Il fuoco: edizion ELTeC D'Annunzio, Gabriele (1863-1938) Editor Ciotti, Fabio 97471 COST Action "Distant Reading for European Literary History" (CA16204) Zenodo.org D'Annunzio, Gabriele Il fuoco Introducition Gibellini, Pietro Notes Caburlotto, Filippo Editore Rizzoli, Angelo Milano Rizzoli libri 2009 1900

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I. L'EPIFANIA DEL FUOCO.

— Stelio, non vi trema il cuore, per la prima volta? — chiese la Foscarina con un sorriso tenue, toccando la mano dell'amico taciturno che le sedeva al fianco. — Vi veggo un poco pallido e pensieroso. Ecco una bella sera di trionfo per un grande poeta!

Uno sguardo le adunò negli occhi esperti tutta la bellezza diffusa per l'ultimo crepuscolo di settembre divinamente, così che in quell'animato cielo bruno le ghirlande di luce che creava il remo nell'acqua da presso cinsero gli angeli ardui che splendevano da lungi su i campanili di San Marco e di San Giorgio Maggiore.

— Come sempre — ella soggiunse con la sua voce più dolce — come sempre ogni cosa è favorevole a voi. In una sera come questa, quale anima potrebbe restar chiusa ai sogni che vi piacerà di suscitare con le parole? Non sentite già che la folla è disposta a ricevere la vostra rivelazione?

Ella così blandiva l'amico delicatamente, lo avvolgeva in una continua lusinga, lo esaltava in una continua lode.

— Non era possibile imaginare una festa più magnifica e più insolita per trarre fuori della torre d'avorio un poeta disdegnoso quale voi siete. A voi solo era riserbata questa gioia: di poter comunicare per la prima volta con la moltitudine in un luogo sovrano com'è la Sala del Maggior Consiglio, dal palco dove un tempo il Doge parlava all'adunanza dei patrizii, avendo per fondo il Paradiso del Tintoretto e sul capo la Gloria del Veronese.

Stelio Èffrena la guardò nelle pupille.

— Volete inebriarmi? — disse con una sùbita ilarità. — Questa è la tazza che si offre a chi va verso l'ultimo supplizio. Ebbene, sì, amica mia, vi confesso che mi trema un poco il cuore.

Lo strepito di un'acclamazione sorse dal traghetto di San Gregorio, echeggiò pel Canal Grande ripercotendosi nei dischi preziosi di porfido e di serpentino che ingemmano la casa dei Dario inclinata come una cortigiana decrepita sotto la pompa dei suoi monili.

Passava la bissona regale.

— Ecco quella, delle vostre ascoltatrici, che la Cerimonia vi comanda d'inghirlandare nell'esordio — disse la donna lusinghiera, alludendo alla Regina. — In uno de' vostri primi libri, mi sembra, voi confessate il vostro rispetto e il vostro gusto per i Cerimoniali. Una delle più straordinarie vostre imaginazioni è quella che ha per motivo una giornata di Carlo II di Spagna.

Come la bissona passava presso la gondola, i due fecero atto di salutare. Riconoscendo il poeta di Persephone e la grande attrice tragica, la Regina si volse per un atto spontaneo di curiosità: tutta bionda e rosea, frescamente illuminata da quel suo gran sorriso che pullulava inesauribile spandendosi nei pallidi meandri dei merletti buranesi. Era al suo fianco la patrona di Burano, Andriana Duodo, colei che nella piccola isola industre educava un giardino di refe ove si rinnovellavano stupendamente antichi fiori.

— Non vi sembra, Stelio, che i sorrisi delle due donne sieno gemelli? — disse la Foscarina guardando l'acqua fervere nel solco della poppa fuggente, ove pareva si prolungasse il riverbero del duplice chiarore.

— La contessa ha un'anima ingenua e magnifica, una delle rare anime veneziane che sien rimaste vivacemente colorate a imagine delle vecchie tele — disse con gratitudine Stelio. — Io ho una profonda devozione per le sue mani sensitive. Sono mani che tremano di piacere quando toccano un bel merletto o un bel velluto, e vi s'indugiano con una grazia che è quasi vergognosa d'esser troppo molle. Un giorno, mentre io l'accompagnavo per le sale dell'Academia, ella si fermò dinanzi alla Strage degli Innocenti del primo Bonifazio (voi ricordate certo il verde della donna abbattuta che il soldato di Erode sta per uccidere: è una nota indimenticabile!); si fermò a lungo, avendo diffusa per tutta la figura la gioia della sensazione piena e perfetta, poi mi disse: “Conducetemi via, Èffrena. Bisogna ch'io lasci gli occhi su quella veste, e non posso più veder altro.” Ah, cara amica, non sorridete! Ella era ingenua e sincera parlando così: ella aveva lasciato in realtà i suoi occhi su quel frammento di tela che l'Arte con un po' di colore ha fatto centro d'un mistero indefinitamente gaudioso. E in realtà io conducevo una cieca, tutto compreso di reverenza per quell'anima privilegiata in cui la virtù del colore aveva potuto produrre tale émpito da abolire per qualche tempo ogni vestigio della vita ordinaria e da impedire ogni altra comunicazione. Come chiamate voi questo? Riempiere il calice fino all'orlo, mi sembra. Ecco, per esempio, quel che io vorrei fare stasera se non fossi scoraggiato.

Un nuovo clamore, più forte e più lungo, si levò tra le due tutelari colonne di granito mentre la bissona approdava alla Piazzetta popolosa. La folla nera e densa nella pausa ondeggiando, i vani delle logge ducali si riempivano d'un confuso romorio simile al rombo illusorio che anima le volute delle conche marine. Poi, d'un tratto, risaliva nell'aria lucida il clamore, si frangeva su per la snella foresta marmorea, superava le fronti delle alte statue, attingeva i pinnacoli e le croci, si disperdeva nella lontananza crepuscolare. Imperturbata, su l'agitazione inferiore, nella nuova pausa, continuava l'armonia molteplice delle architetture sacre e profane su cui correvano come una melodia agile le modulazioni ioniche della Biblioteca, alzavasi come un grido mistico il vertice della torre nuda. E quella musica silenziosa delle linee immobili era così possente che creava il fantasma quasi visibile di una vita più bella e più ricca sovrapponendolo allo spettacolo della moltitudine inquieta. Sentiva essa la divinità dell'ora; e nel suo clamore verso quella forma novella di regalità approdante all'antica riva, verso quella bella regina bionda illuminata da un sorriso inestinguibile, esalava forse l'oscura aspirazione a trascendere l'angustia della vita volgare e a raccogliere i doni dall'eterna Poesia sparsi su le pietre e su le acque. L'anima cupida e forte dei padri acclamanti ai reduci trionfatori del Mare si risvegliava confusamente negli uomini oppressi dal tedio e dal travaglio dei lunghi giorni mediocri; e rimembrava l'aura mossa dai grandi vessilli di battaglia nel ripiegarsi come le ali della Vittoria dopo il volo o il loro garrito, già onta alle flotte fuggiasche, non placabile.

— Conoscete voi, Perdita, — domandò Stelio d'improvviso — conoscete voi qualche altro luogo del mondo che abbia, come Venezia, la virtù di stimolare la potenza della vita umana in certe ore eccitando tutti i desiderii sino alla febbre? Conoscete voi una tentatrice più tremenda?

La donna ch'egli chiamava Perdita, reclinata il volto come per raccogliersi, non rispose; ma sentì in tutti i suoi nervi correre quel fremito indefinibile che le suscitava la voce del giovine amico quando si faceva d'improvviso rivelatrice di un'anima appassionata e veemente verso di cui ella era attratta da un amore e da un terrore senza limiti.

— La pace! L'oblio! Ritrovate voi queste cose laggiù, in fondo al vostro canale deserto, quando tornate esausta e riarsa dall'aver respirato il soffio delle platee che un vostro gesto rende frenetiche? Io, per me, quando sono su quest'acqua morta, sento che la mia vita si moltiplica con una rapidità vertiginosa; e in certe ore mi sembra che i miei pensieri s'infiammino come per l'imminenza del delirio.

— La forza e la fiamma sono in voi, Stelio — disse la donna, quasi umilmente, senza sollevare gli occhi.

Egli tacque, intento, poichè nel suo spirito si generavano imagini e musiche impetuose come per virtù d'una fecondazione subitanea ed egli gioiva sotto il flutto inaspettato di quell'abondanza.

Ancor durava l'ora vesperale che in uno de' suoi libri egli aveva chiamata l'ora di Tiziano perchè tutte le cose parevano risplendere ultimamente di una lor propria luce ricca, come le nude creature di quell'artefice, e quasi illuminare il cielo anzi che riceverne lume. Emergeva su la sua propria ombra glauca il tempio ottagonato che Baldassare Longhena trasse dal Sogno di Polifilo, con la sua cupola, con le sue volute, con le sue statue, con le sue colonne, con i suoi balaustri, sontuoso e strano come un edificio nettunio construtto a similitudine delle tortili forme marine, biancheggiante in un color di madreperla su cui diffondendosi l'umida salsedine pareva creare nelle concavità della pietra qualche cosa di fresco, di argenteo e di gemmante onde suscitavan esse un'imagine vaga di schiuse valve perlifere su le acque natali.

— Perdita — disse il poeta, che sentiva correre per tutto il suo essere una specie di felicità intellettuale vedendo propagarsi dovunque le sue animazioni — non vi sembra che noi seguitiamo il corteo dell'Estate defunta? Ella giace nella barca funebre, vestita d'oro come una dogaressa, come una Loredana o una Morosina o una Soranza del secolo lucente; e il corteo la conduce verso l'isola di Murano dove un maestro del fuoco la chiuderà in un involucro di vetro opalino affinchè, sommersa nella laguna, ella possa almeno guardare a traverso le sue palpebre diafane i molli giochi delle alghe e illudersi di aver tuttavia intorno al corpo l'ondulazione continua della sua capellatura voluttuosa aspettando l'ora di risorgere.

Un sorriso spontaneo si versò pel volto della Foscarina, sgorgando dagli occhi che parevano aver veduto in verità la figura bella. Era infatti da quella improvvisa rappresentazione — per l'imagine e pel ritmo — espresso il sentimento vero diffuso in ogni apparenza d'intorno. Come il latte azzurrino dell'opale è pieno di fuochi nascosti, così l'acqua pallida eguale del gran bacino conteneva uno splendore dissimulato che rivelavano gli urti del remo. Di là dalla selva rigida dei vascelli fermi su l'àncore San Giorgio Maggiore appariva in forma d'una vasta galea rosea con la prora rivolta alla Fortuna che l'attraeva dall'alto della sua sfera d'oro. Aprivasi tra mezzo il canale della Giudecca come una placida foce dove i navigli carichi discesi per le vie dei fiumi parevano recare con i cumuli dei tronchi recisi e fenduti lo spirito dei boschi inclinati su le lontane acque correnti. E dal Molo, ove sul duplice prodigio dei portici aperti all'aura popolare sorgeva la bianca e rossa muraglia chiusa a stringere la somma delle volontà dominatrici, la Riva distendeva il suo dolce arco verso i Giardini ombrévoli, verso le Isole fertili, come per condurre al riposo delle forme naturali il pensiero incitato dagli ardui simboli dell'Arte. E, quasi a favorire l'evocazione dell'Autunno, passava una fila di barche ricolme di frutti simili a grandi canestri natanti, spandendo l'odore degli orti insulari su l'acque ove specchiavasi il fogliame perpetuo delle cuspidi e dei capitelli.

