano scritte le regole dei gerundi e dell'ablativo assoluto, che aveva portato via ad un condiscepolo.

Mastro Zungo, malgrado le sue mille ed una debolezza, sapeva all'occorrenza mostrare del carattere. Ma, quando una dozzina di bicchieri di vino ballava nel suo stomaco, era ostinato e brutale e non ammetteva risposta ai suoi ukasi.

Ora, siccome il fatto dei bicchieri di vino si riproduceva spesso e non si manifestava alla bella prima con dei sintomi particolari, Egidia e Bruto si guardavano bene dal contraddirlo, perchè nella collera il barbiere abusava dei suoi pugni. Finito di desinare, mastro Zungo fece segno colla mano che nessuno si alzasse da tavola e parlò.

Lo si sarebbe detto il destino.

- Avendo consultata la tua fede di nascita, signor Bruto, e avendo trovato che hai diciotto anni; avendo consultato il registro dell'imposta fondiaria ed osservato che la nostra casa non occupa nessuna pagina di quel libro d'oro; avendo rovistato nella nostra cassa e non avendovi che 150 ducati, sola riserva della mia vecchiaia e di quella di codesta devota strega di tua madre; udito il parere del maestro di scuola, dell'arciprete, del notaio, della levatrice, del pizzicagnolo nostro vicino e di compar Gregorio, il fornaio... abbiamo risoluto di decretare, e decretiamo quanto segue: 1.° Che tu, signor Bruto, debba studiar la medicina; 2.° Che partirai per Napoli ed andrai presso di tuo zio, sempre affettuosissimo nella sottoscrizione delle sue lettere; 3.° Che questa partenza avrà luogo fra otto giorni, signor Bruto, e che tu, vecchia bigotta di Egidia, non farai nessuna osservazione.

- Partirà fra otto giorni, signor Bruto, e la vecchia bigotta di Egidia non fiaterà motto, rispose l'imperturbabile giovanotto, parodiando la voce ed i gesti di suo padre e pulendosi il naso col rovescio della mano.

La moglie in fatto non aprì bocca. Soltanto la sua respirazione si arrestò, la sua faccia paffuta e rossa impallidì, le si gonfiarono gli occhi e ne colò una lagrima, poi un'altra, poi un torrente e finalmente diede in singhiozzi ed ebbe tremito in tutte le membra. Si gettò al collo dell'impassibile suo figlio e lo coprì di lagrime e di baci.

Bruto lasciò fare, tenendo gli occhi fissi sopra il degno barbiere, che considerava anch'egli, ironico e commosso ad un tempo, l'eccesso d'amore di quella povera madre. Alla fine quando l'ebbe contemplata un momento, mastro Zungo alzò le spalle ed uscì brontolando con un tal quale tremolìo nella voce:

- Com'è mai sciocca la natura!

Otto giorni dopo gli ordini del barbiere erano eseguiti. Il giovane partì dopo aver preso commiato da tutti i suoi compatriotti, casa per casa, dove gli fu regalato, qui delle confetture o dei biscottini, lì una cravatta o un pezzuola, altrove un po' di tela per camicie. Gli uomini vennero ad augurargli buon viaggio.

Bruto partì di buon mattino. Mastro Zungo restò sulla soglia della sua bottega, seguendolo degli occhi fin che l'ebbe perduto di vista, poi esclamò fra sè e sè:

- Che cosa diverrà fra le mani di quell'avaro di sagrestano, che cosa diverrà?

Egidia, istupidita dal dolore, guardava essa pure, non piangendo più, le pupille fisse ed immobili, senza voce, pallida e ritta come una di quelle colonne di giallo antico, che alzano ancora il capo nel tempio di Taormina.

CAPITOLO III. Don Noè.

Nel secolo scorso la botanica sociale produceva una pianta, il cui seme sarebbe interamente perduto, se non lo si ritrovasse nelle tradizioni della commedia - lo zio d'America.

Oggi, gli zii lasciano piuttosto debiti che eredità; danno più facilmente ai loro nipoti dei consigli che del danaro; fumano sigari di costoro, fanno la corte alle loro amanti, s'insediano alla loro tavola ed attingono nella loro borsa. Se però è avaro, uno zio scapolo è ancora una incognita, che arride nell'avvenire, una probabilità fortunata, uno sguardo d'amore del destino; e molti falli della gioventù si accomodano, molti progetti spuntano fuori al raggio di questa fortuna che brilla in lontananza.

Don Noè, zio di Bruto, rassomigliava un po' a tutti gli zii. Era venuto a Napoli quasi bambino, con un'arpa sulla schiena, mendicando sotto pretesto di musica. Messo insieme un po' di scudi, ritornò al paese per darsi al commercio dei formaggi. Dio favorì la sua ambizione e la sua pietà. Ritornò allora a Napoli per istabilirvisi e noi ve lo ritroviamo sagrestano nella chiesa di San Matteo.

Il curato gli aveva ceduto, al settimo piano, due bugigattoli che davano in un vicolo sudicio e stretto; gli regalava di tanto in tanto una vecchia sottana e gli pagava trenta carlini al mese. Il curato si mostrava generoso, perchè alla sua volta don Noè eseguiva le piccole commissioni di Sua Reverenza.

I due buchi abitati dal sagrestano erano poverissimi di mobili e molto ricchi di lampade, di imagini di santi, di madonne e d'insetti. I muri, impiastrati d'una tinta gialla, sostenevano un soffitto coperto di una carta dell'istesso colore a fiorellini turchini, vecchia di cinquant'anni e che cadeva a pezzi. L'aria che si respirava lì dentro moveva nausea.

Vi si sentiva il tanfo di rinchiuso, l'umidità, il grasso condensato delle costolette arrostite sul carbone, ogni sorta di puzza cumulata agli odori della cucina che si faceva in un angolo sur un piccolo seggio. Una delle stanzucce, tramezzate da una impalcatura a cui si arrampicava per una scala mobile, serviva di camera da letto alla vecchia serva di don Noè.

Il sagrestano era piccolo, ma lautamente provvisto di due gobbe. Aveva la testa affondata nel collo, il collo nel torace, il torace nell'addome, il tronco cascante sulle cosce, le cosce confuse colle gambe, le gambe sprofondate in due enormi stivaloni alla scudiera, regalatigli da un abate, che nell'inverno vestiva da secolare.

Don Noè rassomigliava ad un cannocchiale rientrato. Di più, egli era calvo: aveva la fronte protuberante, gli occhi vivi, le labbra grosse, la faccia gialla, il naso venato in rosso a zigzag, i denti lerci. E, oltre a tutto ciò, era goloso ed avaro.

Mastro Zungo gli aveva annunziato per lettere la partenza di suo figlio. Don Noè aspettava, dunque, Bruto. Difatti, quattro dì dopo aver lasciato Moliterno, un bel giorno di sole, verso le quattro, Bruto arrivò da suo zio. Il corricolo che l'aveva condotto fino alla porta, aveva fatto venire tutto il vicinato alle finestre, co' suoi cavalli, più ricchi di campanelli che di carne, e coi due cappuccini, che tenevano seduto sui ginocchi questo bel giovanotto, che spirava la vita e la salute.

In meno di due minuti si sparse la voce che era il nipote del sagrestano e donne officiose e tutto cuore - come è in generale la plebe napoletana - precedettero Bruto al settimo piano per annunziarlo a suo zio.

A questa nuova e alla vista di quel pezzo di giovane, don Noè interruppe il suo lavoro (faceva calze), e montò sopra una scranna per giungere a livello di Bruto, la cui testa era a circa sei piedi dal suolo. Bruto riconobbe suo zio senza grande fatica. Gli corse incontro, aperse le braccia, se lo strinse al petto e lo abbracciò con tanta veemenza, che lo sgraziato don Noè credette di soffocare.

Mastro Zungo aveva imposto a suo figlio di mostrarsi affettuoso e carezzevole.

Bruto, trattosi indietro per un momento, si disponeva a tornar alla carica coi suoi abbracci.

Don Noè fissò gli occhi sopra di lui spalancati e spaventati e gli fece cenno di star queto. Poi, dopo averlo misurato e contemplato da capo a piedi, brontolò freddamente:

- È tutto suo padre! un bestione.

Mastro Zungo aveva inoltre ingiunto a suo figlio di non mentir mai e di non contraddire suo zio. Bruto rispose quindi:

- Sì, caro zio, sono proprio della famiglia, un bestione.

- Che fa tuo padre? e la tua buona mamma?

- Sempre lo stesso, sempre la stessa, caro zio. Mio padre salassa, sbarba e porta in giro le notizie; mia madre mastica quotidianamente dieci centesimi di tabacco e tre o quattrocento Pater e Ave per la conversione della Francia.

- I miei buoni amici di Moliterno si ricordan essi di me? Che cosa dicono!

- Gli uni, che siete un ignorante prodigioso; le donne, che siete un incomparabile suonatore di campane; mio padre, che siete un avaro; mia madre, che siete un santo. Io vi dirò la mia opinione quando ci saremo un po' meglio conosciuti.

- Impertinenti! sclamò il sagrestano. Ma se si cavassero dal villaggio codesti intriganti cinguettatori....

- Non ci resterebbe più che il sergente Sacco-e-Fuoco, che trova il re eccessivamente clemente nell'accordare ai Napoletani il privilegio di tenersi una testa sulle spalle.

- Sai, nipote, che le tue maniere mi vanno a sangue? disse don Noè, dopo aver osservato il giovane con attenzione.

- Faccia Iddio che vi aggradisca egualmente il mio appetito, caro zio! rispose Bruto di aria mezzo sorridente e mezzo triste, per far capire a don Noè che aveva fame.

A queste parole lo zio fece una smorfia.

- Questi nipoti di provincia sono tutti compagni, mormorò egli; pieni di buone intenzioni, ed affamati. Le buone intenzioni svaniscono, la fame resta.

Nel frattempo Bruto dava un'occhiata in giro all'appartamento, come un usciere che si prepara a far sequestro. S'avvide allora che c'era in un angolo qualche cosa che si moveva, rannicchiato sopra sè stesso, con un rosario di corno di bufalo tra le mani, gli occhi stupidamente sbarrati sullo zio e sul nipote, la testa e le orecchie tese in avanti come chi si sforza di udire e di comprendere. Bruto allora chiese:

- Chi è quel gnomo, vecchio come la strega di Andorra e scheletrito come San Girolamo?

Il sagrestano si grattò di un'aria grama il cranio calvo e borbottò:

- Tutti li stessi questi ragazzi! E' non si adattano a ciò che accettiamo noi. Ah! che bel mobile mi ho acquistato!

La vecchia serva, che Bruto aveva chiamata gnomo, non mosse palpebra. Don Noè soggiunse:

- A proposito, non vedo che tu abbi con te nessun baule. Come stiamo a vestiti, eh?

- I miei parenti detestano la pluralità.

- E a denaro?

- Do la mentita più completa ai filosofi, i quali dichiararono che la natura ha orrore del vuoto.

- Hai dei libri almeno?

- Nessuno. Ma gli è inutile, caro zio, che vi ostiniate a fare un inventario. Compongo io solo tutto l'inventario; rappresento, quale mi vedete, la nostra famiglia, il cuore pieno di speranze, la testa di progetti, lo stomaco d'appetito.

Poi, mentre lo zio rifletteva, si mise a cantarellare:

/* Ve lo dico in pochi motti, Nel fardello ho due biscotti. Ho la terra che percorro, Ho il presente e l'avvenire. */

- Anche poeta, esclamò don Noè, lasciando scappare un gran sospiro.

Mentre il sagrestano faceva preparare un po' di desinare, Bruto, che veniva dall'aria aperta, dall'aria pura, sentendosi soffocare, corse alla finestra e l'aprì. Guardava il cielo. Uno scroscio di riso, che gli risuonò di faccia, lo richiamò alla terra. Guardò, arrossì, ed allungò il collo per meglio vedere.

Una voce argentina e giovane, ricominciando a ridere, soggiunse:

- Sbarcato da Calabria, fresco, fresco!

- Ah! di già! sclamò don Noè.

E senza dar tempo a quella voce di aggiungere altre osservazioni, si avvicinò al nipote, si rizzò sulla punta dei piedi, lo prese per le orecchie onde cavarlo dalla sua contemplazione, lo spinse da parte, salutò e chiuse la finestra.

Bruto restò confuso e pensieroso.

Al domani don Noè si occupò dei vestiti di suo nipote, poichè non era possibile di mandarlo nè a scuola, nè dove che sia, nell'arnese in cui era venuto da Moliterno.

Don Noè lo condusse alla Giudea vecchia, da un mercante di sua conoscenza, che lo servì da amico, cioè caro e male. L'onesto giudeo fece indossare a Bruto un saione che aveva servito da abito festivo ad un usciere, il quale cambiava più spesso di moglie legittima che di vestito. Vi accoppiò un panciotto, la cui stoffa, dopo aver brillato nel corredo da nozze della moglie d'un avvocato e aver coperto un sofà, era destinata a fiorire sul petto di Bruto. Calzoni, stivali, cappello, ogni addobbo aveva una genealogia ed una storia.

Ma, sia noncuranza, sia altro motivo, Bruto non se ne mostrò scontento. Quanto a due birichini, che si permisero di fare delle osservazioni scherzose sul suo aspetto, ad uno regalò una pesca su un occhio, all'altro slogò la clavicola.

Don Noè, vedendolo così azzimato, disse con compiacenza a Tartaruga, la serva:

- Eh! che te ne pare, Tartaruga, di mio nipote?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Bruto entrava nelle battaglie della vita.

CAPITOLO IV. Lo studente.

Non descriveremo minutamente le noie, le avventure, le gioie, le disgrazie, gli accidenti della vita di studente di Bruto. Si è tanto scritto sugli studenti dal tempo che Abele e Caino andavano a scuola, che gli è oramai inutile il tentare di far variazioni nuove sopra questo vecchio tema.

La vita dello studente napoletano, a quei dì, era miserabile oltre natura. Sotto la implacabile sorveglianza del commissario di polizia e del priore della Congregazione, guardato a vista dal governo, condotto a messa ed alle confessioni dai gendarmi, sempre in mezzo a due spie che non gli lasciavano mai pace - quella dello Stato e quella della Chiesa - il commissario Campobasso e monsignor Scotti... ecco qual era a quei tempi la vita d'uno studente napoletano.

Nessuno, del resto, si prendeva pensiero se studiasse o no, tanto peggio anzi, se studiava gli era segno che voleva istruirsi, che desiderava imparare, che cercava di comprendere: dunque, un essere pericoloso. Dal comprendere all'odiare il dispotismo non v'ha che un passo.

Il tipo del buon suddito è sempre stato in ogni tempo e dappertutto un asino santo - qualcosa, insomma, che rassomiglia ad un Francescano.

La carta di soggiorno, il certificato di aver assiduamente assistito alla Congregazione, il biglietto di confessione, le informazioni che il commissario di polizia di tanto in tanto veniva a cercare dai professori, erano tante catene - senza contar le spie - che tenevano uno studente in una camera oscura, ove egli non percepiva nulla che avesse l'ombra di libertà, di libero pensiero, di sentimento, di patria, d'onore, di dignità umana.

Il sole di Napoli pioveva tenebre. Il cielo di Napoli abbrutiva e degradava. I confini del regno erano come le molle di una camiciuola di forza, nella quale otto milioni di anime in putrefazione si dibattevano. La religione era il narcotico della politica, la politica il boa constrictor della religione e, fra questi due strettoi inesorabili, lo studente si logorava, si spossava, diveniva moralmente laido e bruto: l'anima si anchilosava.

Bruto cadde in questa fossa di torpedini. La prima scarica fu orribile. Egli passava dall'indifferenza dei parenti e del maestro, alla vigilanza sospettosa ed astuta d'un prete e di un birro. Cadeva da Voltaire in Sant'Ignazio; dal patriarcato del villaggio passava alle convenienze della città, alle esigenze della vita più educata, ai sarcasmi motteggiatori dei suoi condiscepoli.

Mal vestito, povero, senza un soldo in tasca, sgraziato, imbarazzato, troppo franco di mano e di lingua, trascurato in tutto, poco pulito e slanciato d'un tratto in un nuovo ordine di idee, in una corrente contraria ai suoi studi anteriori, annoiandosi facilmente, ma avido d'istruzione e di rendersi ragion di tutto, e perciò fastidioso ed importuno, poco socievole nel fondo e proclive a ridersi di tutto e di tutti, Bruto passò molto male i primi mesi della sua vita di studente.

Ogni cosa lo urtava. Era come un uomo nudo coricato sopra delle ortiche. Si bisticciò quindi colla polizia, con monsignor Scotti, col priore della Congregazione, con don Noè, con Tartaruga; fu lì lì per storpiare uno o due dei suoi camerati; corse rischio due o tre volte di esser schiacciato sotto le carrozze, non s'inginocchiò dinanzi al Santissimo che passeggiava nelle vie sotto un baldacchino; non levò il cappello mentre passava il re; fu distratto, di cattivo umore; camminò sopra i calli e sopra i piedi di non so quanta gente; cozzò con questi e con quegli e tirò avanti senza curarsi delle ingiurie lanciategli.

Alla scuola interruppe i professori con delle apostrofi, che lo misero sul punto di essere scacciato. Il fare, le maniere di città, lo facevano disperare; sentiva tutti gli stimoli della vita che si svegliava, della giovinezza che si imponeva e non poteva soddisfare nè i suoi gusti, nè i suoi appetiti.

Aveva perpetuamente vergogna.

Il pievano di suo zio l'aveva raccomandato al professore Cosentini, un guercio di genio, un papa della scienza che non credeva nel suo messia; osservatore acuto ed ostinato, che a forza di voler vederci chiaro, di cercare il fondo delle cose, aveva finito col trovare il vuoto. Poichè nelle sue lezioni, dopo aver con una ispirata chiarezza di forma, scandagliato tutti i fatti, tutte le opinioni, tutte le dottrine, finiva sempre col dubbio e colla negazione.

Ciò spaventò Bruto. Studiare per imparare che non si sa nulla, diceva egli, tanto vale non studiar punto. Il finito è più ignoto e più inesplorabile dell'infinito.

Malgrado questo disinganno, egli continuò a frequentare la scuola dell'illustre professore. Le ore di queste lezioni eloquenti divennero anzi per lui ore d'incanto.

Un giorno, nel rientrare, Tartaruga gli consegnò una lettera da Moliterno. Era il sergente Sacco-e-Fuoco che gli scriveva queste linee misteriose:

"Mio caro Bruto,

"Se nei vortici di cotesta Babele, ti ricordi ancora del tuo povero maestro, che t'ha dato tante volte e con tanto gusto le staffilate, egli ti domanda un piccolo servigio. Va al vico del Sole (che non è mai visitato dal sole), presso San Pietro a Majella, cerca il numero 28, monta al quarto piano, a sinistra, e domanda di Giuseppina Tortora. Le dirai che son io che ti mando. La lasciai lì quando abbandonai Napoli, nel 1814, partendo per la guerra.

"Mi scriverai tutto. Il silenzio di vent'anni, che si è fatto intorno a me, non ha potuto farsi dentro di me. Fruga, trova, inventa, crea Giuseppina. Essa era là nel 1814. - Hai capito? Va, ragazzo mio, scrivimi una lettera di otto pagine. Studia, figliuolo. Addio. Tuo di cuore,

"PIETRO COLINI."

Questa lettera stordì Bruto, che non ci capì nulla. Eppure era chiarissima.

Il sergente ne aveva scritte almeno un centinaio calcate sopra quel modello, all'indirizzo del Vico del Sole, ferme in posta, ai suoi amici, ai suoi compagni d'arme. Aveva dato l'istessa commissione a cento altri compatriotti che erano andati a Napoli, non potendoci andare egli stesso, perchè la polizia e la miseria lo confinavano a Moliterno. Tutti gli avevano risposto l'istessa cosa. Il sergente non voleva esser convinto. Si rassegnava un giorno e al domani la sua anima riprendeva il volo.

Diciotto o vent'anni per lui erano un minuto. La sua vita si concentrava su un punto, sopra una data. Egli, che durante quindici anni aveva percorsa l'Europa, assistito a cento battaglie, aveva veduto tanto, fatto tanto, tanto sofferto, aveva traversato tante peripezie, tante orgie, tanti amori, delle giornate di mitraglia, delle notti di bivacco sotto il cannone nemico; egli che era ritornato dalla Russia in mezzo ad un nugolo di Cosacchi, a traverso il vento delle steppe, più micidiale del vento degli obizzi; quest'uomo incombustibile non si ricordava che di un'ora della sua vita; viveva interamente in quell'ora, come se fosse stato ieri, o questa mattina, viveva di quell'ora.

Il tempo che lo circondava non contava per lui. Non poteva comprendere che altri avvenimenti potessero esser accaduti, quantunque egli ne fosse l'attore e la vittima.

- Diavolo! Diavolo! disse Bruto tra sè, il mio sergente si emancipa! Va alla pesca delle vecchie vivandiere del 1814! Giuro a Dio! il cronometro del sergente è terribilmente in ritardo.

Pure, ingoiato in fretta in fretta in fretta un piatto di fagiuoli, senza neppur levarsi il cappello, Bruto corse al Vico del Sole.

La curiosità lo spronava; provava una certa emozione.

L'indirizzo era preciso.

Non c'era portinaio nella corte. Parigi non aveva ancora comunicata a Napoli questa piaga, che val bene quella che Napoli regalò ai compagni di Carlo VIII. Non avendo da indirizzarsi a nessuno, Bruto salì difilato al quarto piano, picchiò all'uscio a sinistra di quella cupa, fetida ed immonda casa. Non c'era battitoio, nè campanello. L'uscio era mezzo aperto. Bruto picchiò tuttavia colle mani. Nessuna risposta. Picchiò di nuovo; silenzio sempre.

Allora entrò.

La strana camera in cui si trovò, era in quel momento vuota; ma si vedeva che era abitata. Una pentola bolliva sopra un fornello di creta, sicuro segno che il pigionale di quell'appartamento era stato disturbato, mentre preparava il suo pasto e che si era allontanato momentaneamente. Bruto sedette e passò in rivista le mobiglie singolari di quella stanza.

Era molto vasta. Una finestra, che dava sulla corte, la rischiarava quanto bastava per farne spiccare la miseria, il sudiciume, la decrepitezza. Non si distingueva più la tinta primitiva delle pareti; era divenuta d'un colore sconosciuto nei raggi dell'iride. La camera sembrava scorticata e fessa in più luoghi. L'occhio seguiva le traccie che i rivolini d'umidità avevan lasciato colando dall'alto al basso e che avevano deposto una crosta di sale sordido.

Da un lato v'era un mucchio di tela bruna in forma di tenda. Dall'altro, un pagliericcio, coperto da una vecchia coltre di lana, senza lenzuola. Contro il muro vicino alla finestra, il fornello per cucinare. Poi una tavola di pioppo annerita dal grassume e due o tre sedie di paglia, zoppe tutte di un piede per lo meno.

Lungo l'altra parete, per un miracolo di statica, stava ritto un armadio senza battenti, pieno di pezzi di stoffe di tutti i colori e di tutte le qualità, dal panno comune al broccato d'oro, dalla flanella al velluto. Poi, tutto intorno alla stanza, disposti in ordine, appesi a chiodi, come in linea di battaglia, un centinaio o due di burattini di tutte le dimensioni, scolpiti e vestiti con tant'arte e verità che li avreste creduti viventi.

La debole luce del giorno, che era sul cadere, il riverbero cupo e rossastro dei carboni del fornello davano qualcosa di fantastico a quella stanza. Si sarebbe detto che quei piccoli spettri immobili non aspettassero che il segnale di un mago per istaccarsi dalle pareti, vivere, muoversi, principiare una danza fantastica di gnomi, di lemuri, di silfi mascherati.

V'erano tutti i personaggi della commedia sociale, dall'invenzione extra-umana, da Pulcinella a Cesare, da Colombina al diavolo, da Pagliaccio alla Vergine Maria; il birro e l'angelo; il grande di Spagna e il mal ladrone, il gendarme e il gesuita, la fanciulla ingenua ed il burbero tutore, Giuditta e la sua vecchia ed anche il capitano svizzero che rappresenta Oloferne.

Poi dei genii alati, delle fate, delle ballerine, degli spettri, dei terribili assassini armati di trombone. - C'era lì la storia della vita, la leggenda, la favola, la follìa, la storia sacra, le miserie della pubblica piazza, le delizie dei sogni di vent'anni. Pist! e tutto vola nell'aria, canta, freme, grugnisce, rugge di collera; è spuma del mare, ala di uccello, contorsione, scoppio di riso - una palpitante visione di hascis, o un pesante incubo di vino di Calabria.

Bruto subiva questa specie di vertigine da dieci minuti, quando l'abitante della stanza entrò serio, recando una manata di legumi. Egli gittò uno sguardo su Bruto, che si alzò ma senza far motto e corse alla pentola donde l'acqua scappava via nell'ebollizione e spegneva il fuoco. Bruto, confuso, distratto e spinto da un bisogno istintivo di dire alcun che, dimandò:

- Siete voi Giuseppina Tortora?

L'uomo, interpellato così, volse vivamente il capo; fissò il giovanotto con un viso imperturbabile e rispose serio serio:

- Sono proprio lei.

Bruto, risvegliato da questa risposta burlesca, scorse che il suo interlocutore era un vecchietto d'una cinquantina d'anni, giallo, magro, tozzo, con un testone coperto da capelli grigi arruffati; un paio di calzoni giallastri; un soprabito nero nella sua infanzia, grigio ora e bucato ai gomiti; una cravatta rossa e un berretto di pelle. Aveva mustacchi neri ed enormi sopracciglia; il tutto rischiarato da due occhi che fiammeggiavano e ch'era impossibile di fissare nel loro movimento continuo. Quello sguardo rifletteva un'anima.

- Scusate, disse alla fine Bruto arrossendo. Ero distratto e preoccupato. In realtà vengo qui per domandare notizie di cotesta Giuseppina.

- Se desiderate l'imperatrice Giuseppina, la moglie di Bonaparte, ve la presento all'istante. Io, piccino mio, non ne conosco d'altre.

- Quella che io cerco è una persona seria, rispose Bruto. Ella abitava questa camera nel 1814.

- Se non avete notizie più recenti, caro amico (rispose l'uomo dai legumi, cui tagliuzzava e ficcava nella marmitta), vi consiglio di dirigervi al diavolo o alla polizia.

- Al diavolo sì, se me ne date l'indirizzo; alla polizia, no.

- Hehm! pare che non siamo molto in buona colla polizia. Non monta; che Dio la soffochi ed allora crederò in Lui. Ma veniamo alla Giuseppina del 1814. Parlate sul serio, piccino?

- Leggete questa lettera, rispose Bruto, dandogli la missiva del veterano.

Don Gabriele fissò i suoi sguardi sopra Bruto come un uomo che risponde ad una provocazione, poi aggiunse freddamente:

- Più tardi! Non è necessario che io legga ora la vostra lettera. Lasciatemi dirvi anzitutto che io abito questa camera da nove o dieci anni e che prima di me era occupata da uno studente abruzzese, che è tornato al suo paese. Dalla cantina al tetto tutti i pigionali della casa si son cambiati quattro o cinque volte dal 1814 in qua, ed i più vecchi datano da tre anni. Se desiderate notizie di questa comare, credete pure che, per Dio, non è qui che le avrete. In ogni caso domandate....

- Gli è inutile, poichè non ne sapete niente. Sarei stato lieto per altro di rendere questo piccolo servizio al mio povero sergente.

- Ma di che si tratta, insomma? domandò don Gabriele.

- Ne so tanto come voi. Probabilmente di una donna che il sergente amava nel 1814 e che, a quel che pare, ricorda ancora. Quel diavolo d'invalido è un uomo tenace.

- Con quegli indizi, ragazzo mio, non c'è mezzo di venirne a capo, nè voi, nè io, nè il curato, nè la municipalità e forse neppure la polizia. Giuseppina? ma le Giuseppine pullulano. Tortora? vi sono tante tortore e tortorelle. Pesca un'ostrica nel Fusaro, se puoi. E poi ci vuole tempo, pazienza, danaro e assiduità... 1814! Diamine; ma sarà morta quattro volte o sarà divenuta colonnella, la sergentessa.

- Gli è impossibile, disse Bruto sospirando ed alzandosi.

- Per Dio, giovinotto, mi suggerite un'idea, gridò don Gabriele, battendosi la fronte e portando i suoi sguardi sopra un gruppo di marionette appese al muro. - Come si chiama il vostro sergente?

- Sacco-e-Fuoco.

- Magnifico! divino! Scommetto che ha fatte le campagne di Russia col principe Eugenio o con Murat.

- È stato in Russia, si è trovato a Waterloo, è monco di una mano, ha perduta una gamba, ha il viso cincischiato... ma non so nulla nè del principe Eugenio, nè di Murat. Il sergente non parla mai nè di sè stesso, nè delle sue vicende.

- Bravo! bravo! oh! come sarà applaudito! che leccornia! che frenesia! che emozione!... Andare alla guerra pel suo paese, lasciare una moglie ed una figlia, ritornare e ritrovare la moglie morta di fame, la figlia sedotta; domandare al seduttore che la sposi. Ciò non è possibile. Egli è ricco e nobile, ella è bella e nulla più. E poi è una popolana. Provocare quel miserabile.... benissimo. La polizia mette in prigione il padre e dà alla figlia, una patente di.... di....

- Ma voi farneticate, signor mio, disse Bruto; non c'è nulla di tutto ciò, nulla, assolutamente nulla.

- Zitto! zitto! continuò don Gabriele. Voi non capite che con una commedia, come questa, farò otto rappresentazioni al giorno? Che donna Peppa si arricchirà? Che tutta Napoli vorrà vedere il suo sergente Sacco-e-Fuoco? che vi saranno lagrime, grida, imprecazioni e buccie d'arancio sul capo del cavalier Polidoro? È il nome che voglio dare al seduttore di Fortunella. È magnifico! bravo giovinotto, grazie, grazie! Avete l'entrata gratis al mio teatro e ai primi posti.

Bruto, stordito, comprendeva appena e credeva comprender male. Vedeva il suo povero sergente trascinato in una bufera di avventure, di pericoli, di sventure, di miserie e sentivasi venir la voglia di prendere pel collo quel piccolo diavolo di uomo e dirgli: Basta così, brigante! Non voglio che tu mi sperperi così il mio veterano. Intanto don Gabriele dimenticava le sue carote, i suoi cavoli, la sua pentola e ruminava e parlava fra sè!

- Ma scusatemi, caro mio, disse Bruto alla fine, chi siete voi che mi prendete così il mio sergente e la sua Giuseppina per farne Dio sa che cosa? vi proibisco di toccare il sergente o la va a finir male.

Don Gabriele si mise a ridere e rispose: - Calmatevi, giovinotto, io son don Gabriele. Tutta Napoli conosce don Gabriele, il direttore del teatro di Donna Peppa. Scommetto che m'avete udito al Molo nel mio teatro ambulante di burattini; che avete riso cento volte delle mie storie e delle mie arguzie e che non m'avete mai dato un centesimo. Sta bene; lasciatemi fare adesso, lasciatemi il vostro sergente e vi prometto di occuparmi a trovare le tracce della Giuseppina. Per mia sventura, ho sovente a riveder taccoli colla Polizia, a causa del mio mestiere. Li conosco tutti quei cari agenti; m'informerò di quella donna. Datemi, però, qualche indicazione più precisa. Scrivete al vostro sergente e portatemi la sua risposta.

La transazione sembrò andar a sangue a Bruto. Inoltre, senza ch'egli se ne accorgesse, don Gabriele l'aveva colpito. La sua maniera di parlare, il suo slancio, l'accento, quell'impero indomabile che l'arte prende sull'uomo avevano aperto nello spirito di Bruto una via a nuove idee, ad un istinto nascosto, a dei desiderii sconosciuti, a delle speranze vaghe ed indefinite.

- Sia, diss'egli: ritornerò. Ma ad una condizione: che non metterete il mio sergente sugli avvisi, finchè io non sappia in che storia lo fate figurare. Per Dio! non voglio che faccia nè la figura d'imbecille, nè quella di un sacripante. Se lo sapesse, ci romperebbe le coste a voi ed a me.

- Non temete di nulla, giovanotto. Quando mi conoscerete meglio, capirete che la raccomandazione è inutile.

- E poi non mi piace che facciate morir Giuseppina. Ho un'idea....

- Dite, ragazzo, dite, sclamò don Gabriele ansioso.

- No: c'è di meglio a fare.

- Che cosa?

- A rivederci, ve lo dirò un'altra volta.

CAPITOLO V. La finestra si chiude, la porta si apre.

Bruto era rientrato in casa vivamente preoccupato. Quelle poche frasi scucite del burattinaio erano state come una chiave che avesse aperto uno scompartimento ignoto della sua anima; qualche cosa rivelavasi in lui. Una delle forze del suo spirito si risvegliava. L'intensità di questa forza importava poco; che essa fosse o no predominante, la quistione non era lì.

È certo che quella educazione disordinata, informe, che toccava a tutto, si sottraeva ad ogni analisi, non seria, ma quasi enciclopedica quella educazione da commesso viaggiatore d'un veterano che aveva verificata la geografia mediante le battaglie, che aveva esaminato monumenti a forza di puntarvi contro il cannone, che aveva imparato le lingue europee nei bivacchi e nelle osterie; in una parola quella educazione così mescolata, così bizzarra, che Bruto aveva ricevuto dal sergente, aveva deposto e nutrito nel suo spirito un lievito di poesia, di cui egli non aveva neppur coscienza.

Al primo tocco, ciò scoppia fuori. E ciò getta l'anima del giovine in un mondo sconosciuto che l'agita e la confonde. La poesia è luce. Al primo colpo d'ala, Bruto aveva veduto il burattinaio quasi trasformato; al riverbero di quella luce, egli si sentiva zampillare dal petto un getto di vita novella. Il contadino sciocco, insipido, balordo, lo stupido provinciale d'ieri rompeva il guscio e gettava le scaglie.

Un'ora ancora, ancora un soffio, una corrente di questa fiamma, che lo avvolge, ed egli è artista - cioè l'espressione la più ridente, la più profumata dell'aristocrazia del pensiero.

Ritornando a casa, per la prima volta Bruto s'accorse che il bugigattolo di suo zio era infetto; che le bestie, alle quali il sagrestano dava ospitalità, ne assorbivano metà dell'aria respirabile e ne raddoppiavano i miasmi.... Non so come quel malfattore si adoperasse per nascondere i suoi assassinii a don Noè e a Tartaruga.

Il fatto sta che, due giorni dopo la visita a don Gabriele, i conigli dei sagrestano cuocevano lentamente a stufato nella casseruola di Tartaruga, la gabbia ove brulicavano i sorci d'India, era stata aperta dal gatto, che li aveva divorati; e poi alla sua volta, per timore forse d'una punizione severa, il gatto era scomparso; i due cani di Tartaruga erano andati in cerca del mariuolo e non erano più tornati; i pollastri non cantavano più, stavano rannicchiati, tremavano come se avessero la febbre, sicchè la serva, vedendoli sul punto di crepare, prese la risoluzione di torcer loro il collo.

La gabbia dei canarini e dei merli era vuota; la gazza, la cornacchia e la civetta, prese da vertigini, si erano precipitate in istrada ad ora indebita, e Dio sa dove erano andate a far gazzarra; il pappagallo querulo, ostinato, petulante, bestemmiatore, che rispondeva amen alle preghiere di don Noè, ed ora pro nobis alle litanie di Tartaruga, quel pappagallo testereccio, per un miracolo inesplicabile, s'era arrampicato sulla punta della croce della chiesa, come una banderuola, e a don Noè, che lo chiamava Titi per farlo rientrare nel suo domicilio, rispondeva col famoso giuramento di Benedetto XVI; poi alla sua volta Titi disparve e non se n'ebbe mai più notizia - malgrado l'onesta ricompensa offerta da don Noè.

Infine le tortorelle caddero sopra le ginocchia della bella cucitrice che stava là di faccia, ad uno stender di braccio. E, miracolo ancora più grande, in mezzo a questo cataclisma, a questo sbaraglio nel domicilio del sagrestano, vedesi Tartaruga che, un bel mattino, colla granata alla mano, ripulisce, raschia, spazza e arriva fino a lavare i mattoni del pavimento; la finestra è aperta a due battenti; il sole, un bel sole dorato del mese d'agosto, inonda in pien meriggio le due stanzette.

Due giorni erano bastati a questa metamorfosi, preceduta da un Waterloo. Chi l'aveva operata? Bruto - quel Bruto, che si era rivelato sotto la parola del burattinaio, che gli aveva detto: "Farò un dramma," a cui egli aveva risposto: "Ho un'idea ancor migliore."

- Un'idea migliore! corbezzoli! bisogna trovarla, giovinotto.

Bruto non s'era recato a scuola. Andò girandolando sulla riva del mare, alla Villa Reale, sulle colline, al chiaro di luna; perchè aveva sentito dire che le idee poetiche non fioriscono che là e che altrove non germogliano.

Il fatto è che questa idea promessa, non l'aveva trovata. Aveva fantasticato d'una Giuseppina idiota per introdurla in un dramma e aveva finito col pensare al sergente e che sarebbe stato felice di potergli scrivere un giorno: "Vieni, sergente, la tua Giuseppina è duchessa... o serva di un notaio," non monta.

Non avendo trovato l'idea al chiaro di luna della Villa Reale, Bruto restò in letto il giorno dopo, nella speranza che essa venisse alla luce del giorno più comodamente sul suo magro lettuccio. Bruto si alzò e, mentre Tartaruga sgusciava i piselli, passeggiò per la stanza colla finestra aperta. Faceva le viste di tener gli occhi volti al cielo, come se cercasse una rima. In realtà rimirava quella bella giovinetta che lavorava rimpetto a lui, così vicino, che, quantunque fosse dall'altra parte del vicolo, l'udiva respirare. Pertanto restava silenzioso.

Tutto ad un tratto, Bruto vede la testa della ragazza volgersi vivamente verso il fondo della stanza e sente il rumore d'una porta che si apre e si chiude e una voce che brontola; in pari tempo vede cadere sulle ginocchia della fanciulla un involto di biancheria.

- Ebbene, mamma! domandò questa con ansietà.

- Nulla, rispose una voce dall'interno.

- Come nulla? replica la ragazza disfacendo l'involto.

- Nulla, nulla! che Dio la castighi, quella pettegola che non ha viscere di cristiano! sclamò la voce.

- Ma insomma, perchè mi riporti questa biancheria?

- Perchè? perchè quella beghina mi ha detto, gettandomela dietro, che i Riut Lamada sono conti e che tu hai ricamato su queste pezzuole e su queste camicie una corona di barone. Hai capito ora?

- Ma il modello?

- Oh! il modello? ebbene il modello era di una pezzuola data dalla Regina. Ora, i Riut Lamada, mi ha detto la cameriera, sono baroni alla corte e conti in città. Ecco un nuovo modello. Bisogna ricominciar da capo.

- E non ti hanno pagata?

- Pagato? Che Dio mandi loro la miseria. Ho dovuto supplicare piangendo per ottenere ancora del lavoro. E tu devi scucire, poi ricamare di nuovo una corona come quella che vedi su questo pezzo di carta. Capisci?

- Ed intanto?...

- Ah! hai fame? bene, roditi i gomiti. Intanto... chiedi?... Sì sì, tu credi che quella gente comprenda che vi sono dei poveri che hanno fame! Ma i loro gatti, i loro cani stessi non mangiano più pane. Quelle bestie aristocratiche non conoscono la fame. E vi sarebbero due povere donne che da trentasei ore non hanno mangiato che due soldi di pane? Baie! non è possibile, non è verisimile: la è un'impostura da mendicanti! E crepa. E, sopratutto, lavora. Hanno fretta.

- Oh! non è tanto per me, mamma, disse la fanciulla con voce commossa. Io non ho fame; non ci penso; vedi, io canto la Linda, la Sonnambula, ma... e tu?

- No, no, per la Vergine Santa, non la può continuare così. Lascia stare, una volta per tutte, gli scrupoli, i capricci, le ubbie che ti passano pel capo.

- Ma a che proposito mi dici queste cose, mamma?

- A proposito di che? Vediamo, Lena, finiamola. Questa vita di miserie non può durare. Finchè ho potuto darti di che vivere, nulla mi ha fatto indietreggiare, nè mi ha fatto paura. Ho fatto perfino la serva. Ora ho quarant'anni. Non sono più buona a nulla, coi miei sudici stracci, di cui non vorrebbe neppure il cenciaiuolo.... Pure non era attagliata per servire, io. Sta bene. Tocca a te ora a darmi da vivere. Hai diciott'anni.

- Ma, mamma, io non domando di meglio che di lavorare; di giorno, di notte, a tutte le ore, farò tutto.

- Sciocchezze! Il lavoro è il padre della fame, l'avo della miseria. Dio non ha creato la bellezza per lavorare, come non ha creato il fiore per farne la zuppa. La signora Terenzia Brocchi, che ho conosciuta ganza d'un calzolaio, è ora presidentessa e non mi conosce più. La signora Emilia Salvi, che nel 1824 era la moglie d'un tintore, ora gode la pensione di vedova d'un sotto-intendente. Io sola, la più bella, la più invidiata, sono caduta, e di caduta in caduta, mi sono sprofondata ove siamo ora. Aver fame, non è niente; aver freddo, non è nulla ancora; esser battuta, gettata in un canto come un rifiuto, non è nulla; domandar la carità, non è nulla ancora, nulla, nulla....

- Mamma!

- Non è nulla, ti dico: l'abitudine raddolcisce tutte le asprezze; si respira nel cielo come l'aquila, o nelle fogne come i sorci. Ma ciò che è implacabile gli è il ricordarsi d'esser stata bella, felice, rispettata come una Madonna, comprendere il bello, il buono, la virtù, l'onore, il lusso, l'amore e sapere che tutto questo è irrevocabilmente perduto. Oh! se avessi sedici anni!

- Ne ho diciotto, mamma, disse la ragazza, e soffro, mi rassegno e canto. Fa altrettanto anche tu.

- No, per Dio, no, Lena, ascoltami bene. Io ti aveva messa sulla via della fortuna e tu hai indietreggiato.

- Quale, mamma?

- Il teatro....

- Ah! corista a San Carlo.

- Corista a San Carlo non diventa chi vuole. Ma credi forse che io ti avessi cacciata colà per esser corista, per vederti questa sera duchessa, domani contadina, dopo domani strega, un altro giorno raggio di luna, ciabatta, ruggito di leone, coda di cavallo e che so io? Sciocchezze! Stravaganze! non mi basterebbe neppure che fossi seconda donna!

- Ma allora?

- Allora? il palco scenico per una bella ragazza come te, è come l'altare per la Madonna e le nuvole per gli angeli. Là si adora.

- Là si compra e si vende, mamma! sclamò la fanciulla indignata.

- Sciocca, vorresti dunque donarti tu!

- Mamma, è inutile ritornare sul passato, disse Lena dolcemente. Sono stata due mesi al San Carlo. Sai che cosa avvenne. Sai le persecuzioni infami che vi soffersi, gli attacchi, gli insulti, le offerte.... No; non vi ritornerò più. Ve ne sono di quelle che amano i diamanti, fossero pur falsi. Io preferisco la viola.

- Lena, vengo ora dalla signora Tessari, la potente regina del teatro dei Fiorentini. Questa eccellente donna m'ha detto che da questa sera tiene disponibile per te un posto nel suo teatro. M'ha detto anzi di più: offre d'istruirti, di affidarti delle piccole parti e poi... meglio ancora, se vuoi studiare a venticinque grane al giorno. Ella ti scrittura. Voleva una risposta avanti a mezzogiorno; gliel'ho portata alle dieci. Sei scritturata.

- Giammai.

- Oh! oh! giammai? Rifletti, figliuola mia. A diciott'anni, con quegli occhi, con quel corpo, con quei capelli, con quella carnagione, quella taglia, con tanta melodia nella voce, con quella bocca e quei denti, con quelle mani e quei piedi da regina, con quel raggio nella fisonomia che ti fa rassomigliare a Santa Cecilia, con quella flessuosità di tutta la persona... con tutte queste cose, quarantotto ore senza pane, lavorandone quaranta... rifletti.

- Giammai!

- Rifletti, figliuola, che ho promesso. Rifletti che Dio non vuole che si lasci morir di fame la propria madre quando si può darle più che del pane: l'opulenza, il lusso, più ancora: la vita, il sorriso, il trionfo, la tranquillità della coscienza, il paradiso. Rifletti, Lena. I diciotto anni passano. A vent'anni la rosa è interamente sbocciata. A trenta è avvizzita ed i petali cadono. Il tempo appartiene a Dio, il grande usuraio. Chi non traffica, fallisce e ne è punito. Tu hai orrore delle esibizioni: io sono stanca dei rifiuti. Tu hai paura delle porte che si aprono per lasciarti passare in carrozza; io cado affranta e martirizzata dinanzi a quelle che si chiudono. Una cecca, la cui cameriera racconta ogni fatta di cose, mi getta sulla faccia il tuo lavoro e mi scaccia. Ed io non mi conosco sapore di pane da trentasei ore! Misericordia di Dio! no, ciò non deve essere. Lena, questa sera tu esordirai ai Fiorentini. Nascerà quello che nascerà.

- Ti dico no, mamma, giammai!

- Ah! la prendi su questo tono? gridò la donna, avanzandosi verso la finestra ove stava sua figlia. Ebbene; a noi due allora!

Bruto, ritto dinanzi alla finestra, non aveva perduto una parola di quel dialogo. Lena, rivolta verso sua madre, non aveva pensato che vi potesse esser qualcuno che le ascoltasse: e la madre in fondo alla stanza non aveva scorto il giovanotto. Quando costei s'avanzò verso la figlia, i suoi sguardi e quelli di Bruto s'incontrarono, parvero le due scintille che compongono la folgore.

Bruto, che l'aveva non pertanto veduta spesso, non la riconosceva quasi più in quel momento. Quella megera, grande, gialla, gli occhi iniettati di sangue e di bile, le labbra grigie, con qualche ciocca di sucidi capelli in disordine, si avanzò, o piuttosto balzò, verso sua figlia, ghignando colle unghie protese in avanti, coi lineamenti sconvolti. Faceva orrore. Alla vista di Bruto indietreggiò, poi, di uno slancio, si abbattè sulla finestra e la chiuse.

Bruto rimase atterrito. Il sangue gli affluiva al cuore. Non respirava più.

Seguì un istante di silenzio. Poi egli udì un grido acuto. Nel punto stesso, la porta della sua stanza s'aprì e una voce insinuante domandò:

- Zia, avreste per caso una bragia per accender la pipa?

Bruto si voltò e vide don Gabriele che gli faceva dei segni.

Tartaruga gli diede la bragia e don Gabriele aggiunse:

- Grazie, la vecchia, e se ne andò.

Bruto restò un momento ancora ad ascoltare, poi lo seguì sul pianerottolo. Don Gabriele gli disse a bassa voce:

- I cani hanno trovato le traccie.

- Di chi?

- Zitto!

CAPITOLO VI. I cani di don Gabriele.

Don Gabriele condusse Bruto in un caffè, via Speranzella. Entrò pel primo e sedette ad un tavolino, poi picchiò col suo grosso bastone, gridando in pari tempo:

- Bottega! bottega!

- Ai vostri ordini, Eccellenza, rispose dal fondo della bottega un garzone in maniche di camicia, senza calze ed in pantofole.

- Imbecille! gridò don Gabriele, offeso probabilmente da quel titolo di Eccellenza. Un bicchier d'acqua senza zucchero, del fuoco e il Poliorama.

- Subito, Eccellenza, continuò l'imperturbabile cameriere.

- Bestia! questo per me.

- Benissimo. Una bestia per vostra Eccellenza e poi?

Don Gabriele sorrise e soggiunse:

- La bestia è per te come mancia; per questo signore un tocchetto.

- Un tocchetto pel signore.

- Un tocchetto... di quale gusto lo preferite voi, don Bruto?

- Di tutti i gusti.

- Che orgia! Hai inteso? Al gusto del rhum, dell'anisetto, del curacao, del rosolio... insomma a quanto hai di meglio.

- Un tocco a tutti i sensi pel signore, gridò il cameriere.

- No: solamente all'anisetto.

- Un tocco all'anisetto, gridò di nuovo il giovine.

E un minuto dopo li serviva, molto soddisfatto del suo spirito; perchè vi sono nel dialetto napoletano dei qui pro quo ingegnosi tra il tocco, che significa apoplessia, il tocchetto, bicchierino, ed il senso che vuol dire gusto; qui pro quo intraducibili in buon italiano.

Bruto non aveva domandato che un grano di caffè con l'anisetto. Per prodigalità, fu servito nell'istesso tempo di una mezza dozzina di mosche. Partito il garzone, don Gabriele accese un sigaro e ne offerse uno a Bruto.

- Grazie, disse questi. Raccontatemi ciò che avete scoperto.

- Poco. Ma siamo sulla traccia... forse....

- Se siamo sulla traccia, sfido il diavolo d'impedirci di andare avanti.

- Hum! fece don Gabriele; quando Fuina si ferma, sfido il diavolo, io, ed il padre del diavolo ad andar più avanti.

- Prima di tutto, codesto Fuina, caro don Gabriele, chi è?

- Sta tranquillo, ragazzo, sta tranquillo; non è nè il presidente del consiglio, nè un santo del paradiso... oh! no.

- Chi è dunque?

- È un ispettore di polizia, mio amico, che incontro tutti i giorni al caffè del Molo, ove sorveglia me prima, poi tutti gli altri che vi capitano. Parla con tutti e di tutto, anche del Giappone, delle scoperte nella luna di Herschell, della guerra delle Indie, della Rivoluzione del Belgio. I capitani di bastimento di tutte le parti del mondo, che vengono a quel caffè, non sanno la metà di quello che sa Fuina. Parla tutte le lingue. Credo che sia stato pirata.

- Non lo credo, disse Bruto. Un corsaro ruba ed assassina, ma non fa la spia.

- Ogni genere ha le sue varietà, ragazzo. In ogni caso, siccome io lo conosco da dieci anni, gli ho raccontato l'affare del sergente e della Giuseppina e gli ho pagato un sorbetto.

- Un pirata che prende un sorbetto! Alto là: l'avrei riconosciuto e rispettato se avesse preso un punch al vetriolo.

- Fuina prende tutto, quando non gli costa nulla, un caffè e panna, o un bicchierino di acido nitrico. Fatto è che, dopo avermi ascoltato con attenzione, riflettè un momento, tirò fuori di saccoccia un portafoglio molto sporco e prese alcune note. Poi mi disse: Verrai a trovarmi qui domani - questa mattina - e vedremo se c'è qualche cosa da fare.

- Ci sei stato, dunque?

- Ne vengo difilato.

- E ti ha detto?

- Nulla. Gli ho pagato una tazza di caffè con un bicchierino di rhum e l'ho seguito da lontano.

- Per rispetto?

- Per suo ordine. Fuina cammina sempre solo. Conosce tutti, ma non s'accompagna mai con nessuno.

- Per orgoglio o per pudore?

- Domandaglielo tu stesso alla prima occasione. Siamo stati alla prefettura di polizia, lui avanti, io indietro; siamo saliti alto alto, fino all'ultimo piano e ci siamo fermati dinanzi ad una porta sulla quale si legge: Archivi generali.

- Comincio a capire, disse Bruto.

- Era chiaro come il sole, ma convieni che nè tu nè io non ci avevamo pensato. Fuina ha aperto ed è entrato. - Aspetto qui? gli chiesi. - No, vieni con me, ha risposto. Voglio provarti che quando Fuina promette, mantiene. L'usciere lo conosceva; abbiamo traversato un cupo corridoio, pieno di filze vecchie e polverose e siamo entrati in un gabinetto che stava in fondo di esso.

- Eccomi, signor conte, ha detto Fuina, levando rispettosamente il cappello ad un ometto mingherlino, pallido, con una vocina sottile e le maniere di una dama, pieno di urbanità e di cortesia.

- Ho ciò che vi occorre, ha risposto il conte alzandosi e andando verso un canapè, su cui si è assiso ed ha fatto sedere Fuina. Io restai in piedi.

- Così va! esclamò Bruto, un povero diavolo, che ha l'abito bucato, non deve aver l'impertinenza di esser stanco. Ritto sulle zampe, cane!

- Ebbene! t'inganni, disse don Gabriele; il conte mi ha chiesto se le notizie che venivano a cercare m'interessavano molto, ed, avendogli io risposto di sì, mi ha indicato una sedia vicino al canapè, m'ha fatto sedere e da quel momento non ha più parlato che a me. E devo soggiungere che quella specie di ripugnanza, che mi era sembrato di scorgere in lui quando parlava a Fuina, spariva quando s'indirizzava al suo umile servitore. Non era più il superiore: l'uomo della polizia che parla ad un agente inferiore: era il gentiluomo che rende un servigio ad un povero diavolo.

- Il vostro conte, se non è un conte, non resterà al suo posto, caro don Gabriele, con questi principii.

Una parentesi. Doveva toccare al governo italiano la trista gloria di metter in riposo, prima del tempo, questo conte Gaddi, che non era un conte, come diceva Bruto. Ma tiriamo innanzi e che Dio perdoni al governo italiano questa sciocchezza, che non è la sola!