— Conoscete, Perdita, — riprese a dire Stelio guardando con un chiaro piacere i grappoli biondi e i fichi violetti accumulati da poppa a prua non senza armonia — conoscete una particolarità assai graziosa della cronaca dogale? La Dogaressa, per le spese dei suoi vestimenti solenni, godeva di alcuni privilegi sopra il dazio dei frutti. Non vi rallegra questa notizia, Perdita? I frutti delle isole la vestivano d'oro e la cingevano di perle. Pomona che dà la mercede ad Aracne: ecco un'allegoria che il Veronese poteva dipingere nella volta del Vestiario. Io gioisco quando mi raffiguro la signora eretta su gli altissimi zoccoli gemmati, se penso ch'ella porta qualche cosa di agreste e di fresco entro le pieghe del drappo grave: il benefizio dei frutti. Quali sapori acquista la sua opulenza! Ebbene, amica mia, imaginate che queste uve e questi fichi del nuovo Autunno rendano il prezzo della veste d'oro in cui è avvolta l'Estate morta.

— Che deliziose fantasie, Stelio! — disse la Foscarina ritrovando la sua giovinezza per sorridere attonita come una fanciulla a cui si mostri un libro figurato. — Chi fu che vi chiamò un giorno l'Imaginifico?

— Ah, le imagini! — esclamò il poeta, tutto invaso dal calore fecondo. — A Venezia, come non si può sentire se non per modi musicali così non si può pensare se non per imagini. Esse vengono a noi da ogni parte innumerevoli e diverse, più reali e più vive delle persone che ci urtano col gomito nella calle angusta. Noi possiamo chinarci a scrutare la profondità delle loro pupille seguaci e indovinar le parole ch'esse ci diranno, dalla sinuosità delle loro labbra eloquenti. Talune sono tiranniche, come amanti imperiose, e ci tengono lungamente sotto il giogo del loro potere. Altre si presentano tutte chiuse in un velo come le vergini o strettamente fasciate come i pargoli, e soltanto colui che sa lacerare quegli involucri può elevarle alla vita perfetta. Stamani, al risveglio, la mia anima ne era già tutta ingombra; e somigliava a un bell'albero carico di crisalidi.

Egli s'arrestò e rise.

— Se stasera si aprono tutte, — soggiunse — io sono salvo. Se restano chiuse, io sono perduto.

— Perduto? — disse la Foscarina guardandolo in volto con occhi così pieni di confidenza ch'egli le ne fu immensamente grato. — Voi non potete perdervi, Stelio. Voi siete sicuro sempre: portate le vostre sorti nelle vostre mani. Penso che vostra madre non debba mai aver temuto per voi, pur nei peggiori passi. È vero? Soltanto l'orgoglio vi fa tremare il cuore...

— Ah, cara amica, quanto vi amo e quanto vi sono grato per questo! — confessò Stelio, candidamente, prendendole la mano. — Voi non fate se non alimentare il mio orgoglio e darmi l'illusione d'aver già conseguito quelle virtù a cui di continuo aspiro. Mi sembra talvolta che voi abbiate il potere di conferire non so che qualità divina alle cose che nascono dalla mia anima e di farle apparir lontane e adorabili ai miei occhi medesimi. Voi riproducete talvolta in me lo stupor religioso di quello statuario che, avendo trasportato la sera nel tempio i simulacri dei numi ancor caldi del suo lavoro e quasi direi attenenti ancora al suo pollice plastico, la mattina dopo li vide esaltati su i piedistalli e avvolti in una nube d'aromati e spiranti divinità da tutti i pori della materia sorda in cui egli li aveva foggiati con le sue mani periture. Voi, cara amica, non entrate nella mia anima se non a compiere simili esaltazioni. Per ciò, ogni volta che la buona sorte mi concede di stare vicino a voi, mi sembrate necessaria alla mia vita; e nondimeno, nelle troppo lunghe separazioni, io posso vivere e voi potete vivere, ambedue sapendo quali splendori potrebbero nascere dalla congiunzione perfetta delle nostre due vite. Cosicché, mentre so quel che voi mi date e più quel che potreste darmi, io vi considero come perduta per me, e nel nome con cui mi piace di chiamarvi io voglio esprimere questa mia consapevolezza e questo mio rammarico infiniti...

S'interruppe, sentendo vibrare la mano che egli ancora teneva nella sua.

— Quando io vi chiamo Perdita — soggiunse, a voce più bassa, dopo la pausa — mi sembra che voi dobbiate vedere avanzarsi il mio desiderio con un ferro mortale confitto nel fianco ansante. Se pure esso giunga a toccarvi, il gelo tiene già l'estremità delle sue dita predaci.

Ella soffriva una pena ben nota, ascoltando quelle belle e perfette parole fluenti dalle labbra dell'amico con una spontaneità che pur le dimostrava sincere. Ella provava, anche una volta, un'inquietudine e un timore ch'ella medesima non sapeva definire. Le pareva di smarrire il senso della sua vita propria e d'esser sollevata in una specie di vita fittiva, intensa e allucinante, dove il suo respiro diveniva difficile. Attratta in quell'atmosfera ardente come il campo d'una fucina, ella si sentiva passibile di tutte le trasfigurazioni che l'animatore volesse operare su lei per appagare il suo continuo bisogno di bellezza e di poesia. Ella sentiva che l'imagine sua propria nel poetico spirito non era di natura diversa da quella della defunta Estate chiusa nell'involucro opalino, pur così evidente da parer tangibile. E l'assaliva quasi una smania puerile di riguardarsi negli occhi di lui, come in uno specchio, per vedervi riflessa la sua sembianza reale.

Ciò che più faceva grave la sua pena era il riconoscere una vaga analogia tra quel sentimento agitato e l'ansietà che s'impadroniva di lei nell'atto d'introdursi nella finzione scenica per incarnare una sublime creatura dell'Arte. — Non l'attraeva egli forse a vivere in quella stessa zona di vita superiore e, perchè ella vi potesse figurare immemore della sua persona cotidiana, non la copriva egli di splendide larve? — Ma, mentre a lei non era dato persistere in un tal grado d'intensità se non per uno sforzo supremo, ella vedeva l'altro mantenervisi facilmente come nella sua naturale maniera di essere e senza fine gioire d'un mondo portentoso ch'egli rinnovava con un atto di continua creazione.

Egli era giunto a compiere in sé stesso l'intimo connubio dell'arte con la vita e a ritrovare così nel fondo della sua sostanza una sorgente perenne di armonie. Egli era giunto a perpetuare nel suo spirito, senza intervalli, la condizione misteriosa da cui nasce l'opera di bellezza e a trasformare così d'un tratto in specie ideali tutte le figure passeggiere della sua esistenza volubile. Egli aveva indicato appunto questa sua conquista quando aveva messo in bocca ad una delle sue persone le parole: “Io assisteva in me medesimo alla continua genesi d'una vita superiore in cui tutte le apparenze si trasfiguravano come nella virtù di un magico specchio”. Dotato d'una straordinaria facoltà verbale, egli riusciva a tradurre istantaneamente nel suo linguaggio pur le più complicate maniere della sua sensibilità con una esattezza e con un rilievo così vividi che esse talvolta parevano non più appartenergli, appena espresse, rese oggettive dalla potenza isolatrice dello stile. La sua voce limpida e penetrante, che pareva disegnare con un contorno netto la figura musicale di ciascuna parola, dava maggior risalto a questa singolar qualità del suo dire. Talché in quanti l'udivano per la prima volta si generava un sentimento ambiguo, misto di ammirazione e di avversione, manifestando egli sé medesimo in forme così fortemente definite che sembravano risultare da una volontà costante di stabilire tra sé e gli estranei una differenza profonda e insormontabile. Ma, poichè la sua sensibilità eguagliava il suo intelletto, a quanti gli stavano da presso e lo amavano era facile ricevere a traverso il cristallo della sua parola il calore della sua anima appassionata e veemente. Sapevano costoro come fossero infinite le sue potenze di sentire e di sognare, e da qual combustione sorgessero le imagini belle in cui egli soleva convertire la sostanza della sua vita interiore.

Ben lo sapeva colei ch'egli chiamava Perdita; e, come la creatura pia attende dal Signore l'aiuto soprannaturale per operare la sua salvazione, ella pareva attendere ch'egli la ponesse alfine nello stato di grazia necessario per elevarsi e per rimanere in tal fuoco, verso di cui ella era spinta da un folle desiderio di ardere e di struggersi, disperata d'aver perduto fin l'ultimo vestigio della sua giovinezza e paurosa di ritrovarsi sola in un deserto cinereo.

— Siete voi ora, Stelio, — disse ella col suo tenue sorriso asconditore, liberando pianamente la sua mano da quella dell'amico — siete voi che volete inebriarmi.

— Guardate — esclamò, per rompere il fascino, additando una lenta barca onusta che veniva incontro — guardate le vostre melagrane.

Ma la sua voce era turbata.

Guardarono allora passare nel sogno vespertino, su l'acqua delicatamente verde e argentea come le foglie novelle del salice fluviale, la barca ricolma dei frutti emblematici che davano imagine di cose ricche e riposte, quasi scrigni di cuoio vermiglio recanti in sommo la corona d'un re donatore, chiusi taluni e altri semiaperti su le interne gemme agglomerate.

La donna ricordò con voce sommessa le parole che Ade rivolge a Persefone nel drama sacro, mentre la figlia di Demeter gusta la melagrana fatale:

“Quando tu coglierai il colchico in fiore sul molle

prato terrestre, presso la madre dal cerulo peplo,

— e come un dì saranno con te le Oceanidi belle,

teco sul molle prato — verrà ne ' tuoi occhi immortali

un improvviso tedio, il tedio verrà della luce:

ti tremerà nel cuore, Persefone, l'anima grande,

memore del suo sogno profondo, o Persefone, priva

del suo profondo regno. Allora la madre dal peplo

cerulo lacrimare vedrai taciturna in disparte.

E le dirai: — O madre, mi chiama nel regno profondo

Ade; mi chiama lungi dal giorno a regnare su l'Ombre

Ade; mi chiama sola al suo insaziabile amore

Ade...”

— Ah, Perdita, come sapete diffondere l'ombra su la vostra voce! — interruppe il poeta, sentendo una notte armoniosa ottenebrare le sillabe dei suoi versi. — Come sapete diventare notturna, innanzi sera! Vi ricordate voi della scena in cui Persefone è sul punto di sprofondarsi nell'Erebo, mentre il coro delle Oceanidi geme? Il suo volto somiglia al vostro quando s'oscura. Rigida nel suo peplo tinto di croco ella abbandona indietro il capo coronato, e sembra che la notte fluisca nella sua carne divenuta esangue e s'addensi sotto il mento, nel cavo degli occhi, intorno alle nari, trasfigurandola in una cupa maschera tragica. È la vostra maschera, Perdita. Il ricordo di voi mi aiutò ad evocare la persona divina, mentre componevo il mio Mistero. Quel piccolo nastro di velluto croceo che voi portate quasi sempre intorno al collo m'indicò il colore conveniente al peplo di Persefone. E una sera, nella vostra casa, congedandomi dalla soglia d'una stanza dove non erano ancora accese le lampade (una sera agitata dello scorso autunno, se vi sovviene), riusciste col vostro solo gesto a portare in luce nella mia anima la creatura che vi giaceva ancora inviluppata; e poi, inconsapevole di aver promossa quella subitanea natività, scompariste nell'intimo buio del vostro Erebo. Ah, io era certo di udire i vostri singhiozzi, e pure correva in me un torrente infrenabile di gioia. Non vi ho mai raccontato questo; è vero? Avrei dovuto consacrare la mia opera a voi, come a una Lucina ideale.

Ella soffriva, sotto lo sguardo dell'animatore; ella soffriva di quella maschera ch'egli le ammirava sul volto e di quella gioia ch'ella sentiva in fondo a lui ripullulare di continuo come una scaturigine perenne. Ella soffriva di tutta sé stessa: della mutabilità che avevano i suoi propri lineamenti; della strana virtù mimetica che possedevano i muscoli della sua faccia; e di quell'arte involontaria che regolava la significazione dei suoi gesti; e di quell'ombra espressiva che tante volte su la scena in un minuto di silenzio ansioso ella aveva saputo mettere su la sua faccia come uno stupendo velo di dolore; e di quell'ombra che ora riempiva i solchi incavati dal tempo nella sua carne non più giovine. Crudelmente soffriva per quella mano ch'ella adorava: per quella mano così delicata e così nobile, che pur con un dono o con una carezza poteva farle tanto male.

— Non credete voi, Perdita, — disse dopo una pausa Stelio, abbandonandosi al corso lucido e tortuoso del suo pensiero che, come i meandri del fiume formano circomprendono e nutrono le isole nella valle, lasciava nel suo spirito oscuri spazii isolati dove egli sapeva bene che nell'ora opportuna avrebbe trovato qualche nuova ricchezza — non credete voi al beneficio occulto dei segni? Non parlo di scienza astrale né di segni oroscopanti. Intendo che a simiglianza di coloro i quali credono di patire le virtù di una stella, noi possiamo creare una rispondenza ideale tra la nostra anima e una qualche cosa terrena, per modo che a poco a poco questa impregnandosi della nostra essenza e magnificandosi nella nostra illusione ci appaia quasi rappresentativa di nostre ignote fatalità e assuma quasi una figura di mistero apparendo in certe congiunture di nostra vita. Ecco, Perdita, il segreto per rendere una parte della freschezza primordiale alla nostra anima un po' arida. So per prova quale effetto benefico venga a noi dal comunicare intensamente con una cosa terrena. Bisogna che la nostra anima divenga, a quando a quando, simile all'amadriade per sentir circolare in sé la fresca energia dell'albero convivente. Voi avete già compreso che, così parlando, io alludo alle parole da voi proferite sul passaggio di quella barca. Voi avete espresso con oscura brevità questi pensieri quando avete detto: “Guardate le vostre melagrane!”. Per voi, e per quelli che mi amano, esse non potranno mai essere se non mie. Per voi, e per loro, l'idea della mia persona è legata indissolubilmente al frutto che io ho eletto per emblema e che ho sovraccaricato di significazioni ideali più numerose de' suoi granelli. Se io fossi vissuto al tempo in cui gli uomini disseppellendo i marmi greci ritrovavano nella terra le ancor umide radici delle antiche favole, nessun pittore avrebbe potuto rappresentarmi su la tela senza mettere nella mia mano il pomo punico. Disgiungere da quel simbolo la mia persona sarebbe parso all'artefice ingenuo recidere una parte viva di me, poichè nella sua imaginazione paganeggiante il frutto sarebbe parso legato al braccio umano come al suo ramo naturale; ed egli insomma non avrebbe avuto del mio essere una idea diversa da quella ch'egli doveva avere di Giacinto o di Narcisso o di Ciparisso, i quali appunto dovevano apparirgli a volta a volta in figura di piante e in sembianza giovenile. Ma v'è anche in questo tempo qualche spirito agile e colorito che comprende tutto il senso e gusta tutto il sapore di questa mia invenzione. Voi medesima, Perdita, non vi compiacete di educare nel vostro giardino un bel melagrano per vedermi fiorire e fruttificare in ogni estate? Una vostra lettera, veramente alata come una messaggera divina, mi descriveva la cerimonia graziosa con che adontaste di monili l'arbusto “effrenico” nel giorno stesso in cui vi giunse il primo esemplare di Persephone. Ecco, dunque, che per voi e per quelli che mi amano io ho veramente rinnovellato un antico mito trasfondendomi, con una maniera ideale e significatrice, in una forma della Natura eterna; cosicché quando sarò morto (e la Natura mi conceda di manifestarmi intero nell'opera mia, innanzi ch'io muoia!) i miei discepoli mi onoreranno sotto la specie del melagrano, e nell'acutezza della foglia e nel colore flammeo del balausto e nella gemmosa polpa del frutto coronato vorranno riconoscere qualche qualità della mia arte; e i loro intelletti da quella foglia da quel fiore e da quel frutto, come da ammonimenti postumi del maestro, saranno condotti nelle opere a quella acutezza, a quella fiamma e a quell'opulenza inchiusa. Voi discoprite ora, Perdita, quale sia il beneficio vero. Io medesimo, per affinità, sono condotto a svilupparmi secondo il genio magnifico della pianta in cui mi piacque di significare le mie aspirazioni verso una vita ricca e ardente. Mi sembra che questa effigie vegetale di me valga ad assicurarmi che le mie forze si svolgono sempre secondo la natura per conseguire naturalmente l'effetto a cui son destinate. “Natura così mi dispone” fu l'epigrafe leonardesca ch'io posi sul frontespizio del mio primo libro. Ebbene, il melagrano fiorendo e fruttificando mi ripete di continuo quella semplice parola. E noi non obbediamo se non alle leggi inscritte nella nostra sostanza; e per ciò rimaniamo integri, fra tante dissoluzioni, in una unità e in una pienezza che sono la nostra gioia. Non v'è discordo tra la mia arte e la mia vita.

Egli parlava con abbandono, fluidamente, quasi che vedesse lo spirito della donna attenta farsi concavo come un calice per ricevere quell'onda e volesse riempierlo fino all'orlo. Una felicità intellettuale sempre più chiara diffondevasi in lui, insieme con una vaga consapevolezza dell'azione misteriosa per cui la sua mente si preparava al prossimo sforzo. A tratti, come in un balenìo, mentre s'inclinava verso l'amica sola e udiva il remo misurare il silenzio saliente dall'immenso estuario, egli travedeva l'imagine della folla dai volti innumerevoli addensata nell'aula profonda; e un tremito rapido gli scoteva il cuore.

— È ben singolare, Perdita, — riprese a dire guardando le lontane acque pallide ove per la bassa marea cominciavano a negreggiare le velme — come facilmente il caso aiuti la nostra fantasia nell'apporre un carattere di mistero al concorso di certe apparenze rispetto a un fine da noi imaginato. Io non comprendo perchè oggi i poeti si sdegnino contro la volgarità dell'epoca presente e si rammarichino d'esser nati troppo tardi o troppo presto. Io penso che ogni uomo d'intelletto possa, oggi come sempre, nella vita creare la propria favola bella. Bisogna guardare nel turbinio confuso della vita con quello stesso spirito fantastico con cui i discepoli del Vinci erano dal maestro consigliati di guardare nelle macchie dei muri, nella cenere del fuoco, nei nuvoli, nei fanghi e in altri simili luoghi per trovarvi “invenzioni mirabilissime” e “infinite cose”. Allo stesso modo, aggiungeva Leonardo, troverete nel suono delle campane ogni nome e vocabolo che vi piacerà d'imaginare. Quel maestro sapeva bene che il caso — come già dimostrò la spugna d'Apelle — è sempre amico dell'artefice ingegnoso. Per me, ad esempio, sono costanti cagioni di meraviglia la facilità e la grazia con cui il caso asseconda lo svolgersi armonico della mia invenzione. Non credete voi che il nero Ade abbia fatto mangiare alla sposa i sette granelli per fornirmi l'argomento di un capolavoro?

L’interruppe uno scoppio di quel suo riso giovenile che rivelava con tanta chiarezza la gioia nativa persistente in fondo a lui.

— Guardate, Perdita, — soggiunse ridendo — guardate se dico il vero. In uno dei primi giorni di ottobre, l'anno scorso, io fui invitato da Donna Andriana Duodo a Burano. Passammo la mattina nel giardino di refe; nel pomeriggio andammo a visitare Torcello. Come in quei giorni io avevo già incominciato a vivere nel mito di Persefone e l'opera andavasi formando in me segretamente, mi sembrava di navigare su le acque stigie, di trapassare nel paese di là. Non avevo mai avuto un più puro e più dolce sentimento della morte; e quel sentimento mi rendeva così leggero che avrei potuto camminare senza lasciare orma su la prateria d'asfodelo. L'aria era umida cinerina e molle; i canali serpeggiavano per mezzo ai banchi coperti di erbe trascolorite. (Voi conoscete Torcello, forse, col sole.) Ma qualcuno intanto parlava, disputava, declamava, nella barca di Caronte! Il suono della lode mi risvegliò. Alludendo a me, Francesco de Lizo si rammaricava che un artista principe così magnificamente sensuale — erano queste le sue parole — fosse costretto a vivere in disparte, lontano dalla folla ottusa e ostile, e a celebrare le feste “dei suoni dei colori e delle forme” nel palagio del suo sogno solitario. Egli si abbandonava a un moto lirico ricordando le vite splendide e festose degli artisti veneti, il consentimento popolare che li sollevava come un turbine alle cime della gloria, la bellezza la forza e la gioia ch'essi moltiplicavano intorno a loro rispecchiandole in imagini innumerevoli per le volte concave e su l'alte pareti. Allora Donna Andriana disse: “Ebbene, io prometto solennemente che Stelio Èffrena avrà a Venezia la sua festa trionfale”. Aveva parlato la Dogaressa. In quel momento io vidi su la riva bassa e verdastra un melagrano carico di frutti rompere, come un'apparizione allucinante, l'infinito squallore. Donna Orsetta Contarini, che mi sedeva accanto, gittò un grido di giubilo e tese ambe le mani impazienti come la sua gola. Non v'è nulla che mi piaccia quanto l'espressione schietta e forte del desiderio. “Io adoro le melagrane!” ella esclamò mostrando di aver già nella lingua il sapore acidetto e grazioso. Ed era così infantile, come il suo nome arcaico! Io mi commossi; ma Andrea Contarini pareva disapprovare gravemente la vivacità della moglie. Egli è un Ade che non ha fede, sembra, nella virtù mnemonica dei sette granelli applicata al coniugio legittimo. S'eran commossi però anche i barcaiuoli e approdavano; cosicchè io potei saltare su l'erba pel primo, e mi diedi a spogliare l'albero consanguineo. Era proprio il caso di ripetere con bocca pagana le parole dell'Ultima Cena: “Prendete e mangiate: questo è il mio corpo che per voi è dato: fate questo in commemorazione di me”. Che ve ne sembra, Perdita? Non crediate che io inventi. Sono veridico.

Ella si lasciava sedurre da quel gioco libero ed elegantissimo in cui egli sembrava esperimentare l'agilità del suo spirito e la facilità della sua facondia. Eravi in lui qualche cosa di ondeggiante, di volubile e di possente, che le suscitava l'imagine duplice e diversa della fiamma e dell'acqua.

— Ora — continuò egli — Donna Andriana ha mantenuto la sua promessa. Guidata da quel gusto della magnificenza antica, che si conserva in lei così largo, ha preparato una festa veramente dogale nel palazzo dei Dogi, a imitazione di quelle che si celebravano sul finire del Cinquecento. Ella ha pensato a risollevar dall'oblio l'Arianna di Benedetto Marcello e a farla sospirare nel luogo medesimo ove il Tintoretto ha dipinto la Minoide in atto di ricevere da Afrodite la corona di stelle. Non riconoscete nella bellezza di questo pensiero la donna che lasciò i suoi cari occhi su l'ineffabile veste verde? Aggiungete che questa rappresentazione musicale nella Sala del Gran Consiglio ha un riscontro antico. Nella stessa Sala, l'anno 1573, fu recitato un componimento mitologico di Cornelio Frangipani con musiche di Claudio Merulo, in onore del cristianissimo Enrico III. Confessate, Perdita, che la mia erudizione vi sbalordisce. Ah, se sapeste quanta ne ho accumulata sul soggetto! Vi leggerò il mio discorso il giorno in cui meriterete un qualche grave castigo.

— Ma non lo pronunzierete stasera, nella festa? — domandò la Foscarina, sorpresa ed inquieta, temendo ch'egli avesse risoluto di deludere la publica aspettazione con quella sua incuranza ben nota dell'obbligo.

Comprese egli l'inquietudine dell'amica e volle secondarla.

— Stasera — rispose con tranquilla certezza — io verrò a prendere il sorbetto nel vostro giardino e a compiacermi nella vista del melagrano ingioiellato, luccicante sotto il firmamento.

— Oh, Stelio! Che fate mai? — esclamò ella, sollevandosi.