- Il conte ha preso, dunque, un gran fascio di vecchie cartaccie, continuò il burattinaio e cominciando a sfogliare ai luoghi, dove per segno aveva piegato il foglio, mi chiese:

- Sapete voi chi era cotesta Giuseppina Tortora?

- No, signore, ho risposto, sono incaricato da una terza persona d'informarmene.

- Sta bene, allora procediamo per ordine, ha soggiunto il conte. Nel 1813 il convento delle monache di Santa Maria di Costantinopoli era stato abolito dal re Murat. In questo convento si trovava una monaca di non so quale città dell'alta Italia, molto vecchia, che aveva presso di sè una giovinetta di una sedicina di anni che la serviva. Questa ragazza era entrata nel convento all'età di tre o quattro anni. Ella si ricordava appena di aver viaggiato diversi giorni in carrozza con un'altra donna e non seppe mai dare altre informazioni di sè. La polizia sospettò che fosse parente di quella vecchia religiosa.

"Era Giuseppina, la quale si fece poi chiamare Tortora, non saprei dirvi perchè. La vecchia monaca si chiamava suor Serafina nel convento, e Giulietta Aldossi al secolo. Soppresso il convento, suor Serafina e Giuseppina presero in affitto una stanza a San Giuseppe dei Nudi e vissero insieme della pensioncella della monaca, di un po' di denaro che aveva messo da parte e del prodotto dei ricami che Giuseppina eseguiva per alcune dame restate in segreto fedeli ai Borboni.

Qui Fuina si è permesso d'interrompere il conte ed ha esclamato:

- I fedeli restano sempre nell'ombra; i ribelli soli hanno il coraggio di confessare ciò che sono e si fanno impiccare.

Il conte lo ha fissato fra i due occhi e, senza rispondergli, ha continuato:

- Le due donne vissero così, onestamente, per alcuni mesi. Ma rimpetto a loro abitava un giovane ufficiale di cavalleria, che aveva perduto un braccio e di cui è inutile aggiunger altro.

- Scusi, signor conte, ho detto io; non sarebbe egli il sergente Pietro Colini, soprannominato Sacco-e-Fuoco?

Il conte ha guardato alla mia volta, di poi ha ripreso(2):

- Egli appunto. Pietro Colini era sergente nell'esercito napoletano nel 1799. Ma era colonnello e barone nell'esercito francese.

"I medici francesi l'avevano inviato ad Ischia perchè guarisse dalle ferite. Il colonnello vide Giuseppina, se ne innamorò e restò a Napoli. Ma, siccome in quegli anni i militari non avevano tempo da perdere, il colonnello Colini rapì Giuseppina e la condusse in una camera del vico del Sole, per nasconderla. Poco tempo dopo Giuseppina si trovò incinta. In quegli stessi giorni Napoleone sbarcava a Cannes e la guerra ricominciava.

Una mattina, Giuseppina ricevè una lettera del colonnello, in cui le annunziava la sua partenza per l'esercito, ove Napoleone chiamava tutti i suoi prodi. Il barone le lasciò tutto quello che possedeva: le promise di ritornare generale o di non ritornare affatto: poichè pareva stanco del grado e della paga di colonnello, dacchè aveva un'amante ed una figlia.

- E tenne parola? ho domandato al conte.

- Non interamente. Ritornò diciotto mesi dopo, con una gamba di meno, ma sempre colonnello. Napoleone, dopo Waterloo, non aveva forse avuto tempo di nominarlo generale e conte. Il colonnello Colini aveva avuto delle relazioni con Murat, era amico del principe Eugenio. I Borboni di Francia lo misero fuori dell'esercito francese. Arrivato a Napoli, il governo del re Ferdinando non volle riconoscergli che il grado di sergente, che si era guadagnato nell'esercito del re, sotto il generale Mack. Il colonnello se ne lagnò.

"Il ministro della guerra lo raccomandò al principe di Canosa, che lo fece gettare in una prigione per misura di polizia. La Corte dei conti non regolò mai la pensione. Il colonnello non la domandò più, non parlò più a nessuno del suo affare e promise di rassegnarsi al suo grado di sergente. Uscì di prigione dopo due anni e fu internato in provincia.

- Colonnello e barone! esclamò Bruto. Ah! il sornione! non me ne ha mai detto nulla.

- Sì, gli è veramente duro a cuocere, disse don Gabriele. Ma ritorniamo al conte. Quando il colonnello ritornò, ha egli continuato, non mancò di informarsi della sua amante e della sua bimba. Ma non potè ritrovare nè l'una, nè l'altra.

- Non è colpa sua se non le ha trovate, giacchè da diciott'anni le cerca, ho fatto osservare io al conte.

- Non ne dubito punto, ha egli risposto. Due mesi dopo la partenza del colonnello, Giuseppina aveva messo al mondo una bambina. I pochi scudi, lasciatile dal suo amante, sparirono prontamente. Ritornò presso la vecchia suor Serafina a San Giuseppe dei Nudi. Una settimana o due dopo, la monaca morì. Giuseppina restò sola, senza danaro, senza conoscenza del mondo, con una bambina. Non conosco interamente il dramma domestico di quella donna. La polizia non è curiosa degli spasimi dell'anima e delle sue lotte, ciò riguarda Iddio. Poco dopo, un giorno, ella portò sua figlia ai trovatelli all'Annunziata, con una lettera in cui assicurava che verrebbe a riprenderla appena la fortuna si mostrasse più clemente e Dio più misericordioso.

"Poi avvenne ciò che avviene di solito a tutte le donne giovani e belle, che hanno commesso il primo fallo, che sono sole, poco abituate al lavoro ed in preda alle tentazioni, ai bisogni, alle esigenze della gioventù e della bellezza. Cominciò col darsi, finì col vendersi.

- Me ne ricordo, ha detto Fuina.

- Tutta questa dolorosa ed impura storia è qui, ha continuato il conte, in questo fascio di carte, raccontata da Giuseppina e da altri e compilata da un giudice istruttore, in occasione dell'assassinio di un ufficiale svizzero, ucciso da uno studente che non volle lasciarsela prendere, nel luogo infame ove si trovava.

- Ciò appunto, ha soggiunto Fuina. Lo studente trasse uno stocco dal suo bastone. L'ufficiale sguinò la spada: il duello ebbe luogo sotto la lampada della Madonna dei Sette Dolori, appesa nell'anticamera di quella onesta casa. L'ufficiale fu ucciso.

- Perfettamente, ha proseguito il conte, fu arrestata perche era dessa che aveva eccitato lo studente contro l'ufficiale cui detestava. Poco tempo dopo uscì di prigione, corse di strada in strada, di casa in casa, e venne a naufragare all'ospitale di Santa Maria della Fede.

"È là che fu raccolta dal padre Cutillo. Ma di lì a poco, giovane ancora, riposata dalla vita orribile, condotta fino allora, noiata delle regole severe che il padre Cutillo imponeva all'istituzione delle Pentite, refrattaria alla correzione, disprezzando il lavoro, Giuseppina sparve un bel mattino dal ritiro del prete filantropo, rubando alcuni oggetti d'argento e non se ne ebbe più notizia. Il rapporto del padre Cutillo sulla sua fuga è l'ultimo foglio dell'istruzione che riguarda questa donna. Aggiungo che alcui mesi avanti era andata a ritirare sua figlia dall'Ospizio dei poveri, ove era stata inviata uscendo dai Trovatelli.

- A che età? chiese Fuina.

- A dodici anni.

- E la polizia non l'ha più rinvenuta su i suoi passi? ha esclamato Fuina. Io ero assente a quell'epoca.

- Nol credo, ha risposto il conte: non c'è più traccia di lei negli archivi. La si è cercata pertanto e la si cerca ancora a causa del furto.

- Allora, o è morta, o ha cambiato nome, o è andata in provincia, ha osservato Fuina.

- È possibile, ha risposto il conte d'un tono calmo e freddo levandosi.

Ciò significava che le informazioni, che aveva a darci, erano esaurite e che non avevamo più che a lasciarlo libero. L'ho ringraziato e non ho avuto nulla a pagare, altro che due carlini all'usciere, il quale ha esatto la mancia con quella buona grazia che un brigante mette a chiedere la borsa o la vita. Ed eccomi qua. Fuina ha salutato il conte con grande deferenza, ed è andato dal prefetto a fare il suo rapporto su ciò che veniva di sapere.

Bruto restò lungamente silenzioso, poi disse:

- Ma questo non basta. Una creatura non isvapora come una goccia d'acqua al sole. Morta, pentita, o trasfigurata, ha detto Fuina. Ecco tre strade che dobbiamo percorrere per arrivare all'incognito. Chi muore lascia una traccia.

- Sì, ma chi cangia nome, ordinariamente non ne lascia alcuna. Ed è quella, appunto, la strada che sceglie chi vuol sottrarsi alla polizia.

- Ma allora che fare?

Don Gabriele si grattò il capo, mandò fuori una boccata di fumo, poi aggiunse lentamente:

- Ascolta, giovinotto. Se questa donna è morta, o se si è pentita, il tuo colonnello non ha più nulla a che farci. Torna lo stesso, è perduta per lui.

- Dunque? chiese Bruto con ansietà.

- Dunque, continuò don Gabriele, noi abbiamo da constatare una cosa sola: che la non è a Napoli.

- Ma se la polizia non ne sa nulla e rinuncia a cercarla, come arriveremo noi a scoprirla? Conosci forse tu un altro Cristoforo Colombo?

- Vedremo; tanto più che c'è quivi di mezzo una ragazzina.

- Ma in che maniera?

- In che maniera? ecco: io ragiono così. Una donna, che fugge dal ritiro delle Pentite, rubando delle bazzecole, lo fa per andare a corte, o per andare a civettare in una carrozza blasonata alla Riviera di Chiaja.

- Mi par chiaro questo.

- Una donna giovane e bella ancora, che scappa dalle Pentite, è segno che il pentimento l'annoiava, che la penitenza la seduceva poco; in una parola, che la grazia del padre Cutillo non era stata per lei la grazia efficace.

- Dunque?

- Dunque, poichè la polizia ha perduto le sue tracce ed essa ha interesse a sapere ove la si nasconde, a causa degli oggetti portati via senza permesso, vuol dire che Giuseppina vive modestamente in qualche angolo colla figlia.

- Ciò non è proprio la conseguenza assoluta di queste premesse, esclamò Bruto: ella potrebbe aver trovato qualche canonico che ne abbia fatto una monaca di casa.

- No, replicò don Gabriele: c'è la ragazza di dodici anni che guasta l'ipotesi. Se ne avesse sedici, potremmo fabbricare un'altra supposizione.

- Ne ha diciotto all'ora che siamo, mi pare.

- Sì, ma procediamo per ordine. Bisogna trovare la prima orma del selvaggiume, poi seguirla.

- Concludiamo dunque.

- Ebbene, c'è una polizia, caro mio, che è al di sopra di tutte le polizie del mondo.

- Quale?

- Quella del papa.

- Per bacco! gridò Bruto. Ti prendo a volo.

- Allora, è detta. Questa donna ha bisogno di religione, ci creda o no, per mascherarsi e per vivere. Queste esistenze finiscono sempre alle sagrestie. Le donne non vivono che di due cose: di virtù, malamente; di peccato, spesso bene, meglio sempre che di virtù. Or bene bisogna proprio che il curato, presso cui il tuo rispettabile zio serve le messe e suona le campane, scriva ai suoi dodici colleghi dei dodici quartieri di Napoli, affinchè interroghino i confessori delle loro parrocchie sopra la Giuseppina Tortora o sopra una donna che abbia traversato all'incirca le avventure di quella donna; che il curato di tuo zio scriva ai superiori del Convento.... o meglio, per far più presto, che si indirizzi all'arcivescovo e gli domandi, per grazia, di completare le informazioni della polizia e dormi poi tranquillo. Da qui a due o tre settimane avrai della tua Giuseppina o un estratto di morte, o un numero di passaporto, o un'indirizzo.

Bruto si alzò e, in uno slancio d'entusiasmo, abbracciò don Gabriele. Questi si lasciò abbracciare intrepidamente, poi soggiunse:

- Ho mantenuta la mia parola. Ora, alla tua volta, la tua idea per la commedia.

- Io vi propongo di meglio, caro don Gabriele, rispose Bruto; vi do l'idea della commedia per le vostre marionette e vi fo mio collaboratore per la confezione di un dramma da darsi ai Fiorentini.

- Sognate, giovinotto?

- Sì, un dramma ed una buona azione.

CAPITOLO VII. Dove conducono le buone azioni.

I due amici uscirono dal caffè: don Gabriele grattandosi la schiena, le mani giunte sul dorso, facendo dei visacci, come chi inghiotta qualcosa d'amaro o sia di cattivo umore; Bruto, ritto, grave, assorto. Camminarono così senza sapere dove andassero e senza parlarsi. In questo modo arrivarono al Molo.

In quel tempo la polizia non aveva ancora soppresso Rinaldo, come un nemico del trono e dell'altare, provocante alla ribellione a colpi di ottave dell'Ariosto.

Il cantastorie di Rinaldo - zio Siria - fioriva bellamente e si pavoneggiava in mezzo ad un numeroso uditorio, cui entusiasmava col racconto di Angelica; - avendo da un lato la donna che vendeva dell'acqua sulfurea e dall'altro due birichini che spacciavano quella ghiottornia di miele, che si chiama franfellicchi.

Giunti a questa latitudine, don Gabriele si voltò verso Bruto e gli disse:

- Andrete ora a raccontarmi, spero, la buona azione che vi trotta pel capo e poi il resto.

- Cominciamo dal resto. La buona azione è ancora un progetto, una speranza e pel momento un segreto.

- Poichè c'è un segreto, rispose don Gabriele, di un'aria scontenta poco dissimulata, io lo rispetto. Mantenetelo e se avete bisogno di me...

- Don Gabriele, non vi stillate il cervello. Ad una povera ragazza, che conosco solo di vista, si promette di farla esordire ai Fiorentini appena ci sia una particina che le sia adatta. Io voglio scrivere questa parte e mettere, per condizione alla rappresentazione del mio dramma, l'ammissione della fanciulla. Ecco tutto.

- Comprendo la filantropia dei vostri venti anni e le circostanze giustificative che ci attaccate. Continuate.

- Per oggi, caro don Gabriele, non possiamo nè continuare nè retrocedere, per la enorme ragione che non ho in testa neppure l'embrione di ciò che dobbiamo fare. Ho un progetto ed ecco tutto.

- È bella la futura artista, di cui vi siete fatto l'introduttore?

- Per me, sì. Ma non è ciò che mi fa agire.

- Tanto peggio. Se fosse stato ciò, sarei stato sicuro che in quindici giorni la faccenda era bell'e terminata.

- Lo sarà in ogni maniera. A domani, caro don Gabriele.

Al domani, infatti, esatto come un bambino cui si è promesso un balocco, Bruto rivedeva don Gabriele e gli portava il suo progetto.

Bruto aveva letto, qua e là, senza farci attenzione, alcune cattive tragedie, comprese quelle d'Alfieri e ciò costituiva tutto il criterium d'arte drammatica ch'ei possedeva. Non aveva mai pensato a scrivere, non dirò una tragedia o una commedia, ma neppure un articolo necrologico, o un avviso per un dentista. Tutto ad un tratto, un sentimento germoglia nel suo cuore, invade la sua testa, esalta il suo cervello ed eccolo tutto stralunato inforcare il gran cavallo di Shakespeare.

Don Gabriele era più provetto di lui. Da venti anni frequentava i teatri: da quindici anni improvvisava e rappresentava delle farse colle marionette. Era, senza saperlo, senza addarsene e colla più grande ingenuità, un uomo di genio, al quale non mancava altro che la cultura, l'abilità, l'aria dello spirito, poichè l'ispirazione del cuore l'inebbriava.

Bisognava vedere come era eloquente, tenero, ardito, nelle commedie melanconiche, come seminava a larga mano la gaiezza quando metteva in iscena Pulcinella, come era fieramente e poeticamente gran signore quando dava la parola ad un paladino di Carlo Magno! Don Gabriele possedeva tutti i tasti. Non gli mancava che l'accordo e quell'accordo che d'un semplice commediante o di un semplice direttore di teatro fa un Plauto, un Molière, un Lopes de Vega, uno Shakespeare.

L'istinto era la sua stella polare: e poi l'osservazione quotidiana del dramma della vita, osservazione naturale che germogliava da sè sola e si annicchiava nelle caselle della sua mente. Don Gabriele ascoltò, dunque, l'idea di Bruto: la meditò un poco più seriamente che non solesse fare nel teatro di Donna Peppa.

Tutti e due misero al giorno un mostruoso scenario. Bruto, il più letterato dei due, don Gabriele non sapeva neppur leggere, si prese l'incarico di scrivere la cosa. Aveva una musa che lo tallonava. Era ispirato da quella foga d'idee che invade il cervello, quando le idee sono il vapore del cuore.

Suo zio, che lo vedeva scrivere dalla mattina alla sera e dalla sera al mattino, gli chiese di che diavolo imbrattava tanta carta; era a mille miglia dal sospettare la verità.

- Mi preparo agli esami, rispose don Bruto, ed espongo le domande e risposte, le malattie del peritoneo.

- La malattia di don Noè, esclamò ingenuamente Tartaruga, segnandosi e portando la mano al naso.

Il sagrestano si tranquillò. Bruto finì il dramma, lo trascrisse sopra una bella carta color pistacchio e lo lesse a Don Gabriele. Questi fece alcune osservazioni, alle quali Bruto oppose l'arte poetica di Aristotile e il tutto parve magnifico.

Ma la via crucis cominciava appunto allora: la rappresentazione.

- Prima di tutto, disse don Gabriele, bisogna che vi vestiate un po' più decentemente. Col vostro abbigliamento, si vedrà che siete un povero diavolo e quindi buono a nulla.

- Pur troppo sono un povero diavolo, sospirò Bruto. Ahimè!

- Ragione di più per non parerlo. Vi presenterete, poi, al direttore del teatro, onde avere il suo assenso preventivo, continuò don Gabriele, e l'ascolterete con attenzione, poichè di ventisei lettere dell'alfabeto gliene mancano undici.

- Diamine! chi gliele ha prese?

- La sua balia, probabilmente. Andrete poi dal censore, che è un dottore in sacra teologia, il quale non ha mai letto una commedia, nè mai posto piede in un teatro.

- Per timore dei peccati di pensiero, forse?

- No, no. Don Gaetano non pensa mai; e' digerisce. Il teologo passerà il dramma ad un altro censore, che nel secolo scorso era un poeta.

- E questi?

- È un idiota. Don Ciccio Ruffa ne farà rapporto al ministro dell'interno, al ministro dei culti ed al presidente del consiglio, che ne riferiranno al re.

- Che ne parlerà col confessore?

- Molto probabilmente, poichè una commedia è un affare di Stato e di Chiesa. Finalmente sarà inviato alla soprintendenza dei teatri e da questa definitivamente al direttore. Allora pagherete per far copiare il dramma e le parti: aspetterete delle settimane e dei mesi per farlo aggiornare alle ripetizioni; delle altre settimane e degli altri mesi per ottenere il consentimento degli attori alle parti loro assegnate; poi ancora settimane e mesi perchè sieno pronti: regalerete il suggeritore, il direttore delle prove, gli attori maltrattati dalla fortuna, le attrici che non hanno vestiti adatti e finalmente vi si farà la grazia di rappresentarlo.

- La grazia!

- Come? ingenuo ragazzo, credete, forse, che nel nostro glorioso paese si paghino le produzioni teatrali?

- E poi, non c'è altro a fare eh? domandò Bruto gravemente.

- Non ne sono ben certo, rispose don Gabriele grattandosi il capo. Eh! eh! s'incoraggia tanto il teatro nazionale qui!

Qualunque altro, dinanzi a questa odissea di ostacoli, si sarebbe spaventato, avrebbe indietreggiato dinanzi a quei ritardi, a quegli insulti, a quelle spese, a quelle censure: Bruto no. La difficoltà era per lui una curiosità.

Un sarto gli diede a credenza un abito disusato coll'anticipazione di alcuni scudi, che gli furono prestati da Tartaruga.

Trovò esattamente tutto quello che il burattinaio gli aveva predetto.

Il direttore dei Fiorentini, Prepiani, sbadigliava più che non parlasse. Si presentò al censore teologo, don Gaetano Royer. Una serva era sul punto di rimandarlo, quando una nidiata di bambocci si mise a gridare:

- Entrate, signore, andiamo ad avvertire lo zio.

Bisognò, quindi, lasciarlo entrare. Mezz'ora dopo comparve don Gaetano.

Aveva gli occhiali sul naso, il viso stupido, un sorriso sciocco sulle labbra, capelli neri e barba bianca, fenomeno che Bruto spiegò pensando che quell'uomo santo aveva lavorato più nelle mascelle, che nel cervello. Don Gaetano, spalancando un numero rictus per sbadigliare, gli chiese in che poteva servirlo. Bruto gli mostrò il quaderno.

- Ah! un dramma?

- Sì, signore.

- Comico?

- Mio Dio! no, signore, tragico.

- Ah! ah! della scuola moderna, dunque! Ed il soggetto?

- Ippocrate.

- Benissimo. Ci sono dei morti?

- Una donna che muore di mal di petto.

- L'etisia è una malattia proibita. È troppo drammatica e troppo commovente.

- Ma questa donna non può morire che così.

- Tanto peggio. Respingo il dramma. È il mio mestiere: sono stato decorato per questo.

- Allora la faremo etica al settimo quadro; all'ottavo, morrà di apoplessia etica.

- Eh! eh! dell'ecletismo. Bravo! mi avete l'aria di un giovane istruito.

- Troppo buono, eccellenza.

- Ci avete mai messo dentro le parole: Dio, diavolo, angelo, libertà, Italia!

- No, signore. Mi sono sempre servito dei vocaboli genio, cielo, lealtà, penisola fra due mari. Ah, scusi, in un luogo ho lasciato scappare la frase eziandio!

- Cancellate. "Non nominerai mai il nome di Dio invano." Conoscete i precetti del Decamerone?

- Per bacco! L'ho letto tante volte quel caro messer Giovanni.

- San Giovanni, san Giovanni, gridò don Gaetano, che per distrazione, o per abitudine di lettura, aveva detto il Decamerone, invece del Decalogo. E ancora non è san Giovanni, è san Matteo che l'ha detto.

- Mille scuse, signor censore. Non sapevo che san Matteo fosse l'autore del Decamerone.

- Basta così, interruppe bruscamente don Gaetano. Dove succede l'azione?

- In un caffè della città d'Atene.

- Come avete fatto parlare Ippocrate?

- Per aforismi.

- Vi sono le tre unità?

- Non ci manca che quella di luogo.

- Eccola! Eccola questa scuola moderna! Il marchese Puoti ha ben ragione di dire che, dopo la commedia di Eschilo, i moderni non hanno prodotto che delle chiucchiurlaie.

- Sono bipedi o quadrupedi queste chiucchiurlaie, eccellentissimo signor censore? chiese Bruto con un gran candore.

Don Gaetano, che, ignorando la storia naturale, ignorava ragionevolmente se le chiucchiurlaie fossero mammiferi od ovipari, evitò di rispondere e cangiò tema.

- C'è del veleno?

- Ippocrate vorrebbe avvelenarsi con dell'acido prussico in una presa di tabacco, ma vi dorme su e cangia d'idea.

- Può andare. Vi sono donne?

- Una monaca di casa ed alcune altre.

- Ma delle donne maritate, delle amanti?

- Oh no!

- Non ci sono seduzioni, amori, scandali?

- No, no, signor censore.

- Benissimo! continuò don Gaetano. Poichè oggi si va più al teatro che alla predica, bisogna annoiare gli spettatori, che così non andranno nè all'uno nè all'altra; ma almeno come osserva molto bene monsignor Scotti, non commetteranno peccati di pensiero. Il teatro è la scuola della corruzione. Qualunque governo cattolico, apostolico e romano deve chiudere queste gemonie di Satana, se vuol avere dei sudditi sommessi, e condurli, come fa il nostro paterno governo, alla grazia di Dio, all'osservazione dei comandamenti di Dio ed alla coltura dei sacramenti.

- Oh! non ne dubiti.

- Vi sono organi, campane, arpe, chiese?

- Sì, signore, la chiesa della Madonna delle Grazie, che non si vede, ma si odono le campane, l'organo ed anche il cannone, quando l'ambasciatore di Prussia sposa la figlia di Ippocrate.

- Ci avete messo dei duelli, delle taverne, nel vostro dramma?

- Sì, signore, la trattoria dell'albergo di Roma, dove sono alloggiati i Prussiani dell'imperatore Dario, cogli equipaggi, i lacchè, i grooms, i jockeys in parrucca incipriata. Non c'è duello, perchè il governo l'ha proibito.

- Bravo, vedo che siete un giovane intelligente.

E così dicendo apriva il manoscritto, ne volgeva i fogli, leggendone qua e là qualche linea e continuava a parlare.

- Osservo nella vostra produzione un dialogo ben condotto ed una grande fedeltà storica e di costumi. Si vede che avete studiato l'antichità. Ah! se non ci mancasse l'unità di luogo! Per questa mancanza io dovrei respingere il dramma, ma, grazie al soggetto, vi sorpasso e l'approvo. Andate, ma vi assicuro che sarete fischiato, perchè il pubblico non ha nè il gusto nè il sentimento del bello.

- Ella crede proprio....

- Diamine, lo vedete bene. Va in estasi ai drammi di Hugo e di Dumas e si addormenta a quelli di Ventignano e di Campagna.

Il dramma di Bruto e di Gabriele Campigiia fu approvato su tutta la linea dai revisori e dai censori. Bruto lo presentò al direttore del teatro. Prepiani tentò di leggerlo e lo gettò da parte. Una mattina Marchionni lo trovò fuori di sè, credendo che si avesse voluto dargli la berta.

- Beffarsi di me, gridava furibondo, di me che ho trent'anni di teatro! Getterò nel fuoco questi fogliacci e strangolerò l'autore, se viene a chiedermene notizia.

Marchionni prese il dramma e se lo portò a casa. Lo lesse alla sua volta e al domani ritornò raggiante da Prepiani. Il grande artista aveva scoperto un gioiello, che gli autori non sospettavano certamente di avervi nascosto.

- Caro te, gridò Marchionni esultante, entrando nello stanzino di Prepiani; abbiamo un capolavoro.

- Dove! domandò Prepiani aggrottando le ciglia.

- Ebbene, sì, proprio un capolavoro. Gli autori hanno creduto in buona fede di scrivere un dramma: ed hanno schizzata la più esilarante caricatura del dramma ultra-romantico, un'altra commedia.

- Ma dimmi, Marchionni, hai voglia di scherzare oggi, eh?

- Per tutti gli déi d'Omero, no. Qui, come in Francia, e tu lo sai bene, infierisce la questione fra i classici ed i romantici. Tutto dipende, dunque, da un lampo d'intelligenza del pubblico e dalla maniera con cui la produzione sarà rappresentata. Se il pubblico indovina l'ironia abbiamo un successo frenetico. Se prende la cosa sul serio, avremo un fiasco senza esempio nella storia del teatro.

Ippocrate fu rappresentato.

Il teatro era zeppo; gli attori non erano troppo cattivi. Vi era inoltre una giovane esordiente, di cui si diceva molto bene e si aggiungeva che era sorella, fidanzata, o altro che fosse, di uno dei due autori, allieva della Tessari, e sull'avviso si chiamava Lena Minutolo.

Marchionni aveva colpito giusto. Ciò che era stato offerto come dramma dagli autori, fu ricevuto come farsa dagli spettatori. Fu un parossismo di ilarità, che durò tre ore. Bruto e don Gaetano si guardavano in faccia stupefatti. Non ci capivano più nulla. Il dolore che, secondo essi, doveva spremere la glandula lacrimale, metteva invece in sussulto il diaframma.

Non analizziamo questa produzione, di un interesse così vivo e attuale in quel tempo, in cui il classicismo era divenuto un istrumento di Chiesa e di Stato.

Quando gli ambasciatori dell'imperatore di Prussia si presentarono dinanzi ad Ippocrate, che gustava deliziosamente un bicchierino e leggeva la Gazzetta di Luca nel caffè Martini d'Atene, Ippocrate offrì loro dell'anisetta e dei sigari d'Avana. Gli ambasciatori venivano a pregare il gran medico di recarsi ad inoculare il cow-pox, trovato da Jenner, alle ballerine prussiane, tartassate dal vaiuolo.... "Ho abbastanza da fare colle ballerine del mio paese, che me ne offre delle più belle, sclamò Ippocrate: fuori lo straniero!"

Il teatro tremò dagli applausi; i due autori furono chiamati al proscenio. Altri applausi scoppiarono al racconto del viaggio fatto dall'amante della figlia di Ippocrate, imitato da quello famoso di Teramene. Si applaudì alla parola "vigliacco" gittata in faccia all'amoroso dal suo rivale e quando arrivò il commissario di polizia Campobasso per impedire il duello. Si applaudì quando questi rivali riconobbero, non so in qual modo, di essere fratelli. Si applaudì di nuovo quando lo zio d'Ippocrate, che era un artista (incisore di biglietti di visita), facendo del lirismo sopra l'arte, salva la vita all'amante tradito.

Si tornò ad applaudire quando quest'ultimo, non avendo più nulla a fare, si uccide; quando la prima amorosa muore di parto; quando sua zia - Lena, monaca di casa - muore di un accesso di tosse, che interrompe l'angelico canto dell'Ave maris stella di Pergolese; quando il Prussiano muore di disperazione, l'incisore di renelle e Ippocrate di una malattia non definita. In una parola, gli applausi furono incessanti. Si volle il bis del canto di Lena, che entusiasmò tutto il teatro.

Sua madre era in tale parossismo d'eccitamento, che non s'accorse neppure, nel ritornare a casa colla figlia, di essere seguita da qualcuno.

Gli autori non rinvenivano dalla sorpresa, che destava in loro quell'immenso successo.

La critica classica si sforzò di contestarlo.

Bruto inviò due padrini ad un giornalista, che rifiutò il duello, sotto pretesto che si credeva padrone di trovare che la figlia di Ippocrate non doveva portare guardinfante. Bruto gli spianò le spalle. Diede dei buffetti ad un altro critico, il quale pretendeva che i cannoni non esistevano in quell'epoca remota. Slogò una mascella ad un terzo che aveva trovato tutto ottimo, salvo che Ippocrate non avesse parlato greco.

La polizia s'intromise e Bruto fu messo in gattabuia.

La buona azione metteva capo ad un carcere.

Lena Minutolo non seppe mai che Bruto avesse scritto quella produzione apposta per lei, che a lui era debitrice del suo primo debutto, nè ch'egli avesse intercalato nel dramma un'aria appositamente per procurarle un gran trionfo.

Ci volle l'intervento dell'arcivescovo, messo in ballo dal curato di San Matteo, spinto alla sua volta da don Noè, per far uscir Bruto dalla prigione, tantochè vi rimase solo venticinque giorni.

Una prima ruga gli solcò la fronte.

Egli pensò.

Al domani della rappresentazione un'orribile vecchia si presentava dalla madre di Lena con una lettera del marchese Annibale de Diano.

CAPITOLO VIII. Il pentimento dell'ubbriacone.

Don Noè fu ben lontano dal rallegrarsi del trionfo di Bruto. Egli s'accorse che suo nipote, invece di frequentare la scuola e gli ospedali, bazzicava con vagabondi e fannulloni. Don Noè cedette e perdonò, ma a patto che d'ora in poi suo nipote s'immergesse intieramente nello studio della medicina.

- Sì, disse Bruto, ma a due condizioni sine qua non.

- Ah! ah! trattiamo, dunque, da potenza a potenza ora? Va bene: sentiamo quali sono.

- Primo che mi diate il danaro per pagare il mio diploma di medicina.

Don Noè diede un grosso sospiro e non rispose.

- Secondo, continuò Bruto, che io mi abbia dei clienti.

- Oh! in quanto a questo, lascia fare la Provvidenza di Dio, rispose don Noè.

E diede il denaro.

Bruto aveva udito spesso dei motteggi poco piacevoli sopra i suoi vestiti. Quando si vide luccicare fra le mani quel bel pugnetto di scudi, la prima idea che gli montò al cervello fu di andarsi a comprare degli abiti più decorosi. Respinse, però, la tentazione, o piuttosto fece con lui un compromesso; comperò un paio di speroni, dei guanti gialli ed uno scudiscio dal pomo d'argento. Questi oggetti furono la causa della sua caduta.

Gli speroni fecero manifesta l'indegnità delle sue rozze scarpaccie ferrate: si comperò, dunque, degli stivali verniciati. Gli stivali fecero risaltare la sconvenienza dei suoi calzoni gialli; e allora fece acquisto d'un bel paio d'inesprimibili grigi. Le brache insorsero contro il famoso panciotto a mille fiori: ed un nuovo di piqué nero si affrettò a surrogarlo. Il panciotto non volle trovarsi a contatto di un gabbano, che mostrava i denti, come una vecchia inglese: bisognò dunque metterlo d'accordo con un bell'abito nero. Dopo di ciò, come far a meno di una bella cravatta e di un cappello nuovo?

Insomma, il denaro del diploma passò nelle tasche dei fornitori e Bruto, accorgendosi alla fine della meravigliosa sostituzione che aveva operata, sclamò:

- Vedremo come finirà tutto questo!

Gli restavano alcuni scudi. Bruto comperò un portasigari per sè, un collarino per suo zio, una pezzuola per Tartaruga; diede cinque lire ad un povero, trincò con don Gabriele una mezza dozzina di bicchierini e tornò a casa colle tasche nuove dei suoi calzoni asciutte come il mar Rosso al momento in cui gli Ebrei s'accinsero a passarlo.

È impossibile descrivere la faccia stupefatta e spaventata di don Noè, quando vide suo nipote così profumato e trasformato. Comprese ipso facto il naufragio del suo denaro. Si cacciò le mani nei capelli e non trovò neppure un suono nella sua gola, per cacciarne fuori l'imprecazione che vi rantolava. Bruto s'avvicinò con un'aria seducente e in pari tempo grave e solenne e gli disse:

- Caro zio, datemi la vostra benedizione, prendo moglie.

A questa notizia esorbitante, don Noè saltò al collo di suo nipote e l'avrebbe strangolato, se Bruto non l'avesse preso per le mani con gentilezza e forzato a sedere.

- Tartaruga, diss'egli, un bicchiere d'acqua fresca per mio zio.

- Il denaro? gridò il sagrestano con voce sincopata.

- Il denaro! che denaro? ah! il vostro.... ebbene, erupit, excessit, evasit, ha detto Cicerone; defluere ex templo, scrisse Plauto.

La collera, il dispetto, il dolore soffocarono don Noè. I suoi occhi erano iniettati di sangue e di bile, tutte le fibre del suo corpo erano invase dal tetano: balbettava.

- Va via da casa mia, scellerato, ladro, dissipatore! gridava egli. Il sudore della mia fronte; i miei poveri risparmi! Cantare per quarant'anni litanie e responsori: servire per quarant'anni messe per farmi scialacquare il guadagno in pochi minuti da questo infame.... Oh! via, va via, che non ti veda mai più, o non so come l'andrà a finire.

- Zio! sanum extenuat ira, dice la scuola di Salerno, rispose Bruto con dolcezza angelica, incrociando le braccia sul petto.

- Fuori, dunque, canaglia! via, animale! continuava a gridare il sagrestano, storcendosi sulla seggiola e pestando i piedi.

- Ma dove volete che vada? a farmi turco?

- Va a farti boia, perchè un galeotto lo sei di già. Derubarmi in questa guisa!

- Tartaruga, disse Bruto, dà un altro bicchiere d'acqua allo zio. Lascia lì i tuoi confiteor e porta la pace fra Edipo e Creonte, o Tartaruga.

Don Noè era sbalordito da tanto sangue freddo e dalla impudenza così grande di suo nipote. Non rispose più; ma i muscoli della sua faccia rispondevano per lui. Bruto allora prese una seggiola e, postosegli flemmaticamente rimpetto, disse:

- Ora ragioniamo un po'.

Don Noè lo guardò con due occhi fulminanti e restò muto; Bruto continuò:

- State ben attento, barba Noè, che non son io che parlo ora, ma monsignore, o, come dite voi altri, Sua Eminenza reverendissima monsignor Arcivescovo, cardinale di Napoli. Egli chiede a voi, umilissimo dinanzi a lui, più umile che davanti al Santissimo:

- Don Noè, avete altri nipoti che quel bel pezzo di giovane lì?

- No, Eminenza.

- Sapete, don Noè, ch'egli mi ha l'aria di un ragazzo pieno di buone intenzioni, di modestia e che promette pel futuro?

- Ringrazio mille volte Vostra Eminenza reverendissima che si sia degnata di farne l'osservazione.

- Don Noè, voi siete vecchio.

- Pur troppo, Monsignore.

- Non siete ricco.

- Povero come un cappuccino, Monsignore.

- Non potete continuare ancora per molto tempo quella vita da cane: levarvi alle cinque della mattina, servir le messe, cantar le litanie, pulire gli altari, suonare le campane, fare le piccole commissioni del parroco e della sua governante, correr qua e là e respirare per quattordici ore l'aria fredda ed appestata della vostra chiesa.

- Vostra Eminenza Reverendissima parla come il Signore Iddio di Giacobbe e di Abramo.

- Avete bisogno di qualcuno che prenda cura della vostra vecchiaia, don Noè.

- Ah certamente, Monsignore.

- Codesto qualcuno sarà certo vostro nipote.

- Non ne dubito punto, Monsignore; egli ha buon cuore e sentimento d'onore.

- Bisogna, dunque, procurargli un mestiere, una professione, farne insomma qualche cosa che sia utile a sè stesso ed agli altri.

- Studia la medicina, Monsignore.

- Va benissimo, quantunque un medico sia spesso un oggetto di lusso e quasi sempre un empio.

- Vostra Eminenza reverendissima parla come il libro della Sapienza.

- E riflettete, don Noè, che per un medico occorrono degli ammalati.

- Eminenza, il nostro parroco dice che le chiese sono state inventate apposta per ciò.

- Apposta per ciò, no! in ogni caso non unicamente per questo.

- Gli è quello che aggiunge il vicario, Eminenza.

- Codesto vostro curato è un volteriano ed un carbonaro, don Noè; bisognerà che un giorno parliamo di lui.

- Sono agli ordini di Vostra Eminenza reverendissima.

- La vostra chiesa, dunque, somministrerà la sua parte di reumi, di raffreddori, di clorosi, d'idropisie, di pleurisie, di mali di petto: sta bene. Ma, caro don Noè, bisogna che tutte quelle malattie caschino sulle braccia di vostro nipote.

- Ah! Eminentissimo, la divina Provvidenza ed il parroco ci aiuteranno.

- Va benissimo, don Noè. Ma non bisogna contare esclusivamente sulla Provvidenza divina, che ha tanto, tanto da fare, principalmente in questi momenti in cui i Carbonari mettono sossopra tutte le quattro parti del mondo.

- È ciò che dico spesso a me stesso, Monsignore.

- Dunque, per avere degli ammalati bisogna cominciare ad averne.

- Vostra Eminenza reverendissima parla come il santo re Salomone.

- Per cominciare ad averne, bisogna ispirare fiducia in quelli che vi chiamano.

- Verissimo, Eminenza.

- Ora, mio diletto don Noè, come mai volete che i clienti che pagano, e sono rari, possano essere attirati da un giovanotto che, a vederlo, pare un usciere in ritiro; che ha della biancheria sudicia e grossolana e dei vestiti che mostrano la trama?

- Eh! Monsignore.

- Don Noè, la povertà è ributtante. I ricchi la sfuggono. Vostro nipote, dunque, in quell'arnese da comico ambulante, non avrà mai dei clienti che paghino.

- Ma, Eminenza, se noi siamo poveri....

- Ragione di più, don Noè, per nasconderlo. Rothschild può permettersi un vestito sdruscito; gli è un merito per lui; ma per Bruto è una disgrazia. Invece di trovare qualcuno che paghi, troverà, e ancora non è ben sicuro, qualcuno che mosso a pietà gli offrirà l'elemosina. Don Noè, diffidate sempre di quelli che fanno l'elemosina. Quelli che la fanno per l'amor di Dio sono rari.

- Ma, dunque, Monsignore, cosa dobbiamo fare?

- Parer ricchi ed esser modesti; sembrar forti ed esser umani; sembrar sapienti e non abusarne; parer pronti a servire altrui, ma non profferirsi giammai; mostrarsi armati da capo a piedi ed aspettare.

- Ma, Monsignore....

- Basta così, sclamò don Noè in persona, visibilmente più tranquillo. Hai fatto parlare S. E. come un avvocato e come un frate me: t'inganni, t'inganni, te lo dico io. Tutto codesto viene dal tuo bagaglio, buffone del teatro. Vorresti ingannarmi di nuovo e rubarmi degli altri scudi. Tu fai i conti di un imbecille.

- Io fo i conti che pagherete il mio diploma: ecco tutto.

- Mai più.

- Rileggete la Clemenza di Tito di Metastasio.

Il domani, don Noè andava egli stesso a depositare alla banca l'importo del diploma di Bruto.

Occorsero quattro mesi per provare che Bruto era figlio di mastro Zungo e di Egidia Segala; che era un buon suddito, ed un perfetto cristiano; ch'era andato a messa tutte le domeniche e tutte le feste dell'anno; che s'era confessato e comunicato; che non aveva mangiato di grasso nei giorni proibiti dalla Chiesa, che non aveva ammazzato alcuno; che non aveva mai pensato male nè parlato male di Sua Maestà, il suo adorato ed augusto padrone Ferdinando II; che non aveva mai letto un libro proibito, nè fatto parte di setta liberale.... Finalmente fu ammesso agli esami.

Bruto non aveva studiato: ma, dotato com'era di una memoria meravigliosa, ciò che aveva udito dal professore Cosentini, la cui parola lo seduceva, bastò a farne uno scienziato, senza ch'egli se n'accorgesse, e più scienziato di tutti i suoi esaminatori.

Dunque, malgrado ciò, ricevette il suo diploma.

Il diploma per lo studente è come il marito per una ragazza; l'ambizione della sua vita, la speranza di tutti i suoi giorni, il desiderio di tutte le notti, avanti di averlo; un trastullo, dopo.

CAPITOLO IX. Il noviziato.

Allestito di diploma, vestito da galantuomo, Bruto pensò ch'era ormai tempo d'imbarcarsi nella vita reale e di affrontare le esigenze, dividerne le sciocchezze e subirne i dolori. Egli era più maturo che non volesse sembrare e che forse non avrebbe voluto confessare. Prese un contegno grave, semplice e modesto, pieno di deferenza per le volontà e le opinioni dei suoi superiori, come gli aveva principalmente inculcato don Noè, facendogli regalo di una corniola larga quanto uno scudo. - Tagliò i mustacchi ed i capelli alla renaissance; alzò il colletto della camicia, sbandì i guanti gialli e gli abiti di colore, adottò la tabacchiera ed il bastone a borchia d'argento, camminò a passo grave, prese contegno più composto.

Una mattina don Noè lo presentò al dottore Tibia, fratello del curato di San Matteo.

Diverse persone stavano già aspettando in casa del dottore, uno dei più rinomati di Napoli e capo dei fautori del sistema di Brown. Un'ex-ballerina si faceva visitare nel suo gabinetto.

Il dottor Tibia era sui cinquant'anni ed aveva sposata una vedova molto matura, molto ricca e molto brutta.

Il salotto dove aspettava la gente era quasi buio, a cagione dei vetri verdastri, delle pitture vecchie e offuscate dei muri, tappezzati del resto da ragnatele. V'erano alcuni quadri di cui non si distingueva più nulla, tanto erano anneriti dal fumo, e v'erano alcune stampe a color verde, tutte mitragliate dalle mosche. Delle seggiole, nessuna che avesse le sue quattro gambe in buono stato; una copertina nascondeva l'imbottitura sdruscita d'un canapè a tela di crini. Dallo sfondo di due tavole di legno bianco sbadigliavano i busti di un Apollo, a cui mancava il naso, e d'un Esculapio senza orecchie nè mustacchi.

Questa stanza trasudava la tristezza.

Le camere interne denunziavano i gusti della moglie e quelli del marito, poichè vi si osservava una spinetta che aveva rotte soltanto nove corde, quelle probabilmente che la voce della signora Tibia aveva perdute, dacchè aveva principiato a cantare sulle ginocchia del maestro: Bel raggio lusinghiero. Una nicchia in vetro rinchiudeva un presepio ove il bambino Gesù aveva una parrucca a coda, i buoi dalle corna dorate e la Vergine la cipria e dei nèi. Sopra un tavolino, due enormi corna di Transilvania per scongiurare la jettatura; sullo scrittoio del dottore l'Uffizio della Beata Vergine, un volume di Metastasio e le Novelle morali del padre Soave, della Compagnia di Gesù. Dappertutto un odore di rinchiuso; poichè dottor Tibia amava il profumo di muffa, come Goethe quello dei pomi marci.

A quei dì un medico elegante era un fenomeno.

Quando l'ex-ballerina ebbe finito di raccontare la sua malattia al dottore, questi, ravvolto in un mantello verde che gli teneva luogo di vesta da camera, il capo coperto da una berretta di seta nera, il viso fiorente e ben sbarbato, fece la sua entrata nel salotto.

Diede un buon giorno sonoro e collettivo, non avendo tempo da perdere. Tutti si alzarono. Con una rapida occhiata il dottore aveva osservato che nessuno di queglino che aspettavano aveva bisogno di cortesie speciali. Il dottor Tibia era il Lavater dei(3) borsellini. Ascoltò un signore e gli rispose a voce bassa; poi si volse con premura verso una dama che veniva per pagarlo e l'accompagnò fino alla porta.

- E voi? chiese egli continuando il suo giro ad un povero diavolo, magro, giallo, sporco, il ritratto della avidità.

- Dottore! da cinque giorni ho dei dolori allo stomaco intollerabili.

- Per Giove! è la gotta che si getta allo stomaco.

- Ma io non ho mai avuto gotta, dottore. Sono paglietta e cammino in un giorno più che la posta reale in un mese.

- Sono, dunque, gli stomacali.... dolori di stomaco, capite? Che diamine! Decotto di chinina con tintura di gluton.

- Avete comandi a darmi?

- Una preghiera; pagatemi il consulto.

- Lo sconteremo a miglior occasione. Servo, signor dottore.

- Son tutti gli stessi! disse il dottore continuando il giro. E tu?

- Eccellenza, ho ricevuto un calcio da un cavallo.

- Decotto di china. - E vostra reverenza?

- Io sono don Noè, sagrestano del parroco di San Matteo, vostro fratello.

- Ah! sì, mio fratello m'ha detto qualche cosa. Questo giovanotto è, dunque, vostro nipote?

Bruto non aveva perduto una sillaba di quello che il dottor Tibia aveva detto ai suoi clienti: egli aveva osservato tutti i suoi gesti, le sue maniere, spiato ed indovinato i suoi istinti. Lo aveva, quindi, compreso e giudicato. Prese, dunque, il contegno che gli parve più conveniente con quello sciocco ed ignorante bestione e rispose:

- Ai suoi comandi, dottore.

- Da chi avete studiato medicina, giovinotto? Spero che non sia stato da uno di quei ciuchi sistematici....

- Ai suoi comandi, dottore.

Don Noè sembrava lieto del contegno di suo nipote, da cui aveva temuto qualche contegno stravagante, che avrebbe fatta cattiva impressione sul dottore.

- Benissimo, disse questi a don Noè. È un giovane pieno di creanza e rispettoso. Coraggio, figliuolo: faremo di voi uno scienziato della vera e buona medicina, quella della debolezza....

- Come ha detto Galeno parlando di Cabanis, rispose Bruto umilmente.

- Precisamente, disse il dottore. Vedo che sapete già. Sta bene, don Noè; tengo vostro nipote e ne farò un uomo. Gli leverò il pregiudizio di ragionare in medicina come quei saccentelli che portano mustacchi, e pongono il libero arbitrio perfino nella teoria della flogosi: sono i carbonari, i settarii della Giovine Italia della scienza. In medicina, come in teologia, ricordatevelo, caro ragazzo: Sola fides sufficit. A rivederci, don Noè. Raccomandatemi ai clienti. Voi restate, giovinotto. A proposito, come vi chiamate?

- Bruto, ai suoi comandi, signor dottore.

- Benissimo, affrettatevi, don Bruto; vado a vestirmi e cominceremo la pratica da questa mattina alla visita all'ospedale.

Bruto restò nel salotto, mentre il dottore si vestiva. Don Noè se ne andò. Don Ciccio, il servo del dottore, lo seguì fino al primo piano, poi rimontò tutto ansante esclamando:

- Niente! non ho potuto cavargli che la promessa di pregare alla messa, perchè io guadagni al lotto. È la fine del mondo.

Il dottore ritornò. La carrozza era pronta e si recarono all'ospedale.

Non seguiremo il dottor Tibia ed il suo allievo nella lor visita: sarebbe troppo straziante. Vale forse la pena di occuparsi di quella carne da esperimenti.

D'altra parte gli aspiranti ai letti vuoti dello stabilimento s'affollavano al di fuori e allungavano le mani come anime dannate a cercare un cantuccio ove morire e sarebbe stato crudele di farli aspettare. Bisogna preparare un po' di posto.... ed il posto non manca mai. Il dottore faceva la sua visita a vapore: settantasette malati in ventidue minuti! L'ho veduto e seguito io stesso.

Finito questo steeple-chase della morte, il dottor Tibia cominciò le sue corse in città; Bruto l'accompagnò. Alla prima visita restò nella carrozza. Si trattava di una giovane che aveva partorito ed il marito era geloso. Alla seconda restò ancora nella carrozza. Una vecchia contessa con una risipola alla faccia non voleva essere visitata così sformata. Alla terza restò nel salotto perchè era un avvocato che aveva dei calcoli e non voleva esser visto, dacchè al palazzo di giustizia s'era detto che egli soccombeva ad una malattia senza logica, avendo tutta la sua vita calcolato le spese di causa il doppio del capitale contestato.

Questa vita di Bruto durò parecchi mesi.

Non imparò nulla col dottor Tibia, ma conobbe la società, riflettè molto e studiò.

Il dottore era contento, perchè Bruto non lo interrogava mai. Lo zio Noè era soddisfatto, perchè credeva che suo nipote diventasse un bravo medico.

E ciò sarebbe durato lungamente, se non fosse accaduto un incidente. Il diavolo ci mise la sua coda.

CAPITOLO X. Dove si vede la coda del diavolo.

Fra le tante singolarità, don Noè aveva quella di essere molto ghiotto di lumache.

La sua tavola lasciava spesso scorgere la povertà, ma i ravanelli e le lumache ci mancavano di rado.

Bruto spiegava questa predilezione per non so quale conformità organica, che suo zio avrebbe trovato molto impertinente.

Il fatto sta che don Noè amava quei crostacei e ne mangiava molti. Da parecchi anni ne faceva impunemente sua delizia. Ma sia che questa volta avesse passato la misura, sia che avesse commesso l'errore di aggiungervi una gran scodella di fagiuoli, sia per altra causa, don Noè si trovò sotto le strette della digestione.

Don Noè, non sentendosi bene, non era andato alla chiesa. Il parroco l'aveva fatto chiamare, avendo da comunicargli nientemeno che una lettera dell'arcivescovato. Sapendo che il sagrestano era ammalato e trovandosi col suo fratello, lo pregò di andarlo a visitare.

Il dottor Tibia si recò subito da don Noè, e lo vide contorcersi, raggricciandosi sopra una sedia, mentre Tartaruga restava indecisa se egli facesse delle smorfie per celia o sul serio.

I dolori colici per altro crescevano, la fisonomia dell'ammalato si alterava sempre più, s'aggomitolava sopra di sè, come una pergamena sui carboni ardenti; aveva gli occhi scintillanti, la bocca aperta, la lingua fuori. Visto il dottor Tibia, gridò:

- Dottore, dottore, presto soccorrete il povero sagrestano di vostro fratello, mandate al diavolo le mie lumache.

Il dottore comprese tutto. Ma aveva più voglia di smascellar dalle risa che aiutare il povero paziente.

Tartaruga si segnava dalla testa ai piedi come faceva Luigi XI. Finalmente il dottore scrisse una ricetta: decozione di china con tintura di gluton e mandò Tartaruga a prenderla, mettendosi intanto al capezzale dell'ammalato fino all'arrivo di Bruto.

Trattandosi del sagrestano della parrocchia, lo speziale troncò a mezzo la storiella d'un beccaio che aveva battuto sua moglie, da cui doveva ricavare i numeri del lotto, e preparò la medicina.

Quando ritornò Tartaruga, il male aveva fatto spaventevoli progressi.

Il dottor Tibia non dubitava però di vincerla: perchè nulla resiste alla china rafforzata dalla tintura.

Don Noè istintivamente respingeva il beverone, pensando bisognargli piuttosto ciò che il cardinal Dubois riservava al conte di Laval chiuso nella Bastiglia, nonostante che il reggente avesse protestato: "poichè non gli resta che questo divertimento bisogna lasciarglielo." Il dottore gli fece inghiottire la pozione per forza, ad onta delle sue proteste e del suo furore.