Era nella parola e nell'atto un così vivo rincrescimento e, nel tempo medesimo, una così strana evocazione della folla aspettante, ch'egli ne fu turbato; poichè l'imagine del mostro formidabile dagli innumerevoli volti umani gli riapparve tra l'oro e la porpora cupa dell'aula immensa, ed egli ne presentì su la sua persona lo sguardo fisso e l'alito estuoso, e misurò d'un tratto il pericolo ch'egli era deliberato d'affrontare affidandosi alla sola ispirazione momentanea, e provò l'orrore dell'improvvisa oscurità mentale, della repentina vertigine.

— Rassicuratevi — disse. — Ho voluto scherzare. Andrò ad bestias; e andrò inerme. Non avete voi veduto dianzi riapparire il segno? Credete che sia riapparso invano, dopo il miracolo di Torcello? Anche una volta esso è venuto ad ammonirmi che io non debbo assumere se non quelle attitudini a cui Natura mi dispone. Ora voi sapete bene, amica mia, che io non so parlare se non di me. Bisogna dunque che dal trono dei Dogi io non parli all'uditorio se non della mia cara anima, sotto il velame di qualche allegoria seducente e con l'incanto di qualche bella cadenza musicale. Questo io farò, ex tempore, se lo spirito infiammato del Tintoretto mi comunicherà dal suo Paradiso la furia e l'ardire. Il rischio mi tenta. Ma in che singolare inganno io era caduto, Perdita! Quando la Dogaressa mi annunzio la festa e mi invitò a farle onore, io mi misi a comporre un discorso di pompa, una vera prosa di cerimonia, ampia e solenne come un robone paonazzo chiuso in una vetrina del Museo Correr; non senza una profonda genuflessione alla Regina nell'esordio, non senza una frondosa ghirlanda pel capo della serenissima Andriana Duodo. E per alcuni giorni mi compiacqui curiosamente nel convivere con lo spirito d'un patrizio Veneto del secolo XVI, ornato di tutte lettere come il cardinal Bembo, academico degli Uranici o degli Adorni, frequentatore assiduo degli orti muranesi e dei colli asolani. Certo, io sentivo qualche rispondenza fra il giro dei miei periodi e le massicce cornici d'oro che circondano le pitture nel soffitto dell'aula consiliare. Ma, ahimè, come ieri mattina giunsi a Venezia, e passando pel Canal Grande bagnai la mia stanchezza nell'ombra umida e trasparente ove il marmo esalava ancora la sua spiritualità notturna, sentii che le mie carte valevano assai meno delle alghe morte portate dal flusso e mi parvero estranee alla mia persona non meno dei Trionfi di Celio Magno e delle Favole marittime di Anton Maria Consalvi ivi citati e comentati. Che fare, allora?

Egli esplorò intorno con lo sguardo il cielo e l'acqua come per discoprirvi una presenza invisibile, per riconoscervi un qualche fantasma sopravvenuto. Un bagliore gialligno diffondevasi verso i lidi solitarii che vi si disegnavano in sottilissimi lineamenti come le venature opache nelle agate; indietro, verso la Salute, il cielo era sparso di leggeri vapori rosei e violetti somigliando a un mare glauco popolato di meduse. Dai Giardini prossimi scendevano gli effluvii della fronda sazia di luce e di calore, così gravi che sembravano quasi natanti come olii aromatici su l'acqua bronzina.

— Sentite l'autunno, Perdita? — chiese egli all'amica assorta, con una voce risvegliatrice.

Ella riebbe la visione dell'Estate defunta, chiusa nell'involucro di vetro opalino e sommersa in fondo alla laguna algosa.

— Mi sta sopra — rispose ella con un sorriso di malinconia.

— Non lo vedeste ieri quando discese su la città? Dov'eravate ieri, verso il tramonto?

— In un orto della Giudecca.

— Io qui, su la Riva. Non vi sembra che, quando gli occhi umani hanno ricevuto un simile spettacolo di bellezza e di gioia, le palpebre si dovrebbero abbassare per sempre e restar suggellate? Vorrei parlare stasera di queste intime cose, Perdita. Vorrei celebrare in me le nozze di Venezia e dell'Autunno, con una intonazione non diversa da quella che tenne il Tintoretto nel dipingere le nozze di Arianna e di Bacco per la sala dell'Anticollegio: — azzurro, porpora e oro. D'improvviso, ieri mi si aprì nell'anima un antico germe di poesia. Mi tornò nella memoria il frammento d'un poema obliato che incominciai a comporre in nona rima qui a Venezia, quando venni la prima volta navigando, alcuni anni fa, in un settembre della prima giovinezza. Era intitolato appunto L'Allegoria dell'Autunno e vi si rappresentava il dio — non più inghirlandato di pampini ma coronato di gemme come un principe del Veronese e infiammato di passione le vene voluttuose — nell'atto di migrare verso la Città anadiomene dalle braccia di marmo e dalle mille cinture verdi. Allora l'idea non era giunta a quel grado d'intensità che è necessario per entrare nella vita dell'arte; e io rinunziai istintivamente allo sforzo di manifestarla intera. Ma, poichè nello spirito attivo come nel terreno fertile non si perde alcun seme, essa ora mi risorge nel momento opportuno a chiedere con una specie d'urgenza la sua espressione. Quali fati misteriosi e giusti governano il mondo mentale! Era necessario che io rispettassi quel primo germe per sentirlo oggi espandere in me la sua virtù moltiplicata. Quel Vinci, che ha fitto il suo sguardo in ogni cosa profonda, ha voluto certo significare tal verità con quella sua favola del grano di miglio che dice alla formica: “Se mi fai tanto piacere di lasciarmi fruire il mio desiderio del nascere, io ti renderò cento me medesimi”. Ammirate qual tócco di grazia in quelle dita che spezzavano il ferro! Ah, egli è pur sempre il maestro incomparabile. Come farò io a dimenticarlo per abbandonarmi ai Veneziani?

Si spense d'un tratto l'ironia ilare ch'egli rivolgeva a sé stesso nelle ultime parole; ed egli parve ripiegarsi tutto sul suo pensiero. Col capo chino, provando per tutto il corpo una specie di contrattura convulsiva che rispondeva alla tensione estrema del suo spirito, egli ora cercava di scoprire qualcuna delle segrete analogie che dovevano collegare le imagini molteplici e diverse apparenti come ne' rapidi intervalli di un balenìo; egli ora cercava di determinare qualcuna delle linee massime entro le quali doveva svolgersi la nova figurazione. Tanto era il suo orgasmo che gli si vedevano tremolare sotto la pelle i muscoli del viso; e la donna, guardandolo, provava una pena riflessa non dissimile a quella che avrebbe provato se dinanzi a lei egli avesse voluto tendere con uno sforzo spasimoso il nervo d'un arco smisurato. Ed ella lo sapeva lontanissimo, estraneo, indifferente ad ogni altra cosa che non fosse il suo pensiero.

— È già tardi, s'avvicina l'ora; bisogna tornare indietro — disse egli scotendosi con un sussulto repentino, come incalzato dall'ansia, poichè aveva veduto riapparire il mostro formidabile dagli innumerevoli volti umani occupante la vastità dell'aula sonora. — Bisogna ch'io rientri in tempo all'albergo per vestirmi.

E, rifiorendo la sua vanità giovenile, egli pensò agli occhi delle donne sconosciute che dovevano vederlo per la prima volta in quella sera.

— All'albergo Danieli — ordinò la Foscarina al rematore. Ed ella e Stelio, mentre il ferro dentato della prua girava su l'acqua con una oscillazione lenta che aveva la parvenza d'un moto animale, provarono entrambi una diversa ma acuta angoscia nel punto di lasciar dietro di loro l'infinito silenzio dell'estuario, già in signoria dell'ombra e della morte, per rivolgersi alla città magnifica e tentatrice ne' cui canali, come nelle vene di una donna voluttuosa, incominciava ad accendersi la febbre notturna.

Tacquero, per un tratto, assorti nel turbine interiore che li travagliava profondandosi fino alle radici del loro essere e forzandole come per isvellerle. Dai Giardini scendevano gli effluvii e nuotavano come olii su l'acqua, intorno, che recava qua e là nelle sue pieghe il luccicore del bronzo consunto. Sparso era nell'aria quasi un fantasma di antichi fasti, che gli occhi sentivano in quella guisa che contemplando i palazzi offuscati dai secoli avean sentito nell'armonia dei marmi durevoli la nota estinta dell'oro. Pareva che nella sera magica si rinnovellassero il fiato e il riflesso del remoto Oriente, quali nelle vele concave e su i fianchi ricurvi portava un tempo la galea carica di belle prede. E tutte le cose intorno esaltavano la potenza della vita in colui che voleva attrarre a sé l'universo per non più morire, in colei che voleva gittare al rogo la sua anima ingombra per morir pura. Ed entrambi palpitavano tenuti da un'ansietà crescente, ascoltando la fuga del tempo, come se l'acqua su cui navigavano scorresse in una clessidra spaventosa.

Entrambi sussultarono, allo scoppio improvviso della salva che salutava la bandiera calante su la poppa d'una nave da guerra ancorata dinanzi ai Giardini. Videro in cima alla mole nera il drappo tricolore discendere lungo l'asta e ripiegarsi, come un sogno eroico che si dilegui. Il silenzio per qualche attimo parve più profondo, mentre la gondola scivolava nell'ombra più cupa rasentando il fianco del colosso armato.

— Conoscete voi, Perdita, — chiese inaspettatamente Stelio Èffrena — quella Donatella Arvale che canterà nell'Arianna!

La sua voce ebbe una sonorità singolare ripercotendosi contro la corazza, nell'ombra più cupa.

— È la figlia del grande scultore: di Lorenzo Arvale — rispose la Foscarina, dopo un istante d'indugio. — È una delle mie più care amiche, ed è anche mia ospite. La incontrerete dunque nella mia casa, dopo la festa.

— Mi parlò di lei iersera Donna Andriana, con molto calore, come d'un prodigio. Mi disse che l'idea di disseppellire l’Arianna le venne appunto nel sentire cantare da Donatella Arvale divinamente l'aria “Come mai puoi — Vedermi piangere...” Avremo dunque una musica divina nella vostra casa, Perdita. Ah, che sete io ne ho! Laggiù, nella mia solitudine, per lunghi mesi non ascolto altra musica che quella del mare, troppo terribile, e la mia, troppo torbida ancora.

Le campane di San Marco diedero il segno della Salutazione angelica; e il rombo possente si dilatò in lunghe onde su lo specchio del bacino, vibrò nelle antenne dei navigli, si propagò lontano verso la laguna infinita. Da San Giorgio Maggiore, da San Giorgio dei Greci, da San Giorgio degli Schiavoni, da San Giovanni in Bragora, da San Moisé, dalla Salute, dal Redentore e via via, per tutto il dominio dell'Evangelista, dalle estreme torri della Madonna dell'Orto, di San Giobbe, di Sant'Andrea le voci di bronzo risposero, si confusero in un solo massimo coro, distesero sul muto adunamento delle pietre e delle acque una sola massima cupola d'invisibile metallo che parve comunicare nelle sue vibrazioni con lo scintillio delle prime stelle. Una smisurata grandezza ideale davano le sacre voci alla Città del Silenzio, nella purità della sera. Partendo dai fastigi dei templi, dalle ardue celle aperte ai venti marini, esse dicevano agli uomini ansiosi la parola della moltitudine immortale che occultavano ormai le tenebre delle navate profonde o agitavano misteriosamente i chiarori delle lampade votive; esse recavano agli spiriti affaticati dal giorno il messaggio delle creature sovrumane che annunciavano un prodigio o promettevano un mondo effigiate su le pareti delle cappelle recondite, nelle ancone degli interni altari. E tutte le apparizioni della Bellezza consolatrice invocate dalla Preghiera unanime si levavano su quell'immenso turbine di suono, favellavano in quel coro aereo, irradiavano la faccia della notte meravigliosa.

— Potete ancora pregare? — domandò Stelio sommessamente, guardando le palpebre della donna abbassate e immote, le mani su i ginocchi congiunte, tutta la persona raccolta in un atto interiore.

Ella non rispose; chè anzi le sue labbra si serrarono più forte. Ed entrambi rimasero in ascolto, sentendo sopraggiungere ancora l'ansia e la piena come il fiume che non più interrotto dalla cateratta riprende il suo corso veloce. Entrambi avevano una conscienza confusa, e pur quasi grave, dello strano intervallo in cui era sorta inaspettatamente tra loro una nuova imagine ed era stato proferito un nome nuovo. Il fantasma della sensazione subitanea ch'essi avevano ricevuta entrando nell'ombra prodotta dal fianco della nave munita pareva esser rimasto in loro come un ingombro isolato, come un punto indistinto e tuttavia persistente, intorno al quale era una specie di vacuità inesplorabile. L'ansia e la piena li riprendevano ora all'improvviso; e li gettavano l'un verso l'altra, li mescolavano con tanta veemenza che essi non ardivano di guardarsi nelle pupille per tema di scorgervi una cupidigia troppo brutale.

— Non ci rivedremo stasera, dopo la festa? — chiese la Foscarina, con un tremito nella voce spenta. — Non siete libero?

Ella si affrettava ora a trattenerlo, a farlo prigione, come se egli fosse per isfuggirle, come se ella sperasse di poter trovare in quella notte un qualche filtro per legarlo a sé ultimamente. E, mentre sentiva che il dono del suo corpo era divenuto ormai necessario, tuttavia con un'atroce lucidità a traverso la fiamma da cui era compresa ella riconosceva la miseria di quel dono per così lungo tempo negato. E un pudore doloroso, misto di paura e di orgoglio, pareva contrarle le membra disfiorite.

— Sono libero; sono vostro — rispose il giovine, a voce bassa, senza guardarla. — Voi sapete che nulla vale per me quel che voi potete darmi.

Anch'egli tremava nell'intimo cuore, avendo innanzi a sé le due mire verso di cui si tendeva in quella sera la sua forza come un arco: — la città e la donna, entrambe tentatrici e profonde, e stanche d'aver troppo vissuto, e gravi di troppi amori, e troppo da lui magnificate nel sogno, e destinate a deludere la sua aspettazione.

Per qualche attimo la sua anima restò sopraffatta da un'onda violenta di rammarichi e di desiderii. L'orgoglio e l'ebrezza del suo duro e pertinace lavoro, la sua ambizione senza freno e senza limiti constretta in un campo troppo angusto, la sua insofferenza acerrima della vita mediocre, la sua pretesa ai privilegi dei principi, il gusto dissimulato dell'azione ond'era spinto verso la folla come verso la preda preferibile, il sogno d'un'arte più grande e più imperiosa che fosse a un tempo nelle sue mani segnale di luce e stromento di soggezione, tutti i suoi sogni superbi e purpurei, tutti i suoi bisogni insaziabili di predominio di gloria e di piacere insorsero e tumultuarono in confuso abbagliandolo soffocandolo. E una pesante tristezza lo inclinò verso l'estremo amore di quella donna solitaria e nomade che pareva portare per lui nelle pieghe delle sue vesti raccolta e muta la frenesia delle moltitudini lontane dalla cui bestialità compatta ella aveva sollevato il brivido fulmineo e divino dell'arte con un grido di passione o con uno schianto di dolore o con un silenzio di morte; una torbida brama lo piegò verso quella donna sapiente e disperata in cui egli credeva scoprire i vestigi di tutte le voluttà e di tutti gli spasimi, verso quel corpo non più giovine, ammollito da tutte le carezze e rimasto ancora sconosciuto per lui.

— Una promessa? — soggiunse egli a capo chino, tutto in sé ristretto per contenere la sua agitazione. — Ah, finalmente!

Ella non rispose; ma fissò su di lui uno sguardo acceso da un ardore quasi folle, ch'egli non vide.

E rimasero in silenzio, mentre il rombo del bronzo passava su le loro teste così forte ch'essi credevano sentirlo nelle radici dei capelli come un brivido della carne loro.

— Addio — disse ella, presso all'approdo. — Ci ritroveremo, uscendo nel cortile, al secondo pozzo, dalla parte del Molo.

— Addio — disse egli. — Fate che io vi scorga tra la folla, quando starò per proferire la prima parola.

Un clamore confuso giunse da San Marco sul suono delle campane, si propagò per la Piazzetta, si dileguò verso la Fortuna.

— Tutta la luce su la vostra fronte, Stelio! — augurò la donna tendendogli appassionatamente le sue aride mani.

Quando Stelio Èffrena entrò nel cortile per la porta meridionale, vedendo la Scala dei Giganti invasa dalla nera e bianca moltitudine che brulicava al lume rossastro delle fiaccole infisse nei candelabri di ferro, ebbe un moto subitaneo di ripugnanza e si soffermò nell'androne; perchè sentì stridere acutamente il contrasto fra quella meschina gente intrusa e gli aspetti di quelle architetture dall'insolito lume notturno magnificati, in cui s'esprimevano con sì varie armonie la forza e la bellezza della vita anteriore.

— Oh miseria! — esclamò volgendosi agli amici che l'accompagnavano. — Nella Sala del Gran Consiglio, dal palco del Doge, trovare qualche metafora per commuovere mille petti inamidati! Torniamo indietro: andiamo a sentir l'odore dell'altra folla, della folla vera. La Regina non è ancora escita dal Palazzo reale. Abbiamo tempo.

— Finché non ti vedrò sul palco — disse ridendo Francesco de Lizo — non sarò sicuro che tu parlerai.

— Credo che Stelio preferirebbe al palco la loggia: arringare tra le due colonne sanguigne il popolo ammutinato che minacciasse d'appiccare il fuoco alle Procuratie nuove e alla Libreria vecchia — disse Piero Martello volendo lusingare nel maestro il gusto della sedizione e lo spirito fazioso ch'egli medesimo affettava per imitarlo.

— Sì, certo — disse Stelio — se l'arringa valesse a impedire o a precipitare un atto irreparabile. Io comprendo che la parola scritta sia adoperata a creare una pura forma di bellezza che il libro intonso contiene e chiude come un tabernacolo a cui non si accede se non per elezione con quella stessa determinata volontà che è necessaria ad infrangere un suggello; ma mi sembra che la parola orale, rivolta in modo diretto a una moltitudine, non debba aver per fine se non l'azione, e sia pure un'azione violenta. A questo solo patto uno spirito un po' fiero può, senza diminuirsi, comunicare con la folla per le virtù sensuali della voce e del gesto. In ogni altro caso il suo gioco è di natura istrionica. Per ciò io mi pento amaramente d'aver accettato questo ufficio di oratore ornativo e dilettoso. Ciascuno di voi consideri quel che v'è di umiliante, per me, nell'onoranza di cui son fatto segno e consideri l'inutilità del mio prossimo sforzo. Tutta questa gente estranea, tolta per una sera alle sue occupazioni mediocri o alle sue predilette ricreazioni, viene ad ascoltarmi con la stessa curiosità futile e stupida con cui andrebbe ad ascoltare un qualunque “virtuoso”. Per le uditrici l'arte con cui è composto il nodo della mia cravatta sarà assai più apprezzabile dell'arte con cui coordinerò le mie frasi. E, in fondo, l'unico effetto del mio discorso sarà probabilmente un battimano con la sordina dei guanti o un breve mormorio discreto, a cui risponderò con un inchino piacevole. Non vi sembra che io stia per toccare l'ultimo termine della mia ambizione?

— Hai torto — disse Francesco de Lizo. — Tu devi congratularti teco perchè sei riuscito a imprimere per qualche ora il ritmo dell'arte alla vita d'una città immemore e a farci intravedere di quali splendori potrebbe abbellire la nostra esistenza il rinnovato connubio dell'Arte con la Vita. L'uomo che inalzò il Teatro di Festa, se fosse presente, ti loderebbe per questa armonia ch'egli ha annunziata. Ma il mirabile è che — te assente e ignaro — la festa sembra sia stata disposta secondo la guida del tuo spirito, secondo una tua ispirazione, un tuo disegno. Ecco la prova migliore della possibilità di restaurare e diffondere il gusto, pur tra la presente barbarie. La tua influenza oggi è più profonda che tu non creda. La signora che ha voluto festeggiarti — quella che tu chiami la Dogaressa — ad ogni nuova idea che le sorgeva nella mente, si domandava: “Piacerà a Stelio Èffrena?”. Se tu sapessi quanti oggi, tra i giovani, fanno a sé medesimi una simile domanda nel considerare gli aspetti della loro vita interiore!

— Per chi, se non per questi, tu parlerai? — disse Daniele Glàuro, il fervido e sterile asceta della Bellezza, con quella sua voce spiritale in cui pareva riflettersi l'ardor bianco e inestinguibile della sua anima che il maestro prediligeva come la più fedele. — Se quando sarai sul palco ti guarderai intorrno, tu li riconoscerai facilmente dall'espressione dei loro occhi. E sono numerosissimi: molti venuti anche di lontano: e aspettano con un'ansietà che tu forse non puoi comprendere. Sono tutti quelli che hanno bevuta la tua poesia, che hanno respirato nell'etere infiammato del tuo sogno, che hanno provato l'artiglio della tua chimera. Sono tutti quelli a cui tu hai promesso una vita più bella e più forte, tutti quelli a cui tu hai annunziato la trasfigurazione del mondo pel prodigio di un'arte nuova. Sono molti, sono molti quelli che tu hai sedotti con la tua speranza e con la tua gioia. Ora essi hanno sentito dire che tu parlerai a Venezia, nel Palazzo Ducale, in uno dei luoghi più gloriosi e più splendidi che sieno su la terra! Essi ti potranno dunque vedere e ascoltare per la prima volta circondato di quella magnificenza inestimabile che sembra a loro il quadro appropriato alla tua natura. Il vecchio Palazzo dei Dogi, rimasto nelle tenebre per tante e tante notti, ora s'illumina d'improvviso e rivive. Tu solo, per loro, hai avuto il potere di riaccendere le fiaccole. Comprendi dunque la loro ansietà? E non ti sembra che tu debba parlare soltanto per loro? La condizione da te posta, per colui che parla a molti, può essere adempiuta. Tu puoi sollevare nelle loro anime un moto veemente che le volga e le protenda per sempre verso l'Ideale. Per quanti di loro, Stelio, potrà essere indimenticabile questa notte veneziana!

Stelio pose la sua mano su le spalle precocemente incurvate del dottor mistico e ripetè sorridendo le parole del Petrarca: — Non ego loquar omnibus, sed tibi sed mihi et his...

Egli vedeva dentro di sé risplendere gli occhi dei discepoli sconosciuti; e sentiva ora dentro di sé con perfetta chiarezza, come una modalità tonica, l'accento del suo esordio.

— Tuttavia, — soggiunse gaiamente volgendosi a Piero Martello — suscitare una tempesta in questo mare sarebbe cosa più allegra.

Essi erano presso il pilastro angolare del portico, a contatto con la folla unanime e strepitosa che s'addensava nella Piazzetta, si prolungava verso la Zecca, s'ingolfava per le Procuratie, abbarrava la Torre dell'Orologio, occupava tutti gli spazii come l'onda informe, comunicava il suo calore vivo al marmo delle colonne e delle mura premute con violenza nel suo continuo rigurgito. Di tratto in tratto un clamore più forte si levava lontano, dall'estremità della Piazza, propagandosi; e talora andava crescendo di forza finché scoppiava da vicino come un tuono, e talora andava diminuendo finché spirava da vicino come un murmure. Gli archivolti, le logge, le guglie, le cupole della Basilica d'oro, l'attico della Loggetta, le trabeazioni della Biblioteca risplendevano di fiammelle innumerevoli; e la piramide del Campanile eccelsa, scintillando con le costellazioni silenziose nel seno della notte, evocava su la moltitudine ebra di clamore l'immensità del silenzio celeste, il navigante dell'estrema laguna a cui quella luce appariva come un nuovo faro, il ritmo d'un remo solitario che moveva su l'acqua dormente il riflesso degli astri, la pace sacra che raccoglievano le mura d'un convento insulare.