In quel momento arrivò Bruto tutto ansante: poichè era passato dalla chiesa ove il parroco gli aveva raccontato il caso di suo zio, consegnandogli una lettera per quest'ultimo. Bruto gettò il cappello sul tavolo e la lettera e, corso al letto di don Noè, restò come fulminato; aveva compreso tutto, vedendo il dottor Tibia.

- Che cosa gli ha dato, maestro, chiese egli.

- Ha una indigestione di lumache, rispose il dottore, gli ho dato una decozione di china con tintura di gluton.

Bruto trasalì, si coperse il viso fra le mani, poi rizzandosi d'un sbalzo, gridò:

- L'avete assassinato.

Indi con un gesto della mano indicò al dottore la porta e si avvicinò a suo zio. Il dottore lo guardò con aria di sprezzo ed uscì senza aprir bocca.

- Non c'è più nulla a fare, mormorò il sagrestano. La mia ultima ora è venuta; questo Tibia è il più gran asino che io abbia incontrato in settant'anni di mia esistenza.

- Povero zio! disse Bruto.

- Gli perdono, ma egli mi ha ucciso. Ti lascio mio erede. Sii economo. Ho raggranellato alcuni scudi a forza di litanie: non divorarli con delle ballerine o delle bagasce. Raccomando la mia anima a Dio, il corpo a te. Don Gennaro ti farà un paio di calzoni colla mia sottana nuova: manda la mia veste da camera a mio padre, mangia qualche volta delle lumache ma con discrezione, perchè sono esse che mi uccidono.

- Giammai! esclamò Bruto, le detesto come la polizia.

- Fatti restituire dallo spazzino della chiesa un asciugamo nuovo ed un fazzoletto con tre buchi che gli ho prestato. Tutto viene in acconcio ed ogni cosa ha il suo tempo. Il parroco ha il Cristoforo Colombo del Ciarlone; riprendilo e leggilo tu che ti occupi di teatro. È un capolavoro. Il parroco quando è sazio lo trova sublime.

- Vi obbedirò.

- Abbandona il dottor Tibia; è peggio del coléra.

- È cosa fatta.

- Ti raccomando Tartaruga. Tu non puoi farle la buona compagnia che le ho fatto io per quindici anni, ma non la maltrattare, povera donna! È la creatura la più idiota e più religiosa di tutta Napoli. Pagami una necrologia del giornale l'Omnibus; tutti si prendono questo piacere postumo.

- Ve lo prometto.

- Recita i sette salmi penitenziali una volta al giorno e non dimenticare il tuo povero zio, che ti ha amato tanto.

- Tartaruga! Tartaruga! chiamò Bruto.

- Eccomi, signore. In questa casa non si ha neppure tempo di dire il rosario.

- Tartaruga, corri dal parroco, la comunione, gli oli santi.... un confessore....

- Sta cheto, disse don Noè. Ho vissuto cinquant'anni di coteste mercanzie! Basta così.

- Tartaruga, un rinfrescante per lo zio.

- Ne obliviscaris servum tuum, Domine, sclamò don Noè con voce morente.

- Amen, rispose Tartaruga.

- In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.

- Amen, rispose Tartaruga.

- Sat prata biberunt!

- Amen, disse Bruto alla sua volta.

- L'olio è consumato, la lampada si spegne, brontolò il moribondo con voce appena intelligibile.

- Tartaruga! Tartaruga! gridò Bruto,

- Che cosa si ha da fare? Abbiamo tempo fino a domani.

- Tartaruga, lo zio è morto.

- Quell'uomo l'ha ammazzato, gridò la governante con accento disperato, sciogliendosi in lagrime e gettando tali strida, che tutto il vicinato accorse.

Bruto con una lagrima negli occhi, che si ostinava a non voler varcare la palpebra inferiore, restò immobile, agghiacciato, irrigidito, pallido da far paura, i capelli irti, contemplando il cadavere. Non pareva più di questo mondo, non vedeva e non udiva più nulla. Finalmente quella lagrima cristallizzata si scioglie e cade; delle scintille traversano i suoi occhi, un brivido le sue membra; si fa rosso il viso, gli zufolano le orecchie, si lascia cadere in ginocchio, nasconde la faccia tra le mani e mormora:

- Quel miserabile l'ha assassinato!

CAPITOLO XI. Tutto per il meglio.

Non so quanto tempo Bruto rimase in quella posizione. Pregò e pensò. Fino allora aveva tutto al più vaneggiato.

I vicini, affaccendati, pieni di buona volontà, facevano tutto quel che potevano per rendersi utili.

Consolavano Tartaruga, che, al pari di Rachele, non voleva essere consolata; s'impietosivano sopra il dolore muto ed intenso di Bruto, e mentre si raccontavano l'accaduto, la causa, il corso della malattia, ne cavavano fuori un terno al lotto.

Per i Napoletani, tutti i fenomeni della vita cosmica e sociale sono enigmi, che racchiudono dei numeri pel lotto.

Con delle tavole e delle sedie che ognuno s'affrettò d'imprestare, si rizzò una specie di letto mortuario nel mezzo della stanza, sopra il quale fu posto don Noè, lavato e vestito di ciò che aveva di meglio, la testa verso la porta.

Quattro ceri, su degli alti candelabri da chiesa, ardevano intorno alla bara. Il cadavere era scoperto. Tartaruga fra un'orazione e l'altra dava un ordine o una indicazione. Bruto, nell'altra stanza, solo colla testa appoggiata sulle mani, le mani sopra la spalliera della sedia, non vedeva nè udiva nulla.

Venne la notte. I vicini si ritirarono. Bruto, Tartaruga ed il cadavere restarono soli. Il bidello e l'inserviente della chiesa si unirono per mandar loro due tazze di cioccolata e di quei biscottini spolverizzati di zucchero che si chiamano tarallucci. Poi tutto divenne solitudine nella camera, nella casa, in istrada, nella città. Tartaruga, che pregava appiedi della bara, soccombendo alla fine al sonno, si accasciò su sè stessa. Bruto passeggiò nelle due stanze.

Era il mese di agosto; faceva ancora gran caldo.

La notte era molto avanzata, la finestra aperta e la luna, pura e grave, navigava in un cielo azzurro d'una profondità senza confini. Bruto rifletteva.

Egli si sentiva ormai solo, assolutamente solo. Questo zio, per poca cosa che fosse, per piccolo posto che occupasse nel mondo, benchè brontolone, volgare, ignorante, esigente, era pure un legame che lo attaccava alla società. Questo zio lo riuniva anzi a tutta una classe sociale potentissima e d'una influenza capitale: la gente di chiesa. Morto il sagrestano, tutte le relazioni erano rotte, perchè Bruto, senza odiarla proprio, sentiva una invincibile ripugnanza per quella parte della società che specula sull'anima umana e che si chiama chiesa. Questo zio era ancora una bussola. Ora egli era solo. Sua madre era morta, suo padre istupidito.

Oltracciò era povero e la via, che doveva percorrere per guadagnarsi il pane, era irta di spine. Di medicina non sapeva che ciò che gli restava stereotipato nella memoria delle lezioni del suo professore; ma al letto degli ammalati aveva capito che era ancora molto ignorante. Seguendo il dottor Tibia, nel mondo aveva intravisto la società. Il gran mondo gli pareva quella gabbia di leoni, dove entrano solamente i domatori di bestie feroci. Egli comprendeva che bisognava avere una maglia d'acciaio sotto un abito di velluto.

La natura l'aveva già armato per più che tre quarti dotandolo di una intelligenza rara e di simpatico aspetto. Bruto era avvenente. Aveva ventiquattro anni; la statura avvantaggiata e ben proporzionata, la testa alta con bellissimi occhi neri, i capelli nerissimi, le labbra rosee e i denti bianchi s'univano ad un contegno, che sarebbe forse stato volgare, se la modestia e la timidezza non gli avessero dato un'aria riservata e distinta.

Bruto mancava di coraggio fisico quando la riflessione lo padroneggiava. Lo spettro della polizia lo rendeva vile. Sentiva che questa forza misteriosa si volgeva sempre contro tutto ciò che avesse l'impronta d'una individualità. Ma egli aveva il germe del coraggio morale. Era mestieri che la educazione della mente e del cuore sviluppasse questo germe. Egli aveva volontà e costanza.

La notte che passò dinanzi a quel cadavere in faccia al suo passato e in vista del suo avvenire, fu per Bruto come la veglia dell'armi degli antichi cavalieri.

Prese molte risoluzioni, internamente e giurò di mantenerle. Era un piano di battaglia ch'egli preparava: se ne sentì rialzato. Il figlio del barbiere, il nipote del sagrestano, di sua volontà, si allogava fra gli eletti della società, fra quelli che la illuminano, ne profittano, la servono e la dominano. In uno di questi soffi d'orgoglio, Bruto, passando dinanzi alla bara, rialzò il capo e fissò il suo sguardo sul cadavere.

La luna, che entrava a fiotti dalla finestra aperta, inondava dall'alto al basso il calvo cranio del morto, mentre il lume dei ceri lo rischiarava al basso.

Il contrasto delle due luci produceva un effetto strano. Quella testa sembrava rianimata e un non so che di sardonico spirava da essa. Gli occhi di Bruno caddero su quel viso ironico, che lo agghiacciò di terrore. Andò presso la finestre per chiuderla.

Allora vide rimpetto a sè la finestra di Lena rischiarata. Qualcuno vegliava dietro quei vetri. Se qualcuno vegliava a quell'ora, gli è perchè lavorava; se quel qualcuno lavorava, non poteva essere che Lena. Sua madre doveva russare da lungo tempo. Il pensiero di quella giovane, che passava le notti a cucire o a ricamare per guadagnar il pane, gli fu di sollievo.

Lasciò la finestra aperta e avvicinatosi al cadavere, esclamò:

- Vedrai, zio, se terrò ciò che mi son promesso.

E continuò a passeggiare.

Spuntò l'alba.

Il panorama cangiò nell'interno di Bruto ed all'esterno. Rassettando la stanza per ricevere i preti, il santese ed i membri della confraternita in cui era ascritto don Noè, Tartaruga smosse il cappello che Bruto aveva gettato sulla tavola, entrando il giorno precedente e trovò la lettera che il parroco inviava al sagrestano. Bruto la prese e l'aprì. Alla prima parola, che lesse, fece un salto come una palla elastica. Lesse in fretta le tre o quattro linee che conteneva e corse alla finestra.

Quella di contro era ancora chiusa.

L'aurora si alzava sul mare ed infiammava il cielo.

Bruto cadde affranto sopra una sedia.

In quel momento don Gabriele entrò.

Era la sola persona, quasi, che Bruto considerasse come un amico. E veniva chiamato da Bruto, per attendere al funerale.

Bruto cacciò la lettera in tasca e disse a don Gabriele che gli parlerebbe più tardi.

Poco dopo vennero i preti e la confraternita e il cadavere fu trasportato alla chiesa di San Matteo per la celebrazione delle esequie.

Tartaruga lo seguì.

Bruto restò solo di nuovo.

Si gettò sul letto e pianse.

Mezzogiorno era passato di molto quando Tartaruga, tutta in lagrime, e don Gabriele, con delle provvigioni nella pezzuola, ritornarono dal cimitero.

Alla vista di quelle stanze, vuote dell'uomo che era tutto per lei, Tartaruga lasciò erompere la commozione. Don Gabriele, senza aprir bocca, si mise a preparare le costole sulla graticola e la salsa di pomi d'oro per i maccheroni che aveva comperati.

Faceva come se fosse in casa propria.

Bruto lo chiamò, tirò di tasca la lettera del parroco e gliela porse.

Don Gabriele lo guardò in una certa maniera, poi disse con gravità:

- Non ho i miei occhiali; leggete voi, se è per leggerla, e non per accender il fuoco, che mi date questo pezzo di carta.

Bruto lesse:

"Caro don Noè...."

Si fermò un momento per mandar giù un singhiozzo che gli sollevò il petto, poi proseguì:

"In una lettera del segretario dell'arcivescovo che ricevo or ora, c'è questo paragrafo che v'interessa. Non possiamo nulla precisare riguardo a quella Giuseppina Tortora sulla quale ci chiedete informazioni. Troviamo però(4) alcuni indizii di rassomiglianza con una certa Serafina Minutolo, che abita nella vostra parrocchia, vico Pellari, n. 3, settimo piano. Prendete voi stesso informazioni più complete."

- Vico Pellari, n. 4, Serafina Minutolo, brontolò don Gabriele; va bene, vedremo.

- È qui in faccia, disse Bruto.

- Lo so!

- Potete vederla da questa finestra.

- L'è buono per gli amanti codesto, ma non si fanno investigazioni da confessore o da commissario di polizia, in prospettiva. Andiamo a desinare.

- Non ho fame.

- È una frase che non si deve dire che alle frutta, osservò don Gabriele e non mai alla minestra.

Tutto era pronto. Sedettero a tavola.

In quel punto si aprì la porta ed entrò il santese della chiesa.

Tartaruga lo invitò, ma il santese ringraziò con voce commossa.

- Vengo, disse, da parte del nostro parroco.

- Il principio è edificante; cattive notizie allora, esclamò il burattinaio. Ma ciò non impedisce il bere un gotto di gragnano.

Il santese accettò e don Gabriele disse:

- Ora parlate: che vuole il vostro parroco? scommetto che l'indovino.

- Non è cosa difficile, rispose il santese e ve lo spippolo in una parola: ha bisogno di queste stanze fra due giorni, pel successore di quella buona anima di don Noè, che Dio abbia in gloria.

- Proprio questo, disse don Gabriele. E non gli occorre altro?

- Non m'ha detto altro pel momento.

- Bevete un altro bicchiere e andatevene con Dio. Vi porterò la risposta domani, continuò don Gabriele.

- Ve la do io subito, interruppe Bruto. L'alloggio sarà sgombrato domani.

Il santese s'inchinò e uscì.

- Avete tanta premura? chiese don Gabriele a Bruto.

- Non sarei restato qui un'ora di più se....

E i suoi occhi, che si volsero involontariamente verso la finestra, compirono la frase per don Gabriele. Tartaruga mangiava e pregava senza accorgersi di nulla.

- Io non ho null'altro che la persona a portar via di qui. Tutto quello che si trova è per Tartaruga.

A queste parole, che ben comprese, Tartaruga scoppiò in singhiozzi e la forchetta le cadde di mano.

- Mi scacciate! sclamò; che cosa ho fatto di male, dunque?

- Vi cercherò una stanza, che pagherò io, disse Bruto. Le masserizie, qualche risparmio lasciato dallo zio, vi aiuteranno a vivere per alcune settimane. I primi bezzi, che guadagnerò, li divideremo.

Tartaruga si alzò da tavola, sempre piangendo, prese una forbice e senza pronunziare una parola, si mise a scucire in furia il pagliericcio di don Noè. Cercò con attenzione in mezzo infra le foglie secche di granturco; poi, non trovando nulla, uscì da un altro lato.

Il sudore le gocciava dalla fronte e impallidiva. Niente ancora. Tartaruga allora sventrò tutto il pagliericcio e finalmente trovò un pacchetto di carte, che gettò davanti a Bruto.

- Che roba è codesta? sclamò don Gabriele. Bruto gli porse il pacco.

- Cosa? chiese il burattinaio.

- Guarda.

- Tremila ducati in biglietti di banca!

- Potete prendere una stanza per voi, don Bruto, disse Tartaruga, e lasciarmi un cantuccio nella cucina. Avete bisogno di qualcuno che vi serva.

Bruto, commosso, non rispose. Don Gabriele, invece, brontolò:

- Lascia che ti abbracci, vecchia mia. Se non mi avessi tanti imbarazzi in casa, ti sposerei.

Tartaruga andò a cercare le scarpe di Bruto e si mise a lustrarle.

- Dove mai il buon Dio va a nascondere dei cuori d'oro! mormorò Bruto fra sè.

- Ma! rispose don Gabriele sorridendo, là dove annicchia le sue perle: in un'ostrica.

- Oh! non sempre, rispose Bruto, guardando di nuovo involontariamente alla finestra.

Don Gabriele si alzò.

- A domani, disse egli.

- A domani, rispose Bruto. Pranzeremo qui avanti di abbandonare questa stanza.

Che sarebbe divenuto Bruto, se avesse continuato a vegetare col dottor Tibia e se suo zio non fosse morto?

Non tutti i mali vengono per nuocere, dice il proverbio.

Il domani, a mezzogiorno, don Gabriele arrivò con una certa aria preoccupata.

CAPITOLO XII. Ciò che si cerca e ciò che non si cerca.

Quella istessa mattina verso le dieci, un uomo molto avanzato di età e considerevolmente maltrattato dalla fortuna si presentava al vico Pellari, numero 3.

Aveva una benda di seta verde sull'occhio sinistro; balbettava, zoppicava e sopra una faccia troppo matura, sfoggiava un paio di mustacchi neri, che prendevano a gabbo i suoi capelli grigi. Portava brache di cotone quondam azzurro, una giubbetta di velluto di cotone una volta nero, una cravatta di cuoio a mo' dei soldati, un panciotto di piqué, una volta giallo, a punte scure e un copricapo che tirava al rossiccio pei lunghi servigi prestati.

Questo personaggio salì la scala mandando una quantità di sospiri e trascinando la sua gamba dritta con visibile stento. Malgrado ciò, arrivò senza accidenti al settimo piano, e si fermò sul pianerottolo per prender fiato. Si trovò di faccia ad un uscio aperto ed in mezzo ad un monte d'immondizie.

Nella stanza una donna scopava e rimoveva le spazzature dalla scala. Era alta, magra come il San Girolamo del Domenichino, coi capelli grigi, sucidi, che s'abbaruffavano sopra una testa, del resto, fina e scoverta. Era vestita alla grazia di Dio, se si può chiamar vestito quel brandello di gonna che le arrivava a mezza gamba. Aveva i piedi senza calze, in una sorta di pantofole; una camiciuola di calicot denunziava l'assenza della camicia, che stava infrattanto asciugando alla finestra.

Quella donna aveva la schiena voltata e brontolava sola sola.

L'uomo gettò un'occhiata nella stanza ed osservò dietro un paravento, tutto stracciato, un giaciglio che faceva le veci di letto; presso alla finestra, due seggiole, di cui una serviva di tavolino da lavoro a qualcuno che attendeva a cucire ed a ricamare e che non era là in quel momento; poi altre due seggiole che davano una smentita a tutte le leggi dell'equilibrio; un vecchio armadio di legno bianco, tutto sucido, sopra il quale v'era una mezza dozzina di tondi rotti o screpolati. In un angolo della stanza, sur un fornellino, un vaso di creta, ove bollivano probabilmente quei cavoli, di cui alcune foglie erano sparse sul pianerottolo. Ed era tutto, se si aggiunga un tavolino di pioppo, lercio come il resto, appoggiato al muro e che non conservava più che tre delle sue gambe. L'uomo tossi, sputò, ma la donna non se ne diede per intesa.

L'uomo incrociò le braccia ed aspettò che l'operazione dello spazzare facesse arrivare la donna verso l'uscio. Ciò, infatti, non tardò guari ed allora l'invalido della malattia potè considerare l'invalida della società.

Non si poteva più dire cosa fosse stata quella donna in tempi remoti.

Non aveva più età: il suo viso non presentava più che degli ossi tappezzati di una pelle simile al cuoio di Cordova, di cui una volta si coprivano i seggioloni, e degli occhi che fiammeggiavano come una bestemmia in mezzo ad un discorso d'archeologia.

Quei residui sembravano orribili!

Diede un'occhiata all'uomo ritto sulla soglia e continuò a spazzare, spingendo il pattume e la polvere fra i piedi dell'importuno.

Quest'ultimo si decise, alla fine, ad aprire il fuoco.

- Zi-zia, chiese egli, sa-a-preste di-dir-mi a che pi-pi-piano di-mo-mo-ra Se-se-se-rafina Mi-Mi-Mi-nu-nu-to-lo?

Alla prima parola(5), la donna aveva levato gli occhi su quell'individuo e di uno sguardo rapido e penetrante, come succhiello, l'aveva trapassato dall'alto in giù. Si fermò appoggiandosi al manico della granata e aspettò la fine della frase, che le parve evidentemente lunga, poichè sclamò:

- Finalmente! andavo a cercare le tanaglie, per farti l'estrazione della tua tartagliata. Monta ancora un piano e troverai la tua Se-Se-ra-fina Mi-Mi-Mi-nu-to-tolo, o zo-zo-zoppo del diavolo, e che il diavolo ti strangoli.

Per non annoiare il lettore, scriveremo correntemente il resto di questa conversazione; tanto più che la donna, per canzonatura, si mise anch'essa a balbettare.

- Un piano più su? sclamò l'uomo; datemi, dunque, una scala per salire in cielo: a meno che non intendiate dirmi che la è morta.

La camera della donna che spazzava era sotto il tetto, o, a meglio dire, sopra quella terrazza che serve di tetto alle case di Napoli e che chiamano astrico.

- E che cosa vuoi dunque farne, quell'uomo, della tua Se-se-ra-rafina?

- È il curato di san Matteo, don Gennaro Tibia, che mi manda.

- Non conosco codesto messere; giù per la tua via, povero di san Gennaro.

- Signora duchessa, sclamò l'uomo adirato, io non sono un povero di san Gennaro; io vivo delle mie entrate.

- L'avevo immaginato, disse la donna d'un tono ironico. E così?

- Il curato m'ha detto che questa Serafina Minutolo, una buona donna di questa parrocchia, faceva il mestiere di cucitrice. Si sarebbe forse ingannato sulla buona donna?

- Si è ingannato, buon uomo; non si cuce più qui.

- No? chiese l'uomo dando un'occhiata scrutatrice per la stanza. Eh! la vecchia, avresti guadagnato un terno al lotto?

- No, ma ne guadagnerò uno giuocando i tuoi numeri, mariuolo, rispose quella megera: l'occhio guercio che ci vede chiaro, 7; i mustacchi di crine da cavallo, 71; la lingua alla salsa piccante, 43. Eh! il terno è fatto: 7, 71, 43.

- Non scherzare sulle mie infermità, pezzentaccia, e rispondimi.

- Le tue infermità? graziosa! No, non lavoro più ora. Sono possidente.

- Me n'accorgo, disse l'uomo grattandosi la gamba. Avete delle minute greggie qui.

- E del bestiame grosso come te, rispose la vecchia rimettendosi a scopare.

- Quando uno nasce sotto una cattiva stella, non ha fortuna in nessuna cosa.

- Avresti vissuto sessant'anni avanti di scoprir questa bella massima?

- Penso al mio povero sergente.

- Ah! abbiamo anche un sergente. È della stessa tua parrocchia, eh?

- No, m'inganno, il mio sergente porta fortuna. M'imbrogliate le idee, vecchia.

- Va a contarlo ai Quattro del Molo (come chi dicesse a Milano: va a dirlo alle statue del Duomo).

- Immaginatevi, vecchia, continuò l'altro senza scomporsi pel brutale congedo, che l'anno passato una buona signora....

- To'! to'! c'è anche una buona signora. Marchese, mi presenterete a lei. Così saremo in numero completo.

- Va al diavolo, pettegola. M'intorbidi le mie memorie ed offuschi le grazie del mio racconto.

- Ti occorre una poltrona? devo farti venire del caffè col rhum? il giornale di Napoli ed una pipa?

- Conchiudo. La mia buona signora manda ogni anno sei camicie al mio sergente.

- Birbo di sergente! Ecco un uomo che deve esser ricco in camicie. E' non ha altrettante pipe nell'anno! Io, in tre anni, non ho avuto che due camicie.

- Vedo e riconosco che non fai grandi sfoggi di biancheria! Il fatto sta, vecchia, che l'anno scorso ho portato le sei camicie del mio sergente ad una femmina della tua risma. Credo anzi che fosse un po' meglio di te; aveva delle calze di seta. È vero che le venivano da un canonico, poichè eran rosse; ma aveva anche sul capo un fazzoletto color arancio, che doveva venire dall'istessa fonte. Per finirla, promise di cucire le mie camicie e mi disse d'andar a prenderle otto giorni dopo.

- Indovino la tua storia, caporale. Quella mariuola ha mangiate le camicie.

- No, le ha bevute; ma ciò le portò fortuna. Giuocò al lotto la gherminella che aveva fatto al mio sergente: le camicie, 37, il sergente, 61, lo scherzo - derubare un povero invalido lo riteneva uno scherzo - 84. E 84, 37, 61 uscirono tutti e tre. Guadagnò 48 ducati, cambiò casa ed il mio sergente restò l'anno scorso senza le camicie.

- Povero uomo! esclamò la donna.

- Di maniera che la mia buona signora voleva far cucire quelle di quest'anno da una persona sicura e ne ha chiesto al parroco, che le diede l'indirizzo di Serafina Minutolo. Dove sta questa Serafina, zi-zi-a?

- Non la conosco, caporale.

- Il mio povero Sacco-e-Fuoco non ha fortuna.

- Chi è codesto? abbiamo ancora un Sacco-e-Fuoco al presente?

- È il nome del mio sergente.

- Graziosa! caporale. Tu eri, dunque, il cappellano del tuo reggimento, eh?

- È un soprannome. Il suo vero nome è Pietro Colini.

La donna, che continuava a spazzare, si fermò e del suo sguardo avviluppò l'uomo. Fu un lampo. Di gialla la sua pelle divenne grigia. Ma ciò non durò che un secondo. Si rimise a scopare con più furia di prima. L'uomo non fece attenzione a quella nube passeggiera, giacchè sembrava commosso, e disse:

- Zia, dammi una sedia.

- Per far che?

- Per porre a sedere la mia emozione, vedi. Egli è che quando penso a certe cose vecchie....

La donna lo guardò di nuovo con una strana fissazione delle pupille, poi rispose freddamente:

- Ti occorrerebbe, per avventura, ancora un cordiale? Lascia che accenda la tua pipa, almeno; l'hai spenta colle tue lagrime.

- Vi sono delle cose che fan gomitolo sul cuore, vecchia, ed il tuo cuore stesso, che è fatto di vecchia suola, ne sarebbe commosso.

- Lo credi? uomo tenero!

- Ho detto sergente. Ebbene, no! il mio povero Pietro Colini era colonnello, decorato della Legion d'onore, barone, e, se Napoleone non fosse caduto, l'avrebbe nominato conte e generale sul campo di battaglia di Waterloo.

- Sei, dunque, tu che l'hai degradato, e ne hai fatto un sergente all'imboscata di sei camicie, caporale?

- Zitto, strega, sono essi.

- Chi essi? i tuoi padroni? coloro che ti danno le tue rendite?

- I ritornati: i Borboni. Egli aveva lasciato una donna, partendo.

- Che gli cuciva le camicie?

- Ch'egli amava, vecchia, e che voleva menare in moglie al suo ritorno. Voleva pure dare un padre al figliuolo che le aveva lasciato partendo. Capisci ora, strega? Ma nulla. Giuseppina, credo che si chiamasse qualche cosa come così, quella bella giovane, era sparita.

L'uomo fissò gli occhi sulla donna, che scopava sempre, senza saper ciò che si facesse, a scosse, a sbalzi, con mano convulsa. E gli voltava sempre la schiena.

- È, dunque, morta codesta... come la chiami? codesta bella giovane?

- Il mio colonnello l'ha creduto e lo crede ancora. La camera ove egli l'aveva lasciata, vico del Sole, al suo ritorno, era occupata da un cuoco.

- L'è proprio sfortunato codesto tuo colonnello-sergente.

- Se ne tornò al suo paese, dove si diverte a dare la ferula ai ragazzi. Ora, mi dirai dove abita questa Serafina Minutolo?

- Hai finito, brutto spione, colle tue storie, eh?

- Quali storie, dunque?

- E che sì che il tuo curato e la tua buona signora non si chiamassero ei forse il commissario Campobasso e madama polizia?

- Che diavolo borbotti, dannata megera! Tu mi insulti!

- Io sono Serafina Minutolo. E poi? cosa vuoi adesso?

- Se tu accogli così coloro che ti portano del lavoro, come mai ricevi tu il padron di casa quando viene a riscuotere il fitto?

- Te lo mostro io, come lo ricevo, sclamò Serafina alzando la sua scopa sopra don Gabriele, che il lettore avrà già riconosciuto.

Don Gabriele non attese questa dimostrazione pratica.

Dimenticando che era zoppo, fece un salto dalla camera al pianerottolo, gridando:

- Che il diavolo ti confonda! Se non si trattasse che di te, madrigna di Satana....

Non aggiunse di più, perchè la scopa gli rasentò la faccia come un cervo volante. Mentre si precipitava giù per le scale, rovesciò quasi una ragazza che saliva tutta trafelata.

Questa non si azzardò a guardare, tanto più che la scala era buia. Don Gabriele restò sul pianerottolo del quinto piano sbirciando in su. Scorse Serafina che lo seguiva, poi la vide trascinata dalla giovinetta e l'uscio della stanza si chiuse con fracasso.

Don Gabriele si preparava a rimontare per andare ad ascoltare all'uscio. Uno strepito di passi ed un suono di voci ne lo stornarono. Scese e si trovò nel cortiletto faccia a faccia con una vecchia che anch'essa, ansimante, principiava a salire.

La vecchia era corta e grossa. Aveva in testa un cappello giallo con fiori azzurri; portava un vestito color arancio ed uno sciallo verde, sprizzato di fiori rossi.

Un cespuglio di ricci neri le scendeva sul fronte e si confondeva con le sopracciglia, nere esse pure, ma che, per disgrazia, assalite da grosse goccie di sudore, si stringevano e solcavano la faccia di strisce grigie. La degna matrona aveva dei mustacchi vecchi appena di otto giorni, un parasole viola, un ventaglio ed un barboncello che giuocando le mordeva i polpacci e le gualciva il vestito.

- Giù, Tobia, giù sta quieto; non ho voglia di scherzare, capisci? Badate, signore, diss'ella tirandosi da una parte per lasciar passare il burattinaio, badate di non pigliare le zampe di Tobia.

Don Gabriele si schivò, squadrandola, e togliendosi la benda dall'occhio sinistro.

Erano le undici. Andò da Bruto e gli raccontò ciò che gli era accaduto.

- Per me, soggiunse, non c'è più dubbio; quella donna è la giovane del 1814 del nostro colonnello. Ella fiuta sempre la polizia alle sue calcagna. Le disgrazie l'hanno scaltrita.

Bruto si precipitò alla finestra e restò stupidito. Don Gabriele lo seguì.

- Che cosa c'è? chiese egli.

- Guarda, rispose Bruto.

La vecchia, che don Gabriele aveva incontrata appiè della scala, era seduta in faccia alla finestra. Aveva vicino una serva che, dopo aver spiegato degli involti, sciorinava sulle sue ginocchia due bei vestiti di seta, uno sciallo, due cappellini e dei gioielli. Giuseppina stava accosto alla donna dal cappello giallo; di dietro, Lena. Tutti ammiravano: la donna dal cappello giallo, Giuseppina e la serva, prorompendo in esclamazioni entusiastiche: Lena in silenzio, ma cogli occhi brillanti di desiderio. Bruto si coprì il viso e volgendosi sclamò:

- Ecco, dunque, le donne che dobbiamo annunziare al colonnello.

- Andiamo a pranzo, rispose don Gabriele.

- E sloggiamo presto, soggiunse Bruto. Io soffoco, qui.

CAPITOLO XIII. L'uomo propone, la donna dispone.

Bruto aveva un compatriota farmacista nel basso della via di Foria, vicino al Giardino Botanico. Questo brav'uomo l'aveva spesso eccitato a venire ad abitare nel quartiere dove egli dimorava da vent'anni, e dove conosceva tutti, e prometteva di aiutarlo. Bruto era andato a trovarlo, per comunicargli la sua risoluzione di cercare un appartamento nelle vicinanze della farmacia.

Don Gaudioso, il farmacista, aveva appunto ciò che faceva al caso di Bruto: un quartierino vuoto, proprietà di un suo cliente, situato sull'alto della collina, dov'è il Giardino Botanico, vicino a Santa Maria degli Angeli. La posizione era bella, benchè un po' remota. Il fitto non era caro. Il padrone di casa, uomo eccellente, quantunque padrone di casa, era spesso malato e circondato da una famiglia malaticcia.

Don Gaudioso(6) aveva combinato un contratto a cottimo, mediante il quale il proprietario dava l'appartamento ed il medico lo curerebbe tutto l'anno. Bruto sottoscrisse ad occhi chiusi a queste condizioni.

Quel giorno stesso, dopo il pranzo, si fece lo sgombero. I mobili e le masserizie di don Noè non formavano il carico di una carretta. Ora, nelle sei stanze del nuovo appartamento del dottor Bruto, quelle mobilie elementari facevano l'effetto di una mosca in una cattedrale.

- Ci vogliono arredi e addobbi, disse Bruto passeggiando nelle stanze. Non posso ricevere i miei clienti, se ne ho, e pregarli di seder su i quadrelli del pavimento.

- Certamente, dissero in coro don Gaudioso e don Gabriele.

- Quanto credete voi che potrebbe costarmi il rimpinzar qui dentro seggioloni, divani, sofà, letti, orologi, armadii....

- Avanti, avanti.... delle statue, dei quadri, delle tappezzerie, degli arazzi, eh? disse don Gabriele.

- Ho un'idea, osservò Bruto. Se ho da arredare queste stanze, voglio arredarle per bene.

- In questo caso, l'eredità di tuo zio ti s'inghiotte d'un boccone, disse don Gaudosio.

- O all'incirca, osservò don Gabriele. La è grave. Ma, poichè egli ha un'idea su questo proposito, bisogna effettuarla nel miglior modo. Non mi piacciono le idee che restano pulcellone. Quando si ha un'idea, bisogna che la prolifichi, fosse pure per produrre dei piccoli mostri....

- Allora, disse Bruto.

- Allora vuoi lasciar fare a me? Conosco tutta Napoli, io. So dove si trovano uomini e cose.

- Ti do carta bianca.

- Non assicuro che sarà qui come al palazzo reale, soggiunse don Gabriele; ma non sarà nemmeno l'appartamento d'un droghiere.

- Comincieremo domani, disse Bruto. Bisogna che la sua camera sia pronta fra otto giorni.

- La camera di chi?

- Di chi? del colonnello, per Dio! Gli scrivo domani di venire.

- E gli dite che sua moglie e sua figlia sono al suo comando?

- Me ne guarderò bene. Gli scrivo: Vieni! e gli mando venti ducati per il viaggio: gli dico di partire senza strepito, per non svegliare la polizia e fra otto giorni il colonnello sarà qui.

- Ed il passaporto?

- Ci penserà lui. Entrerà in Napoli di notte, a piedi, nella sua pelle di sergente, che non desta sospetti.

- Venga, disse don Gabriele, la sua camera sarà pronta. Digli però di fermarsi a Portici, il tal giorno, la tale ora, nel tal sito, ed anderemo a prenderlo.

- No; lascialo fare: la sa più lunga di noi.

Il domani don Gabriele si mise all'opera.

Dove mai abbia frugato, non saprei dirlo. Ma fatto è che disotterrò la più curiosa collezione di sedie, seggioloni, sofà, armadi, tavole, portiere, tappezzerie che siasi mai veduta. L'insieme stuonava; ma ogni cosa, presa a parte, era un gioiello. Delle sedie del secolo XV ad alta spalliera, intagliata a fogliame e coperte di cuoio di Cordova dai gigli dorati, si vergognavano vicine a quattro cortine di broccatello del 1500; dei canapè del secolo XVIII in arazzo, in legno verniciato azzurro ed oro, coi loro arabeschi, i loro fiori, i loro amorini paffuti, litigavano con due mensole del 1600 in marmo giallo e legno dorato, intagliato a fiori come un merletto.

Ah! se quei mobili avessero potuto raccontare ciò che avevano udito e veduto, donde venivano, per quali peripezie erano passati, come avevano rotolato giù e come dal buio fondaco di un rigattiere, dove si accimorrivano, erano venuti a trovar riposo nel salotto di questo figlio d'un barbiere, embrione di medico, che non li apprezzava punto e che avrebbe preferito l'acagiù, o il palissandro coperto di reps!

Ah! se quegli oggetti d'arte avessero potuto ripeterci le parole del marchesino, i madrigali dell'abate ed i progetti atroci del barone. Che memorie! che cronaca quella di un bonheur-d'un-jour, d'un tabouret, di un inginocchiatoio.

Codeste gravi cose se le susurravano, forse tra loro quei mobili riuniti colà come al festino d'un mago, quando la povera Tartaruga li spolverava per bene, facendosi la croce in tutte le longitudini e latitudini del suo corpo e ruminando dei Magnificat e delle Salve Regina alla vista di certe nudità degli arazzi.

Bruto s'era occupato della sua famosa stanza. Quale non fu lo stupore di Tartaruga, quando vide arrivare un letto di ottone per due persone, un armadio a specchi, una dormeuse e dei coins de feu? Tutte queste cose rivelavano un partito preso con premeditazione. E' non era certamente il mobilio di una camera da letto da scapolo.

Nè ciò era tutto. Bruto aveva fatto porre un tappeto; aveva comperato una toilette di marmo con delle porcellane inglesi ed una quantità di boccette di Boemia, delle pomate, degli olii, del cold-cream! Dio buono! perfino del cold-cream! e della cipria! In breve, ciò dette da pensare perfino a don Gabriele.

Non c'era, però, più verso di dubitare; uno scialle, delle gonne, un mantello, dei braccialetti, degli orecchini, uno scheggiale in oro arrivarono alla fine. Or certo tutto codesto non poteva capitar lì all'indirizzo di Tartaruga.

Questa povera vecchia non osava domandare una spiegazione; don Gabriele se lo permise.

- È una commissione per un signore di Moliterno che si ammoglia e che mi ha incaricato di queste compere, rispose Bruto.

Questa risposta non soddisfece punto don Gabriele, ma egli ebbe l'aria di contentarsene, sapendo che, quando la cosa verrebbe ad una conclusione, il primo consultato sarebbe lui e che allora potrebbe dire la sua opinione. Soltanto vedeva con dispiacere che i tremila ducati di don Noè toccavano il fondo. Ora don Gabriele avrebbe voluto economizzare per Bruto almeno di che vivere un anno o due, onde aspettare tranquillamente i clienti.

Dieci giorni dopo che Bruto s'era stabilito nel suo nuovo appartamento, arrivò il colonnello.

Don Gabriele e Bruto s'erano concertati di nascondergli ciò che sapevano di Giuseppina e di Lena fino al momento in cui sarebbero sicuri di potergli raccontare qualcosa che non fosse un immenso dolore o un'immensa sventura.

Strappare Giuseppina dalla tomba, dove il colonnello la credeva discesa, per gettargliela nelle braccia incarnata in quella Serafina, la sarebbe stata davvero una cattiva azione. Restava Lena; bisognava cercare di salvare questa ragazza e sottrarla a sua madre. Bruto ci pensava.

Lena era sul punto di rappresentare una parte in una nuova commedia ai Fiorentini; passava le mattine alle prove. Quando non c'era nulla a fare al teatro, restava a casa a lavorare. Bruto la incontrò due o tre volte, come per caso, ma non potè parlarle, perchè c'era sua madre. Non osava interrogare i vicini per non destare sospetti. La sua tutela era, dunque, poco efficace. Don Gabriele, occupato del tramestìo dell'ammobiliamento della casa nuova, non aveva avuto tempo di aiutare Bruto; e le cose erano a questo punto quando arrivò il colonnello.

La era una sera di settembre. Le finestre erano aperte. Era l'ora in cui don Gabriele dava rappresentazione al teatro di Donna Peppa. Bruto studiava. Tartaruga pregava sonnecchiando nello stanzino che le era stato destinato, non come ad una serva, ma come ad una house keeper, come dicono gl'Inglesi, cioè qualcosa meno di una padrona di casa, ma qualche cosa di più di una fante.

Il colonnello arrivò a piedi, vestito da sergente degli invalidi, una camicia involta in un vecchio giornale, per tutto bagaglio, ed un paio di calze che gli pendevano dalle tasche di dietro, a guisa di pezzuola. Non ebbe duopo di chiedere l'indirizzo; sopra una grande lamina di rame inchiodata alla porta stava scritto:

/* BRUTO ZUNGO, MEDICO-CHIRURGO. */

Suonò. Tartaruga aprì.

- Dov'è? chiese alla serva.

Poi, senza aspettare la risposta, entrò gridando:

- Olà! Bruto! eccomi qua, fulmine d'un fulmine! Dove diavolo(7) sei? nel tuo palazzo! Parola d'onore! Questo ragazzo si è regalato le Tuileries!

La nota voce, che riempiva l'anticamera ed il salotto, fu udita e riconosciuta da Bruto, che fece un balzo e ricevette il suo amico fra le sue braccia.

Il vecchio soldato ed il suo allievo erano commossi. Tartaruga faceva lume colla candela, non fiatando e non comprendendo che mezz'ora più tardi, che codesto sergente poteva ben essere il sergente cui Bruto attendeva.

- Come! cattivo galuppo, disse finalmente il colonnello, non una parola di lei, nella tua lettera!

- Egli è, mio povero colonnello....

- Che cosa?

- Mille scuse, mio generale.

- Bruto!

- Che il signor barone, che il signor conte non vada in collera, se abbiamo penetrato nei suoi segretucci. Non è colpa nostra. Egli ci ha autorizzato a far delle ricerche e quella chiacchierona di polizia....

- Ma allora, e lei....

- Ahimè! abbiamo perduto i nostri passi ed il nostro tempo.

Il colonnello sedette. Era stanco, del resto, e rimase silenzioso.

L'accoglimento che riceveva lo commosse.

La settimana di miele fu bella per tutti. Una sera Bruto gli disse:

- Colonnello, m'hanno regalato due biglietti pel teatro, volete venirci?

- Me ne importa poco veramente; ma se ciò ti fa piacere, ragazzo....

- Grande.

- Andiamoci allora.

- Ma voi, forse, non amate la prosa!

- Non amo mica meglio i versi; ci vengo solo per te!

Alle nove - è l'ora del teatro a Napoli - si trovarono seduti su due sedie del teatro dei Fiorentini. Quella sera si dava un nuovo dramma: Il fabbricatore di violini di Cremona, graziosa produzione, che s'aggira sulla manìa del fabbricatore geloso della voce umana e sopratutto del canto della donna; poi sulla maniera con cui se ne vendica una cantante di Milano, che gli fa prendere come allievo un giovane compositore di musica suo amante, il quale fa della figlia del fabbricante una grande cantatrice, e gliela rapisce onde farla esordire sul teatro di Milano nell'Achille in Sciro di Paisiello.

La figlia del fabbricante di violini, Ondina, cantava dietro le quinte la cavatina di quello spartito, un vero capolavoro. A quel canto la intera platea scoppiò in applausi frenetici e chiese la replica.

Ripetuta la cavatina, si chiamò fuori l'artista.

Era Lena. La sua bellezza cangiò il successo in frenesia. Fu ammirabile in tutta la sua parte. Bruto s'accorse che il colonnello diveniva tristo.

- Vi sentite male, o è l'emozione che vi produce il dramma? gli chiese.

- Ho voglia di fischiare questa giovine attrice. Andiamo via.

- Ve ne prego, colonnello, aspettiamo la fine....

Il colonnello si rannicchiò nella sua seggiola e parve addormentarsi. Nuova scena di Lena, un rondò di centomila diavoli, un fuoco d'artifizio di suoni arzigogolati, vocalizzati con abilità straordinaria, che passavano dai sibili d'una tempesta al dolce respiro d'una fanciulla addormentata. Nuovo diavoleto d'applausi.

Il colonnello non potè più resistere ed uscì.

Il dramma, del resto, finiva. Bruto l'accompagnò. Rientrarono senza dir parola.

Il colonnello aveva mal di capo ed andò a coricarsi. Bruto passeggiò nella stanza fino alle due del mattino e non chiuse occhio tutta la notte.

Al domani egli ebbe un lungo colloquio con don Gabriele. Discussero se dovessero svelare al colonnello di aver ritrovato la sua vecchia amante e la di lei figlia.

Don Gabriele fu d'opinione di non dir niente, poichè la vecchia gli sembrava sempre più equivoca ed infame. Bruto lo invitò a pranzo il giorno dopo.

Il pranzo fu allegro.

- Quando avremo preso il caffè, disse Bruto, usciremo. Vi preparo una sorpresa da quindici giorni. Voglio presentarvi ad una famiglia di mia conoscenza.

- Quale famiglia? domandò don Gabriele.

- Quella della mia fidanzata: prendo moglie.

- Come? sclamarono in coro il colonnello, il burattinaio e Tartaruga.

- Sì: vado a presentarvi la mia promessa. Non vi ho annunziati; ma, ne son certo, la vostra visita la colmerà di piacere.

Seguì(8) un movimento di silenzio. Tartaruga si ritirò nella sua stanza e si mise a piangere.

Il sergente accese la pipa, don Gabriele incrociò le braccia dietro la schiena, Bruto cacciò le mani nelle tasche e via. Si sarebbe detto che seguissero un funerale: silenzio su tutta la linea. Percorsero così la via Foria, il Largo delle Pigne, Toledo; poi ascesero pel vico Tre Re e presero a sinistra per la strada Speranzella.

- Dove diamine andiamo? chiese don Gabriele.

- Poco lontano di qui, rispose Bruto.

- Sarebbe mai da?... disse egli con ansietà.

- Ancora due passi, voltate a dritta, là!... Siamo nel vico. Al numero 3. Lo conosci tu, don Gabriele?

- L'avevo indovinato. Non fa nulla, sei un bravo giovane e che il diavolo porti chi non ti vuol bene.

- Andiamo al settimo piano, colonnello, siete stanco?

- Andate avanti, vi seguo anche al decimo.

Ed eccoli all'uscio.

Bruto picchia: silenzio! Picchia di nuovo: silenzio! Don Gabriele assale la porta a pugni. Silenzio! Il colonnello batte con la sua gamba di legno. Nessuno!

- Sono uscite, dice Bruto.

S'apre l'uscio del sesto piano. Una donna viene sul pianerottolo e dice:

- Chi cercate, signori?

- Serafina Minutolo, risponde Bruto con voce turbata.

- È scomparsa da tre giorni, ella e sua figlia, risponde la donna.

- Come? sclamò Bruto.

- Sono venuti a cercar la Lena: gente di teatro, capite. Nè ella nè sua madre non stanno più qui. È tutto ciò che posso dirvi.

- Bisogna ricominciare! brontolò don Gabriele. Andiamo, Fuina, alla riscossa.

Il colonnello restò al buio di tutto. Alla sua volta si mise a frugar Napoli in cerca di Giuseppina.

CAPITOLO XIV. Le conseguenze di una prescrizione del dottor Tibia.

L'idea di Bruto, il lettore se ne è già addato, era di rivelare al colonnello l'esistenza di sua figlia e di chiedergliela in isposa, sottraendola così alla pressione malefica di sua madre. Ma questa, scaltrita dalla sua lunga lotta colla polizia, credendo averne sempre alle peste i segugi ed avendo al primo colpo d'occhio creduto indovinare una spia in don Gabriele, affrettò l'esecuzione del suo progetto e scomparve con Lena. Bruto rimase abbattuto.

Cercò consolarsi coi suoi libri, distrarsi coll'esercizio della sua professione. Don Gaudioso, il farmacista, gli aveva promesso di aiutarlo e tenne parola. Bruto cominciò ad avere dei clienti, un ciabattino, un servitore di ricca casa, qualche serva, una corista di un teatro di terzo ordine, il pizzicagnolo sull'angolo della via, il cancelliere aggiunto del commissario di polizia del quartiere, una giovine crestaia, ma tutti costoro davano più lavoro che danaro, delle benedizioni e mille promesse. Don Gaudioso non si stancava tuttavia di predirgli un brillante avvenire, e perfino la carrozza.

Bruto passava i suoi momenti di ozio nella farmacia del suo compatriota, aspettando.... chi lo sa! il cholèra, forse, non per cattiveria od avidità, ma per amore della scienza.

Bruto era artista.

Non andava mai di sera alla farmacia quando vi si riuniva la solita compagnia in becco-al-vento. Il notaio, il vecchio impiegato, il possidente, il tenente della guardia urbana del battaglione del quartiere, il cavaliere don Martino, che arrivava dalla provincia, don Luciano, che scriveva le sciarade dell'Omnibus, il vecchio scapolo, che girandolava tutto il giorno per la città.... tutta questa gente andava a fare un paio di orette di conversazione alla farmacia, ciascuno portando il suo contingente di ciarle; conoscendosi tutti e tutti pieni di creanza e di attenzioni reciproche.

Quantunque ci fosse stato a guadagnare, trovandosi in contatto di una compagnia così variata, Bruto non andava alla farmacia che di mattino, fra le dieci ed il mezzogiorno. A quell'ora il lavoro era sempre pressochè terminato ed egli poteva conversare col suo compatriota. Poi, un po' prima del mezzogiorno, il colonnello veniva a prenderlo e rientravano insieme al tocco pel desinare.

Da due giorni, Bruto vedeva arrivare alla bottega una giovane cameriera, dagli occhi agli agguati, la taglia alla grazia di Dio, il nasino in aria. Quando entrava, era una rivoluzione. Toccava tutto, voleva spiegazione di tutto, i minuti le parevano ore. Non si ristava dal dare del tu all'uomo serio serio che preparava i medicamenti; canzonava questi e quegli, dirigeva la parola al primo che capitasse e, a chi l'interrogava, rispondeva innanzi sentire la fine della domanda.

Bruto ne aveva subita una grandinata, il primo giorno, avendo avuto l'inaccortezza di lagnarsi che la gli avesse camminato sui piedi; poi un'altra, la seconda volta, perchè ella aveva trovato ch'egli occupasse mezza la porta d'ingresso. Vedendola arrivare al terzo giorno, Bruto si tenne ritto, la schiena appoggiata alla tavola, dietro la quale farmacopolizzava don Gaudioso, gli occhiali inforcati sul naso, in testa un berretto di velluto nero ricamato d'arabeschi rossi, una barba di otto giorni, una camicia d'altrettanti e dei vestiti di cui non si sapeva più la data. Don Gaudioso era di buon umore e le sue guancie tremolavano dall'ilarità.

- Presto, presto, speditemela in men che non si dice: il diavolo ti porti! gridò quel nabisso gettandogli la ricetta.

La ricetta cadde per terra. Bruto si chinò per raccoglierla.

- Grazie, signore, disse la ragazza. Gli è che quell'animalaccio viene a mezzogiorno ed ordina di prendere il medicamento alle undici.

- È vostro padre che è ammalato, madamigella? chiese Bruto.

- Mio padre? Chi! replicò dessa.

- Vostra madre, dunque? avete tanta... fretta!

- Oh! sì, mia madre! Mia madre! quale? La madre Annunziata, se volete!

L'Annunziata è l'ospizio dei trovatelli di Napoli.

- Scusate, disse Bruto.

- Che diavolo di roba è cotesta! Oh! come puzza; è l'ammalata che deve inghiottirla! Che mazzo di fiori! Come lo chiamate codesto orrore?

- Del musco, carina, risponde don Gaudioso, con molta buona grazia.

- E quest'altra porcheria? Puh....

- Del castoro, risponde don Gaudioso graziosamente.

- To'! e io credevo il castoro fosse una stoffa. Ah! parlatemi della canfora, alla buon'ora! conosco anche il chinino ed il laudano.... e questo che cos'è?

- Dell'oppio, risponde don Gaudioso con avvenenza.

- Presto, dunque, presto; la non ha più di scilinguagnolo, la grida, la dà delle busse, la mia padroncina, presto, presto.... Oh! come con dei fiori azzurri sarebbe bello un vestito di quel verde, lì, eh! che ne dite, don Gaudioso?

- Per chi è quella pozione, bella ragazza? chiese di nuovo Bruto.

- Per lei, giuro a Dio! c'è forse altri in casa che inghiotta di queste abbominazioni?

- La vostra padrona, senza dubbio?

- La mia padrona, appunto.

- È giovane codesta vostra padrona?

- Questo, signorino, non è affar vostro, mi pare. Dice di aver diciannove anni, si potrebbe dargliene vent'uno o ventidue; la stiratrice, che la conosce da piccina, assicura che ne ha venticinque.

- Gli è molto che è ammalata?

- Siete ben curioso, signorino! S'è accorta, della sua malattia al principio del mese, o della settimana, o della stagione.... ieri.... oggi.... eh! siete contento ora? Ma fate presto, dunque! È l'ora della colazione di Monsieur.

- È, dunque, maritata la vostra padrona?

- Per chi, dunque, l'avete presa?

- Scusate, non ero per offenderla. Che malattia ha dessa?

- Son forse medichessa io? E a voi cosa importa di sapere che cosa ella ha? Peste! ho servito undici mesi nel convento dei Miracoli. Ohi oh! se ne vedono delle belle in codesti pensionanti! vi si acquista della probità.... E la padrona si nasconde, come se a vent'anni, uscita da un convento di Napoli, dovessi ignorare cosa vuol dir esser pallida, pensierosa, piangere, avere degli uragani di capricci, purgarsi ed ingollare questi orrori che le porto io! Ma fate presto, presto! non c'è bisogno di tanta attenzione. Sono sicura che la non verrà mai a capo d'ingoffare l'orrida cervogia che le reco....