Vorrei trovarmi stanotte per la prima volta con la donna che desidero, di là dai Giardini, verso il Lido, in un letto galleggiante — disse il poeta erotico Paris Eglano, un giovine biondo imberbe che aveva una bella bocca porporina e vorace a contrasto con la delicatezza quasi angelica dei suoi lineamenti. — Fra un'ora Venezia offrirà a qualche amante neroniano celato in un felze lo spettacolo dionisiaco d'una città che s'incendia delirando.

Stelio sorrise nel notare fino a qual punto i suoi prossimi fossero impregnati della sua essenza e come profondamente il suggello del suo stile fosse rimasto impresso su quegli intelletti. L'imagine della Foscarina balenò al suo desiderio, avvelenata dall'arte, carica di sapere voluttuoso, col gusto della maturità e della corruzione nella bocca eloquente, con l'aridezza della vana febbre nelle mani che avevano spremuto il succo dei frutti ingannevoli, con i vestigi di cento maschere sul viso che aveva simulato il furore delle passioni mortali. Così egli la fingeva al suo desiderio; e palpitava pensando che fra breve l'avrebbe veduta emergere dalla folla come dall'elemento a cui ell'era asservita e avrebbe attinto dallo sguardo di lei l'ebrezza necessaria.

— Andiamo — disse pronto agli amici. — È tempo.

Un colpo di cannone annunziava che la Regina era uscita dalla Reggia. Un lungo fremito corse per la viva massa umana, simile a quello che sul mare precede la raffica. Dalla riva di San Giorgio Maggiore un razzo partì con un sibilo veemente, si levò diritto nell'aria come uno stelo di fuoco, gittò in sommo una tonante rosa di splendori; poi si piegò, si diradò, si disperse in faville tremule, si spense con un crepitio sordo su l'acqua. E l'acclamazione gioiosa verso la bella donna incoronata — il nome del bianco fiore stellare e della perla purissima ripetuto in un grido unanime di amore agli echi del marmo — evocò la pompa dell'antica Promissione, il corteo trionfale delle Arti accompagnante al Palazzo la Dogaressa novella, l'immensa onda di allegrezza su cui Morosina Grimani trasvolava al trono splendendo nel suo oro mentre tutte le Arti si chinavano a lei cariche di doni come le cornucopie.

— Certo — disse Francesco de Lizo — la Regina, se ama i tuoi libri, stasera porta al collo tutte le sue perle. Tu avrai dinanzi a te un roveto di gemme: tutti i gioielli ereditarii del patriziato veneto.

— Guarda, Stelio, a piè della Scala — disse Daniele Glàuro. — V'è un gruppo di fanatici che t'aspetta al passaggio.

Stelio si soffermò al pozzo indicato dalla Foscarina; si chinò sul margine di bronzo, sentendo contro le sue ginocchia i rilievi delle piccole cariatidi, e scorse nel cupo specchio interiore il riflesso vago delle lontane stelle. Per qualche attimo la sua anima si isolò, si fece sorda ai rumori circostanti, si raccolse in quel cerchio di ombra donde saliva un tenue gelo che rivelava la muta presenza dell'acqua; e sentì la fatica della sua tensione e il desiderio d'essere altrove e il bisogno indistinto di trascendere pur quell'ebrezza che le ore notturne gli promettevano e, nell'ultima profondità del suo essere, un'anima segreta che a simiglianza di quello specchio d'acqua rimaneva immota estranea ed intangibile.

— Che vedi? — gli chiese Piero Martello chinandosi anch'egli sul margine consunto dalle funi delle secchie secolari.

— Il volto della Verità — rispose il maestro.

Nelle stanze attigue alla Sala del Maggior Consiglio, un tempo abitate dal Doge, ora dalle statue pagane comprese negli antichi bottini di guerra, Stelio Èffrena attendeva l'avviso del cerimoniere per comparire sul palco. Egli sorrideva calmo agli amici che gli parlavano, ma le loro parole gli giungevano all'orecchio come i suoni interrotti che reca il vento da lungi tra l'una e l'altra pausa. Di tratto in tratto, per un moto che rivelavasi involontario dall'impeto soverchio, s'accostava a una statua e la palpava con la mano convulsa come se volesse cercarvi un punto debole per spezzarla; o si chinava su una medaglia intentamente come per leggervi un segno indecifrabile. Ma i suoi occhi non vedevano perchè il loro sguardo era rivolto in dentro, là dove la potenza moltiplicata della volontà suscitava le forme silenziose che dovevano raggiungere nella voce fluente la perfezione della musica verbale. Tutto il suo essere contraevasi nello sforzo di elevare al grado massimo dell'intensità la rappresentazione del sentimento singolare che lo possedeva. Poichè egli non poteva parlare se non di sé e del suo mondo, egli voleva almeno raccogliere in una figura ideale le qualità più fulgide e più speciose della sua arte e significare per imagini agli spiriti seguaci da qual forza invincibile di desiderio egli fosse lanciato a traverso la vita. Anche una volta egli voleva mostrare a costoro che, per ottener la vittoria su gli uomini e su le cose, nulla vale quanto la costanza nell'esaltar sé medesimo e nel magnificare il suo proprio sogno di bellezza o di dominazione.

Chino su una medaglia del Pisanello, egli sentiva nelle tempie ardenti battere con incredibile rapidità il polso del suo pensiero.

— Vedi, Stelio, — gli disse Daniele Glàuro in disparte con quella pia reverenza che gli velava la voce quando egli parlava della sua religione — vedi come operino su te le affinità misteriose dell'Arte e come da un infallibile istinto il tuo pensiero in punto di manifestarsi sia condotto, fra tante forme, verso l'esemplare della più esatta espressione, verso l'impronta del più alto stile. Dovendo coniare la tua idea, tu t'inchini per similitudine su una medaglia del Pisanello, tu t'incontri col segno di colui che fu uno tra i più grandi stilisti apparsi nel mondo: l'anima più schiettamente ellenica di tutto il Rinascimento. Ed ecco che la tua fronte è subito segnata da una nota di luce.

Era nel puro bronzo l'effigie di un giovine dalla bella chioma ondosa, dal profilo imperiale, dal collo apollineo, sovrano tipo di eleganza e di vigore, così perfetto che l’imaginazione non poteva rappresentarselo nella vita se non immune da ogni decadenza e immutabile come l'artefice lo aveva chiuso nel cerchio di quel metallo per l'eternità. — Dux equitum praestans Malatesta Novellus Cesenae dominus. Opus Pisani pictoris. — E accanto v'era un'altra medaglia, di mano del medesimo creatore, che recava l'effigie di una vergine dal petto esile, dal collo di cigno, dalla capellatura raccolta indietro a guisa di borsa grave, dalla fronte alta e sfuggente già promessa all'aureola della beatitudine: vaso di purità suggellato per sempre, duro, preciso e limpido come il diamante; pisside adamantina in cui era custodita un'anima consacrata come l'ostia al sacrifizio. Cicilia Virgo filia Iohannis Francisci primi Marchionis Mantuae.

— Vedi — soggiunse il sottile esegeta indicando le due rarissime impronte — vedi come il Pisanello sapesse cogliere con mano egualmente portentosa il più superbo fiore della vita e il più puro fiore della morte. Ecco l'imagine del desiderio profano e l'imagine dell'aspirazione sacra, nel medesimo bronzo, fissate entrambe nella medesima idealità dello stile. Non riconosci tu qui le analogie che congiungono a quest'arte la tua propria arte? Quando la tua Persefone spicca dal melagrano infernale il frutto gravido per aprirlo, v'è pur nel suo bel gesto di cupidigia qualche cosa di mistico poichè ella infatti nel fendere la scorza per mangiare i granelli inconsapevole determinerà il suo destino. L'ombra del mistero accompagna dunque il suo atto sensuale. Ecco che tu hai significato il carattere di tutta quanta la tua opera! Nessuna sensualità è più ardente della tua; ma i tuoi sensi sono così acuti che godendo delle apparenze penetrano fin nel più profondo e incontrano il mistero e ne rabbrividiscono. La tua visione si prolunga oltre il velo su cui la vita dipinge le sue figure voluttuose nelle quali tu ti compiaci. Così conciliando in te quel che sembra inconciliabile, confondendo in te senza sforzo i due termini dell'antitesi, dai oggi l'esempio d'una vita completa e strapotente. Bisogna che tu faccia sentir questo a chi t'ascolta; poichè questo, sopra tutto, importa che sia riconosciuto per la tua gloria.

Ed egli aveva celebrato il connubio ideale tra quel fìerissimo Malatesta duce dei cavalieri e la beata vergine mantovana Cecilia Gonzaga, con la stessa fede con cui il buon sacerdote officia dinanzi all'altare. E per quella fede lo amava Stelio, e perchè in nessun altro egli sentiva più profonda e più sincera la credenza nella realità del mondo poetico; e infine perchè in lui spesso egli ritrovava una specie di conscienza rivelatrice e nel comento di lui talvolta una illuminazione impreveduta della sua propria opera.

— Entra la Foscarina con Donatella Arvale — annunciò Francesco de Lizo, il quale stava osservando il passaggio della folla che saliva per la Scala dei Censori e si accalcava nell'aula immensa

E allora Stelio Èffrena fu ripreso dall'ansia. E udiva il mormorio della moltitudine confondersi nell'orecchio col battito delle sue arterie come in una lontananza indefinita, e ritornare su quel rombo le ultime parole di Perdita.

Il mormorio si elevò, si attenuò, cessò mentre egli saliva con passo fermo e leggero i gradini del palco. Volgendosi verso la folla, egli travide con occhi abbagliati il mostro formidabile dagli innumerevoli volti umani fra l'oro e la porpora cupa dell'aula immensa.

Una subitanea sollevazione d'orgoglio lo aiutò a riprendere il dominio di sé stesso. S'inchinò alla Regina e a Donna Andriana Duodo, che gli sorrisero de' loro sorrisi gemelli come sul Canal Grande dalla bissona fuggente. Acuì lo sguardo per riconoscere la Foscarina nello scintillio delle prime file; percorse tutta l'accolta sino al fondo ove non appariva se non una zona oscura cosparsa di vaghe macchie pallide. E allora la moltitudine ammutolita e aspettante gli si presentò a imagine d'una smisurata chimera occhiuta dal busto coperto di scaglie splendide, che s'allungava nereggiando sotto le enormi volute d'un cielo ricco e greve come un pensile tesoro.

Splendidissimo era quel busto chimerico, su cui brillava certo qualche monile che aveva già dato i suoi fochi sotto il medesimo cielo nel convito notturno di una Incoronazione. Il diadema e le collane della Regina — le collane molteplici di perle digradanti in acini di luce che facevano pensare a un miracoloso granire visibile del sorriso imminente —, i cupi smeraldi di Andriana Duodo già strappati all'elsa di una scimitarra crudele, i rubini di Giustiniana Memo legati in foggia di garofani dall'inimitabile lavoro di Vettor Camelio, gli zaffiri di Lucrezia Priuli tolti agli alti zoccoli su cui la Serenissima Zilia aveva incesso verso il trono nel giorno del suo trionfo, i berilli di Orsetta Contarmi così delicatamente misti all'opaco oro dall'arte di Silvestre Grifo, le turchesi di Zenobia Corner soffuse di non mai veduti pallori dal misterioso male che le aveva mutate una notte sul seno madido della Lusignana tra i piaceri di Asolo: i più insigni gioielli che avevano illustrato le feste secolari della Città anadiomene, tutti s'accendevano di nuovi bagliori su quel busto chimerico donde giungeva a Stelio il tiepido effluvio della pelle e dell'alito feminile. Stranamente maculato il resto del corpo difforme stendevasi indietro, quasi con un prolungamento caudale, passando tra i due giganteschi mappamondi che richiamavano alla memoria dell'Imaginifico le due sfere di bronzo cui il mostro bendato preme con le zampe leonine nell'allegoria del Giambellino. E la vasta vita animale, cieca di pensiero innanzi a colui che solo in quell'ora doveva pensare, dotata di quel fascino inerte che è negli idoli enigmatici, coperta dal suo proprio silenzio come da uno scudo capace di raccogliere e di respingere ogni vibrazione, aspettava il primo fremito dalla parola dominatrice.

Stelio Èffrena misurò il silenzio in cui la sua prima sillaba avrebbe potuto tremare. Mentre la voce gli saliva alle labbra condotta e affermata dalla volontà contro il turbamento istintivo, egli scorse la Foscarina diritta in piedi presso la ringhiera che circondava il globo celeste. Il volto pallidissimo della Tragica, sul collo privo di gioielli e su la purezza delle spalle nude, levavasi nell'orbe dei segni zodiacali. Stelio ammirò l'arte di quell'apparizione. Fissando i lontani occhi adoratori, egli cominciò a parlare con estrema lentezza, quasi che avesse ancor nell'orecchio il ritmo del remo.

“Io pensava in un pomeriggio recente — tornando dai Giardini per quella tiepida riva degli Schiavoni che all'anima dei poeti vaganti potè sembrar talvolta non so qual magico ponte d'oro prolungato su un mare di luce e di silenzio verso un sogno di Bellezza infinito — io pensava, anzi assisteva nel mio pensiero come a un intimo spettacolo, alla nuziale alleanza dell'Autunno e di Venezia sotto i cieli.

“Era per ovunque diffuso uno spirito di vita, fatto d'aspettazione appassionata e di contenuto ardore; che mi stupiva per la sua veemenza ma che pur non mi sembrava nuovo poichè io l'aveva già trovato raccolto in qualche zona d'ombra, sotto l'immobilità quasi mortale dell'Estate, e l'aveva anche sentito fra lo strano odor febrile dell'acqua vibrar quivi a quando a quando come un polso misterioso. — Così, veramente, — io pensava — questa pura Città d'arte aspira a una suprema condizione di bellezza, che è per lei un annuale ritorno come per la selva il dar fiori. Ella tende a rivelar sé medesima in una piena armonia quasi che sempre ella porti in sé possente e consapevole quella volontà di perfezione da cui nacque e si formò nei secoli come una creatura divina. Sotto l'immobile fuoco dei cieli estivi, ella pareva senza palpito e senza respiro, morta nelle sue verdi acque; ma non m'ingannò il mio sentimento quando io la indovinai travagliata in segreto da uno spirito di vita bastevole a rinnovare il più alto degli antichi prodigi.

“Questo io pensava, assistendo allo spettacolo incomparabile che per un dono di amore e di poesia io poteva contemplare con occhi attentissimi la cui vista mi si mutava in visione profonda e continua... Ma con qual virtù potrò io mai comunicare a chi m'ascolta questa mia visione di bellezza e di gioia? Non v'è aurora e non v'è tramonto che valgano una simile ora di luce su le pietre e su le acque. Né subito apparire di donna amata in foresta di primavera è inebriante così come quella impreveduta rivelazione diurna della Città eroica e voluttuosa che portò e soffocò nelle sue braccia di marmo il più ricco sogno dell'anima latina.”

La voce dell'oratore, chiara e penetrante e quasi gelida sul principio, pareva essersi di sùbito accesa alle faville invisibili che doveva suscitar dal cervello lo sforzo dell'improvvisazione regolato con acutissima vigilanza dall'orecchio difficile. Mentre le parole fluivano senza impedimento e la linea ritmica del periodo si chiudeva a similitudine d'una figura disegnata con un sol tratto da una mano libera, gli ascoltatori sentivano sotto quella fluidità armoniosa l'eccesso della tensione che tormentava quello spirito e n'erano presi come da uno di quei fieri giochi circensi in cui tutte le energie erculee di un atleta si palesano vibrando nelle corde dei tendini e gonfiando le trame delle arterie. Sentivano essi quanto eravi di vivo e di caldo e d'immediato nel pensiero così espresso; e il lor godimento era più forte perchè inatteso, attendendo ognuno da quell'infaticabile ricercatore di perfezioni la lettura studiata d'un discorso laboriosamente composto. I devoti assistevano con una commozione profonda a quella prova audace, quasi che essi avessero dinanzi a loro svelato il lavorio misterioso ond'eran sorte le forme da cui avevan ricevuto tanti doni di gioia. E quel moto iniziale, diffuso per contagio, indefinitamente moltiplicato nel numero e divenuto unanime, si ripercosse in colui che l'aveva prodotto; parve sopraffarlo.

Era il pericolo preveduto. Egli vacillò come sotto l'urto di un'onda troppo vasta. E per qualche attimo una densa oscurità occupò il suo cervello; la luce del suo pensiero si estinse come una face al soffio d'un vento irresistibile; i suoi occhi si velarono come sul principio della vertigine. Egli sentì qual sarebbe stata l'onta della disfatta, se avesse ceduto a quello smarrimento e la sua volontà con una specie di percossa cruda, come l'acciaro dalla selce, suscitò in quel buio la scintilla nuova.

Col suo sguardo e col suo gesto egli sollevò l'anima della folla verso il capolavoro che spandeva nel cielo dell'aula una irradiazione solare.

“Io sono certo” esclamò “io sono certo che in tale aspetto ella apparve a Paolo mentre colui cercava dentro di sé l'imagine della Regina trionfale. Ah io sono certo ch'egli ne tremò nell'intime vene e piegò i ginocchi, in atto di chi adora percosso e abbacinato dal miracolo. E quando volle dipingerla in questo firmamento per manifestare agli uomini la sua meraviglia, egli — il prodigo artefice che parve aver raccolto in sé tutte le imaginazioni dei satrapi più sfrenate, il poeta magnifico ch'ebbe l'anima simile a quel fiume lidio dagli Elleni armoniosi nomato Crisorroa, fuor de' cui gorghi auriferi era sorta una dinastia di re carichi d'una opulenza inaudita — egli, il Veronese, profuse l'oro, le gemme, lo sciamito, la porpora, l'ermellino, tutte le sontuosità, ma non potè rappresentare il volto glorioso se non in un nimbo di ombra.

“Sol per quell'ombra bisogna levare al cielo il Veronese!

“Tutto il mistero e tutto il fascino di Venezia sono in quell'ombra palpitante e fluida, breve e pure infinita, composta di cose viventi ma inconoscibili, dotata di virtù portentose come quella degli antri favoleggiati, dove le gemme hanno uno sguardo; e dove taluno potè trovare nel tempo medesimo, in una sensazione indicibilmente ambigua, la freschezza e l'ardore. Bisogna esaltare il Veronese per questo. Raffigurando in sembianze umane la Città dominatrice, egli seppe esprimerne lo spirito essenziale: che non è — in simbolo — se non una fiamma inestinguibile a traverso un velo d'acqua. E io so di taluno che, avendo lungamente immerso la sua anima in quella zona sublime, la ritrasse accresciuta d'una nova potenza e trattò indi con mani più ardenti la sua arte e la sua vita.”

Non egli era quell'uno? In tale affermazione di sé egli parve ritrovare tutta la sua sicurezza e sentirsi ormai signore del suo pensiero e della sua parola, fuor del pericolo, atto a trascinar nei cerchi del suo sogno la smisurata chimera occhiuta dal busto coperto di scaglie splendide, il mostro efimero e versatile fuor del cui fianco emergeva filialmente la musa tragica dal capo alzato nell'orbe delle costellazioni.

Obbedendo al suo gesto, i volti innumerevoli si levavano verso l'Apoteosi, gli occhi sbendati guardavano con stupore il prodigio, quasi lo vedessero per la prima volta o lo vedessero in un aspetto non conosciuto prima. Il gran dorso ignudo della donna dal casco d'oro rifulgeva su la nuvola con un sì forte rilievo di vita muscolare che tentava come una carne palpabile. E da quella nudità vivace sopra tutte le cose, vincitrice del tempo che aveva oscurato sotto di lei le imagini eroiche degli assedii e delle battaglie, pareva diffondersi un incantesimo venereo che i soffii della notte autunnale alitanti per i veroni aperti rendevano più dolce, quasi l'agitassero come l'onda dell'odore accolta intorno al roseto odorifero; mentre le principesse di quell'alta corte, chine dai balaustri fra le due tortili colonne, inclinavano i volti accesi e i seni opulenti verso le loro ultime mondane sorelle.

Nell'incantesimo il poeta gettò allora i suoi periodi armonizzati come strofe liriche.

“Ben tale fiamma io sentiva, ieri, assorgere alla veemenza estrema e infondere nella bellezza di Venezia una forza d'espressione non mai veduta prima. Tutta la Città ai miei occhi si accendeva di desiderio e palpitava di ansia nelle sue mille cinture verdi, come l'amante che aspetta la sua ora di gioia. Ella tendeva le sue braccia marmoree verso il selvaggio Autunno di cui giungevale l'umido alito profumato dalla morte deliziosa delle campagne lontane. Ella spiava i vapori leggeri che sorgevano dal limite della laguna muta e parevano avvicinarlesi in aspetto di messaggi furtivi. Ella ascoltava intentissima nel silenzio da lei medesima generato i più tenui romori; e il soffio del vento fuggevole nei suoi orti rari aveva per lei un prolungamento musicale fuor delle chiostre. Una specie di stupore si raccoglieva intorno ai solinghi alberi prigionieri che trascolorivano splendendo come se conflagrassero. La foglia arida caduta su la pietra consunta della proda brillava come una cosa preziosa; in cima al muro ornato dai licheni biondi il frutto del melagrano gonfio di maturità si fendeva subitamente come una bella bocca sforzata dall'impeto di un riso cordiale; una barca passava lenta e grande, colma di grappoli come il tino che sta per essere premuto, diffondendo su l'acqua ingombra d'alghe morte l'ebrietà aerea della vendemmia e la visione delle vigne solatie frequenti di giovinezze canore. Tutte le cose avevano una eloquenza profonda, come se un segno invisibile aderisse al loro aspetto visibile e per un divino privilegio élleno vivessero nella superiore verità dell'arte.

“Sicuramente dunque — io pensava — sicuramente è nella Città di pietra e d'acqua, come nello spirito di un artefice puro, una aspirazione spontanea e costante verso ideali armonie. Una specie di intelligenza ritmica e fittiva sembra elaborarne studiosamente le rappresentazioni come per renderle conformi a un'idea e convergerle a un fine meditato. Sembra ch'ella possegga mani meravigliose per comporre le sue luci e le sue ombre in una continua opera di bellezza; e ch'ella sogni fornendo il suo lavoro e dal suo sogno medesimo — ove il molteplice retaggio dei secoli splende trasfigurato — ella tragga il tessuto d'allegorie inimitabile che la ricopre. E, poichè sola nell'universo la poesia è verità, quegli che sa contemplarla e attrarla in sé con le virtù del pensiero, quegli è presso a conoscere il segreto della vittoria su la vita.”