- Don Gaudioso, permettete che legga questa ricetta?

Il farmacista gliela porse. Bruto la lesse e gridò:

- Misericordia! Tibia! il dottor Tibia! Non poteva esser che lui! Ma l'ammazza quella disgraziata, l'ammazza come egli ammazzò il mio povero zio! Oh! ragazza mia, dite alla vostra padrona che non prenda più di queste misture d'inferno.... Scusa, don Gaudioso, prima di tutto l'amor del prossimo e della professione. Sì, sì, madamigella, che la vostra padrona mandi via quell'asino, quel boia di medico; egli non ha capita mai la malattia.

- Che cosa dite mai, signorino? sclama la cameriera spaventata.

- La verità. Quella bestia di medico non ha indovinato la malattia. La vostra padrona ha tutt'altro e le occorrono medicamenti ben diversi.

- Ma Bruto, Bruto; sclamò don Gaudioso.

- Scusa, caro mio, ma l'umanità....

- Che umanità mi vieni ora a raccontare! rispose il farmacista; le umanità, sì, le si studiano al collegio. Tu soffi la ribellione in mezzo ai miei clienti. Tu vai a fare insorgere contro me tutti i medici....

- È vero, caro amico, ho torto, te ne chiedo scusa; ma veder uccidere così una giovane donna, bella forse!...

- Quanto a bellezza, la è una stella, interruppe la cameriera.

- Ricca, forse, felice, di buona famiglia! Oh perdonami, don Gaudioso, ma il cuore mi sanguina, gli è un peccato....

- Ma sai tu che codesto peccato mi produce una piastra al giorno, caro mio! Sai tu che dei clienti così puntuali come il conte Ruiz di Llamanda, signor mio, ce ne sono pochi! e primum ego ha detto Cicerone.

- Tutti dicono così, amico mio. Il cuore è sì stolido....

- Il cuore? ah! tu sarai un cattivo medico.

La pozione era pronta e la cameriera se ne andò.

La prima parola che la disse alla sua padrona fu questa:

- Vi ammazza.

- Chi?

- Il dottor Tibia.

E Lisa allora raccontò la conversazione tenuta col giovine medico ed il farmacista. L'ammalata restò perplessa e si fece ripetere minutamente tutto quanto aveva udito. Lisa fece il ritratto di Bruto con molta compiacenza, qualificandolo un bel giovine, elegante, educato, grazioso. L'aveva chiamata madamigella e le aveva dato del voi.

L'ammalata ascoltò attentamente, riflettè alcuni minuti, parve agitata; poi, prendendo come una subita risoluzione, tracannò la tisana e si lasciò cadere sui guanciali. Lisa, che, invece, era convinta che il medico aveva sbagliata la malettia e che la curava a rovescio, non si tenne per vinta, raccontò al conte tutto ciò che aveva udito nella farmacia. Questi altresì parve colpito e si allontanò in silenzio. Un quarto d'ora dopo mandò a chiamar Bruto.

Alle due don Bruto si presentava in casa del conte Ruiz de Llamanda.

Il conte abitava il primo piano di un palazzo quasi isolato, che dava sopra un bel giardino, dietro il convento dei Miracoli. Il principe di Noto, ottuagenario, che non usciva mai, abitava il secondo piano, ed il terzo era serbato a suo figlio, il marchese Annibale di Diano, che, trovandolo troppo lontano dal centro della città e del mondo elegante, non ci poneva i piedi che una volta ogni quindici giorni.

L'appartamento affittato al conte Ruitz, in una al giardino, aveva due ale; la sinistra, destinata a Cecilia sua figlia; la destra, occupata da lui. In questa aveva stabilito il suo studio di scultura - il conte era artista - ed il suo gabinetto, perchè era anche poeta. Bruto, avendo chiesto del conte Ruitz, fu introdotto nello studio da un vecchio domestico.

Il giovane dottore era stato appena annunziato e s'era appena seduto, che una porta vetrata che dava sul giardino s'aprì ed una signora vestita di scuro, con un velo fitto abbassato sulla faccia, entrò.

A questa apparizione, il conte balzò in piedi, s'inchinò fino a terra, cavò il suo fez greco, andandole incontro senza dir motto. La signora non badò all'ossequiosità del conte, ma parve sorpresa della presenza di Bruto. Lo fissò un momento e seguì il conte che la precedeva. Il conte aprì un uscio e ne sollevò la portiera per lasciarla passare.

Ella si volse nel mezzo della stanza, onde guardare Bruto che si teneva in piedi dinanzi ad un busto; poi ancora una volta lo squadrò dall'alto al basso prima che la porta si chiudesse di nuovo e la portiera ricadesse sull'uscio. Il conte si faceva ora rosso, ora pallido. Un momento dopo chiamò con impazienza il vecchio servitore e gridò:

- Dalla signorina, stupida bestia, dalla signorina; indica al signor dottore l'appartamento di Cecilia.

PARTE SECONDA
CAPITOLO PRIMO.

Il conte Ruitz de Llamanda.

Sono proprio desolato di trovarmi in contraddizione con un personaggio così rispettabile come la madre di Lena, la quale pretendeva che i Ruitz fossero baroni alla corte e conti in città.

La verità è che il personaggio, che abbiamo intraveduto nel precedente capitolo, non era nè barone nè conte, che non era neppur Ruitz, ma Luitz e che Llamanda era una parola di cui amava poco l'ortografia e la pronunzia. Ciò che aveva indotto questo onorevole teutono a darsi questo feudo in Ispagna e a permettersi questa leggera alterazione ortografica nel suo nome, era stato uno scherzo della regina Urraca, spagnuola, la quale una volta aveva detto che bisognava bene che un giorno o l'altro lo facesse barone, perchè egli le ricordava il conte Ruitz de Llamanda, il suo portatore di torce ufficiale ad Aranjuez. Ora, Jacob Luitz, avendo una religiosa venerazione per la parola regale, considerò come bell'e realizzata la velleità augusta della regina e, senza aspettare le pergamene, si creò da sè stesso conte e barone.

E, poichè siamo in vena di svelare i segreti di questo grande personaggio, aggiungeremo che mastro Jacob non era altro, ahimè! che un embrione di groom del general Mach, quando l'imperatore Leopoldo inviò questo terribile soldato alla regina Carolina onde sbarazzarla delle petulanze della Repubblica francese. Dopo la partenza di quel guerriero, carico degli allori ben conosciuti, il piccolo Jacob restò a Napoli ed ottenne dalla regina Carolina la grazia di essere impiegato fra i criador y cuidador de lebreles del re, uffizio che consisteva presso a poco nel battere i cespugli alla caccia per farne uscire le lepri.

Ma il re Ferdinando, avendolo un giorno preso in isbaglio per una lepre e regalatagli una carica di pallini nella coscia, lo nominò per compensarlo manteguero a Capodimonte. A Capodimonte, Luitz batteva un burro così squisito, che la regina Urraca, avendolo assaggiato, volle conoscere l'artista; e l'artista essendole piaciuto al pari del burro, ella l'aveva alzato al grado di barauderos, dandogli l'incarico di accudire i canarini.

Jacob Luitz aveva sposato in Sicilia, ove aveva seguito la corte al tempo di Murat, una piccola siciliana, svelta ed accorta, che era cozinera della reyna Carolina. E siccome alla reyna piaceva il circondarsi di belle ragazze, ella la prese poi per sua amidonadora de courpos, cioè donna di servizio che fa seccare la cipria sul capo della regina quando esce dal bagno. E quella accorta donna era riuscita a farsi nominare canadora y fanadora dei principi reali, cioè quella che scaccia le mosche e le zanzare dagli augusti visi dei principi reali, quando la morì dando alla luce Cecilia.

Al tempo di Ferdinando I, che parlava il dialetto dei lazzaroni, si conservavano ancora a parecchie cariche di corte i nomi spagnuoli adottati al tempo di suo padre, lo spagnuolo Carlo III.

Mastro Jacob Luitz non era, dunque, che un semplice custode di canarini, che non avevano punto d'uopo d'essere custoditi, essendo solidamente rinchiusi in una gabbia; ma noi ci permetteremo di continuare a dargli il titolo di conte che tanto lo lusingava.

C'era una cosa però difficile a spiegare. Jacob guadagnava alla corte circa duecento lire al mese e teneva casa e treno da gran signore. Aveva dunque un altro impiego quel buon tedesco. Ma quale? Indovinate.

Bruto fu introdotto da Lisa in una stanza, che pareva un nido d'amore. I muri erano ricoperti di damasco rosso inquadrato in listine di legno dorato ed il soffitto abbellito d'un dipinto a fresco, che riproduceva la Venere del Tiziano, più svestita che il nudo esso stesso. Le mobiglie di legno di rosa, con ornamenti di bronzo dorato, tradivano le preferenze di Cecilia. Al capezzale del letto, un ritratto di Byron. Un busto in bronzo di Victor Hugo le serviva di fermacarte sopra il piccolo tavolino vicino al suo letto.

Ella stava sdraiata sopra una dormeuse di velluto, vicino ad una finestra che dava nel giardino. Sopra il tavolino e per terra giacevano qua e là volumi di poesie e di romanzi in italiano ed in francese. Una testa di morto in avorio, col quadrante di un orologio sul fronte, segnava l'ora. In un angolo della stanza si vedevano dei fioretti e degli scudisci. Fiori nei vasi di cristallo di Boemia: uccelli a mille colori in una gabbia dorata: un cane di Terranuova, sdraiato sopra un tappeto turco, presso il balcone ed un gufo sopra un piuolo.

Cecilia - che suo padre chiamava, non sappiamo perchè, miss Silla, o miss Cecilia, all'inglese - era una lionne, secondo l'appellativo alla moda in quel tempo.

Sarebbe stata ammirabilmente bella, se non avesse avuto i capelli rossi, ereditati da suo padre, cui odiava forse per questa ragione. I poeti, e quelli che le facevano la corte, avevano un bel cantare che aveva la capigliatura di Venere, dell'Aurora, di Lucrezia Borgia (che non li aveva rossi veramente, ma biondi dorati); avevano un bel chiamarla il toson d'oro, paragonarla alle trecce di Berenice che hanno posto nel cielo, come le stelle. Cecilia trovava i suoi capelli orrendi.

Quanto al resto, era bella di quella bellezza provocante che le veniva da due occhioni neri, inquieti, fiammeggianti sopra una pelle bianca come la neve. Non era grande, ma sembrava tale a causa della sua taglia fine, svelta, elastica, della testa che portava sempre alta, del piede inarcato, del passo voluttuoso ed elegante, di quel tal camminare, insomma, di cui si pretende che la sola Parigina abbia il secreto.

Cecilia montava a cavallo ed era molto abile alla scherma. Faceva versi, od almeno delle cose rimate. Leggeva molto bene quelli degli altri, rappresentava molto bene la commedia nei teatri di società, suonava il violoncello, cui chiamava la sua viola di trovatore, ballava la cachucha, decideva di questioni d'onore nei duelli e di questioni di blasone. Si aggiungeva (dalle sue rivali ben inteso) che teneva testa a chiunque nel bere sciampagna ed anche sherry.

Le si rimproveravano mille civetterie; ma non si poteva accusarla d'un fallo. Si citava però qualche cosa che non era stato in realtà che il principio d'una colpa.

Il re Ferdinando II, allora giovane, se n'era incapricciato e ne aveva ottenuto un convegno nel boschetto di quel Capodimonte, ove il conte Ruitz aveva fatto quel suo famoso burro. Or quel ritrovo era stato innocente quanto quello di Napoleone ad Arles, dove egli si limitò a mangiar delle ciliegie.

Il re Ferdinando si intrattenne a parlare con Cecilia del prezzo delle camicie, trovando che il suo fornitore gliele faceva pagar troppo care a venticinque lire l'una. Cecilia, che faceva viaggiare ogni metro di tela, venendo di Olanda, per le camicie di un re, al prezzo dei viaggiatori di prima classe, trovò, invece, che il fornitore le dava per niente.

Il re andò in collera per questa osservazione; credette che la sua futura Pompadour si fosse già posta d'accordo con i suoi fornitori per giuntarlo, ruppe il colloquio e diede ordine che la non fosse più ammessa a corte, ciò che desolò mastro Jacob.

Quando Bruto mise il piede nella sala di questa bella e giovine creatura, la si era assopita, col viso pallidissimo sprofondato fra le trine de' suoi guanciali. L'Antony di Dumas, che stava leggendo, le era caduto di mano ed il suo bel braccio pendeva inerte.

Un respiro caldo e convulso sprigionavasi dalle sue labbra, scolorate adesso e contratte involontariamente dal dolore forse, dal cordoglio senza dubbio. Alcune goccioline di sudore offuscavano la fronte bianca e chiara. Le sue pupille si schiudevano un passaggio attraverso le ciglia, non ben serrate; ma la non vedeva punto; sognava. La sua mano sinistra si afferrava violentemente alla sua veste da camera di casimiro bianco.

Quando Lisa annunziò il dottore, Cecilia si risvegliò di soprassalto e raccomodò subitamente l'accappatoio mezz'aperto sopra il suo bel seno ignudo. Cecilia bruciava dalla febbre e Bruto arrivava mal a proposito per varie ragioni. La prima era questa: Cecilia erasi opposta alla proposta di farlo chiamare.

Non rispose, quindi, al saluto rispettoso del dottore e disse a Lisa:

- Alzami un poco e aggiusta i guanciali.

Non guardò Bruto, che prese da sè una sedia e sedette.

- Voi dovete trovare, signorina, diss'egli dopo alcuni istanti di un imbarazzante silenzio, voi dovete trovare che la mia condotta verso il dottor Tibia è stata poco delicata e che la mia presenza qui è una intrusione.

- Infatti, è vero, rispose Cecilia, guardandolo per la prima volta in modo sdegnoso.

- Avete ragione, replicò Bruto. Ho esitato lungamente avanti di decidermi a venire. Non già pel dottore che è un malfattore patentato; non a causa dell'opinione sfavorevole che doveva naturalmente precedermi qui; ma per me stesso. Io non era contento di me.

- Perchè siete venuto allora? Perocchè io non vi dissimulo punto che è stato mio padre che vi ha fatto chiamare.

- Perchè sono venuto? Un altro vi direbbe forse: per un sentimento d'umanità. Io vi dico colla sincerità di cui mi date l'esempio: per un istinto equivoco, per curiosità, - curiosità di uomo, che è cattiva, curiosità scientifica, che è nobile.

- Ora che avete soddisfatta la curiosità cattiva, addio, signore.

E, dicendo così, la si volse verso il muro.

- Signorina, se avessi saputo che era il conte e non voi che mi chiamava, non sarei venuto. La medicina non è che un giuoco di magnetismo. Quando il medico è antipatico, le ricette più sapienti sono impotenti. Dopo il congedo sommario che mi fate l'onore di gettarmi in pieno viso, nessuna ragione mi giustificherebbe dinanzi agli occhi miei, se restassi un minuto di più.

Bruto si alzò. Cecilia si rivolse con veemenza e sclamò:

- Ma, alla fin fine, cosa si vuole da me? non sarei io neppur libera di morire, di uccidermi, di lasciarmi uccidere? So benissimo che quell'idiota di Tibia mi assassina e lo conservo espressamente per questo. Siete soddisfatto, ora?

- Non è solamente il corpo, allora che avete ammalato, signorina; il vostro spirito è ancor più sofferente; o meglio, voi avete una ferita al cuore che sanguina.

- Al cuore? che facezia! Ascoltate questo, signore: io aveva dodici anni quando madama Ilemas, la maestra di francese della mia scuola, mi disse: "Cara figliuola mia, la felicità della vita d'una donna si riassume in una certa dose di atrofia, più o meno grande del suo cuore: più la donna sopprime di questo organo malefico e più ella è felice." Da allora in poi non ho mai saputo se il posto del cuore sia a dritta o a mancina; se sta nei miei stivaletti, o nel mio petto.

- Voi vi calunniate con compiacenza, signorina. Non si confessano di queste cose, quando le sono vere.

- Ho la febbre, ecco tutto. Non val la pena che mio padre s'inquieti e disturbi la gente. Tibia è sufficiente per quello che ha da fare. Non è mestieri mettersi in due per uccidere una donna.

- Se è un suicidio che meditate, uno solo è anche di troppo, avete ragione, ed il mio posto non è qui.

- Un complice v'imbarazza, dunque? disse Cecilia provando di sorridere.

- La vittima mi fa pietà.

- Diffido di questa parola pietà. Nella bocca di un prete la sopporto già con impazienza; in quella di un medico la è un oltraggio. Contentatevi della bugia della scienza, signor dottore.

- Credete, dunque, signorina, che un uomo a ventiquattr'anni possa veder morire una bella creatura di venti, senza provare nessuna emozione?

- Ma gli è a quell'età, appunto, che l'uomo è omicida. Che età aveva il signor Lauzun? Che età il duca di Richelieu? E don Giovanni? Che età ha l'Antony cui leggo in questo momento?

- Signorina, io sono molto ignorante della scienza del cuore. Può essere ch'esso abbia degli impulsi sinistri, dei movimenti spaventevoli e feroci al morale; io non ho studiato il cuore che nelle sue sofferenze materiali. Altri più fortunati nel piacervi, intraprenderanno questa doppia guarigione, del vostro cuore e della vostra salute sì duramente compromessa. Io, per me, mi ritiro, profondamente scosso da questa memoria di un'anima ammalata. Perchè mai sappiamo noi così poco!

- Il dottor Tibia non dice punto così.

- Egli è fortunato di credere nella sua scienza e che il chinino guarisca tutte le malattie, anche quelle d'amore.

- Ma la è un'impertinenza, signore! Chi vi autorizza a credere che io ami?

- Non si nascondono lungamente le ferite, signorina. Arriva sempre un istante in cui il morale è vinto dal fisico. Tutto ciò che è stato detto e scritto in contrario, a proposito degli eroi e dei martiri, è poesia, o vanteria. Voi, del resto, sapete che siete ammalata ed io lo vedo chiaramente.

- E che cosa ho allora?

Bruto restò un momento a riflettere, poi mormorò:

- Povera figliuola!

- Voi dite? replicò Cecilia sollevandosi sul suo gomito.

- Noi abbiamo, signorina, dei nomi greci per le malattie. Siccome voi probabilmente non sapete il greco, ed io non arriverei mai a tradurre questa parola in un italiano conveniente, vi fo grazia del nome. D'altronde non aspiro a prestarvi le mie cure. Cercar di guarirvi, gli è uccidervi.

- Giuocate, dunque, agli enigmi, dottore?

- Io non giuoco di nulla, signorina. Non son mica poi ancora tanto incallito nel mestiere per vedere in una bella giovane, come voi, semplicemente una sorgente di lucro pel mio bilancio di rendite.

- Vi fo grazia del vostro disinteresse, dottore. Non siete stato chiamato per questo, credo. Voglio tenermi altresì Tibia e seguire i suoi consigli; ma voglio avere la coscienza di ciò che fo. Ora agisco per istinto; quando m'avrete detto che v'è un mezzo per salvarmi, sarò contenta di me stessa e della risoluzione che sarò per prendere.

- Sia pure, disse Bruto: ecco il mio consiglio. Se persistete nell'idea di suicidio, continuate a prendere le tisane che vi vengono prescritte, continuate ad indebolirvi, ad avvelenarvi, aggiungete combustibile alla fiamma interna che già v'invade. Se volete vivere, non fate più nulla, nulla alla lettera. L'incendio, che già divampa, si estinguerà forse da sè solo. La natura riprenderà i suoi diritti; la gioventù è benefica nelle sue influenze e l'avvenire dirà la sua ultima parola.

Cecilia si sciolse in lagrime ed esclamò:

- Andate via, andate via! non voglio più veder nessuno.

- Vivete, signorina, disse Bruto commosso. Basta il male che ci viene da Dio; non aggiungiamone colle nostre mani.

Ed uscì. Il vecchio domestico del conte, che lo aspettava nell'anticamera, lo pregò di passare dal padrone, che desiderava di parlargli.

Bruto entrò nello studio.

- Ebbene! chiese il conte poco ansioso della sorte di sua figlia, ma squadrando da capo a piedi il giovine dottore.

- Signor conte, rispose Bruto, sedendo sopra un divano, come vuole che io le parli?

- Come?

- Sì; mi è indispensabile il saperlo.

- In italiano, per bacco, rispose don Ruitz, a meno che non preferiate il tedesco.

- No, no, amo meglio l'italiano, che è più preciso. Ella desidera, dunque, di conoscere la malattia di sua figlia?

- Mi pare che, quando si chiama un medico, la sia una curiosità(9) permessa.

- E se fosse un'indiscrezione?

- Capisco. Per un marito, per un amante, per uno straniero, ci potrebbe essere indiscrezione in certi casi.

- Il dottore Tibia non le ha, dunque, detto nulla?

- Credo di non averlo ancor veduto. È Lisa, la cameriera, che mi ha parlato della malattia di mia figlia. La povera fanciulla non voleva affliggermi.... capite?

- Perfettamente.

- Dunque, che cosa ha quella cara piccina?

- Una grave disgrazia, più che una grave malattia, signore; la è incinta.

- Avrei dovuto aspettarmelo! disse il conte con voce sommessa, ma non turbata.

- Si è tentato di riparare a questa sventura.

- E si è riusciti? chiese il conte vivamente.

- La natura ha resistito. Sua figlia si vuole uccidere.

- È ciò che avrebbe di meglio a fare; l'è il seguito il più logico di questa sorte di scappucci.

- Non intendo nulla di codesti seguiti logici. E siccome io non sono un carnefice nè un assassino, ho detto la mia opinione e mi ritiro.

- Voi non vi ritirerete, signore, disse il conte con aria risoluta.

- Anzitutto la signorina mi ha congedato, signor conte; ma, m'avesse ella anche pregato di prestarle le mie cure, avrei rifiutato; io non presto la mia mano e la scienza a simili opere.

- Qual, è dunque, il vostro consiglio, signore?

- Arrestarsi sulla via intrapresa e lasciar operare la natura.

- Non corre pericolo per ora?

- Le sono stati dati dei rimedi violenti, che hanno cagionato indubbiamente un principio d'infiammazione. Forse ciò svanirà da sè; ma sarebbe meglio venire in aiuto alla natura con dei calmanti e dei rinfrescanti.

- Io scaccio il dottor Tibia, signore. Continuate a prestar le vostre cure a mia figlia.

- Non posso. Ho la disgrazia di non andarle a genio; e, le ripeto, mi ha congedato.

- E se fosse lei che vi richiamasse?

- Rifletterei, rispose Bruto alzandosi e salutando in atto di partire.

Il conte l'accompagnò fino alla porta e gli disse:

- Dottore, sapreste dirmi qual è la prima virtù d'un medico?

- La discrezione, rispose Bruto ed uscì.

- Grazie! gli gridò il conte.

CAPITOLO II. Il guappo.

Il nome e la cosa sono stati importati a Napoli dagli Spagnuoli, al tempo del loro lungo dominio. Il guappo è qualcosa meno dello spadaccino, qualcosa più del rodomonte; non ha il coraggio a tutte prove del primo; fa molto più del secondo e vantasi quanto lui. C'è il guappo del popolo, il guappo borghese, il guappo nobile. Il primo è innocente, il secondo volgare, il terzo rappresenta una parte. Fa parata.

Il marchese di Diano era un guappo, ma soltanto da un anno a questa parte. Aveva fino allora vissuto con suo padre, se non da santo, almeno da gentiluomo onorato, con una inclinazione pronunciata per lo sport e pel turf. Un duello uccise la sua carriera.

Aveva allora ventisei anni.

A venti era uscito dal collegio dei nobili, tenuto dai gesuiti, rimpinzato di latino che non capiva, di greco che non sapeva più leggere, d'italiano che era del dialetto napoletano, di una filosofia che, essendo quella del padre Storkenau, non era nulla di nulla, e di tanta teologia quanta bastava per poter bestemmiare con brio ed eleganza. Il maestro di scherma aveva compita l'educazione e sviluppato i suoi corollari. L'uovo era fecondato, un colpo di sole lo fece schiudere.

Il marchese aveva l'abitudine di rientrare alle tre del mattino, di coricarsi alle quattro e di alzarsi alle quattro dopo mezzogiorno. La sua giornata propriamente detta incominciava alle due del dopo pranzo, quando il suo tigre gli portava da asciolvere a letto.

Una sera il marchese rientrò un po' brillo: il tigre, che dormiva nell'anticamera, non gli aprì la porta abbastanza presto. Il marchese lo fe' ruzzolar dalla scala come una palla; ed, arrivato giù, quel cattivo birbo ebbe la malizia di trovarsi con una gamba rotta ed un braccio slogato. Il marchese, che gli aveva chiuso l'uscio dietro, non s'era brigato di sapere ciò che potesse divenire un groom che rotola sopra un piano inclinato. Il domani, non ricordandosi più di nulla, maravigliava che il ragazzo non arrivasse a due ore col suo vassoio e colla sua colazione. Ora, avendo fame, si alzò per amministrargli una correzione che potesse sviluppare in lui l'organo dell'esattezza, sì necessaria per quel felice mortale che si dà alla carriera del servitore. Grog, - egli lo chiamava così - non era lì. Il marchese pensò che quel bellimbusto si fosse addormentato in una delle sue pantofole ed aperse le cortine sbadigliando.

La finestra dava sul giardino, affatto solitario, dietro il quale passava una strada deserta. Aprì la finestra; la giornata era magnifica, le farfalle svolazzavano sopra i fiori, dorati dal sole, sotto un cielo limpidissimo: e.... ad un tratto udì il rumore di una carrozza.

- In questa Tebaide?

- Sì, signor marchese.

- E chi può essere la creatura perduta in queste latitudini?

- Il signor marchese può guardare.

E il signor marchese guardò.

La vettura si fermò dietro al muro del giardino, proprio in faccia a lui. Egli non poteva vedere perchè il muro era troppo alto, ma poteva udire.

- Che fortuna, marchese! Ecco che cosa vuol dire levarsi di buon'ora!

Ed il signor marchese da quel giorno si alzò ad un'ora e mezzo; e fece bene. - Perchè? perchè.... lo vedrete.

Stette attento e vide aprirsi una porticina nascosta fra l'edera; una donna profondamente velata passò per quell'apertura, chiuse la porta, attraversò l'angolo del giardino, che era protetto dai raggi del sole da un fitto pergolato, ascese la scala a chiocciola, che metteva in immediata comunicazione il giardino e l'appartamento del conte Ruitz de Llamanda, e penetrò nell'appartamento di questo degno gentiluomo.

- Gran Dio! sclamò il marchese. Quel brutto pulcinella, imbacuccato in capelli da spiga da grano turco, si regalerebbe ancora buone fortune!

- Scusi, signor marchese, ella s'inganna, e calunnia un onesto cittadino della grande patria alemanna. Il conte Ruitz è artista. Non fa ancora delle statue, ma fa dei busti. È vero che lavora poco, pochissimo, quasi mai, o giammai se le aggrada; ma guardi un po' nel suo studio.... Eh! che ne dice? Convenga che quel busto del maggiore è vigorosamente modellato e quello della contessa russa è un capolavoro.

Infatti il conte lavorava di conserva quei due busti; e riceveva, come è d'uso, di tanto in tanto i due proprietari di quelle sembianze, l'uno per la porta di casa e l'altra per quella del giardino e del balcone. Era un bizzarria. Ma il conte ne aveva a bizzeffe delle bizzarrie.

Il marchese, infrattanto, che non restava a casa se non per dormire, non conosceva alcuno di questi particolari ed il suo vecchio padre, inchiodato dalla gotta su un seggiolone, ne sapeva ancor meno di lui.

Ma, a ventisei anni, un allievo dei gesuiti è curioso come qualunque altro delle donne velate. Il marchese si alzò il domani alle due meno un quarto. Suonano le due, le tre.... la dama velata non si vede.

- Che diavolo!... Andiamo fuori. Che mi sia alzato troppo tardi?

Al domani il marchese si alzò a un'ora. Attese fino alle tre. Tanto di dama che del gran turco!

- Era un uccello di passaggio. Non ci pensiamo più. No. Ancora una volta.

Ed il terzo giorno, il marchese si alzò a un'ora e mezzo, ed, in camicia e senza veste da camera, si pose alla finestra.

Un rumore di carrozza! eccola; si ferma alla porta del giardino. La donna velata entra; traversa il pergolato, ascende la scala a chiocciola; è nell'appartamento del conte.

- Eh! se andassi a far visita a questo animale di mio vicino? È il meno che si possa fare per un conte che custodisce i canarini della regina, los canarios de la reyna! Diavolo! gli è ch'e' sono degni di stima, i canarini di quel birbo lì.

Mezz'ora dopo il marchese di Diano si faceva annunziare dal conte Ruitz de Llamanda, ma.... la signora non c'è.... Dove diamine la è passata?

- Benissimo, disse il marchese, tenteremo un altro mezzo.

Il domani la donna velata non venne. Il giorno dopo, siccome essa poteva venire, il marchese si levò a mezzodì, prese una carrozza, si appostò al lato opposto della via per dove la carrozza doveva passare, abbassò le tendinelle ed attese. Alle due un grazioso coupè color castagno oscuro apparve dall'altra parte e si fermò alla porticina del giardino. Il cocchiere, imbacuccato in una livrea nera orlata di giallo, non si mosse dalla serpa. La dama aprì lo sportello da sè, discese, lo richiuse, toccò in una certa maniera particolare un bottone della porta, che si aprì, ed eccola scomparsa. Il cocchiere voltò la testa del cavallo ed attese.

Attese fino alle quattro ed il marchese altresì. Poi la porta del giardino si aperse. Il conte, tenendo il suo berretto greco alla mano, schiuse lo sportello, la dama entrò nel coupè, il conte richiuse e via. Il marchese ordinò al suo cocchiere di seguire....

La corsa non fu lunga. All'estremità del vicolo, la vettura volse a dritta e disparve in un cortile o meglio dietro una porta, che le si chiuse dietro sull'atto.

- Cos'è quella porta, cocchiere?

- Eccellenza, non ne so nulla. Non conosco il quartiere.

- Sei un imbecille. Prendi e va a farti impiccare.

- Grazie, eccellenza.

Il cocchiere partì. Il marchese restò nella strada col naso in aria,

- Dove diavolo sono? si domandò.

Neppur un gatto da cui prender lingua.... Ma aspettate: passa un monaco, che non sa nulla; un mendicante, che ne sa altrettanto. Passa una vecchia, che è sorda; un prete, che non risponde. Sei ore! Chi diavolo può ormai passare a quest'ora? Ah! zitto, ecco il lampionaro; se costui non sa nulla, mi strangolo!

Il lampionaro! il lampionaro che fa il servizio di questa strada da vent'anni, non saperne nulla! - Marchese, per chi lo prendete mai? interrogatelo.

- Questa porta, eccellenza? Ma la è una delle porte del convento dei Miracoli.

Ma era così semplice, dunque? O uovo di Cristoforo Colombo!

- Sta bene, pensò il marchese; abbiamo il punto di partenza ed il punto d'arrivo.

Due giorni dopo, il marchese attendeva a quella porta, che il lampionaro aveva detto appartenere al convento dei Miracoli. Alle due meno cinque minuti la porta s'apre, e la carrozza esce.

- Buon viaggio, so dove vai.

La vide, infatti, alla porta del giardino.

- Ora pensiamo alla dama, disse a sè stesso il marchese, domandandosi come mai le sante donne, che danno l'educazione cristiana alle figliuole dell'aristocrazia napoletana, possano andar a servire di modello, o a prender delle lezioni di scultura.

Passò per la piazza, ove si apre la porta principale della casa reale d'educazione per le fanciulle nobili, e vide l'equipaggio della regina madre Urraca, che andava spesso a visitare il convento.

- Povera divota regina! sclamò il marchese; se tu sapessi che tu proteggi di simili persone! Se tu sapessi che, mentre esamini codeste giovanette per assicurarti che esse seguono la via ortodossa, una delle pecorelle se la chiacchiera bello o meglio con un vecchio lupo! Ma sta tranquilla, sniderò codesto uccello, che non si contenta del suo nido.

Due giorni dopo il marchese per la via solitaria si trovò appunto sulla porta del giardino quando la carrozza si fermò. Da compito gentiluomo, vedendo una dama che si dava la pena di aprire ella stessa lo sportello della sua carrozza, s'affrettò a renderle questo piccolo servizio; da cavaliere napolitano le offrì il braccio per accompagnarla.

Ora, siccome la dama non accetta nè la mano nè il braccio e sembra malcontenta della presenza di quell'importuno, il marchese s'impuntiglia al giuoco e si accolla dinanzi alla porta. Poi, siccome la donna gli fa un segno impetuoso di allontanarsi, il marchese diviene rosso di collera, calca le orme della dama nel giardino, le tiene dietro sotto il pergolato, ascende con lei la scala a spira, dà con lei la scalata al balcone del conte e si trova faccia a faccia con un Maggiore svizzero.

La dama fa un segno e sparisce dietro la portiera di velluto dello studio. Il Maggiore, rosso come un gambero cotto, sclama:

- Chi siete voi? Cosa volete?

- Vi dirò il mio nome altrove, se può farvi piacere; pel momento, voglio parlare a quella dama.

Il Maggiore misura uno schiaffo, che parato a tempo dal marchese, va a cadere sulla faccia del conte, mentre l'aggressore ne riceve uno a sua volta formidabile. All'indomani il marchese ed il Maggiore si battevano alla spada. Questo bell'uomo, ch'era venuto a sostenere il trono dei borboni a 250 franchi il mese, non doveva più, poveretto! udire il ranz des vaches(10) delle sue montagne.

Non si uccideva allora un bell'uomo a Napoli, così sicuramente come vi si poteva uccidere un carbonaro, quand'anche fosse un repubblicano.... svizzero. Il marchese fu obbligato a nascondersi. Suo padre pregò il conte di Llamanda d'implorare dalla regina che ottenesse la grazia di suo figlio. L'eccellente regina Urraca fu commossa dal dolore di quel vecchio, dalle preghiere del custode de' suoi canarini, dalla causa del duello; il re, che doveva avere qualche riguardo per sua madre, si rabbonì, piegò e finì col far grazia. Il marchese andò a ringraziare il re e la regina madre.

Da quel giorno abbandonò la casa paterna, prese in affitto un piccolo appartamento del palazzo Sirignano, a Fontana Medina, e divenne guappo. Chi avrebbe osato litigare con lui, che aveva ucciso un sì grosso selvaggiume e che aveva provato di aver tanto favore a corte, colla grazia ottenuta?

Nella cucina del suo appartamento tutti i sorci della casa andavano a dare delle feste da ballo. Grog, che dopo la piccola disgrazia toccata nella sua discesa accelerata, aveva avuto l'ambizione di avanzare di grado, riceveva le sue relazioni nella sala da pranzo. I ragni si erano impadroniti della sala di ricevimento.... Le altre due stanze soltanto restavano per uso del marchese.

Nel piccolo gabinetto e nella stanza da letto regnava e governava, quindi, il massimo disordine.

Gli stivali erano sul canapè, gli abiti per terra o sulle sedie. Sopra un armadio stava un utensile, che per solito si tiene nascosto in un piccolo mobile vicino al letto. Il marchese lo nascondeva, a dire il vero, sotto un volume di Paul de Kock, preso a prestito dal vicino gabinetto di lettura.

Le pipe, i sigari erano misti, sul tavolo, alle lettere, a' bigliettini profumati, di differenti colori. Qua e là differenti pistole, dei biglietti di visita, delle scarpine da ballo, i pazienti conti del sarto e del calzolaio, delle cravatte, delle spille e degli anelli, dell'acqua antiemorragica del Binelli, delle filaccie, dei taffetà, dello sparadrappo, dei fiori appassiti, delle fotografie di donne, degli speroni e degli scudisci, delle pomate, dell'acqua di odore, delle pastiglie, della polvere dentifricia, delle spazzole ed un berretto turco.

Davanti il letto una pelle di lupo ed una veste da camera meglio appariscente che ricca; le cortine del letto bruciate in diversi siti dal sigaro; le coperte tutte strapazzate. I muri zebrati di sciabole, stocchi, pistole, fucili, fioretti, d'uno scudo romano, - che il signor Quaranta assicurava essere la non bene relicta famula, di Orazio, quando fuggì dal campo di battaglia di Farsaglia, - d'una mazza d'arme del medio evo, - che il marchese giurava aver appartenuto a Riccardo Cuor di Leone dacchè aveva letto in un romanzo le prodezze di quel re inglese, - d'una corazza di maglia, d'un elmo da pompiere, - battezzato dal marchese come elmo del Tancredi del Tasso, - d'una corazza ed altri oggetti d'armatura del medio evo, d'un uniforme verde di guardia urbana.

Sulla teletta finalmente si vedeva una piastra di rame che veniva da un berrettone da granatiere, morto, - pretendeva il marchese, - a Ulma; un guanto che aveva appartenuto alla Colbrand, un mazzolino di fiori appassiti della Pasta, una pantofola della Taglioni, e il "se il padre m'abbandona" dell'Otello, scritto dalla mano di Rossini.

Non parlo dei pettini, dei solini, del calamaio e delle penne, d'un sonetto principiato e lasciato lì dopo la prima quartina....

In mezzo a questa farragine di cose, il marchese stava ritto come la colonna di Trajano. Moralmente parlando, bene inteso, poichè fisicamente, senza essere di piccola statura, il marchese non era molto grande.... Non era nè grasso nè magro, ma ben proporzionato, solido e muscoloso.

Portava la barba intiera: una bella barba, nera come i suoi capelli ed i suoi occhi. Se non seguiva esattamente la moda, talvolta la precedeva. Del resto elegante ma semplice, vestendosi sempre in Inghilterra da Davis, da Waterloo Place, che non toccò mai un soldo delle sue fatture. Il suo panciotto aveva sempre qualche bottone allacciato per isghembo; portava sempre un bastone armato, dei guanti gialli, i capelli un po' arruffati ed il cappello sull'orecchio destro. Il marchese non parlava mai l'italiano, ma il dialetto napoletano, di cui conosceva tutte le finezze un po' leste e gli scherzi poco puliti. Gesticolava molto ed energicamente. Fumava, giuocava e dava del tu a tutti.

Circondato da una massa di sacripanti che gli si dicevano amici, la spacciava da padrone e in mezzo ad essi sputava sentenze e decreti. Era conoscitore di ragazze, di cavalli, di cani, di ballerine, di cantanti e d'artisti. Con una parola giudicava ciò che poteva esser materia di un'appendice teatrale. Proteggeva tutte le seconde donne dei teatri di musica. Conosceva tutti gli scapestrati della città, gli usurai, i mercanti di cavalli, i dissipatori, i truffatori, quantunque fosse relativamente onesto.

Al caffè chiamava il cameriere dando un colpo di bastone sul tavolo, o gli gettava in faccia ciò che gli aveva chiesto, col piatto e tutto, se non gli andava a genio. A teatro parlava sempre ad alta voce, arrivava tardi e se ne andava prima che finisse, camminando sui piedi dei vicini; guardando con aria ironica i giornalisti, con aria protettrice le donne e con aria di sprezzo il resto del genere umano.

Tale era il marchese di Diano.

Avendo, dunque, ottenuta la grazia di sfuggire ai lavori forzati, in causa del duello, il vecchio principe di Noto, come abbiamo già detto, si trascinò a corte e presentò suo figlio al re perchè lo ringraziasse. Ferdinando II lo rimproverò severamente.

Presentato poscia alla regina madre, il marchese ebbe l'onore di baciarle la mano, dopo ch'ella gli ebbe ricordato dolcemente che una donna velata dev'essere rispettata e che la collera, che fa mettere le mani nel sangue, non è aggradevole al Signore.

Il conte di Llamanda era là a dar da mangiare ai canarini. Tutto ciò era naturale. Il re aveva fatto grazia non potendo rifiutarla alla regina; la regina l'aveva chiesta commossa dalle lagrime del principe di Noto, vecchio servitore dei Borboni; il re si era mostrato severo, da guerriero qual era, la regina si era mostrata buona e dolce cattolica.

Ma ciò che vi ebbe di più curioso si fu che il conte di Ruitz, che avrebbe dovuto essere in una gran collera, restò amico del marchese, al punto che questi andò, da quel momento, spesso a visitarlo ed in un ballo in cui s'incontrarono, egli lo presentò a sua figlia.

E la donna velata? chiederà il lettore.

La donna velata continuò le sue sedute, pel busto, dal conte, come se un valoroso figlio della Svizzera non si fosse fatto uccidere per essa: anzi le continuò più regolarmente e più spesso di prima.

In quanto al marchese di Diano, da che era stato presentato a miss Cecilia, siccome era molto distratto, sbagliò spesso d'appartamento ed invece di andare a trovare il padre andò a chiacchierare colla figlia.

Le visite al padre divennero anzi sempre più rare di settimana in settimana; quelle alla figlia più frequenti; ma col tempo neglesse le une e le altre; e, da un mese, aveva cessato ogni relazione con tutti e due.

Bruto osservò più tardi che questo abbandono del marchese coincideva colla scomparsa della figlia del colonnello Colini.

La donna velata restò fedele. Quel diavolo di busto non finiva mai; credo anzi che non fu mai finito.

Tutto ciò ha un aspetto equivoco, direte voi. Andiamo, dunque, dal conte per cercar di averne il bandolo. Egli è, appunto, nella camera di sua figlia.

CAPITOLO III. Il seguito del conte Ruitz de Llamanda.

Facciamo un passo indietro.

Quando la donna velata aveva sorpreso Bruto nello studio del conte, si era ritirata, guardandolo a tre riprese. La prima parola, che aveva detto al conte, quando la cortina fu ricaduta, era stata:

- Ebbene?

- Nessuna notizia, signora, rispose il conte, inchinandosi umilmente, ma ne avremo. Ho messo sulle sue traccie un certo Fuina, il più astuto bravo della nostra polizia.

La donna sospirò ed aggiunse:

- Sopratutto che non si facciano scandali. Chi è quel giovane che era qui poco fa?

- Un medico, signora, un provinciale. Non c'è nulla da temere.

- Ha una faccia onesta. Lasciatemi; vado a riposarmi un poco.

Non so quale idea traversò lo spirito del conte. Il suo viso si rasserenò.

Il dottor Tibia fu ringraziato, ma il domani Bruto non venne, quantunque il conte l'avesse fatto chiamare dal suo servitore.

Gli scrisse allora che chiedeva di lui, non per sua figlia, ma per sè stesso e che il dispiacere gli aveva causato uno spargimento di bile.

Lo pregava di venire per avere un consulto con uno dei suoi colleghi.

Bruto non aveva nulla da opporre; la sua suscettibilità di professione non aveva nulla a dire. Arrivò all'ora fissata; ma il suo collega, non essendo ancor giunto, dovette aspettarlo. Bruto evitò ogni allusione verso la signora Cecilia e s'informò della salute del conte, che non pareva visibilmente alterata.

Suonano le due, passano ancora alcuni minuti, la finestra, che dà sulla scala a chiocciola, si apre, entra una donna velata, e sorpresa come la prima volta di quell'incontro e dopo aver avvolto Bruto nei suoi sguardi, traversa lo studio e sparisce dietro la cortina di velluto, accompagnata dal conte, col berretto alla mano.

- Il vostro bracco vi ha appreso qualche cosa?

- Sì, signora.

- Cosa, dunque? come siete lungo!

- Il marchese ha rapito una modista ed è sparito con essa.

- Sparito! Si può forse sparire da Napoli?

- Sparito, signora, svaporato, senza lasciar traccia alcuna.

- Benissimo; lasciamo tutto ciò. M'ero già rassegnata. Quest'uomo è morto, Ruitz.

Il conte s'inchinò fino a terra.

- Ma quel medico che cosa vuol dire? Siete forse ammalato?

- No, signora, è mia figlia.

- Ah! quel dottore ha una fisonomia interessante, farà carriera.

- Lo credo, signora, tanto più ch'egli è altrettanto dotto, quanto è discreto e delicato.

- Fate ben curare vostra figlia, Ruitz, pagherò io le visite del suo medico.

- Quanta bontà, signora, disse il conte salutando di nuovo fino a terra.

- Andate.

Il conte uscì. Prese Bruto per la mano e gli disse:

- Venite.

Arrivato all'appartamento di Cecilia, il conte chiamò Lisa.

- Annunzia alla tua padrona che il dottor Bruto ed io le chiediamo se può riceverci. Sono io che conduco il dottore. Intendi, Lisa?

- Perfettamente, signor conte.

Due minuti dopo, il conte ed il medico erano ricevuti: Cecilia era a letto. Aveva la febbre. Il conte aveva preceduto Bruto, che restò ritto ai piedi del letto, salutando molto freddamente e senza aprir bocca. Finalmente la ragazza parlò al dottore della sua malattia; avanzò il braccio per farsi tastare il polso e si lamentò. Bruto, serio, rispondendo per monosillabi, disse che l'infiammazione si sviluppava, che le pareva urgente di combatterla e scrisse una ricetta.

- Venite a vederla questa sera, disse il conte.

- Non mi pare necessario, osservò Bruto.

- Lo voglio, rispose il conte. Ve ne prego, dottore.

- Lo desidero anch'io, mormorò Cecilia sotto lo sguardo di suo padre.

- Questa sera la febbre avrà ceduto, disse Bruto, il medico della signorina provvederà domani.

- Il medico della signorina siete voi, signore. Ne ho abbastanza di quegli asini, che la uccidevano. Non voglio che il mondo dica che io sono stato loro complice. Le circostanze della malattia sono tali che giustificherebbero forse l'accusa. Dovete comprendermi tutti e due.

- Ve ne prego, dottore, disse Cecilia come se avesse una scossa elettrica dalle parole di suo padre. Vi chieggo scusa. La febbre è una mezza pazzia.

Bruto salutò e parti.

Ritornò alla sera.

Il conte l'accompagnò, assistette alla visita e constatò che sua figlia andava un po' meglio. Il dottore partito, fece segno a Lisa di uscire, e restò solo colla ragazza.

Questo signor Ruitz era un uomo fatto di diversi pezzi, un carattere diviso a compartimenti. Custode di canarini a corte; barone nelle anticamere della regina, in mezzo al servidorame; conte in città; artista nel suo appartamento, stava sempre palafreniere dinanzi a sua figlia. Lo si vedeva umile al castello, freddamente creanzato nelle relazioni di società, amabile nel suo studio; ma sua figlia era sicura di trovarlo sempre faceto o brutale.

Ella non ne comprendeva la ragione; ma il conte ne aveva forse una segreta.

Egli credeva, infatti, che Cecilia non fosse sua figlia e aveva avuto il coraggio di farne rimprovero a sua moglie. Ma l'ex-cozinera de la reyna, l'ex-cunadora y fanadora dei principi reali, l'ex-amidonadora(11) de lo cuerpo de la reyna si era limitata a rispondere:

- Osservate la sua testa.

Cecilia, come abbiamo detto, aveva i capelli rossi come mastro Ruitz.

Egli è vero che mastro Ruitz non era il solo, che avesse il capo adornato di quel colore fra il circolo che stava intorno alla regina Carolina; ma non era una buona ragione per sospettare di una donna che dava tale spiegazione al momento di morire. Mastro Ruitz, però, tenne i suoi sospetti e non potè mai guarirne completamente.

L'ex-groom era brutto. Aggiungeva ai suoi capelli rossi degli occhi verdastri; una pelle della bianchezza della calce, sparsa di macchie grigie e butterata ad intervalli; dei denti gialli, spaziati come i merli di una torre; il naso corto che si ribellava contro labbra grosse e azzurrastre.

La statura era piccola. Il corpo meschino alle estremità, grosso nel mezzo; - lasciamo gli altri particolari che ne completano il quadro.

Lisa era partita; il conte passeggiò nella stanza, le mani incrociate dietro il dorso, distratto, canterellando. Una lampada, sotto un globo d'alabastro, rischiarava dolcemente la stanza e addolciva tutti i contorni. Il viso di Cecilia appena sarebbe risaltato dai guanciali se i suoi occhi, dove restava ancora un(12) po' di ondeggiamento, dopo la tempesta della febbre, non ne avessero accusata la presenza.

Essa spiava tutti i movimenti di suo padre, aspettando l'esplosione finale.

- Sarebbe forse vile o atroce, pensava, o semplicemente motteggiatore e saltimbanco? Che cosa escirà da quel fango che ribolle là entro? un pulcinella o un briccone?

Non tardò molto a saperlo.

- Così, dunque, signorina, esclamò Ruitz alla fine, fermandosi dinanzi alla lampada, ti sei lasciata accalappiare, eh? Credevi, dunque, che a quel giuoco non ci fosse che a guadagnare un marchese autentico per marito, o al più, al più di quelle farfalle che si chiamano baci? Sciocca. Io so tutto!

Cecilia non rispose e chiuse gli occhi. Suo padre le faceva orrore.

- Se tu fossi una vera contessa, o semplicemente una rivendugliola di fagioli cotti e di nocciole arrostite al forno, non sarebbe nulla. Si può compromettere benissimo una posizione decisa. Ma compromettere una posizione equivoca, intaccare una riputazione incerta, aggiungere un fallo ad una cosa oscura, mettere la vergogna sull'infamia! ah! ciò è cosa stupida. Cosa diverrai oggi con questa macchia sulla tua bellezza?

- Vi ringrazio di velare il vostro pensiero, padre mio. Non si deve mai aver troppo ragione, disse Cecilia con voce tronca.

Soffocava.

- Se non si trattasse che di te, continuò il conte passeggiando(13) su e giù, passi ancora; avresti aggiunto una scimmia ai tuoi pappagalli. Ma tu fai la caccia sul mio terreno.... Alto là!

- Non vi comprendo punto, padre mio.

- Mi comprenderai. Sai tu chi paga tutto questo lusso che ti circonda?

- Ma la vostra carica alla corte, i canarini della regina, io credo, rispose Cecilia.

- Precisamente i canarini. Come m'hai tu sedotto il mio marchese, eh? Perchè quest'opera non può venire che da lui, se non m'inganno.

Cecilia tacque; ma dei singhiozzi amorosi tradivano il suo silenzio.

- Quante volte mi è venuta la voglia di ucciderlo quella canaglia, esclamò Ruitz. Ne valeva la pena! L'avrei conservato imbalsamato. Dovrò ricominciar da capo ora.

- Mai più, disse Cecila sollevandosi a mezzo sui guanciali.

- Mai più che cosa? rispose il conte, facendo una contorsione che avrebbe voluto essere un sorriso. Credi forse che io vada a preparartelo di nuovo, per presentartelo tutto pentito? È sparito il tuo marchese.

- Dio mio! perchè, dunque, non mi lasciaste morire? disse Cecilia disperata.

- Perchè? perchè ho bisogno di te, perdio! Credi tu che ti avrei aiutata a divenire grande e grossa perchè tu ti prenda il divertimento di frangere i miei arnesi? Credi, forse, che, dopo aver fatta questa bella scappata, non abbia più che d'andartene? Grazie tante. Alla gogna con me, malfattrice. Il dottore ha detto che tu devi morire o che il tuo stato deve avere lo svolgimento ordinario. Ho riflettuto da tre giorni a questa parte. Tu non puoi morire ancora.

- Siete, dunque, felice della mia vergogna?

- La vergogna non macchia nella nostra famiglia, madchen Ruitz! essa alimenta, capisci?

- Padre mio!

- Chiamami: compare e dirai meglio.

- Voi avete qualche cosa di sinistro a dirmi, signore, esclamò Cecilia con voce più ferma; voi non osate farmi una rivelazione; dite alla bella prima il vostro pensiero e chiaramente. Vedrò cosa mi resta da fare.

- In altre circostanze ti avrei fatta partire per Parigi, onde guarirti in qualche stabilimento speciale, e ti avrei fatta ritornare ragazza come prima, dicendo ai curiosi che la tua nonna, la vecchia marchesa di Arbacos Llamanda... - sai di chi parlo! - ti aveva voluto nel suo castello in Ispagna! Ora, invece, ho bisogno di te. Se tu mi fossi inutile, ti avrei abbandonata alle cure del dottor Tibia: eri in buone mani. Ma ora io ti associo ai miei affari.

- Quali affari?

- Ciò non ti concerne punto. Tu non sei che il "compagno" nella società. Il nome principale della ditta è affar mio. Ma il tuo precoce prodotto non entra nei miei conti. Bisogna che io lo sconti sotto altro nome. Non mi comprendi?

- Non oso comprendervi.

- Grazie della modestia! Ti lascio, dunque il tempo di abituarti a questa audacia e di osar comprendere. Per aiutarti, mi spiego più chiaro. Fra pochi mesi, tutti i fannulloni e le pettegole di Napoli osserveranno che la tua taglia non è più della flessibilità normale. Fra alcuni mesi ci sarà un bamboccio di più in famiglia. Se quella sporca e stupida cosa, che si chiama la polizia, non avesse gli occhi aperti, potremmo farne un bucato a tempo e luogo ed il diavolo è un buon sensale. Ma questo modo di salvar la virtù compromessa ci condurrebbe davanti ad una corte criminale. Bisogna, dunque, trovare un padre. La è tradizione di famiglia: trovare un padre! Ciò è affar mio. Ti risparmio la fatica di cercarlo.

Cecilia ricadde sui suoi guanciali e nascose il suo viso piangendo. Ruitz continuò a passeggiare convulsivamente, poi soggiunse:

- Se non si trattasse unicamente che dell'onore, siamo abbastanza in fondo, gioia mia, per ridere di questo scherzo. Ma abbiamo degli altri gatti da pelare. Pel momento lasciati guarire da quel puntiglioso provincialotto, che rassomiglia ad un bove che arrossisce delle proprie corna! quando sarai guarita non ti chiederò cosa dovremo fare. Gli avvenimenti maturano da sè come le nespole.

Mastro Ruitz non attese la risposta ed uscì.

CAPITOLO IV. Due fortune che ne fanno una sola.

Scorse una settimana.

Cecila aveva traversato delle crisi abbastanza forti, ma da due giorni era sulla via della guarigione. Non s'era mai piegata nella sua alterezza verso Bruto, quantunque questi l'avesse curata con un'emozione piena di compassione. Ma egli aveva, d'altra parte, conquistato le simpatie del conte, che gli aveva procurato due clienti fra la gente di corte e a cui la regina pagava le ricette e le visite; gli aveva fatto intravedere un brillante avvenire e gli aveva perfino parlato un po' dei suoi affari.

Si era degnato di mostrargli il busto schizzato della dama velata, - favore che non aveva accordato a nessuno, diceva egli. La dama velata, che voleva che il suo busto fosse finito il più presto possibile, a quanto pare, moltiplicava le sue visite; veniva ora quasi quotidianamente.

Un giorno essa fece chiedere a Bruto un rimedio contro l'emicrania. Bruto rispose ridendo:

- Un marito. Boheraave ha detto: Fœmina quidquid est, propter uterum est.

- Scrivete la ricetta, dottore, rispose il conte ridendo alla sua volta ed indicatemi il farmacista che la fornisce.

Portò la risposta alla dama, che se ne compiacque come del frutto dell'albero della scienza.

Una settimana dopo, Cecilia si era alzata. Allora il conte invitò Bruto a pranzo con sè e la figlia, un pranzo di convalescenza, servito nell'appartamento di Cecilia, il primo che il conte facesse con lei dopo la sua malattia. Bruto non aveva nessuna ragione per rifiutare.

Si era nel novembre, dalle giornate corte e piovose. La tristezza stava nel cielo e nei cuori. A sei ore scendeva la notte. I tre convitati sedettero a tavola nel gabinetto di Cecilia.

Avviluppata in una veste da camera di casimir bianco, imbottita di seta color di rosa, la testa ricoperta da una cuffia di trina molto leggiadra, la vita stretta da un cordone di tela nero e oro, quella ragazza era vezzosissima. Il suo pallore risplendeva. I suoi capelli erano ricoperti da una rete, che stentava a tenerli tutti e lasciava sfuggire alcuni ricci ribelli che scendevano sul collo. Il languore dei suoi occhi era inebbriante.

Cecilia non mangiò quasi niente. Il conte mangiò e bevette per due. E Bruto, quantunque fosse in estasi dinanzi alle mani, alla posa, all'insieme della giovine convalescente, tenne testa perfettamente al conte.

Finito il pranzo, si andò a prendere il caffè nella stanza di Cecilia, intanto che si sparecchiava nel gabinetto. Poi, siccome essa era un po' stanca, il conte ed il dottore vi ritornarono soli per fumare, prendere il thè e conversare. Il vino di sciampagna rendeva il conte molto loquace, a quanto asseriva egli stesso. Il fatto sta che Bruto si sentiva tutto intenerito, sorrideva al genere umano con aria di protezione; avrebbe sporto la mano ad una tigre per augurarle il buon giorno. L'universo non aveva che delle pose, una bocca, delle pupille, come quelle di Cecilia. Messer Bruto aveva lo sciampagna umanitario senza saperlo; poichè era, m'immagino, la prima volta che ne beveva. Il conte, pure, pareva tenero e pieno di buoni sentimenti.

- Siete voi ricco, dottore? chiese egli con voce accarezzante.

- Eh! eh! rispose Bruto con aria un po' sbalordita, non ne so nulla, ma credo che quel gruzzolo di scudi, che mi ha lasciato don Noè mio zio, tocchi il fondo. Don Gabriele mi ha detto qualche cosa a questo proposito, la settimana scorsa.

- Prima di tutto, chi è questo don Gabriele? Non mi piacciono i nomi proprii sospesi in aria, senza genealogia nè qualifica.

- Don Gabriele? non è un uomo di cui si possano dare i connotati in succinto, come per un passaporto. Se parlassi fino a domani, ancora non vi direi ciò ch'egli è. In cinque minuti egli è Carlomagno, Pulcinella, Colombina, la Regina, Berta, il guappo ed il frate, il brigante e la provvidenza. È turco, ma eccolo poi crociato, poi eremita, inglese, francese, svizzero e, sopratutto, napoletano burlone! Aspettate un poco, ed è diavolo e poi subito Tobia, il suo angelo ed il suo rispettivo cane. Il cane, sopratutto; abbaia come una muta intiera; riassume tutte le astuzie della polizia! Oh sì! dopo ciò, provatevi a definire don Gabriele. Domani può essere imperatore dei Romani, l'asino di Balaam, il muggito del vento, lanterna di polizia, spia, tutto, insomma e qualcosa altro ancora.

- È un uomo pericoloso, questa vostra conoscenza, dottore. Bisogna che ne giudichi un po' da me stesso. Me lo condurrete.

- Se vorrà venire, rispose Bruto.

- Siete ammogliato, dottore?

- Sono sulla via di esserlo.

- Come sulla via?

- Sì, in via di ammogliarmi. Ho subìto i primi disinganni. La ragazza, che io voleva sposare, è stata rapita e mi ha piantato lì con un peso sul cuore. Ora sto in aspettativa, ma interrogo il mio cranio, secondo il sistema di Gall, per conoscere se ho le protuberanze d'un marito.

- E cosa vi risponde il cranio, don Bruto?

- Niente di buono. Non ho che la pazienza, ma mi sforzo a famigliarizzare coll'educazione le servitù ribelli che mi mancano.

- Se avete la pazienza, non cercate nessun'altra virtù coniugale. Con quella sola sarete il modello dei mariti.

- Credete? Pure io penso che un marito il quale non ha fermezza di carattere....

- Disgraziato! volete dunque portare il germe della ribellione nel vostro matrimonio? Pazienza, discrezione, obbedienza, miopia, bonomia, ecco...

- Cospetto! non ho nessuna di queste qualità, eccettuato....

- Avete l'essenziale, dottore. Ma quali qualità cercate in vostra moglie, eh?

- Sto per i capelli rossi.

- To'! come quelli di Cecilia.

- Scusate, non volevo fare un'allusione. Ma è forse un'idea spontanea, destata dalla contemplazione delle treccie della signora vostra figlia.

- Andiamo avanti, va bene. I capelli rossi sono per voi capelli dorati. E poi?

- E poi mi piace una bella pelle candida, con degli occhi neri, un bocchino dalle labbra rosee e dai dentini bianchi.

- Come Cecilia, dunque, oppose di nuovo il conte.

- È vero, la signorina ha tutto ciò, perchè è bella. E mi piacciono le ragazze dalla persona flessibile, che portano arditamente il capo sulle spalle, che danno a volta dei sorrisi, a volta delle scudisciate, che abbracciano e mordono, secondo....

- Fulmini e sangue, ma voi parlate di Cecilia, dottore?

- Mille scuse, signore, non faccio nessuna allusione diretta, non l'oserei; ma sono contento di sapere che le mie inclinazioni sono divise da una persona così elegante e d'un grado sì elevato.

- Ma c'è meglio di tutto ciò, don Bruto! Cecilia ha una dote. La regina Urraca, che l'ha veduta bambina e che le vuol bene, le farà dei bei regali il giorno delle sue nozze. La ragazza porterà inoltre con sè una bella clientela al dottore fortunato che la sposerà; forse un posto di medico o di chirurgo in qualche ospitale, il favore a corte e la mia protezione.

- Tutto ciò è molto bello, disse Bruto. Ma sposa forse un medico vostra figlia?

- C'è qualche cosa di simile sul tappeto, se quel medico ha buon naso e lo spirito abbastanza spregiudicato per passar oltre a certi inconvenienti e accettar gli altri doveri della sua posizione.

- Tutto questo sta nella dote della signora Cecilia, signor conte?

- Indispensabilmente.

- Suppongo che quel medico ha accettato!

- Non so, perchè non glie l'ho ancora domandato. È cosa del resto che esige riflessione. È un giovane di ventiquattr'anni, povero, senza appoggi, di una educazione incompleta, provinciale....

- Precisamente, come me.

- Sì, precisamente, colle stesse sucettibilità, gli stessi pudori, forse, lo stesso riserbo e che conosce quello che voi conoscete sulle condizioni in cui si trova la mia povera figlia.... Cosa credete che risponderà il vostro collega, dottore, quando gli farò comprendere che potrei accordargli la mano di Cecilia?

- Noi so veramente. Credo che vorrà conoscere tutto quello che si esige da lui per prezzo di un tal favore. Poichè io penso che non è per nulla che si offrono tutti questi vantaggi a questo uomo imperfetto, a meno che, fra i difetti della sua educazione, non abbia anche quello di sedurre le ragazze a sua insaputa.

- No, egli non ha nulla a rimproverarsi in questo disastro della mia famiglia. Dovrebbe, invece, concorrere egli a ripararlo.

- E ci consente? chiese vivamente il dottore.

- Ancora non ne so nulla. Ma voi al suo posto cosa fareste?

- Domanderei un giorno o due per riflettere. Non si prendono di tali determinazioni dopo pranzo, quando il sangue bolle e che il lato animalesco è padrone di casa.

- È giusto, disse il conte. Ma il mio dottore non è in questa vostra posizione. Egli ha pranzato a casa sua, con un piatto di lenti, ed ha bevuto soltanto dell'acqua. È il vostro pranzo ordinario, credo, dottore?

- All'incirca.... quando Tartaruga non ci fa dei cavoli, che le piacciono, quando il colonnello non ordina del sauerkrauth, che adora, ed ha insegnato a Tartaruga a farlo come a Dresda, - e quando don Gabriele non prepara egli stesso i maccheroni.

- Ma, continuò il conte, lasciamo da parte questi due giorni di riflessione. Occorre pure ch'egli conosca tutto quello che si esige da lui.

- È chiaro.

- Si esige il silenzio ed un matrimonio secreto. Nella posizione di Cecilia, un matrimonio ecclesiastico, celebrato da un prete amico, in una cappella, al cader della notte, è sufficiente pel momento. Più tardi vi si aggiungerà il matrimonio civile in gran cerimonia.

- Difatti, nella posizione attuale della signorina, non bisognerebbe esporla ad emozioni troppo vive.

- E per questo, pure, occorrerebbe che il marito continuasse a vivere a casa sua, per qualche tempo.

- Questa non l'accetterei forse, se io fossi al posto del fidanzato che state fabbricando per la signorina.

- Sì, sì, avreste ragione, forse, se ciò fosse senza compenso. Ma io sono un uomo giusto. Non imporrei mai dei sacrifizii indiscreti, senza offrirne l'equivalente.

- Come l'equivalente! L'equivalente di una bella donna, che si sa che è vostra moglie e che bisogna adorare da lontano.... Ma allora....

- Dottore, voi siete ingenuo. Ignorate certi usi del gran mondo. Voi non comprendereste, forse, che vi possa essere un matrimonio in scrittura doppia.

- Voi parlate turco per me. Non conosco che gli usi della mia provincia, dove il marito prende la moglie in casa sua, perchè vi faccia tutto e fa lui stesso, l'imbecille, i suoi bimbi.

- Siete poco inciviliti e dovete avere sulla coscienza tutte le disgrazie che vengono dal proletariato. Ma supponete ch'io dica a mio genero - comprendete che è un'ipotesi - vi interdico certi diritti durante un certo tempo, cioè fino a che vostra moglie non vi avrà completamente aggradito. Vi prego di non condurla a casa vostra e vi scongiuro di non vivere in casa mia, perchè ciò si potrebbe sapere e potrebbe cagionare delle gelosie che porterebbero la mia rovina. Vi prego di non propagare la notizia di questo matrimonio, perchè potrebbe far chiasso, e ferire certe persone che hanno degli interessi contrari, sopra voi o sopra lei, non monta. Vi associo alla mia posizione, in cui in definitiva lavorerete per voi stesso; poichè, quando sarò morto, erediterete dei miei utili. Voglio che il mio socio sia il marito di mia figlia, perchè allora i miei interessi, essendo i suoi, e quelli della famiglia, egli si lascierà guidare da me, sarà saggio e non avrà la fantasia di piantarmi lì da un momento all'altro, e di compromettere l'avvenire. Voglio che il mio socio sia il marito di mia figlia, e perchè, lavorando per me, lavorerà per sè e non avrò a temere nè la sua indolenza, nè i suoi capricci, nè imprudenze, nè tradimenti.... Eh? supponete che io dica tutto ciò - è una ipotesi - cosa credete che risponderebbe il mio futuro genero, cosa rispondereste voi stesso?

- Diavolo! ma tutto ciò è un tessuto di tenebre e di impossibilità! Abbandonare sua moglie, una donna così vezzosa, dopo aver chiusi gli occhi sopra i guasti irreparabili causati da un certo temporale d'estate; separarsi da quella bella moglie per associarsi a non so qual opera misteriosa.... Capite bene. È un po' duro, niente chiaro, sa di vergogna, è cosa equivoca e sinistra e ciò richiede almeno delle spiegazioni.

- Sì, una sola sarà sufficiente.... Se io dicessi, per esempio..., per esempio.... L'esempio non mi(14) si presenta chiaro. Ma prenderemo la storia del marchese d'Alenteyo y Espinosa y Prato-de-Mallo.... La conoscete la storia di quel marchese, complice della principessa degli Orsini, e favorito del cardinal ministro Porto-Carrero?

- Niente affatto.

- È curiosa ed istruttiva. Il re Filippo V non era molto fedele alla sua prima moglie, Luigia di Savoja. Aveva delle amanti, che però nascondeva, non volendo dispiacere alla regina. Il marchese riceveva in casa il re, sotto il nome di conte d'Arguille, e aveva cura di farvi trovare qualche persona abbastanza bella per poter distrarre S. M. Ma Filippo V, che si annoiava, annoiava anche gli altri, e le belle persone che dovevano distrarre S. M. mancavano spesso al ritrovo. Il credito, gl'interessi ed il favore del marchese erano ad ogni istante minacciati di essere compromessi. Che cosa pensò allora l'astuto ed onesto Basco? Fece sposare a suo figlio la più bella e la più graziosa donna della Spagna, che il re mostrava desiderio di conoscere(15). Dal momento che la Marchesa d'Alenteyo y Espinosa y Prato-de-Mallo entrò in quella casa, fu incaricata essa di ricevere il re. Ella accettò le funzioni, le trovò pesanti, è vero, poichè la bizzarria e la noia del re erano cose pesanti da sopportarsi, ma sapendo alla fin fine che lavorava per sè, per la sua casa, pei suoi figli, per la sua fortuna, essa si sottopose bravamente al carico e restò sulla breccia, da cui le altre s'erano ritirate.

"Il fortunato marchese, dopo il matrimonio, non ebbe più a preoccuparsi d'avere sempre nel suo album una sostituta nelle funzioni di spassatrice del re e di dover essere sempre preparato ai disastri d'uno sciopero. Sua nuora fu la sua associata.

- Ma che analogia c'è, signor conte, fra la nuora del marchese ed il dottore, a cui volete dare la mano di Cecilia?

- Nessuna. Ho citato questo aneddoto come un esempio di questi matrimoni a partita doppia, cui i padri accorti fanno talvolta contrarre ai loro figliuoli, e come la nuora od il genero divengono qualche volta i cooperatori del suocero, nella costruzione della fortuna domestica. Il nostro caso è affatto differente.

- È permesso chiedervi quale egli sia?

- No. Ma riflettete a tutte le chiacchiere, che lo sherry e lo sciampagna ci hanno ispirato, e poi ne riparleremo fra alcuni giorni. Ho d'uopo dei vostri consigli, dottore. Le persone, semplici ed onorate come voi, hanno spesso delle ispirazioni felici, delle soluzioni meravigliose che salvano.

- I miei consigli! riflettere io! disse Bruto parlando a sè medesimo.

- È tardi, dottore, buona notte. Spero che domani non avrete nessuna memoria di ciò che le evaporazioni del vino hanno fatto uscir dal nostro cervello. Ho paura che siamo un po' brilli tutti e due.

Nessuno dei due lo era.

Bruto augurò la buona notte al conte e partì.

Non saprei dire di che Bruto sognò in quella notte. Ebbe dei sogni di matrimonio ove Lena, Lisa, Cecilia, tutte le ballerine e le cameriere che aveva incontrate nel cammino della sua vita, confusero i loro occhi, i loro visini e, chi lo sa? i loro baci. Sposò un harem intiero e, il miscredente, non se ne mostrò nè dispiacente nè pentito.

Al domani la influenza dei sogni e le provocazioni del vino non erano forse totalmente svanite perocchè egli continuò a ruminare la strana conversazione che aveva avuto col conte la sera precedente. Bruto assicurava a sè stesso ch'egli non era stato ebbro e che, tutt'al più, egli erasi disubbriacato alle prime parole di quella singolare cicalata.

Ma non sapeva precisamente cosa pensarne quando riandava nella sua mente le proposte, gli esempi, l'invito a riflettere, che gli erano stati fatti dal conte. Sposare Cecilia? lasciarla nella di lei casa? vivere in casa propria? un compenso? un matrimonio a scrittura doppia? una società? il marchese e la marchesa di Filippo V...!

- Bah! propositi di vino di sciampagna, esclamava egli, convinto; eravamo ubbriachi ambedue.

E Bruto si confermò in questa opinione quando di ritorno dalla visita alla sua giovane cliente, constatò ancora una volta la bellezza di Cecilia, il lusso che circondava il conte, il silenzio assoluto conservato da costui sopra le chiacchiere intemperanti della vigilia, l'assenza della dama velata, l'atmosfera fredda, degna, pudica di quella casa, il dolore profondo di don Ruitz per la sciagura di sua figlia.

Nondimanco, l'informe sogno del colloquio della sera precedente gli pesava sullo spirito non come un incubo, ma come un dubbio, come un problema a risolvere, come un caso di coscienza da sciogliere.

Bruto ci riflettè. Fu preoccupato tutto il giorno; ma si guardò bene dal chiedere la soluzione dell'equazione al colonnello, che l'avrebbe tagliata netta con una parola: un'infamia.

Gli è che il colonnello non spilluzzicava le questioni morali; le sciabolava come cosacchi o prussiani. La sera, Bruto propose la storia del marchese di Filippo V a don Gabriele, come un soggetto di dramma. Don Gabriele, da quell'artista che era, la prese a volo e non ne fu scandolezzato nemmeno per ombra.

- Ma se questa storia fosse del giorno di oggi? disse Bruto; se qualcuno si trovasse in una posizione simile, che cosa gli cosigliereste di fare?

- Io non mi preoccupo dello scioglimento nelle mie commedie che quando desso è maturo, rispose gravemente don Gabriele.

Una parola di schiarimento.

Questa storia avviene in Napoli, al tempo dei Borboni.

Essa sarebbe immorale dovunque. A Napoli, allora, era naturale. Un inglese, dinanzi alla proposta del conte Ruitz, avrebbe indietreggiato senza esitare; un tedesco avrebbe esitato e poi accettato; un francese avrebbe schiaffeggiato il conte, o accettato ipso facto; un napoletano non si rendeva conto della portata dell'azione, ma delle conseguenze. Il napoletano, in quel tempo, non aveva il senso morale per definire la natura delle azioni umane. Il 1859 ha principiato e il 1860 ha finito di modificare le idee nel mezzogiorno dell'Italia.

CAPITOLO V. Finale inatteso di un'opera sconosciuta.

"Egli pensa alla francese!"

Ecco il commento, che accompagna assai sovente le opinioni del colonnello Colini. Tradotto in napoletano, ciò voleva dire: che il colonnello aveva delle idee strane, ridicole, impossibili, empie; tradotto nella lingua della coscienza universale, ciò significava: che egli aveva delle idee morali, piene di buon senso e senza pregiudizi.

L'aria morale d'una grande città l'aveva cangiato. Uscito dal fango sociale del suo villaggio, ove la sua grandezza di carattere e di spirito sarebbe stata pericolosa, svegliando la gelosia, i sospetti, le denunzie alla polizia ed al Vescovo, che si equivalevano, confuso nel turbinìo della capitale, egli aveva acquistata un'indipendenza relativa e gettata via la maschera di rustico e di grognard, che aveva adottata, come Machiavelli, vivendo tra i boscaiuoli ed i bazzicatori della taverna del contado. Il colonnello era ridivenuto ciò che si era mostrato in Francia e nell'esercito: un uomo, un carattere, uno spirito.

Alcuni compagni della carriera militare, che non avevan mica rinnegato il passato, gli fecero festa, i rinnegati, essi stessi si affrettarono a rendergli buoni uffici a sua insaputa. Ed uno d'essi, in effetto, fece ritirare dal ministro della polizia l'ordine che confinava il colonnello in provincia e lo lasciava vivere immolestato in Napoli. Un altro gli procurò, da un libraio, la traduzione di una Storia di Napoleone. Un giornale letterario, redatto da un uomo di lettere eminente, ridotto a vender tabacco per vivere, il signor Borsieri, gli confidò la critica letteraria e teatrale. Il generale Florestano Pepe, per prudenza, gli aveva perfin consigliato di svestire l'uniforme di sergente e prender l'assisa borghese. Ma il colonnello su questo punto fu intrattabile; suo costume era una protesta contro la condotta infame dei Borboni; il suo uniforme era la gogna di una corte, di un regime, di un sistema, di uno Stato; il colonnello si considerava come quegli uomini che vanno per le strade di Londra portando sul petto o sulle spalle degli annunzi: egli, colonnello dell'esercito francese, egli camminava per le vie di Napoli e tutti potevano leggere sul suo uniforme di sergente napoletano: qui una dinastia si disonora!

Un anno era scorso dal suo arrivo a Napoli.

Egli viveva sempre con Bruto, il cui carattere diveniva sempre più cupo, a misura che la sua carriera migliorava. La sua fortuna gli pareva una catena pesante a trascinare.

Il colonnello non lo capiva, ma non osava provocare delle spiegazioni, che non erano incoraggiate dal suo antico allievo.

Si diceva, però, a sè stesso:

"Spasimi d'amore, impossibile!..."

Una sera gli chiese:

- Bruto, vieni al San Carlo?

- Non posso questa sera, sono di guardia all'ospitale dei Pellegrini, dove il servizio di notte è più necessario.

- È peccato. Si dà la Linda di Donizetti, ti piace tanto.

- È peccato, veramente, replicò Bruto.

- Il male non è forse poi tanto grande, al postutto, soggiunse il colonnello. Non è la Frezzolini che canta, ma una esordiente. Il principe di Joinville, ch'è qui, ha espresso a Donizetti il desiderio di udire la Linda, per farla poi rappresentare al teatro Italiano di Parigi nel prossimo inverno. Il principe sarà nella loggia reale.

- Col re e le due regine? domandò Bruto.

- Non credo. Il re e le regine fanno non so che novena.

- Deploro di non poter venir teco, replicò Bruto, ma noi posso davvero. Tu mi racconterai come è andata la cosa, perocchè, nelle mie visite medicali del gran mondo, sono obbligato a parlare di musica, di passi a due, di sport e di turf, di romanzi e di drammi, tanto quanto dell'ipecacuana e dell'olio di ricino.

- Ecco cosa vuol dire esser medico dandy e alla moda!

Bruto non rispose.

Il colonnello andò solo al San Carlo. Doveva parlare nel suo giornale dello spettacolo e della nuova cantante. Ho io duopo di dire che le appendici del colonnello, quantunque firmate da un pseudonimo, erano sempre oneste, leali e disinteressate? Tutt'al più e' si permetteva delle arguzie, onde servir l'estetica in un vassoio d'oro.

Il colonnello sedette al suo posto, presso la corsia del passaggio in mezzo alla platea. Mise a posto per bene la sua gamba di legno, per non noiare nessuno con essa: allogò la sua sciabola in mezzo alle gambe; raccolse al petto il meglio che potè quel po' di moncherino sinistro che gli restava. Perocchè quanto egli era disposto a far parata schernevole del suo uniforme di sergente, altrettanto era riservato nel mettere in mostra le sue ferite. Si rannicchiò, dunque, nel fondo della sua sedia, si fece il più piccino possibile per lasciar passare senza incomodo queglino che venivano a sederglisi accanto. Restavano ancora alcune seggiole vuote in seguito alla sua.

Finiva la sinfonia, il sipario stava per alzarsi, quando un gruppo di giovanotti entrò con strepito parlando ad alta voce e facendo come codazzo ad un uomo dall'aria disinvolta, che li precedeva e cui chiamavano: marchese.

Questo marchese non era altri che il nostro guappo, il quale aveva il suo posto a lato al colonnello. E' passò davanti senza dir nulla, mentre questi si ritirava da parte.

- Ti ho forse pigiato un piede, caporale? disse il marchese, fissando lo sguardo sulla gamba di legno.

Il colonnello si aggomitolò più strettamente ancora per lasciar passare gli amici del marchese, senza aprir bocca.

- Mi sembri offeso, veterano, riprese il marchese. Io non te ne voglio, sai. Dammi la tua mano, ecco la mia.

E tese la mano verso il braccio monco del colonnello. Questi si tacque ancora e nulla smentì la calma del suo viso.

- Ah! scusi, il mio alabardiere, insistette il marchese, contrariato dal silenzio, pieno di sprezzo del colonnello. Ove hai tu perduto i tuoi mazzapicchi, cucinando il rancio dell'esercito e nell'esplosione di qualche petardo indisciplinato alla festa del Corpus Domini dei re Corsi?

- Signore, io amo la musica, vogliate, vi prego, permettermi di ascoltarla. Si alza il sipario.

- Il mio guerriero ama la musica, disse il marchese volgendosi agli amici; c'è forse del cannone in quest'opera?

Gli amici del marchese scoppiarono in risate; il colonnello taceva sempre. Questa gratuita e volgare insolenza di un uomo, cui egli non conosceva, al quale non aveva dato nessun motivo per insultarlo, parve al colonnello una cosa disprezzabile, indegna di lui, oppure una provocazione della polizia.

Cominciò l'opera. Ondina, l'esordiente, comparve. La sala gittò un'esclamazione di compiacenza, vedendo una così vaga fanciulla. Il marchese ed i suoi amici proruppero in applausi. Il colonnello, commosso come gli altri alla vista di così grazioso visetto, si dimandava, un po' turbato, dove mai avesse visto quella creatura i cui lineamenti non gli erano sconosciuti. Difatti, egli aveva veduto Lena ai Fiorentini, nel Violinista di Cremona, poichè era dessa che esordiva ora nella parte di Linda.

Alle prime note, tutti gli spettatori divennero attenti. Ascoltavano quella voce, maravigliosa per l'estensione, il metallo, il vellutato delle cadenze, il folgorare nell'esplosioni, il perlato nei rintocchi, la nettezza negli staccati, il capriccioso nei gorgheggi e l'arditezza dei contrasti. Donizetti, che era vicino al principe di Joinville, nella loggia reale, raggiava di contentezza. Il principe applaudì. Quando la cantante finì il suo primo pezzo, la sala intera si scosse. Ondina fu chiamata fuori sette volte.

- Ebbene, il mio granatiere, non applaudisci, dunque, tu che dicevi or ora di amare la musica? Ciò non ti sembra bene forse? Ameresti tu solamente la musica delle casseruole?

Il colonnello non ascoltava queste nuove provocazioni del marchese. Era fuori di sè, sotto la potenza d'una emozione di cui non poteva rendersi conto, turbato, pallido, sentendo tutto il suo sangue affluirgli al cuore. Alla fine del primo atto, la sala intera applaudì freneticamente. Ondina fu chiamata fuori a non più finirla. Non si sapeva che ammirar meglio in lei, se la modestia, la bellezza, o la sua voce portentosa.

Al secondo atto la marea crebbe ancora. I bravo degli spettatori permettevano appena di udire la voce d'Ondina. Il colonnello, sprofondato e raccolto nella sua seggiola, stava sempre zitto. Non aveva più nè gesto nè parola. La vita gli si era concentrata negli occhi, nelle orecchie, nell'anima; rimuginava nelle sue memorie lontane, ricostruiva la sua vita, per ricordarsi dove avesse veduto quella giovane che tanto lo turbava. Non era più l'attrice dei Fiorentini, ch'egli contemplava nella sua visione interiore; egli si ricordava più in là e scendeva nel suo cuore.

- Decisamente, artigliere mio, disse il marchese, di più in più indispettito dal silenzio del colonnello, se tu ami la musica, l'è quella pi pi più dei pifferi che ti solletica.

Ondina aveva in quel punto finito di cantare il No, non è ver, mentirono. Il parossismo del pubblico era al colmo. L'emozione del colonnello si era cangiata in ispasimo. Il principe di Joinville abbandonava la loggia. Il colonnello si levò dalla sua sedia ed uscì.

Se fosse restato ancora, sarebbe forse svenuto. Camminò presto per paralizzare la sovrabbondanza dell'emozione collo sviluppo delle forze fisiche.

Al momento, in cui il colonnello aveva lasciato la sala, il marchese gli voltava le spalle conversando coi suoi amici. Ad un tratto s'accorse che il suo uomo era scomparso.

- Mille fulmini! gridò, quel cialtrone di sergente si sarebbe burlato di me, non onorando di risposta alcuna le mie arguzie, senza che io gli abbia snocciolato un sol buffetto sul naso? Vedremo se la sarà così.

E, dicendo queste parole, uscì per correre dietro al colonnello.

Il principe di Joinville, che scendeva dall'istessa scala, e carrozze ed i curiosi che si avvicinavano ritardarono l'inseguimento del marchese e gli fecero perder di vista l'uomo ch'ei cercava. Quando il seguito del principe fu disperso, il marchese, restato dinanzi alla porta del teatro, si dimandava da che parte fosse sfumato il suo eroe del cavallo Troiano. Interrogò la sentinella della porta.

- Caporale, avresti tu visto(16) da che parte se l'è svignata un invalido dalla gamba di legno e con un braccio nei suoi stivali?

- Ho veduto passare qualche cosa ad un dipresso simile. S'è diretto verso il largo del Castello.

Il marchese trotta. Sbocca sulla piazza, ove danno sette od otto strade. Quale d'esse aveva presa il sergente? Egli ed i suoi amici percorrono coi loro sguardi la piazza. Finalmente uno d'essi sclama:

- Se non m'inganno, mi pare di vedere sotto i lampioni del palazzo delle Finanze qualche cosa che somiglia al tuo sergente.

Si lanciano tutti da quella parte. Ma, all'entrata della via dei Guantai l'imbarazzo, si rinnova. Un labirinto di straducole. Corrono, interrogano, si separano alla fine dandosi la posta in piazza dei Fiorentini; dieci minuti dopo s'incontrano.

- Sangue e polvere! grida il marchese! eccolo!

Il colonnello passava, infatti, sotto l'arco di una porta, che dava in un'immensa corte scoperta, che serve di passaggio fra due vicoli.

Era giunto alla metà del cortile, quando sentì l'estremità d'un bastone che lo toccava alla spalla e una voce che gli gridava:

- Diavolo di veterano! colla tua zampa di legno tu fuggi, dunque, come un cavallo inglese?

- Cosa volete, signore? disse il colonnello di voce ferma e calma, alzando la testa.

- Una semplice curiosità, generale, rispose il marchese. Vorrei sapere se i tuoi mustacchi sono tinti coll'istesso lustro dei tuoi stivali.

E in pari tempo allungava la mano per tirarglieli. Il colonnello indietreggiò d'un passo.

La corte è deserta. Due lampioni la rischiarano d'una luce affumicata.

Gli amici del marchese fanno cerchio. Alcune teste coperte da berrette da notte si mostrano alla finestra. Il cielo è splendido, sotto la fosforescenza di tutte quelle miriadi di stelle che lo fanno scintillare, come il broccato del vestito di una regina di fate, in un ballo spettacoloso.

- Signore, disse il colonnello con accento sempre freddo ma concentrato, vi chiedo ancora una volta che cosa volete da me? chi siete? chi vi manda? che significa codesta stupida provocazione? Sapevo che la polizia aveva delle spie. Ma non credevo che assoldasse altresì dei bravi in guanti gialli.

- Io sono il marchese di Diano, rispose costui di un tuono ringhioso. Non volevo che mostrare ai tuoi occhi il colore delle tue orecchie, ed insegnarti le convenienze che si serbano nei pubblici spettacoli. Ma poichè tu m'insulti, divengo più esigente.

- Signor marchese, badate a voi, replicò il colonnello frenandosi. Il disprezzo mi rende tollerante, ma il disprezzo anch'esso ha i suoi disgusti e le sue rivolte. Seguitate la vostra via.

Ed il colonnello volle continuare la sua.

- Ah! grida il marchese, riscaldandosi. Hai, dunque, paura per le tue orecchie e pel tuo braccio! Poichè hai mandato una gamba ed un braccio avanti per prepararti gli alloggi, andrai a raggiungerli, o il diavolo mi porti, se non mi arruolo come soldato del re tavernaio (Murat). Animo, voi altri, cacciatelo coi vostri stivali sotto il lampione ond'io lo rada senza cincischiarlo.

- Indietro, gridò il colonnello ai giovanotti che si precipitavano su di lui. Se avete mai udito parlare di quella cosa che si chiama onore, siate testimoni che sono forzato a difendermi.

Il marchese, in quel cerchio di luce cupa che circondava uno dei lampioni del cortile, aveva già sguainato una lunga spada che trasse dal suo bastone. Il colonnello lo seguì a passo calmo e lento e tirò fuori a stento una sciabola, che non aveva mai veduto la luce; poichè la gli veniva dai Borboni. Questa sciabola era di metà più corta della spada del marchese, senza tagliente, appena appena appuntata.

- Camillo! disse il marchese a uno dei suoi amici, sii il testimonio di questo caporale. Ti darò un certificato che vi sei stato costretto da me, e ti passerai poscia al cloruro di calce. Cosa vuoi? Mi batto bene con lui, io!

- Non ho bisogno di alcuno, rispose il colonnello. Se è un assassinio premeditato e pagato, un solo assassino basta. Se la è una stupida storditaggine, non voglio prendervi parte accettando un testimonio. Siete pronto?

Il linguaggio, il contegno, la condotta che il colonnello teneva da alcuni istanti, sorprendevano un poco il marchese ed i suoi amici. Essi comprendevano alla fine che questo sergente, di cui volevano trar partito per una di quelle facili gesta di cui i guappi son tanto ghiotti, poteva bene esser altra cosa che della semplice carne a baldoria e che quel monchino era forse un tutt'altro uomo che non sembrasse indicare il suo uniforme di semplice sergente. Ma era ormai troppo tardi per dare addietro. Il sergente s'era posto in guardia.

Regnava un silenzio terribile e pieno d'angoscia. La discussione a voce troppo alta del marchese aveva attirato alla finestra diverse persone ed alcuni lumi. Le armi brillavano d'un riflesso rosso, rischiarate dai lucignoli carbonizzati delle lampade ad olio. Tutti i visi erano pallidi d'emozione. Si era per versare del sangue senza sapere nè per chi nè perchè.

Alla semplice messa in guardia del colonnello, il marchese comprese che aveva a fare con un forte competitore, che si era mostrato umile e tollerante, precisamente perchè era conscio della sua forza. Il marchese aveva il vantaggio dell'arma, della luce, dell'età, dell'agilità, dell'uso delle sue membra e apprezzava molto questi vantaggi, perchè si sentiva alla presenza di un pericolo. Fece una mossa per provare il colonnello, una mossa da sala di scherma: e tremò. Aveva a che fare con un maestro.

Il colonnello, dal suo canto, vedeva che non aveva che una probabilità di salvezza nelle condizioni strane di questo duello; quella di disarmare o di ferire al braccio il suo nemico. Ma come? La sua arma era corta, i suoi movimenti lenti ed impacciati. Bisognava pertanto preoccuparsi della propria vita.... Era sicuro di coprirsi parando e restando sulla difensiva.

Ma l'occhio poteva tradirlo un momento con quella luce ingannevole del lampione, il braccio non aveva più quella elasticità continua che doveva spiegare per allontanare quella lama che serpeggiava senza rumore intorno al suo petto. Attendere il colpo era un raddoppiare il pericolo. Valeva meglio provocarlo, aspettandolo, e rimbeccare.

Il colonnello, avendo presa questa determinazione, in un lampo di riflessione, la mise subito in esecuzione. In un giuoco di doppia terza, tentato dal marchese, il colonnello lasciò scoperto a bella posta il proprio petto fino allora coperto.

Il marchese non era uomo da perder l'occasione. Si fendette e allungò un colpo dritto. Il colonnello l'aspettava. Parò, scartò la spada e passò da parte a parte il braccio del marchese.

La spada cadde dalle mani del ferito.

Il colonnello ringuainò senza aprir bocca e si allontanò a passi lenti.

Gli amici del marchese avevano altra cosa a fare, che interrogare il colonnello. Circondarono il loro amico, il loro padrone. La ferita sembrava grave, perchè l'arteria brachiale era stata tagliata. Avvolsero il braccio d'una pezzuola, presero il ferito che era svenuto nelle loro braccia e lo portarono all'ospedale dei Pellegrini là vicino.

Furono ricevuti da Bruto.

- È il marchese di Diano! sclamarono quei giovanotti, credendo fare impressione sul chirurgo e raddoppiare così la sua attenzione e le sue cure.

Bruto impallidì.

Egli aveva sotto la sua mano l'amante di Cecilia, colui che aveva rapito Lena e lo sapeva.

- È un ferito, pensò egli.

E si mise all'opera.

CAPITOLO VI. Il domani d'un debutto.

Dopo di aver curata la ferita e fatta la legatura dell'arteria, Bruto non volle permettere che in quella notte il marchese fosse trasportato a casa sua. Non temeva un'emorragia, ma credeva opportuno che il ferito restasse tranquillo fino al giorno dopo.

Non una parola del duello fu pronunziata. Bruto dimenticò perfino di chiedere la causa di quell'accidente. Non vedeva che il ferito e non l'uomo che aveva sedotto Cecilia e l'aveva abbandonata incinta, che aveva rapita Lena e l'aveva fatta scomparire. Si riservava, però, appena guarito, di mettere in chiaro questi due fatti.

La febbre si dichiarò durante la notte. Il marchese aveva proibito a' suoi amici di avvertire i suoi parenti dell'avvenuto, onde non sgomentarli prima di rientrare nella sua abitazione.

Fece forse qualche eccezione a questa raccomandazione, parlando a bassa voce a colui che aveva chiamato col nome di Camillo, il contino di Sala. Perocchè il mattino di quel giorno stesso, una carrozza si fermò davanti la porta dell'ospedale ed una giovane signora dimandò al portinaio dove fosse il ferito della notte precedente.

Il portinaio, che aveva il culto della carrozza e della mancia, si prese il disturbo di accompagnarla fino alla sala d'aspetto del chirurgo di guardia.

Erano precisamente le nove e Bruto aveva lasciato il marchese assopito sotto l'accesso della febbre, che era al punto culminante del suo parossismo. Alla prima parola che disse la dama alzando il suo velo, sclamarono reciprocamente riconoscendosi:

- Il signor Bruto!

- La signora Lena!

Non so se l'ho già detto, in ogni caso lo ripeto, questi due giovani si erano parlati qualche volta da una finestra all'altra, mentre l'uno studiava le malattie di cuore in casa di don Noè e l'altra cuciva e ricamava presso sua madre. Avevano forse scambiato qualche idea che loro passava pel capo; ma essi si erano certamente meglio intesi che non si erano parlati.

La povertà si vede. Le privazioni e la fame non avevano bisogno di grande eloquenza per rendersi note. Ma ciò che Bruto e Lena avevano sottinteso allora, o soppresso come una inutile spiegazione, era la simpatia che la miseria provava per la povertà e l'unica consolazione che si davano a vicenda per uno sguardo.

Quante rivelazioni e quante storie non vi sono in uno sguardo a vent'anni!

Essi si incontravano ora, dopo appena un anno, e in che condizioni?

Lena, in tutti gli addobbi della ricchezza, veniva a visitare il suo amante.

Bruto, medico alla moda, chirurgo dell'ospitale, vegliava sulla vita di questo amante.

Il conte di Sala aveva forzato la porta d'Ondina a sette ore del mattino e le aveva raccontato tutta la storia della notte nei suoi più minuti particolari.

Dopo l'esclamazione di riconoscenza reciproca, involontaria, istintiva, istantanea, tutti e due arrossirono e tutti e due rientrarono immediatamente nella coscienza della loro situazione.

- Scusi, signora: potrei avere l'onore di offrirle i miei servizi in qualche cosa?

- Dio mio, signor Bruto, non vorrei incomodarla per visitare il ferito della scorsa notte.

- Il marchese di Diano dorme, signora. Egli è affranto dalla febbre. Può vederlo ella stessa aprendo un po' quella porta, se la non mi crede. Ella può entrare a svegliarlo all'improvviso, se non vuole attendere alcuni istanti ch'ei si desti tranquillamente, da sè solo, quando la febbre sarà un po' calmata.

- Ma codesta febbre si prolungherà forse?

- Comprendo la di lei impazienza, signora....

- Non è questo, dottore; gli è che a mezzogiorno bisogna ch'io sia alla prova a San Carlo.

- Al San Carlo? disse Bruto.

- Voi non sapete, dunque, che l'Ondina che ha esordito ieri sera con così grande successo, ne sia ringraziato Dio! sono io? Non sapete che il duello, che ha avuto luogo fra il marchese e quell'orribile sergente, mutilato e zoppo, gli è a causa di me?...

- Come! Come! un duello, un sergente al quale manca un braccio ed una gamba... signora Lena, e quel sergente è...

- Un maledetto spadaccino, un uomo sitibondo di sangue, un furioso: e non è stato neppur ferito. Dio! dormiva, dunque, a mezzanotte?

- Dio mio, te ne ringrazio, esclamò Bruto fuori di sè.

Lena ripetè a Bruto tutta la storia, che il conte di Sala le aveva raccontato due ore prima; Bruto aveva riconosciuto il colonnello alla prima parola.

- Come tutto s'intreccia sotto il soffio del destino! Se tu sapessi, Lena.... Ma, no, non qui, non qui.... Raccontarlo qui è impossibile. Pronunziare il suo nome alla porta di questo ferito, che è il tuo damo, sarebbe un sacrilegio.

- Tu mi allarmi e m'impaurisci, Bruto. Cosa è dunque? Vieni da me allora....

- Da Ondina?

- No, no, da Lena. Qualunque sia la mia sorte, qualunque sia la tua, permettimi di non essere mai sempre per te che la povera affamata e pezzente, che hai conosciuta onesta, per tanti mesi.

- Sì, bisogna ch'io ti parli e che tu sappi tutto.

- T'aspetto. Da tre ore in poi, la mia porta chiusa per tutti, anche per Donizetti, anche pel mio vecchio maestro Coralto. Ho anch'io tante cose da dirti.

Bruto si precipitò per la scala e partì. Ei non voleva esser presente ai colloquio fra Ondina ed il marchese.

A tre ore precise, però, batteva alla porta della cantante all'albergo di Nuova York, a Chiaja, accompagnato da don Gabriele. Bruto aveva forse paura di trovarsi faccia a faccia, solo, colla prima donzella che avesse amato e che forse amava ancora.

Lena, vestita molto semplicemente, lo aspettava.

Appena Bruto apparve sulla soglia, Lena corse verso di lui ed e' verso lei per una attrazione irresistibile. I loro sguardi si abbracciarono, mentre le mani si stringevano. Tutti e due parlavano ad un tempo e con precisione. Bisognò che don Gabriele, presentato in regola, assumesse la presidenza di quella riunione.

Passo sui preliminari, in cui Lena e Bruto schermirono a chi parlasse primo, tanto l'uno era ansioso di conoscere le rivelazioni dell'altra. Ma la parola restò, come era da aspettarsi, a Lena.

Fatto è però che ella divagava e si perdeva nei ricordi e negli episodi, poichè Bruto fu forzato a ricondurla alla questione, perchè gli ardeva sapere: le sue relazioni col marchese e la sua prima recita al San Carlo.

- Non ho nulla a rimproverarmi, esclamò Lena e voi potete credermi tanto più che non accuserei mia madre ora che la è morta. Non conobbi la mia disgrazia che quando era già irreparabile. Aveva però lottato, lottavo da quattro anni, tutti i giorni, a tutte le ore del giorno e della notte. La mia perdita era divenuta per la povera donna una idea fissa, quasi un sentimento del suo dover di madre, la risposta che doveva dare alla Provvidenza ed alla società, un atto di giustizia, una religione di famiglia, un'abnegazione e, sopratutto, il segreto pel pane quotidiano. Le sue sventure l'avevano inspirata e non le avevano nulla insegnato.

- Le sventure hanno sempre questo risultato, osservò don Gabriele. Ma, infine, come codesta catastrofe fu consumata?

- Nella maniera la più semplice e forse la più comune. Era la sera della seconda rappresentazione del Violinista di Cremona. Mia madre era felice. "Faremo una piccola festa fra noi due, mi disse rientrando. Ho comperato delle sfogliatelle e una bottiglia di malaga. Che baldoria, piccina!" Trovai, infatti, tutto ciò preparato su una tavola quando tornammo a casa. Mia madre accese due candele. Mangiammo. Prestai poca attenzione a ciò che faceva mia madre sempre in piedi ed affaccendata. Bevvi due piccoli bicchieri di quel vino dolce, ma di un singolare sapore. Poi, siccome le emozioni mi avevano stancata e mi pesavano più sul cervello che sul cuore, andai a coricarmi, dopo aver chiusa io stessa la porta della nostra camera. Dormii di un sonno pesante, doloroso, agitato, pieno di incubi e di orribili sogni. Mi svegliai tardi il mattino. Aprendo gli occhi, vidi mia madre che preparava tre tazze di caffè al latte. Volgendomi dall'altra parte.... gettai un grido e svenni.

- Come! gridò Bruto orribilmente pallido.

- Il marchese tenevasi vicino al mio letto.... mia madre m'aveva venduta.

- Oh! l'infame! l'infame!

- Bruto, ella è morta di tifo, all'ospitale, miseramente, pentita forse, in delirio, credendosi inseguita dalla polizia. Non insultiamo alle ceneri d'una tomba.

Seguì un istante di silenzio.

- Dopo questo esordio si comprende il resto, osservò don Gabriele.

- Il resto non fu senza lotta, nè senza nuove astuzie. Io resisteva sempre, quantunque il malore fosse oramai irreparabile. Le promesse non mi seducevano punto. Il marchese mi faceva orrore altrettanto che paura. Non volli più uscire di casa. Non cedetti neppur alla violenza. Mia madre era una tempesta. Il marchese invece, dopo le prime collere, si raddolcì e sembrava non aspettare più nulla che dalla mia volontà.

- Scellerato e ipocrita!

- Un giorno mia madre mi portò una lettera, che diceva essere della Tessari, colla quale quella eccellente donna mi invitava a passare la sera da lei alla Barra, alle porte di Napoli. Accettai. La lettera era falsa. Il marchese e mia madre avevano combinato insieme che andremmo tutti e tre a passare un mese nella sua casa di campagna ai piedi del Vesuvio. Partimmo, infatti, la sera.

- Era un tranello!

- Arrivati alla porta del palazzo Serignano, mia madre discese, sotto pretesto di andar a cercare non so che involto per la Tessari. Andava ad avvisare il marchese che io era nella carrozza. Io non sapeva neppure che costui abitasse colà! Mia madre salì da lui. Egli aveva data l'imbeccata al domestico. Mentre questi agiva lentamente, facendo passeggiare mia madre nell'appartamento in cerca del suo padrone, questi scendeva, dava un ordine al cocchiere, apriva lo sportello della carrozza e mi si sedeva vicino dicendo: che mia madre, dopo matura riflessione, si trovava troppo mal vestita per accompagnarmi ad un ricevimento di sera dalla prima attrice dei Fiorentini e che avendolo incontrato per caso ella l'aveva pregato di accompagnarmi fino alla porta di quella signora. Ciò mi parve equivoco. Volli discendere. La corrozza, partita, andava già di carriera. Il marchese mi rattenne. Io volli aprir la finestra e gridare. Egli vi si oppose colla forza. Andavamo dalla parte di Chiaia. Vidi la villa ed il mare. Lottai ancora perchè compresi tutto. Il marchese mi spaventò allora, prendendo un'aria terribile.

- Miserabile! gridò Bruto.

- Ascoltate insomma. Il marchese mi condusse in una casa di campagna, in cima alla collina di Posilipo.

- Infame! infame! continuava a gridare Bruto.

- Là, però, egli si mostrò tutt'altro uomo. Egli mi preparava una sorpresa. Quella bella casetta di campagna era abitata dal maestro di cappella Antonio Coralto, dalla sua vecchia moglie e da un servitore. Il marchese mi presentò come sua sposa.

- Come sua sposa! sclamarono don Bruto e don Gabriele.

- Il maestro Coralto era un vecchio amico di casa. Aveva dato delle lezioni di musica alla madre del marchese; forse era stato uno dei più intimi amici della Principessa di Noto, che ai suoi tempi passava per esser molto galante. Il maestro aveva tenuto sulle ginocchia il marchese quando era fanciullo. L'amava. E il marchese l'amava pure al modo che egli sapeva amare. Aveva, dunque, detto al maestro che mi aveva sposata, contro la volontà di suo padre, in segreto e che desiderava restar nascosto. Questa delicatezza dalla parte d'un brigante mi toccò un poco.

- Che generosità, infatti! disse Bruto.

- Dal giorno dopo, soggiunse Lena, io divenni l'allieva del dotto ed abile professore. Il marchese voleva farsi perdonare l'infamia del presente, preparando il mio avvenire.

- Comprendo ora il tuo debutto, disse Bruto.

- Il mio debutto è l'opera del caso. Appena il maestro Coralto ebbe udita la mia voce, si entusiasmò. Se avesse potuto trasfondere nel mio capo, con un fiat, tutto quello ch'egli sapeva, l'avrebbe fatto. Io era, diceva egli, la gloria della sua vecchiezza, l'ultima emozione. Aveva poco da fare in quanto alla mia voce, ma le diede il brillante e m'insegnò a servirmene con riserbo, come si serve degli ornamenti, a proposito, con gusto e con moderazione. Ma egli doveva insegnarmi altresì la parte materiale della musica. Il maestro Coralto era, come e' diceva, uomo da sintesi e procedeva dalla sintesi all'analisi. Egli mi fece adunque cominciare dove gli altri finiscono, dal più difficile. In quella solitudine alle porte di Napoli, passavamo tutte le giornate insieme, al cembalo. Ebbi bisogno di stordirmi dapprima, poi la passione dell'arte s'impadronì di me, come avrebbe potuto fare l'amore. Io non camminava più, volava. Raddoppiammo le tappe. Il maestro, egli stesso, non aveva più fiato a seguirmi.

- È dunque vero, disse don Gabriele, che spesse volte le disgrazie stesse sono in fondo fortuna?

- Io aveva inoltre una memoria prodigiosa. Mi bastava leggere uno spartito una o due volte per ricordarmelo nei suoi più minimi particolari o di supplirvi con gusto, se qualche passo mi sfuggiva. Imparai così, opera sur opera, Donizetti, Bellini, Mercadante, Rossini, Ricci e Pacini. Il marchese mi portava dei carichi di musica ogni volta che riveniva da Napoli; dopo esser restato quattro mesi sulla collina senza ritornarvi. E' diceva di esser perseguitato dall'amor geloso di non so che principessa.

- Che? sclamò Bruto, sarebbe ancor egli che è passato per di là? Come la chiamava codesta dama?

- La principessa di Kherson.

- È proprio lei, mormorò Bruto di aria abbattuta.

- Cos'è codesta nuova storia? chiese Lena.

- Continua, continua, rispose Bruto.

- Un giorno il marchese rivenne a Posilipo con delle notizie della città. Il principe di Joinville era giunto colla sua nave e doveva lasciar Napoli nella settimana. Egli aveva letto nei giornali che la Linda di Chamounix era uno dei più belli spartiti di Donizetti. Si rappresentava appunto allora al San Carlo; egli quindi si era fermato nella rada alcuni giorni per udirlo. Figuratevi il dolore del maestro Donizetti! La Frezzolini era ammalata e l'opera era stata ritirata dalla scena. Malanno! dissi io, gli è proprio un peccato? La Linda è un gioiello del gran maestro ed è l'opera che io canto meglio fra le sue. Il maestro Coralto non aprì bocca in tutta la sera e cantammo la Linda da un capo all'altro. Al domani all'alba egli era partito per Napoli. A undici ore ritornò, seguito da uno sconosciuto - un grande e bell'uomo, con un gran naso e dei grossi mustacchi neri. - Il discorso cadde sul disappunto del povero Donizetti. Linda era ancora sul cembalo. Non so come ciò avvenisse: vi sono delle attrazioni invincibili. Un quarto dopo ci trovammo al cembalo a suonare la Linda che io cantai dalla prima all'ultima nota. Quando fu finito, lo sconosciuto mi saltò al collo come un pazzo e mi abbracciò coll'entusiasmo d'una forza di mille cavalli. E mi disse il suo nome. Era Donizetti in persona. Fui scritturata per cantare la Linda, due sere dopo, in luogo della Frezzolini.... Voi sapete il resto.

- No, disse Bruto.

- Ebbene, il marchese interpellò un sergente che gli sedeva vicino e gli chiese perchè non applaudisse come gli altri. E' non aveva osservato forse che gli mancava una mano. La questione si riscalda; escono; il sergente via; il marchese lo insegue; lo raggiunge in piazza dei Fiorentini, sotto un lampione, si fa cerchio, si obbliga il sergente a battersi e quello orrendo monco....

- Taci, taci, gridò Bruto, non dire una parola di più contro quell'uomo.

- Lo ripeto, quell'orrido....

- Taci, Lena, tu offendi Dio. Sai tu chi è quel sergente, quell'uomo che insulti?

- Un mal accorto, ad ogni modo, disse Lena ridendo, poichè poteva uccidere il marchese e l'ha risparmiato?

- Quel sergente è il colonnello Colini, amico mio, barone dell'impero. È commendator della Legion d'onore. Napoleone lo nominò conte e generale sul campo di battaglia a Waterloo, ove il colonnello ebbe una gamba portata via da una palla di cannone! Ora, mentre egli languiva in un ospedale del Belgio, il duca di Berry lo qualificava avventuriere italiano e rinviava a Napoli il colonnello mutilato. Ed ora sai tu chi è questo colonnello?

- Poco m'importa. In ogni caso non è mica di lui che tu devi parlarmi. Vieni alle rivelazioni che m'hai promesse.

- Ah! le conoscerai queste rivelazioni; sì, Lena, ti dirò tutto. Poichè questo povero colonnello di Napoleone, cui i Borboni di Napoli non hanno voluto riconoscere che come un sergente del loro general Mack, questo povero barone, di ritorno a Napoli, uscito di prigione, rinviato nel suo villaggio in Basilicata, è alla ricerca, dal 1815 in poi, della disgraziata donna che aveva amata. Comprendi? Dal 1815, senza posa, senza disperare, senza stancarsi; con tutti i mezzi che ha potuto adoperare, egli l'ha chiesta a Dio, agli uomini, alla polizia, al clero, alla città, alla notte, ai suoi amici, ai suoi sogni, alle strade infami, ai conventi, dappertutto, sempre, egli la cercò quella Giuseppina che era la madre della sua figlia.... Tu non sai che questo colonnello, che ha tanto amato, è la creatura la più nobile di Napoli.

La probità, l'onore, la generosità di carattere, la fierezza, la rassegnazione, nulla gli manca; null'altro che quella donna che era infame e che è morta; e quella figlia che è disonorata.

- Che vuol tu dire? gridò Lena.

- Codesto sergente di Mack e di Ferdinando Borbone, continuò Bruto, codesto colonnello barone Colini era l'amante di tua madre, Giuseppina allora, Serafina poi, quando volle sottrarsi alle ricerche della polizia; e codesta figlia del colonnello, questa figlia ch'egli cerca da tanto tempo, sei tu, Lena.

- Bruto, Bruto! urlò Lena, alzandosi d'un balzo come una tigre, la voce soffocata, gli occhi scintillanti....

- Noi te l'abbiamo condotto, Lena, e' venne con noi nella soffitta ove tu stavi, io gli preparava un compenso all'orribile dolore, alla vergogna ch'ei doveva provare vedendo tua madre; io gli preparava una gioia nella figlia.... Madre e figlia erano sparite! la madre per espiare colla morte, la figlia per continuare la vergogna e l'infamia della madre....

- Bruto, Bruto, abbi compassione di me! sospirò Lena gettandosi nelle braccia del giovane e singhiozzando sul suo petto.

- Ed ora giudica tu stessa, Lena! Posso io presentarti a quest'uomo pieno d'onore? Posso presentarti al barone Colini, colonnello della grande armata e dirgli: Ecco tua figlia, l'è Ondina: ella è la ganza del marchese di Diano.

- Giammai!, oh! giammai, sclamò l'infelice creatura. Meglio sarebbe restar orfana. Ma io voglio vederlo. Trova una scusa per presentarmi a lui, per condurlo da.... No, no, qui no; da Ondina, giammai. Andiamo da lui. Vado a ringraziarlo d'essersi battuto per me.... Io non sono obbligata a conoscere la verità. In fine, inventa, cerca, io sono una tua sorella, tua madre, la tua amante; no, no, questo, tua cugina. Ma andiamo, andiamo presto.

E in pari tempo suonava e domandava una vettura. Bruto e don Gabriele non ebbero il tempo di collocare un'osservazione, di prendere una determinazione. Lena s'impadronì del braccio di Bruto, lo trascinò e lo spinse nella vettura che attendeva sotto il vestibolo.

- Andate, disse Lena al cocchiere.

- Dove? dimandò costui.

Don Gabriele diede l'indirizzo e montò in predella.

Un quarto d'ora dopo scendevano alla porta della casa di Bruto. Non una parola durante il tragitto. Lena saltò giù per la prima senza dare neppur tempo al cocchiere di aprire lo sportello. Afferra Bruto pel braccio e sale, corre, vola su per la scala. Bruto si fermò alla porta, che trovò aperta. Tartaruga nell'anticamera pregava e piangeva.

- Cosa è dunque avvenuto?

- Vergine Immacolata! Santa Trinità! sangue puro del nostro Signore Gesù Cristo! sclamava Tartaruga terrorizzata, fuori di sè; la polizia è venuta poco fa e l'ha arrestato!

- Chi? chi? gridarono Lena, Bruto e don Gabriele.

- Il colonnello.

Lena cade svenuta sopra una sedia.

CAPITOLO VII. I progetti.

Non bisognava confidare in Bruto, nè in Lena per trovar le tracce del colonnello. L'uno e l'altra perdevano la testa. Don Gabriele sentì che era suo dovere cavarli d'impaccio. La cosa d'altronde si spiegava da sè stessa. Fuina non fece che completare le informazioni. A Napoli il duello era punito coi lavori forzati. La gente, che abitava il cortile ove il marchese ed il colonnello s'eran battuti, aveva parlato.

La polizia aveva seguìto le tracce dei combattenti dalla provocazione in teatro fino allo scioglimento.

Il connotato di un militare monco di un braccio e di una gamba indicava chiaramente il colonnello, già inscritto nei registri della polizia per altre ragioni. La ferita del marchese lo denunziava. Era facile ricostruire la verità sopra queste indicazioni.

Il colonnello fu arrestato.

La polizia arriva dal marchese al momento in cui e' veniva di spulezzar dal suo nido.

Tutta Napoli parlava di questo avvenimento, esagerandolo od estraendone i numeri al lotto. Il re ne fu istrutto. Suo fratello don Antonio, principe di Caserta lo seppe anch'egli. Ora, questo principe amava il marchese di Diano, di cui divideva i gusti, il carattere e il genere di avventure. Sapendo che costui era sul punto di essere arrestato, don Antonio gli aveva mandato il suo cavaliere d'onore, il quale sguizzò il ferito in una vettura colla livrea del principe e lo condusse via.

Una lettera del marchese a Lena, ed un'altra a Bruto, svelò loro il sito ove il marchese si nascondeva. E' li chiamava presso il suo letto per ragioni diverse; l'amante per alleviare, il medico per guarire la ferita. Il marchese non sapeva nulla di Bruto, dei suoi affari, delle sue relazioni. L'aveva visto ed aveva inteso parlare di lui, per la prima volta, al letto dell'ospitale de' Pellegrini.

Questa spiegazione era necessaria, per ciò che segue.

Il marchese era, dunque, in una casa di campagna - parco di dissolutezze - del principe di Caserta, a Quisisana, vicino a Castellamare. Che la polizia osi, dunque, di andarlo a cercare in quella amabile fortezza!

Lena non disse nulla a Bruto della lettera del marchese, come questi non parlò della sua a Lena.

Questa lettera era per lui un secreto di professione.

Prima di recarsi al ritrovo, assegnatole dal marchese, Lena volle parlarne a don Gabriele, il quale le sembrava uomo di buon consiglio, poichè Bruto non faceva nulla senza consultarlo.

- Voglia vederlo per l'ultima volta, disse Lena. Il marchese ha dei difetti mostruosi, ma ha pure degli slanci nobili e generosi. Quando gli avrò detto chi sono - e da ieri sono e resterò la figlia del colonnello barone Colini - quando gli avrò appreso ciò che voglio fare per mio padre, il marchese rinunzierà a me. La mia franchezza lo toccherà. Si getterà nelle fiamme onde venirmi in aiuto.

- La partita è pericolosa, mormorò don Gabriele riflettendo; però, checchè ve ne paia, ricordatevi di vostro padre, e rinunziate a lui per sempre.

- Giammai. Io penso, al contrario, alla mia riabilitazione. - Ma avanti di presentarmi, bisogna che io gli faccia dimenticare gli ultimi anni della madre e gli ultimi mesi della figlia. Ho di già il mio progetto.

- Quale?

- Vi ho fatto venire per parlarvene. Il principe di Joinville, che è partito questa mattina, ha promesso a Donizetti che avanti quindici giorni gli avrebbe fatto inviare un contratto di scrittura al Teatro Italiano di Parigi per me. Accetto, qualunque siasi la paga ch'e' m'offrono.

- Lasciate Napoli, dunque? E vostro padre che è in prigione e che potreste raccomandare?....

- A chi? e come? a qual prezzo lo raccomanderei io in questa infame città, sotto questo infame governo? Voi non riflettete, dunque, più chi son io, e che volendo essere ciò che sono, non ho alcuna presa sui ministri del re. No, andrò a Parigi. Donizetti mi accompagna. Egli è amato e stimato in Francia. Il principe di Joinville non gli rifiuterà ciò ch'egli gli chiederà in mio ed in suo nome. Arrivati a Parigi otterrò che l'ambasciatore di Francia reclami mio padre come colonnello dell'esercito francese. Poi ritorno portando meco il riconoscimento di mio padre come colonnello di Napoleone e barone dell'Impero, la sua sorte messa in regola dal ministro della guerra del Re Luigi-Filippo, il suo ritiro dal servizio attivo come invalido e la sua pensione come quella degli altri militari dell'Impero.

- Ah, se non fosse un sogno ciò che dite là, signorina! esclamò don Gabriele.

- Non è un sogno. Io non ho detto che si trattava del mio proprio padre; ma ho costrutta una storia su questo subbietto. Donizetti ha promesso di aiutarmi e mi diede buone speranze. Nè ciò è ancor tutto.

- Cos'altro allora?

- Manderò a mio padre, in una scatola d'oro, il dispaccio del ministro della guerra francese, senza dirgli ancora chi sono. No. Non voglio presentarmigli nè sotto il nome di Lena, nè sotto quello di Ondina, che devono ricordargli tristi memorie e ridestare dolori che non possono esser lenti. Voglio darmi a conoscere a lui sotto il nome di mio marito.

- Come, disse don Gabriele, avete già un marito in aspettativa?

- E da molto tempo. Ma, ahimè! L'è forse un mio vaneggiamento. Mi vorrà desso? Ascoltate, voglio svelarvi il mio secreto. Amo Bruto. L'ho amato da quel giorno in cui, dalla finestra di rincontro alla mia, il primo suo sguardo col mio s'incrociò.

- Ciò data da lontano allora.

- Ma, dal giorno del suo arrivo a Napoli. Da quel giorno, io non ho avuto che lui dinanzi agli occhi. Per lui, avrei voluto restare onesta fanciulla. Se ho tanto combattuto, gli è a causa di ciò. Egli era la stella che mi guidava. Quando avevo fame pensavo a lui. Lo sposai all'altare della miseria. Credetti che anch'egli mi amasse. Una donna indovina codesto. L'aria che la circonda chiacchiera e canta. L'ho ritrovato triste, serio, direi quasi schiacciato da qualche cosa che pesa su lui. Ho creduto per un momento che amasse altrove.

- Ah! voi avete creduto ciò?

- Sì, ma se ciò fosse stato, mi sono poi detta, e' non sarebbe venuto a me, alla Lena.... si sarebbe forse recato da Ondina, tutt'al più. Ha avuto degli slanci che lo hanno tradito. Ma e' mi sembra gemere sotto il peso di qualche fatalità occulta. Quale? Don Gabriele vi ho chiamato per questo. Io ve lo chiedo.

Don Gabriele, che era divenuto pensieroso, grave, serbò il silenzio.

- Don Gabriele, continuò Lena dopo aver aspettato per alcuni istanti una risposta, se è un secreto non voglio conoscerlo. meglio, non voglio sapere che una cosa: Ama egli un'altra donna? È maritato? Mi crede desso troppo indegna di lui, anche dopo il mio pentimento e le promesse, che gli ho fatte e che manterrò?

- Io vorrei con tutto il cuore, signorina, darvi una risposta precisa a ciò che domandate; ma in verità non ne so nulla. Bruto è cangiato. Egli soffre certamente di qualche cosa che rassomiglia ad un cordoglio, ad un rimorso, ad una disperazione, qualche cosa di fatale insomma. Ma che è mai? Io l'ignoro. E' mi ha detto nulla. Quando l'ho interrogato, ha evitato di rispondermi.

- Ma avete mai sospettato che codesta tristezza potesse essere un amore contrariato?

- Per taluni indizi, oggi sì; domani no, per altri indizi contrari.

- Farei bene a parlargli io stessa di tutto codesto?

- No. Non ancora, almeno. Lasciatemi scandagliarlo. Ho un sospetto. È mestieri che io lo chiarisca.

- Ascoltatemi, don Gabriele, perocchè occorre che voi mi conosciate altresì. Se ho il gorgheggio dell'usignuolo, come mi dicono, e le apparenze d'una colomba - ciò che non ammetto - io ho pure gli artigli dell'aquila ed il rostro ricurvo come il pugnale dei sultani di Granata. Se Bruto ha un'agonia di amore in cui si delizia, che Dio gli venga in aiuto. Non sarò certo io che andrò a turbarlo con un intervento mal abile. Ma se egli soccombe sotto codesto dolore! Oh!.... allora, per liberarnelo, oserò tutto, perfino il delitto. Procurate, dunque, di sapere e siate pronto ad aiutarmi quando l'ora sarà suonata.

- Voi avete la tempra di qualcuno che sa tenere un secreto, rispose don Gabriele. Fino a questo momento, io ho esitato a svelarlo, codesto secreto, perocchè io mi dicevo: E poi? quando l'avrai conosciuto? Cosa puoi fare, tu solo, se e' rifiuta di sottrarsi al suo malore? Ma ora che siamo in due, intraprendo l'esplorazione e vi terrò a giorno del risultato. Ciò non durerà guari. Infrattanto, andate a trovare il marchese a Castellamare!

- Non vi andrò sola, replicò Lena. A cominciar da oggidì, io sono la figlia del colonnello.

- Ebbene! riprese don Gabriele, v'accompagnerò io e, se occorre far perdere le orme alla polizia, contate su me.

- Accetto, disse Lena. A domani, dunque.

L'indomani mattina, alle otto ore, con una giornata magnifica, ed un sole, che riempiva l'aria di pagliuzze dorate, un signore singolarmente azzimato si presentava all'albergo di Nuova-York.

Un cappello ad alto cucuzzolo e larghe falde copriva un capo ornato di capelli rossi, che finivano in coda dietro la nuca e scendevano a ricci sopra le orecchie. Un paio di occhiali d'oro servivano di paravento agli occhi e di sella ad un naso corto ed aperto, delicatamente spolverato di tabacco. La statura di questo personaggio sarebbe stata mezzana, se la forma de' suoi abiti non gli avesse dato il miraggio di una grande persona.

Portava brache di nankin, attillate alle forme, piuttosto corte, tese da staffe della stessa stoffa, le quali staffe attaccavano egualmente ai piedi scarpini di pelle verniciata. Ciò non impediva ad un bel paio di calze scozzesi di far bella forma delle loro righe e dei loro colori. Un abito a coda di rondine, color verde, bottoni dorati, vita corta, aperto davanti, permetteva agli ammiratori dell'eleganza di contemplare un giustacuore di pel di capra color giallo canario, dalle tasche del quale pendeva un cespuglio di ciondoli, composto a proposito per tentare la virtù dei tagliaborse.

I bottoni, gli anelli, gli scheggiati, completavano la chincaglieria del personaggio ed una larga cravatta rossa metteva tutto in rilievo. Portava guanti gialli, bastone a borchia d'oro cesellata ed un lungo paio di manichetti facevano riscontro al merletto della camicia. Il suo andare era grave e leggero nel medesimo tempo, ciò che annunziava l'agilità del corpo e la maturità dello spirito. La sua testa alta un po' piegata sulla spalla dritta, indicava un uomo sicuro di sè stesso, che voleva esser obbedito, faceva a sua voglia ed imponeva altrui la sua volontà. Il sorriso regnava sulle labbra. Egli era contento di sè.

Parlava italiano, ma il suo accento tradiva diabolicamente la sua provenienza britannica. Gli si sarebbero dati quarant'anni, se la sua pancia che si rotondava senza cerimonie sopra delle cosce corte e delle gambe lunghe e stecchite, non avessero modificato la prima impressione e aggiunto una decina d'anni all'insieme della sua persona.

Questo gentiluomo si fece annunziare a Lena, o meglio ad Ondina, sotto il nome di lord Adam Tugmutton.

- Non conosco l'animale che risponde a questo nome, disse Lena, senza lasciare il gabinetto, ove la s'acconciava.

Il cameriere dell'albergo riportò questa risposta, corretta del sostantivo animale, tradotto in quello di milord.

- Ah! ah! ah! rispose milord Adam; capisco. Dite alla signora Ondina che lord Adam ha bisogno di parlarle.

- Rispondete a codesto Adamo, replicò Lena, che Eva non ha ancora messo il suo grembiale di foglie di fico e, che se egli ha da parlarmi, e' può deporre il suo discorso dal portinaio.

Il cameriere riportò la risposta, senza farla, questa volta, passar per la censura.

- Ah! ah! ah! obbiettò milord ridendo; dite alla signorina che il mio discorso ha la podagra e non può discendere dal portinaio.

- Rispondete a milord, replicò Lena, che milady si mette in viaggio fra mezz'ora e che gli permette di attendere fino al suo ritorno.

- Ah! ah! ah! rispondete a milady, che milord preferisce di accompagnarla nel suo viaggio, lasciando nel salone, per attendere milady, il suo discorso e la sua gotta.

- In questo caso, che vadi al diavolo, gridò Lena.

- Ah! ah! ah! concluse milord, in questo caso, prego milady di presentarmi milord il diavolo, cui non ho l'onore di conoscere, se costui deve essermi compagno di viaggio.

L'ostinazione di quest'uomo esasperò Lena, la quale aspettava a nove ore don Gabriele ed aveva ordinato la vettura, che doveva condurli a Castellamare.

Non c'erano ancora le strade ferrate nel felice regno di Napoli.

- Fatelo entrare, allora, sclamò dessa, e che la vettura aspetti alla porta.

Lena non s'era presa la briga di pettinarsi. Aveva arrotolate in una reticola le sue trecce, che le scendevano sulle spalle. Un denso velo verde coprivale il viso. Il resto dell'abbigliamento era alla grazia di Dio; ricoperta da un burnus algerino a righe bianche, nere ed oro.

Il cameriere introdusse lord Adam Tugmutton, chiuse la porta e si allontanò lentamente sorridendo e scuotendo il capo. Ma non aveva fatto dieci passi che udì un grande scoppio di riso della signorina Ondina, e cinque minuti dopo milord e madamigella braccio a braccio sempre ridendo e conversando a bassa voce discendevano la scala, montavano in vettura e milord diceva al cocchiere:

- Andate.

- Dove, eccellenza?

- Al diavolo.... a Castellamare.

CAPITOLO VIII. Castellamare.

È impossibile che alcuno dei nostri lettori non sia mai stato a Castellamare. Pel momento l'è Ischia, luogo di bagni e di ritrovo di piacere nel medesimo tempo che tiene il campo della moda.

Comunque sia, gli è nei mesi di luglio e di agosto che bisogna visitare Castellamare, rinomata per la bellezza de' suoi asini e la bruttezza delle sue donne. Castellamare è l'anticamera di Sorrento, cantata da Lamartine e da lord Byron, patria del buon vitello.... e degli aranci profumati.

In questa stagione dell'anno, le acque richiamano gli ammalati da tutti i punti dell'ex-regno, i gastronomi, che vengono a scontare le indigestioni di dieci mesi, i disgraziati cui la medicina abbandonò.

Voi che avete visitato le città ed acque della Germania e dei Pirenei e le città da bagni della Francia e dell'Inghilterra, non vi aspettate di trovare a Castellamare ridotti da giuoco, saloni da conversazione, balli e musica, passeggiate, boschetti, restaurant, alberghi, divertimenti, dame, i lions dello sport e del turf, un teatro, un caffè cantante od anche un semplice caffè(17), - una festa qualunque, infine, tranne la processione di san Catiello. - Dio vi abbia in guardia, se vi recate con queste idee diaboliche del mondo incivilito, che non è il mondo della Chiesa, e non era, quindi, neppur quello dei Borboni. La vita a Castellamare è più casalinga, più santa, quasi una vita di zoccolante. La noia non vi segna mai meno dei 94 ai 97 gradi centigradi.

Castellamare non è che una lunga e sporca via in riva al mare, ove il sole vi cuoce durante il giorno e l'umidità vi bagna durante la notte. Ovunque il fango o la polvere. Poi alcuni orribili chiassuoli, una dozzina di case di campagna perdute sulla montagna, a perpendicolo sul borgo, ed un equivoco di strada lambe i piè di codesta montagna, e vi si nuota in ondate convulse di polvere. Finalmente un piccolo sito, chiuso da inferriate, detto lo stabilimento, ed una sembianza di giardino, ove l'ortica e la malva si beano nella loro vegetazione spontanea. Non parlo degli insetti, prodotto naturale del paese.

Ecco ciò che l'uomo ha fatto di Castellamare.

Ciò che ne ha fatto la natura è incomparabile.

Quel mare, quel cielo, quella montagna, quei paesaggi, quei spuntar dell'aurora, quei tramonti, quelle feste di stelle la notte, tutto è delizioso, inebbriante, incantatore.

Lena aveva sempre vissuto a Napoli. Fu rapita di vedere Portici, il boschetto del Palazzo Reale, la Favorita a Resina, Torre del Greco inerpicata al Vesuvio, o meglio ribaditavi dalla lava, bitume di ferro, Torre dell'Annunziata, Pompei.... Arrivarono a Castellamare la sera. Don Gabriele - i nostri lettori l'avranno di già riconosciuto - volle mostrarle tutto ciò, non foss'altro per disorientare la polizia, la quale avrebbe potuto sorvegliare Ondina, onde ritrovare le tracce del marchese di Diano.

Si recarono all'albergo dell'Europa, ove si è sicuri di trovar sempre alloggio, poichè l'è troppo caro per gli avventori ordinari di questa città di bagni. Costoro si alloggiano in camere mobigliate.

Lena dormì bene e si svegliò tardi la mattina susseguente. Dico che si risvegliò. Dovrei dire fu risvegliata. Si picchiò alla sua porta: scese dal letto in accappatoio da notte, ma al momento stesso la porta s'aprì ed un monello, dorato al sole come un dattero, il petto ignudo, senza scarpe, in maniche di camicia, il berretto alla mano, si presentò fissando sulla giovane donna due occhi come due áncore di cristallo. Egli si avanzò liberamente e le chiese:

- Come lo vuole, vostra eccellenza?

- Chi sei tu? cosa vuoi? gridò Lena spaventata. Va via, via subito: non vedi che non posso riceverti in questi arnesi?

- Cosa importa? I miei sono alla grazia di Dio. Sono venuto per domandarvi se lo volete calzato o no?

- Esci, ti dico, o chiamo, e ti fo gettare dalla finestra.

- Sarebbe la via la più corta. E vostra eccellenza sa che per la via più corta, come dice il padre Sillario, non si va in paradiso.

- Ma finalmente cosa vuoi? di che parli?

- Ma, Signor Dio benedetto, parlo dell'asino, dunque. Di che volete che vi parli?

- Esci, ti replico.

- Signora principessa, manca poco che mi prendiate per un ladro. Me ne vado: se vostra eccellenza ha bisogno di un asino o due, che faccia chiamare Antonio, conosciuto nelle quattro parti del mondo. Le milady inglesi non vogliono che me. Mi hanno ficcato persino nei libri. E non lo dico per piaggiarvi, ma ho un asino tanto bello quanto vostra eccellenza. Se lo vedeste! si alza sulle due zampe di dietro e recita il panegirico di santa Filomena. E, poi, ha una voce, una voce.... Sfido i canonici della cattedrale di farne udire di più deliziose. Mi consigliarono di esporlo al concorso pel posto di cantore al coro di Massa. Sì, l'udrete come esso gorgheggia l'Ite missa est! E poi come galoppa, come bacia le mani con grazia e buona creanza.... In una parola, che vostra eccellenza non dimentichi il suo Antonio e la vedrà. Balaam non fece un sogno quando profetizzò la sua somara: me lo disse un giorno il curato.

- Hai finito!.. Vattene ora a tutti i diavoli.

- Vado ad aspettare vostra eccellenza.

Per dire la verità, Antonio aveva un po' esagerato le qualità della sua cavalcatura comparandola alla bellezza di sua eccellenza. Il suo somaretto era magro, lungo, ossoso, sciancato. Ma Antonio, da ragazzo astuto, da uomo, che dava la metà del suo guadagno al padrone dell'albergo, fece trovare la sua bestia ed una compagna di mangiatoia alla porta dell'albergo, ogni concorrenza messa da banda.

Lena e don Gabriele furono quindi obbligati di contentarsi di quei due asini per recarsi allo stabilimento.

Arrivati dinanzi al cancello, pagarono Antonio e scesero. Quella ginnastica asinaria dava il mal di mare a Lena. Furono allora circondati da una folla di mendicanti, di postulanti, di mercanti, di curiosi, da una mob malsana, direbbero gli Inglesi.

- Eccellenza, volete degli asini? domandava un altro asinaio a don Gabriele. Un milord, come vostra eccellenza, non può cavalcare che una gazzella come la mia. Lasciate codesta etica carogna di Antonio, che s'inginocchia ad ogni cinque passi, e porta la testa bassa come un seminarista. Vi darò un animale degno d'essere bipede come vostra eccellenza.

- Fatti via di là, rispondeva Antonio, punto nell'onore del suo somaro; il tuo struzzo ha più guidaleschi alla schiena, che un confessore non abbia peccati nelle orecchie.

- Eccellenza, guardatevi bene da quell'uomo, egli ha la rogna.

- Vostra eccellenza, vuol ella accettare un rasoio per la barba? diceva un mercante a Lena; è uno dei più perfetti inglesi, fabbricati a Campobasso.

- Eccellenza, diceva un altro a don Gabriele, ecco della Wagram, della fabbrica di Piedimonte a Manchester. Ve la vendo a prova di limone. Me la pagherete quando l'avrete adoperata! Non vi chiedo che un acconto di sette lire al metro, per ricordo dell'onore di avervi servito.

- Freschi, freschi! gridava una donna dalla faccia e dalla persona orribilmente sudice; vengono fuori or ora dal forno, i biscottini! Vedete, sentite, ci ho messo del finocchio. Andiamo, zio canonico, prendete il mio taralluccio. Vostra reverenza ne sarà contenta.

- Cose belle a leggere, urlava un libraio che aveva spalancato qualche dozzina di volumi sopra una tavola. Tutta roba venuta a luce mo' mo', ed a che prezzo ancora! Ecco un romanzo per le signorine: Trattato delle ipoteche del signor Pothier. Ecco un libro per vostra reverenza, signor canonico, un trattato sull'indigestione, e l'Uomo dai tre calzoni, compendio di teologia morale del professore della Sorbonne, signor Paolo di Kock. Volete un libro d'educazione per le vostre figliuole, signor sindaco? Eccovi Lelia, Spiridione del signor Giorgio Sand, professore d'etica al collegio di Francia. Il signor abate può terminare le sue devozioni nelle Novelle dell'abate Casti - abate casto se ve ne fu mai! E poi, libri ancora più nuovi, arrivati la settimana scorsa da Liverpool e da Marsiglia: Le Favole d'Esopo, l'Eneide travestita, il Cuoco milanese, l'Almanacco dell'anno scorso.... Ma leggete, dunque! leggete!

- Ecco degli occhiali per la vista del signor sindaco. Vengono dalla Baviera, signore: gli è Sacco che li ha fabbricati.

- Signora sindachessa, eccole dei cavastivali.

- Volete dei numeri sicuri per il lotto? susurrava misteriosamente un bietolone a don Gabriele.

- Signor giudice, prenda questo anello che ho rubato; glielo lascio a buon prezzo.

- Signora milady, ecco uno specifico contro le pulci, diceva un altro a Lena.

I nostri viaggiatori non ascoltarono il resto: avevano varcata la porta dello stabilimento.

La folla non era meno grande dentro che fuori. Si udiva dire da ogni punto:

- Buon giorno, compare. Hai bevuto?

- Quindici bicchieri, e tu?

- Ah! madama, diceva il vescovo di Policastro a Lena, che si era avvicinata ad una vasca; bisogna convenirne, la natura è prodigiosa. Metter tanti gusti differenti in una sola spaccatura.... d'acque!

Infatti, dall'istessa fessura della roccia, appiedi della montagna, sgorgano cinque sorta differenti di acque minerali.

- Dio è grande, monsignore, rispose Lena.

- Principalmente nella varietà delle acque e nell'immensa quantità delle bestie! soggiunse don Gabriele.

- Ho sempre abbisognato di lassativi, io, signora, confidava il sindaco di Aratusa a Lena, mischiandosi alla conversazione ed al capannello, che si formava intorno a Lena ed al vescovo. Mia moglie perdeva la pazienza, le mie figlie brontolavano, ed ecco che quest'acqua....

- Siete cattolica, milady? chiese il vescovo.

- Credo, almeno....

- To'! avrei giurato che foste romana, milady, osservò il sindaco. Quella statura.... e poi parlate il napoletano a perfezione... Fareste arrossire mio nipote, che studia da sette anni il latino e l'italiano al seminario. E' dice che io sono un imbecille: e gli altri lo ripetono. E bisogna che ci sia qualcosa di così, poichè son tutti del medesimo parere. Malgrado ciò, senza matematiche e senza lingua italiana, ho raggruzzolato una fortuna di 30,000 ducati. Ora, ella mi capisce, monsignore?

- Parola per parola.

- Anche l'intendente mi capisce, quantunque non faccia mai quello che io gli dico, e senza che io sia obbligato a fare ciò che egli ordina. Ma chi comanda è sempre a tre quarti sordo; la è vecchia. Non è vero, monsignore?

- Voi avete delle opinioni democratiche, signor sindaco, fate attenzione.

- Ah! ah! non sente nessun moto nel suo ventre, monsignore? Col permesso delle loro signorie.... se posso esser utile in qualche cosa.... Don Michele Cupola, sindaco d'Aratusa.... Vengano ad Aratusa.... Col loro permesso.

Lena e don Gabriele andarono a passeggiare nel giardino; ma vi erano a percorrere tante giravolte, montando e discendendo, che Lena s'appigliò al partito di sedere sulla terrazza, vicino ad un arciprete che recitava le sue ore.

- Ad te, Domine, clamavi.... Che caldo, signora! Non ho mai sudato tanto in vita mia, neppure quando concorsi per essere arciprete. Un concorso famoso, signora.... Monsignore ne restò stupito.... Ad te, Domine clamavi.... Come vi chiamate, signora? Di che paese siete? Vorrei solamente sapere se nel vostro paese incontraste mai mio nipote. Ad te, Domine, clamavi.... Non lo credereste, signora? egli è andato a Londra per pagare una ghinea un piatto di maccheroni e vedere come i cani strozzano i topi e come si beccano fra loro i galli, per la conquista d'una gallina. Noi vediamo ogni giorno tutto ciò nelle nostre strade. Ad te, Domine, clamavi....

- L'è un uomo prodigioso, vostro nipote, signor arciprete, osservò don Gabriele, che studiava i tipi ed i caratteri pel suo teatro.

- Ad te, Domine, clamavi.... prodigioso! A chi lo dite? s'imbacucca col tabarro l'estate, ha veduto ciò a Saragozza - e porta calzoni di tela l'inverno. Ha la rabbia di comprar roba vecchia. Corre dietro a tutto ciò che è archeologico, perfino le donne! Ad te, Domine, clamavi.... Non parla che di Parigi. Credo che quel paese abbia inventate la luna e le anime del purgatorio.... Vorrebbe fare un Parigi del nostro borgo. Ad te, Domine, clamavi.... Clamavi.... Clamavi.... L'è arrivato. Col vostro permesso, signora, sono obbligato di assentarmi.... Gloria in excelsis.

L'ora di andar a trovare il marchese essendo giunta, i nostri viaggiatori uscirono dallo stabilimento e ripresero gli asini per ascendere ad uno dei poggi della montagna, ove il casino del principe di Caserta era situato.

Questa montagna è molto pittoresca, coperta di una bella vegetazione, e presenta una superba varietà di paesaggi, a misura che la strada tagliata su' suoi spaldi, guarda la campagna - ove si rizza il Vesuvio e si vedono le città di Nocera, di Lettere, di Gragnano - e il mare con i suoi flutti d'indaco, ove si cullano in mezzo ai vapori violetti Capri, Nisida, Ischia, la punta di Sorrento e di Massa e il fondo di Napoli che appare come una candida striscia. Tutto ciò sembra un sogno a traverso quel velo leggero di molecole dorate che nuotano nell'aria, prodotte dal calore, attratte dalla luce. Lena ed il suo compagno, malgrado la loro ansietà al momento di raggiungere il loro destino, non poterono restar insensibili ad uno spettacolo così vago.

Un lungo e tortuoso viale a diversi piani, chiuso da un cancello sulla strada, precedeva la casa. Una vettura attendeva alla porta.

- Giuro a Dio! disse don Gabriele, mi pare di conoscere quel cocchiere. Sarebbe curiosa.... Aspettatemi qui....

Scese dall'asino, fece fermare Lena a un tiro di fucile dal castello e si avanzò verso il cocchiere. Dopo pochi minuti di conversazione, don Gabriele ritornò, fece scendere Lena, pagò e rimandò gli asinai. Poi si avanzarono verso la vettura, varcarono la porta e principiarono a montare su pel viale.

In una piazzuola che precedeva la casa, un'altra vettura, ma non da nolo questa, aspettava dietro un boschetto di acacie. Rimpetto alla casa si alzava un kiosque di caprifogli, bossi e mirti. La porta della casa era aperta ed una vecchia spazzava qualche granello di sabbia che gli stivali dei visitatori avevano lasciati sul lastrico.

- Fermiamoci all'ombra di questi alberi, disse don Gabriele. Quando uscirà, voi salirete dal marchese, io vi aspetterò qui. Egli ci aspetterà nella vettura, secondo le istruzioni che ho date al cocchiere, e tutti insieme partiremo per Napoli allegramente.

Don Gabriele finiva appena di parlare, che l'esplosione di due colpi di pistola nella casa li fecero trasalire. Si avanzarono verso la porta. Un uomo senza cappello, che gridava all'assassino! stramazzò per terra la vecchia in passando, varcò la porta e la gradinata in un balzo e passò dinanzi a loro come un camoscio.

- Bruto! sclamarono ad una voce Lena e don Gabriele, la prima sollevando il suo velo, l'altro sbarazzandosi di un rovescio degli occhiali e della parrucca.

Bruto li riconobbe e, senza dire una parola, li trascinò seco nella sua corsa a volo di allodola.

- A Napoli, ordinò don Gabriele al cocchiere, e ventre a terra fino alla Torre.

CAPITOLO IX. I piccoli incidenti.

La principessa di Kerson aspettava da un'ora nel piccolo appartamento, dietro la portiera di velluto dello studio del conte di Ruitz.

Questo appartamento si componeva di due stanze, d'un gabinetto molto riccamente mobigliato, ma di molto(18) cattivo gusto, e di un'altra camera più semplice, tappezzata di damasco rosso, con un letto splendido ed una toletta di marmo bianco coperta di cristalli di Boemia.

La luce delle due stanze era stata artisticamente graduata con vetri opachi e colorati. Essa raddolciva con un chiarore simile all'alba tutti i colori e tutti gli oggetti.

Delle guastade colme di fiori profumavano l'aria. I molli tappeti bianchi, a fiori paonazzi, assordivano il passo e le ondulazioni della voce.

Dei divani di raso bianco a nappe nere ed oro correvano lungo i muri, e aprivano le loro braccia ovunque si volesse riposare. Nulla che potesse gridare o far strepito. Nulla di angoloso, di troppo accentuato, di troppo determinato. Quell'insieme formava un certo che di dentro, ove tutto era soffice: il suono, la luce, il tempo, lo spazio, la temperatura.

La fata del luogo aveva in realtà quarant'anni, ma i più audaci, i più osservatori, non le ne avrebbero dato che venticinque, in questo medio dell'indefinito.

La principessa di Kerson era prodigiosamente conosciuta a Napoli, a causa della sua meravigliosa rassomiglianza colla regina madre. Si sarebbe detto che fossero due gemelle, se l'una non fosse nata in Spagna e l'altra in Polonia; - questa qui era polacca vedova d'un russo. Nessun sapeva ove la principessa abitasse. Le si dava per dimora una casa di campagna a Posilipo, sulla riva del mare, ove un yacht restava sempre amarrato per riceverla. La si vedeva di rado per le vie di Napoli. Non s'incontrava in nessun sito, eccettuato nelle case dei poveri vergognosi che andava a soccorrere di nascosto. Ecco tutto ciò che di lei si diceva.

Probabilmente il conte ne sapeva di più. Quelli che l'avevano conosciuta nella sua casa ne conoscevano all'incirca quanto abbiamo detto, eccettuato forse taluni dettagli intimi, che ogni buon cavaliere serba per sè e nasconde altrui, anche a costo del suo sangue. Tale qual era, la principessa era bella. Lo sarebbe stata ancor di più, se la pinguedine non le avesse dato una vita un po' maestosa, e se il colore un po' troppo vivo del sembiante non l'avesse prosaizzata.

Del resto le mani, i piedi, la fronte, il seno, le spalle, il collo, i lineamenti, gli occhi, le labbra, i denti.... tutto era squisito ed appetitoso. Queglino che amano le donne di Rubens l'avrebbero carezzata come il loro ideale. Tiziano se ne sarebbe leccato le dita. I colori foschi dei suoi vestiti le davano splendore come il niello ad una lamina di metalle.

La principessa Elisabetta si aggirava da un'ora nel suo gabinetto, come una lionessa nella sua gabbia, presa da impazienza febbrile. Ma la sua ansietà sarebbe sembrata leggera, in confronto di quella del conte.

Egli rientrava appena, quando la principessa arrivò.

Ruitz aveva corso la città dalle sei del mattino in cerca di qualche cosa, o di qualcheduno, rimuginando in tutte le case di sua conoscenza o di conoscenza di sua figlia. Aveva principiato da quella di Bruto, ma Tartaruga lo aveva ragguagliato che questi era partito la vigilia per Castellamare e non era ancora ritornato.

Ruitz osò perfino picchiare alla casa del marchese di Diano, di cui sapeva l'istoria, come la sapevano sua figlia e tutti gli altri, avvegnachè Bruto gli avesse raccontato che il principe Antonio l'aveva sottratto alle ricerche della polizia. In fine stanco, scoraggiato, temendo un colpo sinistro della fortuna, in preda a mille vaneggiamenti fantastici, intravedendo la sua rovina, era rientrato, passando per l'appartamento di sua figlia, e se ne stava nel suo studio, torcendosi da un'ora sul suo seggiolone.

Di un colpo la porta s'aprì e Bruto apparve sulla soglia.

- Hai veduto Cecilia? gli gridò il conte di lontano, alzandosi di balzo.

- Non sono ancora entrato nell'altro appartamento, rispose freddamente Bruto.

- E cos'hai alla guancia, fasciata così.

- Mal di denti. È dessa ancor lì?

- Lo credo bene. Da un'ora.

Bruto, senza aggiungere una parola, sollevò la portiera di velluto ed entrò dalla principessa. Scorgendolo, ella gli corse incontro e gli saltò al collo. Poi indietreggiò; vedendo la guancia di Bruto avviluppata da pannilini.

- Cosa è codesto? chiese ella con ansietà.

- Una ferita.

- Una ferita? Come!

- Una palla di pistola ha tagliato il mio orecchio, e sfiorata la mia guancia, un'altra ha solcato la pelle del mio cranio.

- Dio del cielo! un duello?

- No, signora; un assassinio mancato.

- Da chi, dunque?

- Dal marchese di Diano!

La principessa ricadde sul divano, impallidì e si tacque. Bruto si assise accanto a lei, ad una certa distanza, la testa bassa e le disse:

- Signora, vi devo una rivelazione. Per viltà, per rispetto, per attaccamento di medico al proprio ammalato, l'ho ritardata lungamente. Gli avvenimenti mi vi obbligano oggi. Mi vi sobbarco.

- Cosa voi dite?

- Signora, voi andrete senza fallo a disprezzarmi. Avete ragione, io non mi scuso. Ma voi non mi sprezzerete mai tanto, quanto io mi sprezzo, dal giorno che ho posto il piede in questo ridotto.

- Signore! sclamò la principessa offesa, rialzando il capo.

- Ve ne supplico, signora, non prendete in cattiva parte alcuna delle mie parole. Io non ho l'esperienza del mondo. Ma, se le mie parole vi offendessero, esse non esprimerebbero certo il rispetto profondo che porto nel mio cuore per la vostra persona.

- Qual è, dunque, codesta rivelazione strana a cui così stranamente mi preparate?

- Devo prender le cose da lontano, signora, per ispiegarvi l'intera mia condotta. Avete tempo di ascoltarmi oggi?

- Parlate. Il tempo mi obbedisce.

- Un giorno io fui chiamato a visitare una giovane donna cui un altro medico assisteva, ed uccideva.

- Chi era codesta donna?

- La figlia del conte Ruitz de Llamanda, la signora Cecilia.

- Ah! sì me ne ricordo.

- Questa fanciulla era incinta. Si tentava un aborto, al quale la natura resisteva. Diedi la mia opinione. La vita dell'ammalata era in pericolo. Il padre ne fu commosso e pensò a salvare l'onore della figlia, conservandole la vita.

- Non sapreste qualche cosa di più preciso su questo affare? dimandò la principessa a voce sorda. Chi era il damo di quella giovane?

- Il marchese di Diano.

- L'infame! esclamò la principessa.

Seguì un istante di silenzio.

- Continuate, disse infine la principessa.

- La medicatura fu cangiata ed il pericolo rimosso.

- Lo so.

- Assicurai la guarigione dell'ammalata e ne gioii. Era il primo cliente d'un mondo elevato, che io assisteva e salvava.

- Una sera il conte m'invitò a pranzo. Era il primo desinare che prendeva con la figliuola, dopo la malattia. Cecilia, infatti, pranzò con noi. Io bevvi un po' troppo, cedendo senza diffidenza agli incoraggiamenti del conte. Cecilia mi aveva sempre ricevuto male, non so perchè. Io l'aveva trovata bella, dal primo sguardo; ma un non so che di misterioso si interponeva fra noi che ci straniava, ella con asprezza, io con tristezza. La sera del pranzo la mi parve irresistibile. Non era che altiera quella sera e non mica sprezzante ed astiosa come al solito.

- Le vostre osservazioni sono molto precise.

- È necessario, signora, che io dettagli bene le cose, onde possiate ben giudicare la mia condotta. Dopo il pranzo, il conte, che fingeva di essere brillo in faccia all'uomo, che lo era forse davvero, mi tenne un seguito di propositi strani. Quando compresi però, la mia ebbrezza dissipossi in un attimo.

- Quali erano codesti propositi?

- Impossibile di seguirne ora l'intreccio e le tortuosità. Potevano riassumersi così: sposate mia figlia, la è bella, ed io vi servirò di cornac nella vostra carriera. Questa seconda parte mi sedusse poco. La fortuna non ha presa sur un uomo che può vivere di due soldi di pane al giorno e trovarsi più felice di Sardanapalo. L'onore di sposare la figlia del conte, la bellezza della fanciulla, mi toccarono poco altresì. Avevo scandagliato l'anima del conte e l'avevo trovata infame e putrida. Sua figlia mi odiava e d'altronde io era internamente corazzato contro la malìa di quel viso. Nonpertanto non si ha vent'anni per nulla. Ove il cuore rimbalzava, la carne gridava. Non amavo Cecilia, ma subivo la legge del desìo e non so quale influenza dei sensi.

- Passate, signore, passate, fece la principessa, i cui occhi fiammeggiavano.

- Pure non fu neppur questo che mi decise, signora. Io non mi fo bello: racconto semplicemente le cose. Non capivo bene, allora, ciò che vi potesse essere d'abbietto e d'immorale a sposare una donna nella posizione in cui si trova Cecilia, amando sempre il seduttore, benchè abbandonata e disprezzandomi e detestandomi. Il sentimento morale che questo stato di cose svegliava in me era vago. Ciò che mi commosse, fu l'onore oltraggiato di quella fanciulla, la sua vita spezzata. Porre una corona di vergine sul capo di quella vergine madre, dare un padre a quel bastardo, un nome a quella giovane donna, panneggiar di onore quell'infamia, mettere una bandiera di salvamento su quel naufragio, riparare, gettare un sorriso su quelle lagrime, dare il diritto della vita sociale ad una bella creatura e ad un infante, calmare gli allarmi d'un padre.... tutto ciò mi sembrò generoso, eroico, commovente, nobile. Dissi a me stesso: fo una buona azione all'inizio della mia vita, ciò mi porterà buona ventura.

- L'avete, dunque, sposata codesta donna? gridò la principessa.

- Ascoltatemi senza impazienza, signora, non vi nasconderò nulla. Riflettei due giorni. Consultai un amico.... ed accettai.

- Miserabile! ruggì la principessa.

- Non ancora, signora, non ancora. Ciò che avrebbe dovuto rischiararmi allora, se avessi avuto l'esperienza della vita, ciò che mi ha rischiarato di poi, sono le condizioni poste al matrimonio.

- Quali?

- Il matrimonio doveva restar secreto, io doveva tenermi separato da mia moglie.

- Separato! gridò la principessa interrompendolo, e lo foste?

- Sì, io sono ancora straniero a quella donna.

La principessa gli saltò al collo e l'abbracciò. Bruto continuò:

- Quando il conte annunziò queste notizie a sua figlia, quando gli ordinò di obbedirgli, essa volle avvelenarsi. Idolatrava il marchese. Il marchese, dal canto suo, le aveva promesso di sposarla. Ma Ruitz si opponeva. Il principe di Noto si sarebbe forse opposto anch'egli. Bisognava, dunque, forzar la loro volontà. Donde la sventura di Cecilia. Poi il marchese era scomparso rapendo una crestaia. Lo si era in seguito visto ancora in città, ma non mai più in casa del conte. Le lettere di Cecilia non avevano ricevuto riscontro. Tutto ciò, nondimeno, valeva poco. Cecilia l'amava sempre; ella addimandava una viltà infame, il mio consentimento. Il conte però tenne fermo; e vi dirò perchè. Fe' mostra con sua figlia dei sentimenti di uomo, di cittadino, di padre. Fu volta a volta dolce e feroce, affettuoso ed ironico, ignobile e cavalleresco in tutte le emozioni dell'anima, la commosse, raddolcì, la domò e fascinò. Per la prima volta in sua vita fu padre con questa creatura, cui aveva sempre considerata e trattata come bastarda. Il cuore di Cecilia era ferito ed aperto. L'amore prendeva un'altra forma per penetrarvi il dispetto; la gelosia, la disperazione si misero della partita. Il conte trafficò della mia generosità come del resto. Sua figlia piegò e consentì.

- Che miscuglio di mostruosità è codesto lacchè di Ruitz! sclamò la principessa.

- Ebbi con Cecilia un colloquio. Mi trattò da potenza conquistata. Ma codesta sua fierezza sedusse me, figlio del popolo. Mi ricordò tutte le condizioni che io aveva già accettate. Le dimandai i sentimenti d'una sorella.... Io vi odio!... la mi rispose. Ahimè! ciò fu la mia sventura. Se la m'avesse amato, forse l'avrei disprezzata. La sua resistenza, oltraggiandomi, umiliandomi, mi esaltò. L'uomo è fatto così: la sua essenza è elastica. Il matrimonio fu fissato. Un prete del mio paese, della cui secretezza ero sicuro, ci sposò una sera in una cappella. Quattro ufficiali svizzeri, come se si fosse trattato d'un duello, furono i nostri testimoni e firmarono il contratto. Cecilia si presentò all'altare vestita a scorruccio. Il conte e gli Svizzeri avevano il sigaro alla bocca, e lo stomaco pieno di liquori. Il prete palpava le dieci piastre che aveva ricevute ed il suo viso irraggiava.

Io era grave e triste. Uscendo dalla chiesa, il padre, la figlia, gli Svizzeri andarono a cenare dal conte; io rientrai e piansi.

Bruto non osò dire alla principessa tutta la verità: egli amava già Cecilia.

- Perchè piangevate, dunque; non eravate voi che l'avevate voluto?

- Non avevo avuto la forza di resistere e di oppormi. Non vedevo il male. Non trovavo di gualcito in tutto ciò che il mio cuore ed il mio onore. Il torrente travolgeva un uomo che non sapeva nuotare. Era colpa mia! Ma non è di ciò ch'io mi pento. Sono stato punito. Ciò che mi rende infame agli occhi miei, ciò che ha infangata la mia vita ed ucciso il sorriso che cantava nel mio giovane cuore, è la mia complicità nelle combinazioni del conte.

- Ah! non la è ancora finita con questo lacchè?

- Il peggio resta ancora a rivelare e ve ne supplico, signora, siate clemente verso il mio pentimento.

- Parlate.

- Il conte....

- Dite Ruitz, il groom....

- Sì, l'è più esatto. Ruitz mi parlò da prima per parabola, del suo stabilimento. Compresi che v'era in codesto un qualcosa di losco. Chiesi delle spiegazioni. Divagò. Lo forzai a darmi dei ragguagli netti e precisi. Mi parlò.... di questo appartamento.... di voi.

- Che vi disse egli? Esigo la verità.

- Ve la dirò. Sono deciso a non omettere nulla. La verità per lui, signora, non è mica così terribile. Questo appartamento è la sua rendita. Rendervelo aggradevole è il travaglio di tutte le ore della sua vita.

- Davvero!

- Teme che trovandolo un giorno vuoto, o indegno, o noioso, voi non lo abbandoniate.

- Infatti!

- Teme che coloro i quali vi fanno dimenticare le pene della vita in questo ritiro, non lo abbandonino, ciò che è accaduto talvolta, e ch'egli non si trovi derelitto. Attaccare alla vostra persona qualcuno, che fosse attaccato nell'istesso tempo alla sua con legami di sangue e d'interessi, ecco il tratto di genio di questa mercantile intelligenza. È venale e vile, ecco i suoi torti. I miei sono più indegni.

- Vediamoli.

- Il conte mi spiegò confusamente le sue teorie di solidarietà, le sue viste. Velò la parte che io doveva prendervi. Coprì tutto di una luce scialba ed equivoca come quella di questa camera. Io ho un carattere voluttuoso e debole. Ero curioso di questi misteri d'Iside, come un provinciale. E' vi parlò di me. Stuzzicò la vostra curiosità. Voi eravate indisposta un giorno e mi chiamaste qui, nel sito ove siamo.

- Me ne ricordo.

- Conversammo. Vi esaminai da medico, e non da uomo.

- Ah! e vi parve egli, ch'io mi fossi molto ammalata, signore?

- Sì, signora. E gli è precisamente perchè vi credetti e vi credo ammalata che entrai in seguito in questo appartamento. Altrimenti, avrei avuto nausea e di voi e di me.

La principessa coprì il viso delle sue mani e non fiatò motto. Bruto continuò:

- Sì, o signora, voi siete ammalata. Il vostro amore ha un nome in nosologia. Esso è classificato in tra le malattie nervose. Non ve lo ripeterò. D'altronde è desso un nome greco. Io lo compresi dal secondo giorno in cui vi rividi. Studiai il vostro male. Sentii come un rimorso di consigliarvi ancora per rimedio un maggiore svizzero od un marchese. Accettai il vostro amore come un segreto di professione, vale a dire un dogma religioso. Mi sono rimproverato il mio ufficio tutti i giorni, tutte le notti, ma non l'ho ribassato nè per codardo tradimento, nè per interesse. Il mio torto è di avervi compianta e non amata. Adoperai la mia infamia, come adoperavo in altre malattie l'acido prussico e l'arsenico.

- E perchè vi siete voi taciuto su tutto ciò fino ad oggi?

- Perchè, se io mi ritiravo, i maggiori ed i marchesi, signora, vi avrebbero trattata leggermente, afflitta, abbandonata, avvilita. Mi comprendete, signora?

- Continuate; io vi giudico.

- Io mi sono già giudicato, o signora, riprese Bruto dopo un momento di silenzio, e vengo a notificarvi la mia sentenza.

- La vostra sentenza?

- Sì, o signora. Volendo esser generoso, sono stato indegno. Ho fatto del don chisciottismo a proposito di mia moglie ed a proposito di.... voi, signora.... più ancora, sono stato inconseguente e ridicolo. Se avessi ricevuto una educazione sana, se avessi preso l'abitudine di riflettere sugli atti della vita, se ne avessi conosciuto la portata, avrei fuggito, come l'ergastolo, questa casa, il conte, sua figlia, questo studio - parc aux cerfs per lui, ospizio per me. I due colpi di pistola però cui ho ricevuto a bruciapelo....

- Che cos'è ancora codesto?

- Il marchese di Diano si era battuto in duello ed era stato ferito. Me lo portarono una notte ai Pellegrini, ove io ero di guardia. Io conosceva tutta la storia di quest'uomo. Egli aveva sedotto la giovine che era divenuta mia moglie. Questa creatura, cui le leggi ecclesiastiche mi legano per sempre, l'amava. Egli aveva rapito un'altra giovinetta, cui io aveva amata, che dovevo sposare, che è la figliuola del mio più caro amico; e cui amo tuttavia come una sorella, mentre ella mi ama forse d'un altro amore....

- Il nome di codesta persona?

- Non si tratta ora di lei. Passiamo.

- Ah!

- Questo marchese s'era battuto in duello col mio amico, il padre della giovane che aveva rapita. Questo disgraziato padre era in prigione.... Io aveva, dunque, tutte le ragioni per odiare e fuggire il marchese. E' mi cade tra le mani ferito. Chiede la mia assistenza di medico. Io soffoco la mia passione di uomo. Veggo in lui un soggetto, un ammalato, un dovere a compiere. Mi rassegno a curarlo.

- Gonzo fino alla punta delle dita! sclamò la principessa.

- Peggio ancora: idiota. Il marchese, ormato dalla polizia, aveva trovato un asilo inviolabile a Castellamare. Mi vi appellò. Entrai nel suo salone. Aspettai, perchè il marchese riceveva una visita. Ero impaziente; avevo un fatale presentimento. Perchè? Quell'aria mi sembrava carica d'un doloroso magnetismo. Respiravo il dolore. Attesi quasi un'ora. Il marchese aveva dato ordine di non essere disturbato. Compresi finalmente il segreto di quest'ordine. La porta s'aprì. Una donna fittamente velata apparve sulla soglia. Il mio cuore battè. Volli alzarmi: mi sentii inchiodato al divano. Non mi videro. Dandosi un ultimo addio, la donna sollevò un poco il velo per baciare il marchese. Balzai in piedi: riconobbi Cecilia, mia moglie. Corsi loro incontro. Con una mano strappai il velo alla donna e la spinsi contro un mobile. Dall'altra afferrai il marchese pel collo. Una lotta s'impegnò: era dietro a strozzarlo, quando un domestico accorse e me lo tirò dagli artigli. Mi slanciai allora sull'altra; ma il marchese non me ne diede il tempo. Sottrattosi alle mie unghie, e' si precipitò nella sua camera.

"Udii il rumore d'un colpo di pistola, continuò Bruto, e sentii qualcosa stracciarmi la pelle del cranio. Udii un secondo colpo e sentii uno strazio all'orecchio ed alla guancia. Il domestico mi trascinò allora e mi rotolò per la scala. Volle forse risparmiare un omicidio al suo padrone. Fuggii. Ed eccomi qui.

- E si fanno impunemente di tali cose a Napoli? sclamò la principessa di un'aria compunta.

- Non vi è che una cosa che non si fa impunemente a Napoli, signora; amare il proprio paese e la libertà: e, forse ancora, non obbedire ai comandamenti della Chiesa! Tutto il resto è un inconveniente e non un delitto. Ma concludiamo. Questo attentato è stato per me il fiat lux. È da ieri che io medito la mia condotta in quest'ultimo anno; io non ho saputo trovare una ragione sola per scusare l'indegnità mia innanzi alla mia coscienza. Ieri, io era ancora un semplicione, si poteva assolvermi. Oggi, che afferro tutto il valore dei miei atti, sarei infame se continuassi. Mi disprezzo già troppo io stesso, voglio risparmiarmi il disprezzo altrui. Addio, signora.

Bruto si alzò per partire. La principessa lo prese per la mano e gli disse:

- Aspettate fino a domani. Vi devo una risposta. Sono le cinque e non posso restar qui un momento di più.

- Mi scriverete, signora, se lo credete indispensabile. La mia determinazione è irremovibile.

- Alla buon'ora. Ma io voglio vedervi ancora domani; voi non avete scandagliata la vostra ferita fino al fondo. Lasciate che a mia volta vi rimugini col mio gammautte.

- Per provarvi il mio rispetto, io vi obbedirò, signora. Verrò; ma non una parola a Ruitz.

Bruto alzava già la cortina della porta per uscire, quando la principessa gli disse d'un'aria disinvolta:

- Dottore, ho un cagnolino cui credo colpito d'idrofobia o sul punto d'esserlo. Portatemi domani un piccolo alberello del vostro acido prussico.

Bruto s'inchinò ed uscì.

CAPITOLO X. Un abate come un altro.

Tre mesi sono passati.

Gli avvenimenti hanno progredito e precipitano verso lo scioglimento.

Sbarazziamo la nostra via.

Il padre di Bruto e la povera Tartaruga sono morti.

Il marchese di Diano se l'è svignata a Parigi, ed è probabile che, avendo mangiato del frutto proibito, non ritorni così tosto a Napoli.

Don Gabriele ha arricchito il suo repertorio di nuove commedie, che gli fanno ogni sera teatro pieno.

Bruto, profondamente malinconico, ha cessato di vedere il conte di Ruitz. È d'uopo credere però che sia costui che per favore postumo l'abbia fatto nominare secondo medico della regina madre. Il conte Ruitz si è consolato dei suoi dispiaceri e dell'abbandono di Bruto colla conoscenza che ha fatto di uno dei suoi compatriotti, bello e vigoroso garzone di ventisei anni, ch'egli chiama non saprei se consigliere, barone, conte, addetto d'ambascia.... Franzt Hobermann.

Lena, sotto il nome di Ondina, fanatizza i dilettanti di musica italiana al teatro Ventadour a Parigi, ma i suoi allori non le fanno dimenticare il padre. La polizia corre dietro alle tracce di Cecilia, la quale è sparita col marchese.

Ed ora veniamo al colonnello.

Quando l'ispettore di polizia, quattro gendarmi e sei birri trascinarono dalla sua casa il colonnello, Tartaruga, conoscendo gli usi della città, fece scivolare qualche moneta nelle mani dell'ispettore, dicendogli:

- Signor ispettore, lo raccomando alla vostra carità.

L'ispettore sorrise scuotendo il capo di un modo significante.

Il colonnello comprese subito la causa del suo arresto: ebbe paura. L'uomo, che aveva veduti tanti campi di battaglia, ebbe paura di trovarsi fra gli artigli della polizia. Imperocchè l'uomo onesto aveva sempre paura, sotto i Borboni, di trovarsi là, dove ei lasciava talvolta l'onore, sovente la libertà, sempre la borsa.

Gli sbirri, che hanno sempre perspicacia, immaginandosi che il colonnello, colla sua gamba di legno, potesse aver l'idea di scappar via, gli si serrarono intorno e gli misero le manette - o piuttosto una manetta - attaccando il suo unico braccio all'unica sua gamba con una corda. Poi, siccome non si deve mai prendere precauzioni a metà, quando se ne prendono, strinsero la corda con tanta previdenza che la gli penetrò nelle carni.

Il colonnello lasciò fare senza profferire un lamento.

Arrivati al corpo di guardia, lo gettarono in un buco orribilmente fetido e formicolante d'insetti, ove non poteva tenersi nè in piedi, nè coricato. Se il colonnello avesse conosciuto il confessore del re, o se avesse potuto mandare una bella donna dal ministro di polizia, se avesse potuto disporre di una borsa ben gaudiosa (che è sempre più efficace delle indulgenze plenarie), il suo atto d'accusa si sarebbe trasformato in un panegirico. Ma non avendo nulla di tutto ciò, restò alla segreta con quel manicherino che non era per fermo di tela d'Olanda.

Per esser giusti, diremo che il commissario di polizia del quartiere, Silvestri, era un uomo eccellente. Non aveva che due minimi difetti: era collerico e credeva che chiunque avesse bazzicato la Francia, da presso o da lontano, fosse carbonaro ed ateo. Ora un ladro, un assassino, un usuraio, un denunziatore potevano lusingarsi di trovare indulgenza presso questo paterno commissario; ma uno studente che avesse trasandata la messa, una donna leggera provocatrice al peccato mortale, un uomo in collera che avesse bestemmiato, si fosse pur santo Cesare, tutti questi non avevano nulla da sperare.

A queste disposizioni benevole del commissario s'aggiunse l'insinuazione dell'ispettore, il quale, trovando insufficiente la mancia di Tartaruga, dipinse il colonnello come uomo che non temeva nè la Corte della terra, nè quella del cielo. Questo commissario aveva inoltre l'abitudine di recarsi al suo ufficio con premura, quando era in collera - per igiene - perocchè allora la sua bile non gli si spandeva pel corpo, ma cadeva sull'anima vili che gli capitava fra le mani.

In questa condizione di cose, il commissario Silvestri sedette pro tribunali e si fece menar dinanzi il colonnello. Il cancelliere, che era solamente un po' sordo, gli si mise vicino.

Il colonnello restò in piedi. Il signor Silvestri fiutò una presa di tabacco, mise gli occhiali, squadrò da capo a piedi, da uomo che se n'intende, il delinquente, e, tenendo a briglia la sua irascibilità, principiò l'interrogatorio.

- Come ti chiami?

- Pietro Colini.

- La patria?

- Moliterno, in Basilicata.

- L'età?

- Cinquantadue anni.

- La tua professione?

- Soldato.

- Perchè sei stato arrestato?

- Ve lo dimando, signor commissario.

Il cancelliere scrisse: "Per contrabbando; sono emissario."

- Conoscete il marchese di Diano?

- No.

- Ah! ti metti sulla negativa al presente?

- Io non mentisco giammai, signor commissario.

- Ti sei, ad ogni modo, battuto in duello ed hai ferito il tuo avversario.

- Mi sono difeso.

- Allora confessi?

Il cancelliere scrisse ancora: "Malora ai processi!"

Il colonnello risponde, il commissario continua.

- Confessa ora le cause di questo duello.

- Non ne conosco nessuna.

Il cancelliere scrisse: "Al bosco, alla bruna."

- Menti, gridò furioso il commissario. Non si batte in duello come si fuma un zigaro. Quando se ne ha uno, si sa bene perchè.

- Signore, rispose il colonnello con calma, il verbo mentire non esiste nel dizionario della mia vita. Io non ho mai mancato al sacramento dell'onore.

- Ah! eccolo là, che fabbrica ora un ottavo sacramento, come se i sette della Chiesa non bastassero al dogma cristiano. Per questa sola eresia meriti le galere.

Il cancelliere scrisse domanda e risposta, così: "Senti non si tratta di vitello, nè d'allume, nè di zigaro. Quando se ne ha uno, lo si tiene per sè. - Signore, il verbo si fa sentire nel santuario della mia vita ed io non gli ho mai marcato un sentimento di orrore.... Ah! eccole che fabbrica un ottavo supplemento, come se gli insetti della chiesa non mangiassero il dogma cristiano."

L'interrogatorio continuò su questo tono. Quando fu finito, il commissario lo firmò ed inviò il colonnello a Santa Maria Apparente, la peggiore di tutte le prigioni della polizia.

In questo mentre Ondina otteneva a Parigi, mediante Donizetti e la benevolenza del principe di Joinville, che il ministro degli affari esteri ponesse la questione: se il colonnello non doveva essere riconosciuto come facente parte dell'esercito francese e come tale reclamato.

L'ambasciatore di Francia a Napoli, istruito delle pratiche incominciate, insistette per la messa in libertà del colonnello.

Il ministro degli affari esteri del re Ferdinando opinava che non valeva la pena di attaccar briga col gabinetto francese per un uomo, a proposito del quale la stampa avrebbe fatto un diavolerio, appena la storia se ne fosse divulgata.

Il re rispose: che il delitto essendo stato commesso nei suoi dominii, la legge doveva avere il suo corso e il giudizio il suo effetto.

Ora il duello era punito coi lavori forzati. Il re odiava il colonnello Colini, di cui gli avevano raccontata la storia; era ostinato, si millantava della sua indipendenza e faceva le mostre di sprezzare la Francia.

Il caso era grave.

La Russia e l'Austria appoggiavano il re.

L'ambasciatore di Francia, mediocremente soddisfatto della risposta di Sua Maestà e della benevolenza dei suoi colleghi, risolse di prenderla sur un tono alto con questa Corte di Napoli, che trattava in maniera così infame i soldati della Francia, gli eroi di Napoleone.

Egli chiese, in conseguenza, che il giudizio fosse pronunziato immediatamente. Esigette ed ottenne che l'accusato fosse trasportato in una prigione più sana, perocchè il colonnello era già ammalato e minacciato di tifo. L'ambasciatore scelse in seguito uno degli avvocati più considerevoli del foro di Napoli, don Terenzio Siniscalchi, il quale da semplice commessuccio, spinto dalle brezze della Corte, aveva percorso rapidamente il cammino ed era giunto al culmine della fortuna.

Le domande dell'ambasciatore furono mal viste, poco gradite, ma si diè loro soddisfacimento.

Il colonnello steso sur una barella fu trasportato alla prigione di San Francesco.

Lo cacciarono in un dormitorio, ove erano già una quarantina di persone civili, vale a dire che potevano pagare al direttore della prigione un po' di libertà e di benessere e si lasciavano taglieggiare da lui senza lagnarsi.

Da otto giorni era arrivato in quella sala un notaio falsario, dicevasi, il quale, mediante una considerevole somma, si era redento dall'orribile carcere della Vicaria.

Due giorni dopo, quel notaio padroneggiava la sala ed i suoi compagni agghiadati di terrore. Egli, pertanto, parlava poco, non aveva che un gesto famigliare, dietro al quale un uomo cadeva morto o ferito. Passeggiava lentamente, fumando la pipa e squadrando di uno sguardo rosso di sangue chiunque osasse fissarlo in faccia. Portava vestiti convenienti ed un berretto di pelle di lontra sul capo. Dava denari, senza contare, a chiunque ne avesse bisogno, ai carcerieri e a chi lo serviva.

Quando nei primi giorni un ex-banchiere gli domandò chi si fosse e di che delitto la giustizia lo accusasse, e' non rispose che alla prima domanda, e disse:

- Io sono il reverendo abate di questo luogo.

Lo si ebbe per detto; e da quel giorno non lo si addimandò altrimenti che il reverendo abate.

Appena il colonnello si fu coricato sul suo strapuntino, l'abate gli si avvicinò e alla sua volta gli chiese il suo nome e il delitto. Il colonnello rispose laconicamente e si volse, dall'altra parte dicendo: "E voi?" senza aspettar la risposta. L'abate venne da quest'altra banda, sedette sul letto rimpetto al colonnello, incrociò una gamba sull'altra, cacciò una mano nel corpetto e continuò a fumare come un uragano senza più schiuder labbra.

Una febbre spaventevole bruciava il colonnello.

Il medico non doveva venire che l'indomani.

L'abate gli tastò il polso e fece segno a due prigionieri. A uno disse:

- Chiama don Gennaro e digli di far portare un'aranciata. Ecco il danaro.

All'altro:

- Salassa quest'uomo.

E presentò un temperino a questo chirurgo d'occasione.

I due ordini furono eseguiti.

L'indomani venne il dottor Sibari, un allievo di Tibia.

Questo dottore aveva compreso che il governo, avendo premura di spopolare le prigioni senza strepito, sorrideva al tifo ed agli agenti della provvidenza che giustificano la teoria di Malthus. Da fedel suddito, il dottor Sibari eseguiva gli ordini dei suoi superiori, a meno che(19) l'ammalato non gli mettesse in mano alla prima visita il prezzo anticipato dei suoi consulti.

Il colonnello non conosceva gli usi della casa.

Il dottore, quindi, invece di farlo trasportare all'ospedale della prigione, lo lasciò nel dormitorio: "Non è nulla."

Il dottore era partito da un'ora, quando la porta della camera s'aprì ed il carceriere accompagnò al letto dell'ammalato un ometto tutto lindo, a cappello, di crini neri, occhiali d'oro, cranio calvo, naso e mento appuntiti, labbra strette e sottili, vivace, pronto, fresco come un maggiociondolo. Era l'avvocato dell'ambasciata di Francia, don Terenzio Siniscalchi in persona. Il quale non avendo potuto cavare alcun costrutto dall'interrogatorio redatto dal cancelliere della polizia, lo si può bene imaginare, veniva ad informarsi dal cliente dei fatti e delle cause.

Don Terenzio godeva d'una riputazione colossale nel fôro di Napoli. Si raccontava ancora un processo, avocato da lui, nel principio della sua carriera, e che era stato l'origine della sua fortuna. Egli è vero che don Terenzio respingeva con tutte le sue forze l'onore che gli si voleva attribuire, ricordando la sua prima causa. Ma il fatto non era per questo meno vero e merita di essere riferito.

Il conte d'Altamura, uno dei più nobili napolitani che avevano acclamato la repubblica Partenopea del 1799, aveva comperato il feudo del principe di Sora, vendendo a tale scopo tutto ciò che possedeva, e contraendo un debito onde completare il prezzo di compera. Il figlio del principe di Sora, bellissimo giovane, marchese d'Atella(20), aveva seguito la Corte dei Borboni in Sicilia(21) ed erasi cattivato il favore della regina Carolina, la quale amava i bei giovani, ciò che non le impediva di amare altresì anche le belle donne. Quando i Borboni furono ricondotti a Napoli dal cardinal Ruffo, Nelson ed Emma Liona e che la repubblica naufragò nel sangue, il marchese d'Atella reclamò la restituzione del suo feudo, asserendo che suo padre non aveva facoltà di vendere ciò che era un appannaggio costituente il suo maggiorasco e che il conte d'Altamura non poteva restarne possessore, perchè aveva.... accettato la repubblica e simpatizzato con la Francia! S'intavolò un processo, che avanzò rapidamente sotto l'impulso della regina e di Emma Liona.

Però, per quanto presto procedesse, gli avvenimenti correvano ancora più celeremente che le sentenze dei tribunali, e Napoleone emetteva dei decreti che volavano come quelli del destino. Il processo non era, adunque, ancora terminato, quando i Borboni furono di nuovo ricacciati in Sicilia, e Giuseppe da prima, poi Gioacchino vennero ad occupare la prefettura reale di Napoli.

In questo frattempo il conte d'Altamura moriva e lasciava un figliuolo minorenne ed una vecchia vedova. Il processo si agghiadò. Ma il minorenne toccò l'età virile, divenne conte d'Altamura ed accelerò il processo, che si giudicava in ultima istanza e definitivamente quando il 1815 arrivò, Napoleone cadde, Murat fu fucilato, Ferdinando di Borbone ritornò di Sicilia ed il processo stava per essere deciso. Si consigliò al conte d'Altamura di prender per avvocato don Terenzio Siniscalchi, ben visto alla corte in quell'epoca e perciò temuto dalla ruota dei giudici.

Il conte d'Altamura, avvegnacchè lo sprezzasse, impegnò l'avvocato, il quale in realtà aveva più ingegno che fortuna e più scienza legale che moralità. Il giuoco era pericoloso. Andare a scegliere, - lui murattista, - un avvocato del partito borbonico per un processo, di cui si faceva una specie di dichiarazione(22) di principii ed un affare di partito! Avvenne ciò che il conte d'Altamura avrebbe dovuto prevedere. Il marchese d'Atella comperò l'avvocato. La Partanna, seconda moglie del re, ordinò a don Terenzio di condursi bene. Il principe ereditario disse una parola al ministro della giustizia, il quale ne disse un'altra al presidente della Corte. Il giorno dei dibattimenti giunse. Don Terenzio, prima di recarsi al tribunale, assicurò il conte che il processo era guadagnato, e gli ripetè tutte le ragioni legali che gl'inspiravano tale fiducia. L'ora di arringare suonò.

La sala era zeppa; l'aspettativa indicibile; la curiosità eccitata al più alto punto. Don Terenzio principiò la sua difesa.... Ohi sventura! l'ansietà gli cagiona come un'apoplessia d'idee. S'imbroglia, balbetta. Una specie d'angina lo soffoca. Uno spossamento cerebrale annienta la sua scienza legale, oblitera tutte le ragioni del suo cliente.... La causa è perduta.

Il conte d'Altamura, sua madre, la giovine sua moglie sono ridotti alla miseria. Il feudo comperato col loro denaro è loro tolto.

Da quel momento don Terenzio fu celebre.

Tale era il personaggio a cui l'ambasciatore di Francia confidava la difesa del colonnello, e che tenevasi ora al capezzale del suo cliente.

L'entrata di quell'uomo nella prigione parve un avvenimento. Una immensa curiosità si destò fra i prigionieri. Tutti vollero vedere il lion del fôro napoletano: questi per il semplice piacere di contemplar la sua persona, quegli per chiedergli un qualche consiglio. L'abate solo non si mosse dal suo posto e non gli diede neppure uno sguardo.

In fine la siepe dei prigionieri si allargò ed il cliente e l'avvocato si trovarono in presenza l'un dell'altro.

Parlavano in secreto da dieci minuti, quando un ruggito di tigre echeggiò dalla parte in cui l'abate fumava placidamente. Fu un lampo, in minor tempo che il tuono non metta a seguire la folgore. A questo grido di morte, scappato dal petto dell'abate, l'avvocato si volse. Non ebbe nè il tempo d'impallidire, nè la facoltà di gridare, nè la forza di fuggire. L'abate gli stava sopra.

- Grazia, conte d'Altamura, gridò don Terenzio.

L'abate gli conficcò tre volte un coltello nella gola, poi rispose con voce divenuta calma adesso:

- Il conte d'Altamura non è il re.

Egli fece, quindi, risonare il calcagno del suo stivale sul cranio dell'avvocato, leccò qualche goccia di sangue spruzzato sulla mano, gettò il coltello nel mezzo del dormitorio e si ritirò tranquillamente al suo posto, soggiungendo:

- Al presente, non mi resta più nulla a fare in questo mondo. La mia parte è compiuta.

CAPITOLO XI. Il conte d'Altamura.

Dopo un simile omicidio, si sarebbe dovuto traslocare il conte d'Altamura in una carcere più severa. Si limitarono a sbrattar via il cadavere dell'avvocato ed a fare all'assassino un predicozzo di mansuetudine. Il conte mandò a tutti i diavoli il predicatore e diede i suoi ordini ai carcerieri.

La sera egli dava una festa. Invitò tutti gli aguzzini dello stabilimento e le loro famiglie. Fece illuminare(23) il dormitorio con candele di cera; ordinò dei rinfreschi di ogni sorta e in grandi proporzioni ed una cena squisita. Pregò poi il carceriere in capo, che suonava il violino, di venir a fare un po' di musica con tre altri prigionieri, di cui uno suonava il flauto, l'altro la chitarra, ed il terzo il mandolino. Prezioso quel mandolino! Appena fatti, gl'inviti sono accettati; le disposizioni per la festa, date appena, sono in via d'esecuzione. Si principia a pulire la sala.... e gli invitati.

Scende la notte.

Una parte dei letti era stata depositata nel fondo del dormitorio, a guisa di divani turchi; un'altra parte, tolti via gli stramazzini, era stata trasformata a tavole, a panche, che, con un po' di buona volontà e d'immaginazione, si potevano addomandare mensole.

Due o trecento candele, ficcate un po' per tutto, in bottiglie o in candelieri, oppure semplicemente su de' chiodi, illuminavano la vasta sala, le cui pareti, per fortuna, erano state imbiancate da poco.

Si ornarono le finestre di rami d'alberi e di fogliami, di cui un galante carceriere volle bene far dono alla "società". Uno spazio vuoto fu lasciato all'estremità, vicino alla porta, pei danzatori ed accanto ai divani si allestì un buffet che avrebbe fatto impallidire quelli delle feste dei ministri di Sua Maestà Siciliana. C'era di tutto su quella tavola preziosa! Che Dio mi perdoni! perfino del thè, che in quel tempo, a Napoli, si comperava dai farmacisti come un rimedio.

Una parte delle coperte dei letti serviva di tappeto in quell'angolo della sala, interdetto ai ballerini, un'altra copriva le tavole ed i canapè. Tutto ciò che era commestibile e per bibite venne dal di fuori; dai fornitori reali argenteria, piatti, cristalli, coltelli, tovaglioli, tovaglie, tazze.... fin anco quattro guastade a fiori e quattro lampadari.

I signori della prigione s'erano tutti sbarbati, lavati, passati al ranno, vestiti del loro meglio, prestandosi reciprocamente ciò che avevano per farsi più belli. Si desolavano della mancanza di guanti e di cravatte bianche, di brache corte e di scarpine. L'olio ordinario delle lampade della notte se ne andò intero a spalmar zazzere e baffi. Codesto non odorava forse bene, ma brillava. Infrattanto si provavano a ricordarsi ciò che sapevano di ballo e per rendersi più snelli ed elastici si regalavano di famosi calci, saltabeccando e sgambettando. Don Eugenio, ex-cameriere, s'era costituito maestro di cerimonie.

A sett'ore si udì scricchiolare la toppa della porta. Il carceriere addetto a questa sala lasciò entrare il carceriere in capo, i suoi colleghi, una quindicina di donne, di cui cinque sole brutte o vecchie, poi richiuse l'uscio e restò dall'altra banda, prendendo la sua parte della festa a traverso il graticcio di sorveglianza.

La gente venuta di fuori, uomini e donne, era allegra ed azzimata a domenica. Il carceriere in capo fece la sua entrata con uno sgambetto e segando il violino di un colpo di archetto. Le risposte della chitarra, del mandolino e del flauto non si fecero aspettare. Mentre i prigionieri si tenevano allineati in due file ai lati della porta, il conte d'Altamura, da vero gentiluomo, andava incontro alle dame che aveva invitate.

La danza principiò immediatamente. In qualità di padrone di casa, il conte si aggiogò alla vecchia moglie del carceriere in capo e tentò un giro di waltzer. Poi si aggiudicò la più bella tosa della compagnia e ballò con lei la quadriglia, la tarantella e malann'aggiano i guai! anche la gavotta!

Il povero colonnello steso sul suo giaciglio, cacciato in un angolo, battendo i denti dalla febbre, si agruzzolava sotto la coperta.

Le danze non fecero dimenticare il bere: e quante bottiglie!

Alle otto arrivarono i gelati, i sorbetti; poi le aranciate, i lattati, il cioccolatte ed ogni ben di Dio. Il conte festeggiava la corda che doveva impiccarlo.

- La unge di gioia, osservò un ex-cocchiere di Corte.

Poi si cantò. Tutto il repertorio del San Carlo, attagliato ai cantanti, vi sfilò a macca; quindi quelle belle canzoni napoletane, così melodiose, così saltellanti, così tristi, così scintillanti, azzurre come il cielo, stellate come il mare al luccicar dell'aurora!

E il ballo di nuovo! di nuovo il canto, ma questa volta di canzoni buffe, scollacciate e strambe.

E poi sorbetti, vini, punch a iosa, ancora e poi ancora di tutto.

Alle 11 le dame si assisero al buffet. Il conte al centro; gli uomini in piedi, intorno a loro. E avanti sempre! Mezzanotte scoccava, quando il conte propose questo brindisi:

- Alla rottura della mia corda!

- Fu accolto clamorosamente. E' fe' segno allora che voleva parlare ed in un batter d'occhio tutti si stettero, la bocca aperta, attenti, sospesi alle sue labbra, come i Cartaginesi alle labbra eroiche d'Enea, quando costui fece inghiottire a quella pettegola di Didone la schernevole gaglioffata del cavallo di Troja.

Il conte aveva cangiato di aspetto. Dacchè aveva commesso il suo ultimo atto d'uomo, era ridivenuto gentiluomo.

- Voi sapete adesso ch'io mi sia, diss'egli. Non ho che una parola ad aggiungere sull'atto di giustizia da me consumato. Io era ricco, aveva una giovane moglie ed una madre vecchia, aveva l'onore, il sorriso, la gioventù, l'avvenenza, l'avvenire il più carezzato dal destino; quel Caino mi prese tutto. Mi tradì come Trentacapelli tradì Murat, mi vendè come Giuda. Mia madre, mia moglie sono morte sotto un tetto straniero, quasi di miseria. Io le aveva accompagnate nella provincia, a Lauria, in casa di un mio zio, egli stesso rovinato dalle vicissitudini delle rivoluzioni e dei cangiamenti di dinastia. Restai presso il conte di Crac fino a tanto che vissero quelle due sante donne che io amava. Appena, però, ebbi loro chiusi gli occhi per sempre, mi affrettai di sgravare il mio bravo zio dalla spesa del mio mantenimento e ritornai a Napoli. Avendo vissuto quasi sempre all'estero, o ad Altamura, il numero dei miei amici era molto limitato. Se taluno me ne restava, alcuno non si avvisò a stendermi la mano. Non si riconosce volentieri un uomo che ha il cappello sbiadito, gli abiti logori, e che può dirvi da un momento all'altro: "Non ho mangiato, prestami una piastra!" Da parte mia, non feci nessun tentativo.

- Non avevate parenti, dunque, signor conte? gli chiese la sua danzatrice.

- Piccina mia, il povero non ne ha mai. Però una circostanza mi fece incontrare una vecchia conoscenza. Nel tempo in cui viveva mio padre, io ebbi un giorno a pagare una somma che non possedevo. Fui presentato ad un notaio, il quale me la trovò senza troppo taglieggiarmi. Restammo in relazione di semplice saluto. Quando c'incontravamo: "Servitor umilissimo, signor conte! - Buon giorno, don Crescenzio!" ed ognuno tirava dritto per la sua via.

"Un giorno, io passeggiava alla Villa, con uno stuzzicadenti alla bocca per rimpiazzare il pranzo, quando vidi don Crescenzio trottar dietro ad una cameriera inglese, la quale non lo comprendeva punto, perchè il gonzo notaro non le parlava la lingua delle sovrane. Don Crescenzio era galante. Egli arrossì nel vedermi. Io sorrisi. E' si ricordava della storia del mio processo e delle mie sciagure.

"Egli era a sua volta, alla pista di don Terenzio, cui il governo aveva mandato procuratore del re in Sicilia. Me gli avvicinai. Egli s'informò de' miei affari, sbirciando di un occhio esperto i miei tisici vestiti. Gli risposi ridendo:

- Affè di Dio, don Crescenzio, credo che uno di questi giorni andrò a chiedervi un posto di commesso.

- L'avete già, m'interruppe il notaro. Vi prendo a parola. Ho la vettura alla porta della Villa. Venite: vado ad installarvi in casa.

"Non glielo feci ripeter due volte. Eccoci in vettura.

" - A casa, cocchiere.

"Fui ammesso nello studio e mi v'impiantai. Ciò durò due anni. Io era più che uno scrivano pel notaro, era un amico. Osservai, dal secondo giorno, delle cose che mi parvero equivoche. Volli andare al fondo. La curiosità mi ritenne in quello studio. L'abitudine mi fece prender radice nella cosa.

- Ci direte ora, signor conte, interruppe il carceriere maggiore, quale era codesta cosa?

- Un po' di pazienza. Una sera, a mezzanotte, avvenne una strana circostanza. Non so precisamente come ciò ebbe luogo, nè quale fu la causa di questo avvenimento. Vi ho già detto che don Crescenzio amava il sesso forte: vi era dunque una donna sotto cappa. Il fatto sta che don Crescenzio ci capitò in uno stato disperato. E' portava degli stivali ad imbuto, alla moda del tempo del Direttorio, larghissimi all'imboccatura. Codesti stivali, non so dove nè come, erano stati riempiti di bracie ardenti. Don Crescenzio era stato, in seguito, gettato alla strada, correndo, gridando, gemendo come un'anima del purgatorio.

"Allo strepito, una pattuglia notturna era accorsa.

"Chi va là?

" - Il fuoco! il fuoco! gridava don Crescenzio.

"La guardia si avvicinò. Il notaro gridava sempre, saltabeccando: al fuoco! al fuoco! Una spiegazione ha luogo alla fine. Si decide di cavargli quei disgraziati stivali. Era troppo tardi. Le gambe erano arrostite. Il chirurgo chiamato, temendo la cancrena, si apparecchiava a tagliargliele senza più. Il notaro s'oppose a questo accorciamento di mezza la sua persona, dando per ragione che non aveva già di troppo della persona intera, quantunque lo si chiamasse Crescenzio. La sua ostinazione fu fatale. La cancrena si dichiarò. Otto giorni dopo era morto.

- Requiescat! gridò l'assemblea.

L'ex-cameriere soggiunse:

- Un brindisi alla sua entrata in paradiso.

Si fe' ragione alla pia proposizione. Ed il conte riprese il suo racconto.

"Il notaio mi aveva trattato sempre da amico. Avanti di morire, volle provarmi che lo era realmente, proponendomi la direzione di quella casa di commercio, cui egli addimandava il suo studio. Mi credetti allora in debito di chiedergli dei ragguagli più precisi. Seppi quindi, ciò che, del resto, io aveva presso a poco indovinato, che il notaro rappresentava una società, la quale aveva intrapresa l'opera umanitaria di livellare le ricchezze e faceva di tanto in tanto sparire i dissidenti che nuocevano sia ai membri, sia agli interessi della filantropica associazione.

- Birbi, per dio, brontolò il carceriere in capo.

"Avendo preso esatta cognizione dello scopo, dei mezzi, del personale della società, io cominciai a darle un'ordinanza più amministrativa. Portai a ventisei il numero degli amministratori e dei consiglieri, aggiungendovi gli aspiranti, ed i soprannumerari e formai così un insieme di sessanta giustizieri. Poi intavolai delle trattative all'estero, onde stipulare dei trattati di libero commercio e con i cittadini indipendenti delle foreste della Sila, in Calabria, onde avere all'uopo un corpo di riserva per l'esecuzione degli statuti dell'ordine. Avendo organizzato i miei uffizi, mi diedi ad intraprendere delle operazioni in grande. Io divideva gli utili più equamente che certe banche e certe società autorizzate dalla legge. Poi, sulla mia metà, io pagava i premi d'incoraggiamento per le invenzioni, le scoperte, i miglioramenti. Senza questi premi, le belle arti non prosperano - vedete in Inghilterra! Sulla mia parte, altresì, io pagava gli sbirri, i commissari, il prefetto, il ministro di polizia e dava delle sovvenzioni ai magistrati. Tutta questa gente ha diritto a vivere, tanto più che due terzi almeno di costoro sono, o sono stati, del mestiere. Tassai del cinque per cento le paghe, per i fondi delle vedove, degl'invalidi, degli infermi. Appo di noi il pauperismo ed il proletariato era abolito. Così organizzata, la società novella prosperò, al punto che la nostra repubblica aumentava tutti i giorni ed era già più popolosa di quella di San Marino. Degli uomini di tutte le classi e di tutte le condizioni ci indirizzavano domande di ammissione e di neutralizzazione, di guisa che se la cosa fosse durata ancora, fra quattro o cinque anni avremmo avuto uno Stato più considerevole di quello del duca di Modena e forse dello stesso granduca di Toscana. Un affare magnifico, che avevo intavolato, venne a mettere in sospetto il governo.

- Più bello ancora che gli altri? dimandò il carceriere in capo, al quale questo racconto faceva venire l'acquolina in bocca.

- Giudicatene, disse il conte.

"V'era allora un canonico dell'arcivescovado, il quale ci aveva fatte delle proposte per essere ammesso nel consiglio d'amministrazione della società. Costui era il tesoriere stesso del tesoro di San Gennaro. Mediante la promessa di accettazione della sua domanda, ventimila ducati di benvenga e la sua parte di benefizi, io lo aveva persuaso di darmi licenza a lanciar nella circolazione quell'immenso deposito di ricchezza improduttiva, che si chiama - Tesoro di San Gennaro. - Credete voi che il cranio tarlato d'un buon diavolaccio, il quale professava, vivendo, il principio della povertà evangelica, abbia bisogno di tanti diamanti, di tanto oro, di tanto argento e di quella corte di settanta ad ottanta statue colossali di santi in argento? Ciò deve offendere la sua santità e quella profusione di gioielli deve urtare la semplicità aristocratica dei suoi gusti.

"Il canonico, uomo di logica, ammise questi principii e tutto fu ammannito: seghe, scarpelli, chiavi, leve, accette e persino un fornello per conciliare e fondere insieme quelle statue, le quali non dovevano mica andar troppo d'accordo, le une essendo di gesuiti, le altre di domenicani e francescani, quelle di vergini e quelle di vecchie.

"Aimè! ricevetti avviso da un corrispondente della società: cavalleria, fanteria, gendarmi e sbirri gironzavano intorno la Cattedrale. Eravamo stati traditi. Il canonico aveva avuto dei rimorsi: egli aveva calcolato che non avrebbe avuto che una parte degli utili, mentre poteva prendere il tutto! E' non si trovava abbastanza rimunerato del pericolo d'esser impiccato.

- Scellerato! urlò l'uditorio di una sola voce.

"Avendo attirato gli occhi del pubblico sulla società, la polizia non poteva più chiudere impunemente i suoi. Bisognò pensare alla liquidazione ed alla dissoluzione. Diedi i miei conti, che furono accolti con un triplice grido di tripudio. Ci dividemmo i profitti da gente onesta. Deposi in mani sicure (quelle del presidente d'una corte d'appello) le memorie segrete del notaro Crescenzio, conservate fino allora tra le carte segrete del gabinetto, noleggiammo un cutter e ci imbarcammo per la Calabria, ove i nostri confratelli ci aspettavano. Quelli fra i nostri soci, che temevano il mal di mare e la brezza fresca dei boschi, restarono a Napoli, onde ritentare gli affari, sotto altro nome ed altri capi - serbandoci un ottavo dei beneficii. Portavamo con noi delle ricchezze immense. Tutto prometteva un avvenire così propizio come pel passato....

"La tempesta ci diè addosso e ci spezzò vicino Paola. Il cutter si spaccò come una melagrana, e colò a fondo, con uomini e roba. Avevan ragione quegli scaltri mariuoli d'aver più confidenza nel vino che nell'acqua!"

- Fuori la legge, l'acqua! si gridò da ogni banda tra grugniti all'acqua e tra evviva al vino.

"Quattro o cinque di noi, che sapevamo nuotare, ci salvammo, ma poveri come Adamo quando escì dal suo giardino. Fu spedito un inviato straordinario agli amici della Sila. Gli anziani di quella repubblica si riunirono immediatamente e decretarono che ci si manderebbe una guida e del denaro. Ed invero otto giorni dopo bevemmo insieme alla prosperità della nostra associazione. Il consiglio si riunì. Discutemmo gli affari e si principiarono nuove operazioni. Avevamo due metodi.

"Per queglino che riconoscevano senza resistere i diritti della società e pagavano le nostre tasse.... feste, canti, inni, piaceri e belle crapole. Poichè noi avevamo persino il poeta laureato della società e poi cantanti, ballerine, odalische, e tutto ciò che segue; - per queglino che insorgevano e si rifiutavano di pagare, il procedimento era logico. Si rimandavano in dettaglio ai loro parenti. Di rado, dopo aver spedito le orecchie, il naso ed una mano, occorrevano ulteriori raccorciamenti. Il denaro arrivava, il renitente partiva. Tutto andava, dunque, a gonfie vele. Ma in questa valle di lagrime, nulla e nessuno non isfugge al suo destino. L'uomo, d'altronde, non pensa mai che a difendersi dai suoi nemici. Lo sciocco! Egli dimentica gli amici!

- Foste, dunque, tradito di nuovo? chiese il carceriere in capo.

- Come sempre.

"Ora egli avvenne che il prefetto ed il suo segretario non andarono di accordo; poichè questi si trovava defraudato nella divisione della parte che facevamo alla prefettura. Il prefetto, dunque, fu costretto ad agire. Una notte i gendarmi e la truppa sorpresero il nostro accampamento.

"La fucilata fu terribile e durò tutta la notte. Ebbimo il nostro Waterloo. Quelli che sopravvissero al disastro si dispersero.

- Dio buono, sè v'è della gente disgraziata! sclamò la bella danzatrice del conte.

"Ben disgraziata! riprese il conte. Imperocchè che vita mai è quella del brigante! I suoi possedimenti sono illimitati. I suoi diritti sono completi e senza restrizioni. La sua religione non ha liturgia. Egli non riconosce questa oltracotanza sociale, che si chiama il tuo ed il mio. Viver libero in mezzo ad una natura libera e potente, la vôlta del cielo per palazzo, i fiori e le brughiere della foresta per tappeto! La prima donna che incontra è sua. I suoi amori sono febbre e rabbia: le sue orgie drammi che finiscono sempre coll'emozione possente dell'assassinio. È poi, sopratutto, il certaminis gaudia di Claudiano.... Bisognò rinunziare a tutto ciò.

- Povero signore! sclamò una vecchia.

"Cangiai di vestiti, continuò il conte, e, travestito, passai nella Basilicata, provincia limitrofa. Avevo imparato il disegno. Ma non ero che un dilettante e non facevo quel mestiere che per gusto della scienza geologica e mineralogica.... Le mie risorse principiavano a venir meno. Bisognò provvedere. Apersi una fabbrica di vescovi, poichè io facevo vedere le lettere che mi scriveva mio zio, prelato della Congregazione dei vescovi, ecc., quegli appunto che manipolava questa bisogna sotto Gregorio XVI.

- Ed era vero?

"Sì. Solamente ciò proveniva dal bagno di Civitavecchia ed il venerabile autore della lettera, cui io riceveva autenticamente, dalla posta, al nome del barone di Canzano, era un antico commesso del notaro don Crescenzio. Chi non se l'avrebbe bevuta? Carta, suggelli, stile, pietà, unzione episcopale, scienza, nulla mancava a quelle ammirabili lettere, che facevano onore agli uomini di Stato di sua Santità. L'arciprete del paese, che si trovava troppo piccolo al suo posto, aspirò a servir la Chiesa in qualità di vescovo, mediante duemila ducati anticipatamente pagati. Promisi ed intavolai subito una corrispondenza con mio zio a Roma e col suo agente presso il ministro del culto a Napoli. Un mese non era scorso quando arrivarono le bolle da Roma. E nulla vi mancava. L'arciprete ricevette le congratulazioni dei suoi parenti, dei suoi amici, del suo collega di Potenza, di tutti gli impiegati del governo e si apparecchiò a partire per Roma. Io ebbi a partire avanti di lui.

- Un altro tradimento? gridarono tutti a coro.

"Peggio ancora, una donna! Ah! signori miei, credetemi; non c'è malore che non abbia un'Eva per punto di partenza.

CAPITOLO XII. L'Eva del conte d'Altamura.

Il conte si riposò alquanto, prese un bicchiere di punch e ricominciò:

"Un cavaliere napoletano e sua moglie erano arrivati presso un agente del principe di Noto, il quale ha vaste tenute in quel paese, per darsi, così dicevano essi, al piacere della caccia delle quaglie. Seppi di poi che quel signore era proprio il figlio del principe, il marchese Annibale di Diano, che aveva rapito quella giovane e si sottraeva alle ricerche della polizia. Il villaggio era in tripudio. Il mio vescovo dava dei pranzi. I missionari, che facevano il loro giro da quella parte, davano delle rappresentazioni. Il marchese dava la sera dei raouts, ove si giuocava e si beveva.

"Io mi trovai presente quando il marchese arrivò all'improvvista in casa dell'intendente di suo padre. Non erano ancora, egli e sua moglie, seduti in cucina, - cucina che in provincia serve da camera da ricevere, da camera da pranzo, e talvolta anche da camera da letto, - che un nugolo di balordi e di donne del popolo armate di conocchie, li circondarono come gli orsi alla fiera.... L'intendente fece un segno e un contadino si gettò ai piedi del marchese per scalzarlo degli stivali, presentandogli delle pantofole. Un altro gli accoccò di nuovo sul capo il cappello da viaggio. Un terzo lo strinse e costrinse la signora a bere un bicchierino di vino; mentre essi avrebbero, di certo, preferito una limonata.

" - Sareste ammalato? Se non vi sentite bene, disse l'intendente, vi farò preparare una tisana di acqua di malva e mele. L'è una cosa stupenda pel petto.

"Si dibattevano ancora contro questi usi del paese, quando giunsero a far visita le dame del luogo, coi loro vestiti da nozze di vent'anni fa ed i loro mariti più o meno in abito nero. Non conoscevano i nuovi arrivati, nè da parte di Eva nè da quella di Adamo. Non monta: gli uomini si precipitarono sul marchese; le donne sulla marchesa; e gli abbracciamenti scoppiarono fitti come colpi di pistola, profumati da un alito di aglio, di pipa o di vino. Ora, siccome in provincia non si fa la barba che una volta alla settimana, la domenica avanti la messa, dopo gli abbracci il marchese si sentì bruciare il viso come se lo avessero stropicciato con ortiche.

"Si sedette in cerchio. La testa quadra del villaggio incominciò ad interrogare il marchese sulla sua salute, se era ricco, se aveva debiti, se aveva figliuoli, se andava a caccia, quante paia di calze aveva portato seco e quanti bezzi; quanto spendeva al giorno, se qualche volta si ubbriacava, se sapeva truffare al giuoco, se credeva in Dio ed amava il re. A quest'ultima domanda il marchese perdette le staffe. Si alzò e le visite partirono brontolando.

"Poi principiò il supplizio della cena, che cominciò con un'insalata, seguita da cinque differenti minestre. L'intendente presentò al marchese suo figlio - un giovine seminarista, poeta, noioso come il passio di San Matteo, un San Pietro che pescava donne e che violava tutti i comandamenti di Dio, eccetto quello - non ucciderai - per paura della forca.

"Io mi disponevo a lasciare il paese, non volendo rivelare alla polizia l'uffizio ove io faceva discendere lo Spirito Santo per fornir di vescovi Sua Maestà, quando i nuovi arrivati si gettarono a traverso i miei progetti.

- Il vescovo era dunque partito? domandò uno.

- No, vi si preparava, quando capitò il marchese. Il signor di Diano era un bietolone innestato sur un malandrino, cui io spennavo allo zecchinetto; sua moglie, la più squisita leccornia del dessert del buon Dio. Io mi sentivo attratto verso di lei come la farfalla dalla fiamma. Ma ella si occupava di me, come la grazia di Dio si occupava dei vecchi e nuovi principi. Io non negligeva nulla pertanto onde tornarle gradito. Ella soccombeva a non so che maleficio del priore della Certosa di Padula - uno dei missionari - e si lasciava ammoinare dal giovine seminarista, il quale le dimandava un bacio per un sonetto. Il marchese dava la caccia alle serve ed alle contadine, belle come amazzoni e sopratutto più complete di quelle.

- Ma, senza piaggiarvi, signor conte, chi dei tre valeva meglio, il priore, il seminarista, o voi? domandò il carceriere in capo.

- Che? Ci poteva, dunque, essere un sol punto di paragone tra quei due gaglioffi, rozzi, noiosi contadini e me? Ma il seminarista si era costituito spia della dama e le denunziava le infedeltà del marchese. Il priore usava della malìa misteriosa del confessionale, cui ognuno si spiega, cui i mariti soli non comprendono e consegnano le loro mogli all'incanto.

"Il priore non aveva alcun modo di vedere Cecilia in casa, perocchè il geloso seminarista la vigilava come un eunuco.

"Infine, quando Dio volle, la missione terminò ed i missionari partirono per Spinoso. Il priore si finse ammalato per restare indietro e ritornare al convento di Padula. Mandò il suo terziario a preparargli la cella.

"Due ore dopo, ei partì pure. Il marchese, che la notte innanzi si era imbragato in non so quale orgia contadinesca, russava a gonfie vele. Cecilia si alzò ed ordinò di allestire il suo cavallo, per andare a passeggiare, ciò ch'ella, con grande scandalo delle signore del paese, faceva di sovente.

"Io mi era recato alla caccia dal lato del Faggeto. Dopo aver camminato tutta la mattina, mi riposava sotto un faggio, quando, dietro una ridotta di spine nere, mi sembrò udire un pigolìo di voci e di baci. Non sapendo cosa fosse mi sguizzai carponi sotto il roveto, ventre a terra, come serpe, e mi avvicinai senza esser visto.

"Dapprima non distinsi che due bei giovani fratocci nelle loro bianche cocolle. Poi sotto una di quelle tonache riconobbi il priore, sotto l'altra Cecilia. Ce ne voleva di più? Sant'Antonio, egli stesso, avrebbe soccombuto e fatto ciò che io feci. Mi slanciai d'un salto e carpii il priore alla nuca. Gli nascosi il mio coltello nella strozza, lo gettai lontano come un masso di cenci e caddi ai piedi della dama. Ella non vide la mia attitudine galante, imperciocchè era svenuta; ma io le spippolai in seguito, minuto per minuto, la delicatezza della mia condotta. Quando riprese i sensi, il cattivo umore la dominava. Gridò, pianse, si mise in collera. Poi prese un tono altero e m'ingiunse di ricondurla a casa, mi minacciò, m'insultò. Pasqua santa! che arrabbiata di donna pudica! Ella non neglesse nulla per persuadermi che io sarei un mal creanzato se non la lasciassi andar via. In verità, io non mi ricordo troppo ora ciò che le risposi allora. Certo io le parlai in tale chiave che la divenne muta come il fondo di un pozzo, desolata come i piccoli debiti, docile come una pinzochera verso il suo confessore e, senza dimandar altro, neppur dove andassimo, ella riprese il suo cavallo, io quello del priore e....

- Che idea di andarsi a caricare di una simile pettegola in una sì grave situazione, mormorò una voce nell'uditorio.

- Avete ragione, compare, riprese il conte, ma a chi la colpa? Bisognava che Dio fosse proprio in un momento di grande corruccio quando pose nello sguardo vellutato e nel congegno di due labbra rosse di una donna, tutto il destino di un uomo. Il fatto sta che io m'era pazzo di lei e che l'avrei disputatata a tutti i certosini, a tutti i cappuccini, a tutti i seminaristi e marchesi del mondo.

- Che rabbia! sclamò una bella tosa.

"Poco lungi di là dunque, nella foresta dell'Aquila, vivevano certi eremiti di mia vecchia conoscenza e subordinati al mio potere come un gesuita al suo generale. Andai a trovarli. Confidai loro la mia persona e la mia preda e diedi ordine che si preparassero a cangiar stanza all'indomani, perocchè io aveva lasciato in quelle vicinanze segni troppo significativi di mia presenza. Osai, malgrado ciò, ritornare solo a Moliterno la notte, in casa del mio ospite, ove avevo denari, carte ed armi. Ma innanzi l'alba ripartii per la caccia. Cecilia, quantunque mi odiasse, mi vide ritornare con entusiasmo: le faccie dei miei mirmidoni l'atterrivano. Ritornammo a Napoli questa volta.

- Che imprudenza!

"Infatti, un giorno m'avvidi che Cecilia pensava svignarsela da quella buona famiglia, ove albergavamo. Le appresi allora che quelle brave persone avevano l'ordine di pugnalarla al primo tentativo di fuga. Questa buona ragione la calmò. Ella mi raccontò allora alcuni tratti della sua storia e mi pregò di lasciare Napoli.

"Io non aveva alcun pretesto per contrariarla. Mi recai quindi a Sorrento e presi a fitto delle camere in una famiglia borghese, presso la quale passavamo per milanesi venuti a guarirsi dalla misantropia sotto quel cielo imbalsamato. Condussi meco l'angelo guardiano di Cecilia. Costei non mi perdonò mai il mio amore ed i modi che avevo usati verso di lei. Ma allora io non me ne curavo più che tanto. Avevo rannodati i fili della mia vecchia società e rimesso in su i giustizieri dell'ordine pubblico.

- Infatti sarebbe stato un peccato il lasciar perire un'istituzione così ammirabile, osservò il carceriere in capo.

- Oh certo! riprese il conte. Solamente io non era più allora il presidente.

"Durante la mia assenza, i dissidenti avevano preso il disopra e perfezionata la mia opera. Ciò non impedì che io non chiedessi di essere ristaurato nella pienezza dei miei diritti. Mi si rispose che il nostro governo era elettivo e non ereditario, che noi non eravamo dittatori a vita, ma consoli, e che tutto quello che si poteva fare per me, per i miei meriti, i miei servigi, la mia abilità era di associarmi al governo. Io mi credetti offeso e risposi come quel generale dei gesuiti: Sint ut sunt, aut non sint! vale a dire: o presidente della repubblica, o nulla. Mi si allogò allora una pensione a vita molto convenevole e mi nominarono dittatore per le circostanze supreme della società, lasciandomi quieto in tempi ordinari. Accettai.

"Primo passo verso la sventura.

- Ma, a proposito, osservò il curioso carceriere in capo, avevate, dunque, dimenticato, in tutto questo tempo, il degno vostro avvocato?

- V'ingannate. Avevo già aperto un negoziato coi nostri corrispondenti di Sicilia, onde pagargli là giù, i suoi onorari. Vi si preparavano, quando quel galantuomo, avendo avuto non so quale questione col suo presidente, questi ne aveva scritto al ministro della giustizia. Il ministro aveva rimproverato il mio uomo e questi, data la dimissione, era rivenuto a patrocinare a Napoli. E fu appunto questa nuova che mi determinò principalmente a ritornare in questa città. Ma avvenimenti di natura diversa mi trascinarono nella corrente che mi ha travolto qui.

"Un mattino, una deputazione della società venne a consultarmi sopra un grave affare.

"Il governo, dietro rimostranze diplomatiche causate dalla scomparsa di alcuni viaggiatori e banchieri inglesi e francesi colle loro fortune, aveva nominato una giunta di pubblica sicurezza. Si veniva a consultarmi sul modo di condursi in presenza di questo pericolo che ci minacciava direttamente. Io proposi di comperare la giunta, e per indennizzarsi della spesa aumentare gli affari. Il mio consiglio fu gradito. Fui pregato d'incaricarmi di questa difficile e delicata negoziazione. Io esitai a bella prima, poi accettai ed annodai i preliminari.

"Codesto va e vieni di agenti, qualche parola côlta a volo, per caso o dietro gli usci, fecero conoscere a Cecilia le scaturigini dei miei quattrini e quali operazioni andavamo ad intraprendere.

"Ora quella bizzarra creatura si rassegnava all'onore di essere la concubina d'un bandito e di un assassino, ma la si sentiva troppo vituperata di aver per damo un ladro. Essa mi parlò con tali parole di sprezzo che gli era impossibile oramai d'ingannarsi sui suoi sentimenti e sulle sue intenzioni. Le ricordai la sua storia, la sua condotta; la minacciai. Ella stette cheta, ma non parve nè convinta, nè spaventata. Il suo angelo guardiano raddoppiò di vigilanza.

- Convenite, signor conte, disse l'ex-cameriere diplomatico, che mancaste di previdenza e d'energia in questa circostanza.

- Ne convengo, rispose il conte. Ma ella aveva mai sempre un possente impero sui miei sensi, e non sapevo risolvermi a sbarazzarmene. Avendo ricondotta la tranquillità in casa, intavolai le conferenze per la società. Una sera mi recai dal presidente della giunta, un generale, e gli chiesi se potessi confidare un secreto al suo cuore e fargli una proposizione, la quale, accettata o respinta, doveva restar sepolta nel suo petto. Me lo permise. Gli spiegai lo scopo della mia visita e finii con offrirgli un'arra di dodicimila ducati, se voleva negligere i doveri del suo uffizio.

"Rifiutò.

"Raddoppiai la somma. Il generale rifiutò ancora. Insistetti. Mi confessò allora, scusando il suo rifiuto, che gli era impossibile di accettare pel momento perchè il re aveva personalmente ricevuto delle informazioni sulla nostra associazione ed avea ingiunto al ministro di polizia, sotto la sua responsabilità, di colpirla a morte.

- Bisognava comprare il re, perbacco, gridò l'ex-cocchiere di Corte.

- Ahimè! sì, me ne venne l'idea, ma non eravamo abbastanza in fondi, in quel momento. Portai, dunque, questo messaggio alla società. Trovai che il consiglio degli efori si era riunito e deliberava. Mi fecero entrare. Esposi il risultato della mia missione. Fui ascoltato in silenzio e qualcuno tentennava il capo. Finalmente, quando ebbi detto tutto, un di loro - un certo Fuina, - nostro agente presso il prefetto ed il ministro di polizia, prese la parola e mi svelò un fatto che mi fulminò.

"Mia moglie Cecilia, sottraendosi per un momento alla sorveglianza del suo angelo guardiano, aveva côlto il parroco di Sorrento, si era confessata ed in confessione gli aveva comunicato tutto ciò che ella aveva sorpreso sull'esistenza ed i lavori della nostra società. Il parroco era corso immediatamente dal vescovo e gli aveva riferito il caso, sotto il suggello della confessione; il vescovo, sotto lo stesso suggello, ne aveva messo a parte il re, il quale non essendo nè vescovo, nè confessore aveva detto tutto al ministro di polizia ed al capo della giunta. Eravamo, dunque, braccheggiati.

"La mia ganza ci aveva miseramente denunziati.

"La sua morte fu decisa nel consiglio.

"Alcuno non mi aveva fatto l'oltraggio di sospettarmi. Si ebbe anzi la generosità di confidarmi l'esecuzione della condanna.

- Attenzione delicata! osservò il cameriere diplomatico.

- Infatti si ebbero per me i riguardi che mi erano dovuti, ma sapevano, altresì, che io li meritavo. Ritornai a Sorrento.

"Trovai Cecilia più tranquilla. Ella si era alleggerita di coscienza e credeva di aver compito il suo dovere, senza neppur immaginarsi che ci aveva traditi e ci mandava tutti al bagno. Da parte mia, non mai mi ero mostrato così allegro, così affettuoso e condiscendente verso di lei. Per provarglielo, le proposi di andare a passare alcuni giorni da un mio amico, che aveva una casa di campagna nella montagna, dalla parte del capo Campanella, il punto di vista più incantevole del golfo.

"Cecilia accettò.

"Avevo messo nella proposizione tanta gentilezza, tanto amore delicato e premura di tornarle gradito, che la mi parve per un istante affascinata e di aver spezzato quello specchio di sprezzo e di odio che mi riproduceva costantemente ai suoi sguardi sotto un aspetto sì abbominevole. Noleggiai due asini e una bella mattina, radiante di sole, partimmo.

"L'aria libera, la vista del mare, quel paesaggio meraviglioso della costa di Massa ed Amalfi, la rapirono. Ella dimenticava, forse per la prima volta in due mesi, con chi si trovasse. Traversammo Massa e svoltammo il capo Campanella, scivolando anzichè camminando sugli spaldi a picco della montagna, per un sentieruolo tortuoso.

"Ci fermammo, però, ad un punto che dava la vertigine.

"La montagna faceva un seno. Dovevamo traversare, per raggiungere il poggio ove torreggiava la casa del mio amico, un piccolo battuto, graffiato sur una roccia friabile e sdrucciolevole, a perpendicolo a dugento piedi sul mare ed assolutamente a picco. Una capra, un gatto, avrebbero esitato e rabbrividito. Pregai Cecilia di scendere e di precedermi, mentre io avrei cura di assicurare il passaggio delle due bestie.

"Ammaliata dallo spettacolo di quel mare azzurro, svolazzato, incartocciato a volute, chiazzato dai raggi bianchi del sole tremolanti sull'onde, quasi abbarbagliata da quel miraggio fatato, Cecilia smontò e principiò a camminare. Guardava il cielo ed il mare meglio che il suolo ove poneva il piede. Di un tratto la vidi vacillare. Mi spaventai del suo pericolo e le misi la mano alla taglia onde sostenerla; la mia mano la scosse e le fece perder l'equilibrio, sdrucciolò. Io chiusi gli occhi.

"Quando li riaprii, per osservare, il vuoto era dinanzi a me.

"Vidi il mare brulicare a' miei piedi, le piccole onde baciare la sponda e recedere come pudibonde ed, in fondo in fondo, riflessa dalla azzurra trasparenza dell'acqua, qualche cosa di bianco, come una Naiade che si moveva e affondava sempre e sempre. Quell'ombra bianca sbiadì, divenne opaca, verdastra, turchina d'indaco, più scura ancora, nera, disparve.

"Io era vedovo.

"La società era vendicata.

- Come la provvidenza vi aveva servito! sclamò il carceriere in capo.

- La tua provvidenza mi servì troppo, compare! rispose il conte.

- La non ne fa che di queste! osservò un'altra voce.

"Ritornai solo coi miei asini a Sorrento e dissi ai miei ospiti che avevo lasciata Cecilia presso i miei amici. L'indomani ritornai a Napoli. Mi sentivo più leggero, ma orribilmente triste. Mi sarei fatto trappista, se avessi avuto settant'anni. Incontrai pochi giorni dopo Fuina e gli raccontai la disgrazia di mia moglie. Quel miserabile spione sorrise e mi disse di star in guardia, perchè il mare è traditore e talvolta rivela i secreti che gli si confidano.

- Difatti, soggiunse il Fuina, abbiamo ricevuto questa mattina un rapporto del giudice di Massa, sopra un cadavere sfigurato e schiacciato dalla marea contro gli scogli, che i pescatori hanno raccolto sulla spiaggia e portato in città. Si procede al riconoscimento di quel cadavere.

"Io non risposi, ma il cuore mi si strinse. Avevo un presentimento violento. Quella donna aveva il carattere così mal fatto che io la credevo capace di vendicarsi anche dopo morta. Non m'ingannavo. Delle persone di Sorrento espressero l'avviso dell'identità del cadavere con mia moglie. Il giudice di istruzione segnalò al prefetto di polizia questa rivelazione. Un mandato d'arresto fu lanciato tosto contro di me, per precauzione. La polizia, non guadagnando nulla dagli assassinii, non tentennava.

"La notte seguente io dormiva in una miserabile locanda, detta Fontana dei Serpi, nel più orribile quartiere di Napoli. Una carrozza partiva di quivi l'indomani per Cosenza e io doveva partire con essa, sentendo che l'aria di Napoli mi bruciava. A un'ora del mattino fui svegliato da un strepito alla mia porta. Aprii gli occhi. Il chiaro di una lanterna sorda mi acciecò. Non distinguevo bene cosa vi fosse dietro la parte scura di quella lanterna che proiettava i suoi raggi su me. Ma uno strepito di armi mi rivelò l'accidente; mi alzai di un balzo. Quattro gendarmi e una dozzina di birri si gettarono sopra me, mi stramazzarono, mi legarono, ed... eccomi qua.

- L'identità del cadavere era stata, dunque, accertata?

- Non ne so nulla. Ma codesta memoria mi attrista.

- Sono le due e mezzo del mattino. Ancora un bicchiere di punch e.... buona notte.

Tutti bevettero e se ne andarono. Il conte si avvicinò allora al colonnello, che non aveva aperto bocca dal suo pagliericcio, e gli domandò:

- Colonnello, avete udita la mia storia?

- Qualche frammento.

- E che ne dite?

- Trovo la storia singolare; ma trovo più singolare ancora che l'abbiate raccontata a codesta bordaglia, che domani la ripeterà a tutta Napoli.

- Hum! colonnello, perchè portate voi codesto uniforme di sergente, che il governo dei Borboni ha voluto solo permettervi?

- Per insultare questo governo.

- Io fo lo stesso. La vostra idea mi ha ispirato la mia. La mia storia è il mio uniforme. Io la sventolo. Sono già condannato. Io derido il re, gli uomini, la società che mi hanno fatto ciò che sono.

CAPITOLO XIII. Post nubila Phoebus.

L'assassinio dell'avvocato, la storia del conte d'Altamura, narrata ed esagerata da cento bocche, l'ingerenza dell'ambasciatore di Francia nel processo del colonnello, di cui venne pure a galla la storia, l'uccisione di Cecilia, nota come una delle lionnes della capitale.... tutte queste notizie, gettate di un sol colpo in quella città dal silenzio morale e dallo strepito assordante, produssero un'agitazione di spiriti, di cui non v'era più esempio dopo la rivoluzione del 1820. Gli era a chi arrogeva la sua parte di dettagli al fondo generale. Gli era a chi ricolmerebbe le reticenze del conte d'Altamura, a chi designerebbe i nomi propri delle persone implicate nel suo racconto.

Gli incidenti in un racconto sono come le ciliege in un canestro: una aggrancia l'altra. Tranne gli episodi medicinali dell'appartamento secreto di Ruitz, tutto il resto era cognito e si commentava nei caffè e nei saloni. Le passioni si accendevano. La sorte di Cecilia commoveva le donne. La condotta di Bruto era giudicata in varie maniere dalla borghesia. Il processo del colonnello eccitava le classi elevate, gli uomini politici, il corpo diplomatico e la Corte.

Il movimento raddoppiava.

La compassione o il disprezzo per Cecilia, la simpatia o l'avversione per Bruto si svaporavano in epigrammi o in declamazioni. La discussione sull'affare del colonnello sollevava le passioni di partito e delle amare riflessioni sulla situazione del paese. Le sventure di Bruto aumentavano l'interesse pel colonnello, suo ospite ed amico.

Si temè per un momento che il brevetto di medico in secondo della regina madre fosse ritirato a Bruto. Le indiscrezioni calcolate del ministro di Francia a Napoli istruivano il pubblico dei passi che facevano a Parigi Donizetti, Ondina e il principe di Joinville. E si seppe che il generale Sebastiani, ministro degli affari esteri di Luigi Filippo, conosceva personalmente il colonnello barone Colini, che l'aveva avuto sotto i suoi ordini. Tutte queste rivelazioni stordivano, elettrizzavano, esaltavano la città e la Corte.

Il processo del colonnello prendeva l'aspetto di una questione internazionale. Ogni dispaccio, che l'ambasciatore del re a Parigi inviava (ed e' piovevano), produceva nella Corte di Napoli dei parossismi di rabbia male celata, che infiammava il partito realista ed allarmava una parte del corpo diplomatico. La Corte di Napoli considerava i buoni uffici della Francia, in favore dei suoi vecchi soldati, come un'intrusione nell'amministrazione interna del regno ed un attentato all'indipendenza del sovrano.

Il re Ferdinando aveva materialmente ragione, moralmente torto.

La condotta del governo napolitano verso il colonnello offendeva la coscienza umana, la morale, la giustizia ed il diritto. Ed il ministro di Francia aggiungeva: anche i trattati; - quello di Casalanza, per esempio, coi quali il governo napolitano s'era impegnato a riconoscere i gradi militari accordati dai monarchi francesi. L'ambasciatore d'Austria, il ministro di Russia, il nunzio sostenevano il governo borbonico. I ministri d'Inghilterra e di Prussia restarono neutri diplomaticamente, ma personalmente appoggiavano quello di Francia.

Il re, per provare la sua indipendenza, aveva ordinato di raddoppiare di rigore contro il colonnello. L'ambasciatore francese usava ogni specie di rappresaglie conciliabili col suo titolo e col suo carattere. Tutto il partito liberale del regno era con lui. All'incontro il partito cattolico e tutti gli agenti dell'amministrazione secondavano ed applaudivano la Corte. La polizia inveiva contro coloro che frequentavano l'ambasciata e l'ambasciatore di Francia. L'irritazione prendeva l'andazzo della collera.

Don Terenzio aveva accettato la difesa del colonnello perchè era in rottura colla Corte e teneva il broncio ai Borboni. Dopo la morte di questo avvocato l'ambasciatore non era riuscito ad impegnarne un altro che con molteplici restrizioni. La polizia terrorizzava la gente del fôro. Il colonnello, istrutto di codesto, aveva rifiutato l'aiuto di un così poco libero difensore e dichiarato che si sarebbe difeso da sè. Questa decisione aveva allarmato il presidente, il tribunale e la Corte.

Infatti, che partito per imbavagliare un accusato che perora per conto suo e racconta dei fatti storici con dignità e convenienza? Ed erano appunto questi fatti storici che la Corte temeva. Il presidente poteva egli intralciare la difesa, ritirare la parola ad un uomo, pel quale nove decimi della città s'interessavano, dinanzi al corpo diplomatico e il meglio della società napoletana, in mezzo all'ansietà generale e sotto il pungolo della curiosità e sotto gli sguardi d'un pubblico esaltato, quando questo accusato si presenterebbe vestito dell'uniforme di sergente del generale Mack, ma tenendo alla mano la spada che egli aveva portato in tante battaglie, la decorazione che aveva ricevuto dalle mani dell'imperatore, il brevetto di colonnello ed il diploma di barone dell'impero?

Poteva egli, quel presidente, impedirgli di raccontare le sue geste, la storia dell'imperatore e quindi di fanatizzare l'assemblea, quando egli crederebbe di provare - a torto o a ragione - ch'egli aveva diritto alla protezione della Francia, offesa nella persona sua? Gli si proverebbe poi ch'egli aveva torto. Benissimo; ma egli avrà parlato, avrà infamato il governo napolitano, avrà esaltato l'uditorio, avrà fatto risuonare nel santuario stesso della legge quel nome di Napoleone ch'era proibito pronunziare nelle vie, pena la prigione.

Infrattanto il giorno del giudizio si avvicinava e l'interesse pubblico aumentava d'intensità. Restava al governo napolitano un elemento certo di trionfo. La Francia, coprendo con la sua benevolente protezione un uomo che aveva per lei seminato le sue membra ed il suo sangue lungo l'Europa, non aveva ancora deciso che costui facesse sempre parte dell'esercito francese e che il decreto del ministro della guerra di Luigi XVIII fosse indegno.

- Perchè, diceva il ministro della guerra di re Ferdinando, sostenuto dal ministro della giustizia e da quello degli esteri, perchè riconoscerei io ciò che il governo francese esita esso stesso a riconoscere?

Con questo argomento si teneva in iscacco l'ambasciatore di Francia e la pubblica opinione. Ma l'ambasciatore di Sua Maestà napolitana a Parigi scriveva: "Fate presto, condannate od assolvete come meglio vi piace; ma spicciatevi: preparate un fatto compiuto. Non si è ancora deciso, ma la decisione può arrivare da un momento all'altro ed io non vi garantisco sarà favorevole."

- Che si faccia presto, dunque! rispondeva re Ferdinando. Se io sarò costretto a rendere all'esercito francese uno dei suoi commilitoni, voglio cavarlo dall'ergastolo e rimetterglielo colla catena del forzato al piede. Non è alla mia autorità che lo si strapperà allora, ma alla mia grazia.

Un nuovo dispaccio venne a gettar lo scompiglio nella Corte. L'ambasciatore di Napoli a Parigi annunziava, che la cantante Ondina ritornava a Napoli sul battello a vapore il Sully, portando all'ambasciatore di Francia dispacci, di cui e' non era giunto a sapere il contenuto, ma che aveva ragione di creder molto gravi.

Questa notizia cacciò la febbre addosso ai ministri degli esteri e della polizia. Il re ruggiva come una bestia feroce. Ma come presentare all'udienza un uomo malato ancora di febbre tifoidea? come trascinare sopra una barella questo moribondo, questo scheletro? Pure fra tre giorni arrivava il Sully.

Se si avesse avuto almeno dinanzi a sè una settimana! se si fosse potuto almeno avvelenare codesto avanzo di soldato, che creava tanti guai! Lo si poteva certo; ma l'ambasciatore francese avrebbe dimandato un'autopsia, ed allora!.... Il colonnello, d'altronde, conoscendo a fondo i suoi Borboni, non prendeva medicamenti, non riceveva il medico e si curava da solo, come voleva difendersi da solo. Nè prendeva altro rimedio che il ghiaccio.

Infine i tre giorni passarono. Erano sembrati tre secoli alla Corte, ai ministri, all'ambasciatore francese, che conosceva già il contenuto dei dispacci, e sopratutto ad Ondina, a cui era noto meglio che a tutti. Di fatti aveva appena messo il piede sul ponte del Sully a Marsiglia, che chiedeva già al capitano quando arriverebbero.

- Fra tre giorni, signorina.

- Tre giorni! ma la è un'eternità.

- Non avrei mai creduto che si potesse avere tanta premura d'arrivar a Napoli, signorina, osservava il capitano, che era francese, anzi parigino, e che era saltato dalle barricate di luglio sul ponte di una nave.

- Quando vi avrò detto che vado a maritarmi, rispose Ondina ridendo, mi comprenderete, spero.

- Alla buon'ora! senza di che non mi spiegherei perchè si vorrebbe arrivare in un paese ove non s'incontrano che preti, frati, spie e lazzaroni, un re da teatro, un governo di ribaldi vili e venali, delle donne gialle come il cuoio di Russia, le quali non si lavano, che si rassegnano a tutto, eccetto di far senza di messe e di baciare le mani ai cappuccini. Avete il passaporto in regola, almeno?

- Penso che sì, rispose Ondina, la quale non aveva punto coscienza dei piccoli inconvenienti cui il capitano veniva di enumerare.

Il primo giorno passò, poi il secondo, grazie al mal di mare, che diede alla figlioccia altri triboli. A Livorno la s'informò se poteva continuare il viaggio per terra. Lo poteva; ma con ritardo di tre giorni.

- Il mal di mare piuttosto, gridò Ondina, ed arriviamo presto.

- Rigioitevi, signorina, soggiunse il capitano, il tempo è cambiato; fra poche ore il mare volerà sotto le nostre ruote, come gli strilli nella vostra bocca.

- In questo caso, rispose Ondina ridendo, saremo ancora scaraventati, se il mare si avvisa di rappresentare qualcosa di Verdi.

A partir da Civitavecchia, Ondina non potè più tenersi nella sua cabina; ad ogni istante ella domandava se Napoli fosse in vista. Le stelle della notte la videro gironzare sul cassero. L'alba vaporosa la sorprese vicino al pilota marsigliese, il quale contava in provenzale il numero dei nodi che restavano ancora a correre.

L'aurora la trovò ancora solo a sola col capitano il quale le precisava l'ora dell'arrivo.

- Non saprei però predirvi, signorina, aggiungeva il capitano a che ora poserete i vostri piedini sul sudicio lastrico della città, perocchè occorrono ancora lunghe storie avanti di ottenere la libera pratica della polizia.

- Polizia! polizia! esclamò Ondina un po' imbronciata; voi non vedete che polizia a Napoli, capitano?

- Gli è che non v'è altro nel vostro bel paese. Tutti ne fanno parte, o ne sono vittime. Ah! c'è pure la buonamano! Polizia e buonamano! Ecco Napoli.

Il capitano aveva ragione. Ed ecco perchè, quando i Borboni sono caduti, sotto il soffio di Garibaldi accompagnato da sei persone, ecco perchè non un braccio si alzò per difenderli, non una voce disinteressata per compiangerli.

Questo capitano essendo stato segnalato come uno degli eroi delle barricate di luglio, la polizia napolitana gli faceva subire ogni specie di miserie per determinarlo a rinunziare ai suoi viaggi a Napoli. Ma il capitano aveva le sue ragioni per venirvi; egli era l'agente del comitato europeo.

In fine, eccoli a Napoli. Il capitano scende colla lista dei viaggiatori ed i passaporti e si reca all'uffizio della polizia.

Gli avvenimenti avevano camminato e si erano aggravati. L'ambasciatore aveva inviato alla prigione un addetto alla legazione, onde assicurarsi se il colonnello avesse forza abbastanza per difendere la sua causa, messa al ruolo fra quattro giorni. L'addetto non era stato ammesso a visitare il prigioniero.

Il principe di Joinville era entrato in rada il giorno prima, sulla Belle-Poule, in via per la Grecia. Il re gli aveva mandato un aiutante di campo per complimentarlo. Il principe lo aveva fatto ricevere da un ufficiale subalterno, dicendosi malato e poche ore dopo era andato a pranzo all'ambasciata.

La sera stessa, dall'ambasciatore d'Inghilterra, che dava festa al principe, il ministro della polizia aveva stesa la mano all'ambasciatore di Francia: questi distratto, aveva posto in tasca la sua, fingendo guardar altrove. Poi, in un gruppo, si parlava di un discorso che il signor di Chateubriand aveva pronunziato alla Camera dei Pari, al tempo della ristorazione.

Il ministro degli affari esteri del re disse:

- Ho pranzato da lui a Roma, lo conosco.

- Quale fra le sue opere preferisce, vostra eccellenza? interrogò non senza ironia l'ambasciatore d'Austria.

- I beefsteack! sclamò ridendo l'ambasciatore francese, anticipando la risposta.

L'arguzia non era nuova, ma cadeva a proposito: perocchè dicevasi a Napoli che quella eccellenza passava più tempo nella sala da pranzo che nella sua biblioteca.

La disputa erasi inciprignita; si rimbeccavano già alla bello e meglio. Non mancava che il colpo di grazia. Il ministro di polizia, offeso della berta datagli la sera precedente dall'ambasciatore, lo portò.

Il capitano del Sully ritornò a bordo col commissario di polizia, che diede pratica.

Si principiò l'appello; quando arrivò il nome di Ondina.

- Voi non potete scendere, disse il commissario. Il vostro passaporto non è in regola. Ci manca il visto del console del re di Marsiglia.

- Ma io ho dei dispacci a rimettere all'ambasciatore di Francia, sclamò Ondina perduta.

- L'ambasciatore verrà a prenderli se non ha la gotta.

Ondina cadde affranta sopra una panca del naviglio.

Un addetto all'ambasciata di Napoli a Parigi, che portava anch'egli dei dispacci, scese pel primo, guardando con un'aria di trionfo la povera vittima.

Tutti partirono. Ondina chiese del capitano.

- È sceso a terra, signorina, rispose il pilota marsigliese, e non ritorna che domani mattina.

Ondina ruppe in lagrime e si coperse il viso.

Era ancora nel parossismo della desolazione, quando vide un canotto, alla bandiera francese, staccarsi dalla Belle-Poule, scivolare sul mare silenzioso e leggiero come un raggio di luna, avvicinarsi al Sully e parlamentare. Si abbassò la scala e un personaggio salì sul cassero.

- Dov'è madamigella Ondina? chiese egli.

- È quella piccola che piange, rispose un marinaio. Il personaggio si avvicinò.

- Madamigella, diss'egli, io sono l'ambasciatore di Francia, fatemi l'onore di accettare il mio braccio.

Il capitano del Sully, che l'accompagnava, rideva, come un erede, del bel tiro che aveva fatto alla polizia.

- Vi manderò domani i vostri bauli, signorina, coll'istesso mezzo e che Dio mandi il cólera al vostro governo.

L'ambasciatore condusse Ondina al palazzo dell'ambasciata, nella sua vettura, che lo aspettava a Mergellina.

La sera, il capitano del Sully raccontò questo aneddoto agli ufficiali della Belle-Poule al caffè d'Italia e tutta Napoli ne fu informata. La sera stessa si potè vedere, nel palchetto dell'ambasciata, Ondina che rideva, come una pasqua di rose, in faccia al ministro della polizia, il quale spumava dalla rabbia.

Cosa contenevano i dispacci portati da Ondina all'ambasciatore e dall'addetto napoletano al ministro degli esteri?

L'indomani, l'ambasciatore, in uniforme, si presentò al ministro, e comunicò al ministro del re: che il ministro della guerra di Parigi aveva annullate le disposizioni del ministro di Luigi XVIII; che il signor Pietro Colini era riconosciuto nel grado di colonnello da lui posseduto nel tempo della battaglia di Waterloo, e che si procedeva ad una inchiesta onde assicurarsi se l'imperatore gli avesse conferito il grado di generale sul campo di battaglia; che il governo francese, considerando il colonnello come facente parte dell'esercito francese, gli riconosceva pure la decorazione di commendator della Legion d'onore ricevuta dalle mani dell'imperatore e il titolo nobiliare di barone; che il barone Colini, essendo stato riconosciuto come colonnello ammesso al ritiro dall'esercito, era quindi, per la stessa ragione, considerato come(24) cittadino francese ed in questa qualità lo si copriva della protezione della Francia, ch'e' risultava da una deposizione del marchese di Diano, complice del colonnello, che questi era stato attaccato dal marchese, che non c'era stato un vero duello, ma un semplice scambio di colpi, nel quale il colonnello non aveva fatto altro che respingere l'aggressione; che in nessun paese del mondo, sotto nessuna legislazione e in nessun tempo, non era proibito ad un uomo assaltato di difendersi; e che ciò essendo, il giudizio del colonnello era un atto odioso ed abusivo, al quale il governo francese non si rassegnava, ed in causa di cui esso dimandava una riparazione morale per l'insulto fatto alla Francia, in un membro del suo esercito, ed una riparazione materiale, in favore dell'uomo leso nella sua libertà e nella sua persona. L'ambasciatore aggiungeva terminando, dopo aver dato lettura della nota, di cui riassumiamo il contenuto, che se il colonnello Colini non era messo in libertà, egli, l'ambasciatore, protesterebbe, in nome della Francia, contro ogni sorta di danno causato sì al fisico che al morale d'un cittadino francese, salvo le ulteriori determinazioni che verrebbero prese a Parigi.

A questa nota, seguita da questa dichiarazione, si accoppiò il dispaccio dell'ambasciatore napoletano presso le Tuileries, che rendeva conto dell'eccitamento negli spiriti a Parigi per questo insulto del governo napoletano.

Il generale Sebastiani era furioso. L'opposizione alla Camera preparava un'interpellanza sull'avvenimento, di cui la stampa faceva già una grave accusa contro il ministero. L'ambasciatore napoletano soggiungeva che la regina Amelia lo aveva consigliato di scrivere al re, di non provocare oltre misura un paese che non aveva rimesso ancora i fumi della rivoluzione, e che il ministro Sebastiani gli aveva dichiarato, extra-ufficialmente, che egli si crederebbe vilipeso come ministro e come soldato, se tollerasse che il colonnello Colini fosse insultato. Queste comunicazioni ebbero l'effetto del fulmine. Il re era idrofobo.

All'indomani, il colonnello doveva comparire dinanzi i suoi giudici.

Una parte di questi fatti, esagerati, passando di bocca in bocca, circolava già nella città. La emozione era grande. Questo conflitto colla Francia rialzava lo spirito dei liberali, che odiavano il governo dei Borboni.

All'indomani mattina, dunque, la folla faceva ressa per guizzarsi nella Camera del dibattimento.

Ondina si disponeva a rendervisi, quando le fu annunziato un ciambellano della regina madre, portatore di una lettera di Sua Maestà.

Lo stupore della giovane fu immenso, sapendo quanto fosse detestata alla Corte.

Ricevette il ciambellano e la lettera.

Sua Maestà, avendo udito parlare del prodigioso successo di lei a Parigi, la invitava a venir a cantare nelle sue stanze, dinanzi a lei ed alle sue figlie, la prossima domenica. Ondina corse al gabinetto dell'ambasciatore per dargli questa notizia e chiedergli consiglio.

- Aspettate per rispondere che la sentenza del tribunale sia conosciuta, disse l'ambasciatore.

- Posso recarmi al tribunale? chiese Ondina.

- Sarebbe imprudenza, rispose l'ambasciatore. Nessuno dell'ambasciata vi va.

Difatti, tutto il corpo diplomatico si trovava al tribunale, eccetto le persone dell'ambasciata di Francia.

Suonano le dieci. I giudici entrano e si assisero nei loro seggi. Ma l'accusato mancava, il presidente non compariva ancora. Scorse un quarto d'ora e tutti si dimandavano cosa ciò significasse, quando entrò un usciere e rimise una lettera al vicepresidente.

Il presidente annunziava che, preso da subita febbre, non poteva assistere al giudizio e rimetteva l'affare ad otto giorni.

Sua Maestà non voleva recedere da ciò ch'ei credeva fosse il suo diritto; ma non avendo ancora nulla deciso sul come tirarsi da quel ginepraio, aveva ordinato che il processo fosse aggiornato.

Un mormorio generale accolse la lettera del presidente. Il vicepresidente salì al seggio e fu chiamata un'altra causa.

La notizia fu accolta favorevolmente all'ambasciata di Francia. Questo primo passo indietro indicava un ulteriore rinculare.

Allora Ondina, dietro consiglio dell'ambasciatore, prese la penna e rispose alla regina che la era felice e riconoscente di obbedire agli ordini di Sua Maestà.

CAPITOLO XIV. La regina si diverte.

La sventura si era posata sullo stabilimento del conte Ruitz di Llamanda. Il nuovo pensionario che aveva impegnato, aveva fatto pessima riuscita. Questo Tedesco era un ubbriacone, puzzava di pipa a dieci leghe, era sempre sudicio ed, oltre tutto questo, aveva osato alzar la mano sulla principessa.

Questo tratto era forse un distintivo del carattere nazionale, poichè dicevasi che un altro Tedesco, il barone di Schmurgar, usava degli stessi modi con una donna augusta.

Era stato, quindi, mestieri allontanare Franz Hobermann dallo stabilimento, riconducendolo con garbo, fino a che non giungesse il momento di regalare al galuppo un colpo di coltello nella pancia. Poi era giunta la notizia dell'assassinio di Cecilia. Il conte se n'era assai mediocremente rammaricato, affliggendosi piuttosto degli scudi che Fuina gli aveva giuntati, insieme alla principessa di Kherson.

Imperocchè nè l'uno nò l'altra non dubitavano punto che Faina fosse uno dei soci della compagnia, di cui il conte d'Altamura era il capo, e l'una e l'altro avevano dato del denaro a questo segugio di polizia - avendo interesse di trovare le traccie di Cecilia - il conte per riprenderla e così tirare a sè nuovamente Bruto, la principessa per farla sparire, forse, poichè ella comprendeva che Bruto l'amava.

La regina madre, supplicata da Ruitz, aveva ordinato al ministero della polizia di proseguire con energia questo affare; e gli è per questo che sua eccellenza aveva incaricato Fuina delle ricerche. Ma l'infedeltà di questo agente essendo stata constatata, lo si era punito.... Fu mandato come agente secreto per sorvegliare i proscritti napoletani a Parigi ed a Londra.

Le disgrazie del signor Ruitz frattanto non erano per anco finite. Egli non si aspettava mica al certo che la perdita di Cecilia spingerebbe Bruto alla disperazione. Pure, un po' di commedia di dolore avrebbe lusingato la sua vanità. Ora, invece, se Bruto non si rallegrò della libertà che quella morte gli apportava, codesta morte gli dava respiro.

Nel fondo del cuore, Bruto era sempre perseguitato dall'imagine di quella donna che aveva realizzato per lui il supplizio di Tantalo. Ma il solletico delle pupille voluttuose si calmava d'ora in ora. Ed una rivelazione di don Gabriele accelerava il ritorno della sua tranquillità.

Don Gabriele gli mostrò le lettere che Ondina gli aveva scritte da Parigi, tutte piene di amore e di progetti d'idilli.

La povera Lena o Ondina ignorava completamente la storia di Cecilia.

Ella amava Bruto d'un amore semplice, senza tamburi e senza trombette, nell'istesso modo che si respira la vita aprendo la bocca, che si guarda il cielo aprendo gli occhi. Le lettere così semplici, così confidenti di Ondina, lette una dietro l'altra senza prender flato, produssero in Bruto come una specie di barbaglio, di vertigine. Qualche cosa ch'era chiuso si aperse in lui. Egli comprese che l'amore non è sempre la delizia dei sensi. Ei si sentì aleggiare nelle zone temperate del marito, senza passare per l'atmosfera infiammata dell'amante.

Ruitz ebbe vento di tutto ciò, e ne fu indispettito. Nel fondo del suo cuore, egli non aveva ancora forse rinunziato a Bruto e, più il suo stabilimento passava per vicissitudini volgari, più egli rimpiangeva il tempo in cui Bruto l'aveva retto con tanta dignità. Questo matrimonio ora era una conclusione, un'offesa impiantata sur un disinganno, e tutti e due innestati sur un danno. Ruitz comunicò questa notizia alla principessa, la quale ricordava sempre Bruto senza rancore e si mostrava inesorabilmente implacabile contro di lui, Ruitz, per l'infame traffico che aveva fatto di sua figlia.

Ruitz capì che la principessa era gelosa, che ella aveva forse sorpreso nel cuore di Bruto qualche palpito d'amore per Cecilia e ch'ella attribuiva la lontananza del medico a codesto amore.

Che trionfo ora, che giustificazione, se egli le apprendesse che Bruto sposava la donna, cui per anni, aveva tenuta nascosta nei ripieghi i più reconditi del cuore.

Ruitz, dunque, parlò. Egli credeva presentare soltanto la sua giustificazione, ed egli portava un colpo spaventevole: e demoliva la speranza di una donna a quarant'anni. La principessa, non pertanto, non fiatò motto. Sanguinò all'interno: ciò che è il peggiore di tutte le ferite, come il sorriso senza schiudere le labbra è il più disgraziato dei sorrisi.

La principessa partì quel giorno più presto del solito. Ruitz andò alla Reggia onde fare ispezione de' suoi canarini.

Alla Corte, dalla regina madre, egli udì parlare di Ondina. Per lui Bruto e Ondina non formavano che un odio a due teste.

Si raccontavano le avventure di quella giovane, ed in che modo l'ambasciatore di Francia era andato a prenderla al battello a vapore. Si rimontava a ciò che aveva fatto a Parigi pel colonnello, l'incendio che aveva destato contro la Corte di Napoli, il successo straordinario che aveva ottenuto al Teatro Italiano. Questa catena di fatti svegliò un'idea, o meglio un desiderio nello spirito della regina Urraca. - Vorrei proprio udir cantare codesta donna, diss'ella.

Desiderare, per una testa coronata, è comandare.

Senza dir altro(25), la regina si pose allo scrittoio e, tanto peggio per l'ortografia e la grammatica, scarabocchiò il suo invito autografo. Però non lo spedì. Ondina si trovava in una posizione eccezionale. La regina poteva dessa, diplomaticamente, invitarla e riceverla?

Attese.

Dormì su questa idea onde meglio maturarla. Ella premeditava l'invito, avvegnacchè Ruitz, che conosceva il desiderio di Sua Maestà, la spingesse forte a dargli corso. La regina non fece attenzione all'incoraggiamento audace di quel lacchè, e per ricordargli forse ciò ch'egli fosse, gli disse:

- Ruitz, vieni a mostrarmi i miei canarini ed a presentarmi i neonati.

Ruitz accompagnò Sua Maestà in questa ispezione e l'intrattenne a lungo sul canto di quelle creaturine susurrone. Ciò, forse, stuzzicò ancor più il desiderio reale.

Ritornando dalla visita dei canarini, Sua Maestà suggellò convulsivamente la lettera, che fu inviata all'indomani.

Il giorno indicato, a ott'ore della sera, una carrozza della Corte andò a cercare Ondina.

Fu introdotta immediatamente nell'appartamento della regina, ove questa l'attendeva già, in mezzo alle sue figlie e a due o tre dame di compagnia. La regina Urraca - quantunque spagnola - andò incontro graziosamente alla cantante e la ringraziò di essere venuta. Ondina le dimandò la grazia di baciarle la mano. Le giovini principesse la circondavano.

- Madamigella, disse la regina, abbiamo letto nei giornali e ci sono state raccontate delle cose così maravigliose della vostra voce che non abbiamo potuto resistere al desiderio di udirvi. Ho voluto procurare questo piacere anche alle mie figliuole.

- Grazie a Vostra Maestà, rispose Ondina assai confusa; se potrò darle il piacere che lei attende da me, ne sarò molto felice.

La regina se la fece sedere accanto con molta semplicità e le indirizzò qualche domanda sui parenti e sulla vita di lei. Ondina rispose con convenienza, vale a dire, velando molte cose. Si presero dei rinfreschi. Poi la regina condusse Ondina in un piccolo salotto addobbato di raso azzurro a strisce bianche, ov'eravi un magnifico pianoforte viennese.

Volendo dare alla riunione un'aria d'intimità, Sua Maestà non aveva neppur fatto venire un accompagnatore. Una dama di compagnia, che suonava benissimo, assunse quest'ufficio e si pose al clavicembalo.

Ondina chiese alla regina quale musica preferisse, e che maestro le fosse più gradito tra Bellini, Rossini, Donizetti, Mercadante, Ricci e Raimondi.

- Tutto ciò e nulla di tutto ciò. Amo ciò che è bello e melodioso e tenero. Una musica che è altra cosa che dolcezza e malinconia può esser bella, ma la non è che del suono ingegnoso. Anche le Amazzoni erano belle, ma desse non eran donne.

- Ho fatto bene, allora rispose Ondina, a non portare carte di musica. Una musica dinanzi ad uno zibaldone mi sembra tanto ridicola, che non saprei cantarla senza ridere e senza smarrirmi. Ho là un repertorio intero, continuò essa portando la mano alla fronte, e ancor più in là, soggiunse, mostrando il cuore. Vado dunque ad aprir le cateratte: quando sarà troppo, Vostra Maestà mi ordinerà di tacere.

Dopo questa dichiarazione, la dama di compagnia si alzò, Ondina sedette al piano e cominciò.

Non saprei dire tutto ciò ch'ella cantò. Dimenticando dove era, ed in presenza di chi ella fosse, invasa dalla fata delle melodie, Ondina si slanciò nel cielo dei suoni armoniosi ed ispirati; passò da Parisina alla Semiramide, dall'Anna Bolena alla Straniera, dall'Otello alla Donna Caritea, dal Giuramento agli Arabi nelle Gallie, dalla Vestale alla Saffo, Norma al Roberto Devereux, alla Maria di Rohan, alla Linda, al Pirata, al Bravo, alla Sonnanbula, alla Lucia di Lamermoor.... e, dovunque erano note tristi e tenere, canti soavi ed espressivi, ella li colse, li riunì, ne tessè una corona.

Poi, per bizzarria, ella spiccò un raggio di qui, uno spicchio di là, un razzo all'uno, un profumo all'altro; a questo un gorgheggio, a quello un largo, ad un terzo una cabaletta, a quell'altro un bagliore e si levò in una tale apoteosi di splendore, che la si sarebbe detta una cascata di pietre preziose cadenti da una coppa d'opala in un bacino d'oro. La regina sorse ad abbracciarla e le principesse non si tennero indietro.

- Ah! io comprendo, sclamò la regina, perchè ognuno si affretti a compiere i vostri desideri, o incantatrice! Deh! non vogliate chiedere a Giovi d'oltremonti, che umiliano i re, di cangiarci in pastorelle.

Ondina capi l'allusione e, giungendo le mani, rispose con voce toccante:

- Aspetto tutto dalla grazia di Vostra Maestà.

Fu servito il thè. Poi, essendo giunta per le principesse l'ora di ritirarsi, elleno uscirono dal salone. La regina fece segno alle dame di compagnia di seguirle e restò sola con Ondina. Parlarono di Parigi. E come non vi è persona più ghiotta della vita intima delle attrici, che le duchesse, le regine e le monache, Sua Maestà, avendo messo Ondina su questo capitolo, la condusse dolcemente nella sua camera da letto, ove sedettero lato a lato sur un tête-à-tête.

La bonomia mostrata dalla regina incoraggiò e sedusse Ondina, di naturale franco ed allegro. Ora, se è vero che a Parigi ella era stata saggia, aveva altresì udite ed apprese molte storie da palco scenico e da alcova.

Ella rise e tagliò le gomene alla sua parlantina. La regina rise con lei. Lanciata su questo pendìo la conversazione approdò al colonnello e a Bruto. Ondina rinvangò allora diversi particolari della sua storia, taciuti davanti alle principesse, svelò alla regina che il colonnello era suo padre e confessò che amava Bruto.

La regina sentì un brivido e chiamò qualcuno. Venne Ruitz. Sua Maestà gli ordinò di chiudere le finestre della camera che davano sul mare.

- Ed il mio galante medico, vi ama egli, signorina? chiese Urraca, con bontà.

- Se mi ama? Noi non abbiamo mai scambiato una parola d'amore, Maestà. Non si dicono codeste cose che quando le si scoprono a bella posta, un po' alla volta, quando le s'indovinano, quando le si comprendono, o quando scoppiano all'improvviso. Credo che noi abbiamo sempre saputo di amarci. Ciò è nato nel cuore col cuore e vi è restato come l'ospite della prima ora. Dire a Bruto: Io t'amo! l'avrebbe stupito, come se gli avessi detto: To'! hai dei capelli neri! se Bruto mi avesse detto: Lena, io t'amo! gli avrei risposto: Bella novità! Si direbbe che vieni ad annunziarmi che l'arcivescovo ha messo ai mondo tre piccoli! Quando ci vedemmo per la prima volta ci(26) conoscevamo già da un secolo.

- E Bruto sa tutto codesto, sente anch'egli a questa maniera?

- Se lo sa? Se lo sente? Figuratevi, Maestà, ch'ei non mi aveva mai detto una di quelle parole che si dicono alle fanciulle in simili circostanze e che aveva preparato tutto pel nostro matrimonio, ed era corso da me, accompagnato da mio padre per dirmi: Lena, ecco tuo padre! Andiamo a sposarci! Ora io ho tutto ammanito per le nozze e, dal canto mio, io non gli ho detto ancora: Bruto, ci mariteremo domenica! Altri ci ebbero, Maestà, senza possederci. Bruto ed io non abbiamo scambiato neppur un bacio e noi abbiamo divorato insieme tutte le voluttà dell'amore.

La regina arrossì, il sangue le invase il collo, il viso, la fronte. Ella aveva caldo addosso e chiamò. Ruitz riapparve, ed aprì le finestre.

- Portatemi dei sorbetti, disse la regina.

Mentre Ruitz uscì, la regina andò al suo armadio, aprì alcune cassettine, cercò qualcosa, e ne tirò fuori... un braccialetto. Frugava ancora, quando Ruitz le presentò una guantiera. Sua Maestà prese un bicchiere e guardò.

Era quella bibita deliziosa, color rubino, dall'odore di fior di pesca, che i Napoletani amano tanto.

Questa bibita si chiamava allora, e si chiama ancora oggidì, acqua di amarena o amarasca. Ma, dopo l'avvenimento che raccontiamo, alla corte, nei saloni del gran mondo non fu addimandata altrimenti che il Sorbetto della Regina; ed una storia, sobillata sotto voce, commentava l'origine di questo battesimo.

La freschezza, il profumo, il brio di quella bevanda facevano voluttuosamente dilatare le narici della regina, perocchè la sua respirazione divenne forte ed a balzi. Prese un bicchiere e si diresse verso il canapè, ove Ondina cogli occhi al cielo, nuotando nelle regioni dell'amore e dei sogni, restava assorta e quasi accasciata.

- Figliuola mia, disse Sua Maestà, avrai un giorno de' più bei diamanti. Ma porta qualche volta questo braccialetto in memoria di me. Poi rinfrescati, devi aver caldo.

E nel tempo stesso che presentava graziosamente ad Ondina il braccialetto ed il bicchiere col sorbetto, Sua Maestà prendeva sulla guantiera un bicchiere simile e della stessa bevanda, e lo vuotava con delizia e quasi d'un tratto.

Ondina la ringraziò di una voce tenera e di un dolce sorriso. Passò il braccialetto al suo polso, dopo d'averlo baciato e bevve a sua volta, tutto ad un tratto come la regina, ma non con l'istessa voluttà.... Ella aveva meno caldo.

La regina si assise di nuovo accanto alla giovane. Ruitz uscì e la conversazione sulle attrici di Parigi riprese il suo corso. Ondina raccontava con brio un pranzo a tre, allestito dagli stessi convitati, in cui Rossini preparò i famosi maccheroni, Mercadante lo stufato per condirli, e Donizetti la polenta alla milanese, quando ella sentì un brivido correrle lungo la spina dorsale ed il suo fronte si perlò di sudore. Ondina non osò dire verbo e continuò il racconto. Ma la voce fluttuava, la gola le si stringeva e i suoi occhi si aprivano smisuratamente, mentre la vista le si oscurava e la lingua diveniva grossa ed imbarazzata.

- Perdono, Maestà, diss'ella tutto ad un tratto, mi sento morire.

La regina, molto allarmata, molto agitata per questo accidente, suonò. Ruitz apparve.

- Adagia questa fanciulla su questo letto, il caldo le ha fatto male.

Ruitz prese Lena nelle braccia e la posò sul letto della regina.

- Un medico, un prete, mormorò Lena.

- Non è nulla figliuola, non è nulla, disse la regina: tranquillatevi. Ruitz, apri le altre finestre.

Ruitz obbedì. La gioia gli crepitava sul sembiante.

Il vecchio birbo aveva stretto fra le sue braccia la vaga giovinetta.

- Un medico, un prete, di grazia, Ma....està, - balbettò ancora Ondina.

- Ruitz, manda tosto a cercare il dottor Bruto. Calmati, figliuola mia, è il caldo.

E ciò dicendo, Sua Maestà slacciava con molta bontà il busto della cantante. Poi appoggiò la mano sul cuore d'Ondina e non sentì che un formicolamento indistinto. Le pupille sembravano abbaini da cattedrale. La mano era madida ed agghiacciata. Le labbra smorte. Sua Maestà andò a sedere sul divano. Ruitz rientrò ed annunziò che Bruto, opportunamente di guardia quella notte ai Pellegrini, sarebbe fra una mezz'ora al capezzale dell'ammalata.

Seguì un silenzio - silenzio di piombo.

Lena si contorceva e lacerava le vesti sul suo petto. La sua respirazione galoppava saltabeccando. La si udiva, in mezzo a quel sinistro silenzio, come il rantolo d'un orologio in una leggenda di spettri. La regina guardava Ruitz. Ruitz aggrinzava il suo terribile rictus, come una tigre che sbadiglia. Quella mezz'ora fu eterna. Finalmente si udì un lontano rumore nelle prime anticamere.

- Eccolo! gridò Lena, sforzandosi di sollevarsi. Ah.... troppo tardi! soggiunse poscia ricadendo sul letto.

S'apre la porta. Entra Bruto. La regina gli addita, senza moversi, il letto e l'ammalata. Bruto riconosce Lena e si precipita sul letto reale.

Osserva e trema.

E' sollevò allora la testa di Lena e volle prendere il lume sul tavolo, onde meglio guardarla in faccia. Vide in quel momento qualche cosa.... una boccetta forse, un Agnus dei, che so io? Fece un movimeNto d'orrore, indietreggiò fino ai piedi della regina, cadde in ginocchio e d'un accento supremo di disperazione gridò: Grazia.

La regina lo mirò stupefatta, come qualcuno che non capisce; poi, come se ella avesse afferrato il senso della parola di Bruto, sclamò:

- Grazia! ah! sì. Sta bene questo, giovane mio; amo le persone che credono in Dio e si volgono a lui nei momenti supremi. Sì.... prega; Dio vi farà grazia.

Ed escì. Ruitz la seguì.

Bruto si slanciò di un balzo di nuovo verso il letto, prese Lena nelle sue braccia, sollevò il suo capo, le tastò il polso, il cuore. La chiamò, le parlò, l'interrogò, cercò di rianimarla....

Udì allora come una chiocciolata di risa. Si volse e vide tra i battenti della porta un capo senza corpo, un capo spaventevole, dai rossi capegli stecchiti, dagli occhi verdi elettrici, dalla nera bocca fessa fino all'occipite, il capo di Ruitz.

Bruto torse lo sguardo e risollevò la testa di Lena. Quella testa ricadde sui guanciali. Un alito profumato di fior di pesca gli lambì il viso: un brivido scosse tutto il corpo della fanciulla, che s'irrigidì all'istante. Lena era morta.

Bruto fuggì.

Due ore dopo, il corpo di Lena, trasportato in una vettura di Corte, fra un prete e Ruitz, era gettato nella fossa comune del cimitero.

Di che era morta quella povera giovinetta?

- Chiedetelo al dottor Bruto, si diceva a Corte....

Ed il dottore rispondeva:

- Della rottura di un vaso nel petto.

Ma il delizioso sorbetto, ch'ella aveva bevuto, l'ho già detto, d'allora in poi si chiamò il Sorbetto della Regina.

Alcune settimane dopo, Ruitz poi moriva di un colpo d'apoplessia.

Il re fece grazia al colonnello Colini. Era così clemente re Bomba!

FINE.

INDICE.

PARTE PRIMA.

I. Una buona idea

II. Il sergente Sacco-e-Fuoco

III. Don Noè

IV. Lo studente

V. La finestra si chiude, la porta si apre

VI. I cani di Don Gabriele

VII. Dove conducono le buone azioni

VIII. Il pentimento dell'ubbriacone

IX. Il noviziato

X. Dove si vede la coda del diavolo

XI. Tutto per il meglio

XII. Ciò che si cerca e ciò che non si cerca

XIII. L'uomo propone, la donna dispone

XIV. Le conseguenze di una prescrizione del dottor Tibia

PARTE SECONDA.

I. Il conte Ruitz de Llamanda

II. Il guappo

III. Il seguito del conte Ruitz de Llamanda

IV. Due fortune che ne fanno una sola

V. Finale inatteso di un'opera sconosciuta

VI. Il domani d'un debutto

VII. I progetti

VIII. Castellamare

IX. I piccoli incidenti

X. Un abate come un altro

XI. Il conte d'Altamura

XII. L'Eva del conte d'Altamura

XIII. Post nubila Phoebus

XIV. La regina si diverte

NOTE

(1) Nell'originale "otto". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(2) Nell'originale "riprese". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(3) Nell'originale "del". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(4) Nell'originale "però però". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(5) Nell'originale "parela". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(6) Nell'originale "Gaudosio". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(7) Nell'originale "diavelo". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(8) Nell'originale "Segui". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(9) Nell'originale "curiosià". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(10) Aria nazionale svizzera. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(11) Nell'originale "l'-examidonadora". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(12) Nell'originale "un un". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(13) Nell'originale "pssseggiando". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(14) Nell'originale "mi mi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(15) Nell'originale "conooscere". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(16) Nell'originale "viso". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(17) Nell'originale "caffe". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(18) Nell'originale "molte". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(19) Nell'originale "chè". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(20) Nell'originale "Ateila". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(21) Nell'originale "Sicila". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(22) Nell'originale "diciarazione". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(23) Nell'originale "illminare". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(24) Nell'originale "como". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(25) Nell'originale "aitro". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

(26) Nell'originale "si". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]