Aveva cercato gli occhi di Daniele Glàuro nel proferire le ultime parole, e li aveva veduti brillare di felicità sotto quella enorme fronte meditativa che pareva gonfia d'un mondo non partorito. Il dottor mistico era là, vicino, con la sua schiera: con alcuni di quei discepoli sconosciuti ch'egli aveva rappresentati al maestro avidi e ansiosi, pieni di fede e di aspettazione, anelanti a infrangere l'angustia della lor servitù cotidiana e a conoscere qualche libera ebrezza di gioia e di dolore. Stelio li vedeva là stretti in gruppo, come un nucleo di forze compresse, addossati ai grandi armarii rossastri ove stavano sepolti gli innumerevoli volumi d'una sapienza obliata e inerte. Ne distingueva i volti accesi e intenti, le capellature folte e prolisse, le bocche dischiuse in uno stupore puerile o serrate con una sorta di violenza sensitiva, gli occhi chiari o bruni su cui il soffio delle parole sembrava alternare le luci e le ombre come la vicenda delle aure su un'accolta di delicati fiori. Egli credeva di avere le loro anime confuse in una sotto la sua mano e di poter agitare queir una o stringerla nel pugno o lacerarla o bruciarla come un leggero vessillo. Mentre il suo spirito tendevasi e distendevasi così gagliardamente in quel continuo scoccare, pur gli rimaneva una strana lucidità d'indagine esteriore, quasi una separata facoltà di osservazione materiale; che sembrava farsi sempre più acuta e più netta, come più s'accelerava e s'accendeva la sua eloquenza. Egli sentiva a poco a poco il suo sforzo divenire più facile e l'efficacia della sua volontà essere sopravvanzata da una energia libera e oscura come un istinto, sorta dalle profondità della sua inconsapevolezza e operante con un processo occulto non verificabile. Per analogia, egli si ricordava dei momenti straordinarii in cui — nel silenzio e nel calore intellettuale della sua stanza remota — la mano aveva scritto su la pagina un verso eterno ch'eragli parso non nato dal suo cervello ma dettato da un nume impetuoso a cui l'organo inconscio avesse obbedito come un cieco istrumento. Una meraviglia non dissimile a quella svegliavasi ora in lui, quando il suo orecchio era sorpreso da una cadenza impreveduta delle parole che proferivano le sue labbra. Nella comunione tra la sua anima e l'anima della folla un mistero sopravveniva, quasi divino. Qualche cosa di più grande e di più forte aggiunge vasi al sentimento ch'egli aveva della sua persona consueto. E sembravagli che la sua voce acquistasse d'attimo in attimo una virtù più alta.

Egli vide in quel punto intera e viva entro di sé la figura ideale; e la significò alla maniera dei Maestri coloristi che regnavano il luogo: con il lusso di Paolo e con l'ardenza del Tintoretto, nel linguaggio della poesia.

“E l'ora s'approssimava: già quasi era imminente l'ora della Festa suprema. Un insolito lume propagavasi nei cieli dall'ultimo orizzonte, come se il selvaggio Sposo vi trascorresse con un carro di fuoco agitando il suo gonfalone purpureo. Generato dalla sua corsa il vento spirava carico di tutti gli odori terrestri; e all'aspettante, su l'acqua ove qua e là vaghe capellature marine fluttuavano, recava l'imagine dei rosai bianchi e compatti che si distruggevano a poco a poco come ammassi di neve contro i balaustri dei giardini inclinati verso la Brenta. L'imagine intera del paese lontano parevami rispecchiarsi nel cristallo dell'aria come per la meteora fallace dei deserti; e quell'aspetto di natura valeva a magnificare la rarità di quel sogno d'arte, poichè nessun fasto autunnale di verzieri e di boschi — nella memoria — era comparabile alle divine animazioni e trasfigurazioni dell'antica pietra.

“Veramente, non è per giungere un dio su la città che gli si offre? — io chiedeva a me medesimo, sopraffatto dall'ansia e dal desiderio e dalla volontà di gioire che tutte le cose intorno a me esprimevano come invase da una febbre di passione infinita. Ed evocai l'artefice più possente perchè con le forme più fiere e con i colori più fulgidi mi raffigurasse quel giovine dio aspettato.

“Era per giungere! La coppa invertita del cielo versava su tutte le cose un flutto di splendore che sembrò da prima ai miei occhi incredibile, tanto la sua qualità superava di ricchezza pur le più ricche illuminazioni interiori del pensiero inspirato o del sogno involontario. Come una materia siderale, di natura sconosciuta e mutevole, in cui fossero figurate a miriadi imagini d'un fluido mondo indistinte, dalle quali un perpetuo fremito con una vicenda di distruzioni e di creazioni stupendamente facili traesse un'armonia sempre novella, così appariva l'acqua. Tra le due meraviglie la pietra multiforme e multanime come una selva e come, un popolo, — quella smisurata congerie muta da cui il genio dell'Arte estrasse i concetti occulti della Natura, su cui il tempo accumulò i suoi misteri e la gloria incise i suoi segni, per le cui vene ascese l'umano spirito verso l'Ideale come la linfa ascende verso il fiore per le fibre degli alberi — la pietra multanime e multiforme assumeva d'attimo in attimo espressioni di vita così intense e nuove che veramente parve distrutta per lei la legge e la sua inerzia originale irradiarsi d'una miracolosa sensibilità.

“Ogni attimo, allora, vibrò nelle cose come un baleno insostenibile. Dalle croci erette in sommo delle cupole gonfie di preghiera ai tenui cristalli salini penduli sotto l'arco dei ponti, tutto brillò in un supremo giubilo di luce. Come la vedetta gitta dai precordii l'acuto grido all'ansia che sotto freme in guisa di procella, così l'angelo d'oro dal vertice della massima torre diede alfine l'annunzio fiammeggiando.

“Ed Egli apparve. Apparve su una nuvola assiso come su un carro di fuoco, traendo dietro di sé i lembi delle sue porpore, imperioso e dolce, e con socchiuse le labbra piene di murmuri e di silenzii silvani, e con diffusi i capelli sul collo arduo come un collo equino, e con nudo il torace titanico misurato al respiro delle foreste. Inclinò verso la Città bella il suo giovenile volto donde emanava un indicibile fascino inumano, non so qual bestialità delicata e crudele, cui contrastavano gli sguardi profondi di conoscimento sotto le palpebre gravi. Ed era palese che per tutto il suo corpo il sangue pulsava e balzava con violenza fino ai pollici dei piedi agili, fino all'estreme falangi delle mani forti; e cose occulte erano per tutto il suo essere, che parevano celare la gioia come i grappoli in fiore celano il vino; e tutto il fulvo oro e tutta la porpora ch'Egli portava seco erano come il vestimento dei suoi sensi...

“Con che passione palpitando nelle sue mille cinture verdi e sotto i suoi immensi monili la Città bella si abbandonò al dio magnifico!”

Sollevata nella spira ascendente delle parole, l'anima innumerevole sembrò giungere d'un tratto al sentimento della Bellezza come a un apice non mai attinto prima; e ne fu quasi attonita. L'eloquenza del poeta era secondata dalle espressioni di tutte le cose circostanti: essa pareva riprendere e continuare i ritmi a cui obbedivano tutta quella forza e tutta quella grazia effigiate; essa pareva riassumere le concordanze indefinite che correvano fra quelle forme create dall'arte umana e le qualità dell'atmosfera naturale ov'elleno si perpetuavano. Per ciò la voce aveva un tal potere; per ciò il gesto ampliava così facilmente i contorni delle imagini; per ciò in ogni parola proferita la virtù suggestiva del suono inalzava di tanto il significato della lettera. Non era solo quivi l'usuale effetto d'una comunicazione elettrica stabilita fra il dicitore e l'uditorio, ma quivi pur l'incantesimo che teneva il portentoso edifizio dalle fondamenta e che prendeva uno straordinario vigore dal contatto insolito di tutta quella umanità agglomerata e palpitante. Il palpito della folla e la voce del poeta sembravano rendere alle mura secolari la vita primiera e rinnovellar nel freddo museo lo spirito originario: un nucleo d'idee possenti, concretate e organate nelle sostanze più durevoli a testimoniare la nobiltà d'una stirpe.

Lo splendore d'una giovinezza divina scendeva su le donne, come in un'alcova suntuosa; poichè esse avevano sentito in loro l'ansietà dell'attesa e la voluttà dell'abbandonarsi, come la Città bella. Sorridevano con un vago languore, quasi estenuate da una sensazione troppo forte, emergendo con le spalle nude dalle loro corolle di gemme. Gli smeraldi d'Andriana Duodo, i rubini di Giustiniana Memo, gli zaffiri di Lucrezia Priuli, i berilli di Orsetta Contarini, le turchesi di Zenobia Corner, tutti i gioielli ereditarii ne' cui fuochi era più che il pregio della materia come nel decoro della grande aula era più che il pregio dell'arte, parevano mettere su i bianchi volti delle patrizie il riflesso d'una gioconda e invereconda vita anteriore, quasi risvegliando in esse e dall'imo risollevando per virtù segrete l'anima delle voluttuarie che avevano offerto agli amori una carne macerata nei bagni di mirra di muschio d'ambra e scoperto in publico le mammelle colorite di belletto.

Vedeva Stelio quel busto femineo della smisurata chimera occhiuta, sul quale palpitavano mollemente le piume dei ventagli; e sentiva passare sul suo pensiero un'ebrezza troppo calda, che lo turbava suggerendogli parole dall'aspetto quasi càrneo, quelle vive sostanziali parole con cui egli sapeva toccare le donne come con dita carezzevoli e incitatrici. La vasta vibrazione da lui prodotta ripercotendosi in lui medesimo con una forza moltiplicata, lo scoteva così profondamente ch'egli smarriva il senso dell'equilibrio abituale. Sembravagli d'oscillare su la folla come un corpo concavo e sonoro in cui le risonanze varie si generassero per una volontà indistinta e tuttavia infallibile. Nelle pause, egli aspettava con ansia il manifestarsi impreveduto di quella volontà, mentre gli durava l'eco interiore come d'una voce non sua che avesse proferito parole espressive di pensieri per lui novissimi. E quel cielo e quell'acqua e quella pietra e quell'Autunno, così rappresentati, gli parevano non aver alcuna attinenza con le proprie sensazioni recenti ma appartenere a un mondo di sogno da lui intraveduto — mentre parlava — in un succedersi rapido di lampi.

Egli si stupiva di quell'ignoto potere che convergeva in lui abolendo i confini della persona particolare e conferendo alla voce solitaria la pienezza d'un coro. — Tale era dunque la tregua misteriosa che la rivelazione della Bellezza poteva dare all'esistenza cotidiana delle moltitudini affannate; tale era la misteriosa volontà che poteva investire il poeta nell'atto di rispondere all'anima innumerevole interrogante intorno al valore della vita e agognante a sollevarsi pur una volta verso l'Idea eterna. — In quell'ora egli non era se non il tramite pel quale la Bellezza porgeva agli uomini, raccolti in un luogo consacrato da secoli di glorie umane, il dono divino dell'oblio. Egli non faceva se non tradurre nei ritmi della parola il linguaggio visibile con cui già in quel luogo gli antichi artefici avevano significato l'aspirazione e l'implorazione della stirpe. E per un'ora quegli uomini dovevano contemplare il mondo con occhi diversi, dovevano sentire pensare e sognare con un'altra anima.

Era il sommo beneficio della Bellezza rivelata; era la vittoria dell'Arte liberatrice su le miserie e su le inquietudini e su i tedii dei giorni comuni; era il felice intervallo in cui cessano le fitte del dolore e del bisogno, e sembrano aprirsi lentamente le chiuse mani del Destino. Egli oltrepassava col pensiero quelle pareti che serravano la palpitante massa in una sorta di ciclo eroico, in una cerchia di rosse triremi e di torri munite e di teorie trionfali. Il luogo ora appariva angusto all'esaltazione del suo sentimento novello; e anche una volta lo attraeva la folla vera, l'immensa folla unanime ch'egli aveva veduto fluttuare dianzi nella conca marmorea e levare alla notte stellata un clamore di cui ella medesima s'inebriava come del sangue o del vino.

Né soltanto verso quella moltitudine ma verso infinite moltitudini andò il suo pensiero; e le evocò addensate in profondi teatri, dominate da una idea di verità e di bellezza, mute e intente dinanzi al grande arco scenico aperto su una meravigliosa trasfigurazione della vita, o frenetiche sotto il repentino splendore irradiato da una parola immortale. E il sogno d'un'arte più alta, levandosi in lui anche una volta, gli dimostrò gli uomini novamente presi di reverenza verso i poeti come verso coloro i quali potevano soli interrompere per qualche attimo l'angoscia umana, placare la sete, largire l'oblio. E troppo gli parve lieve quella prova ch'egli compiva; poichè mosso dal soffio della folla il suo spirito si stimò capace di generare finzioni gigantesche. E l'opera ch'egli nutriva entro di sé, ancora informe, ebbe un fiero sussulto di vita; mentre i suoi occhi vedevano su l'orbe delle costellazioni eretta la Tragica, la musa dalla voce divulgatrice, che pareva portare per lui nelle pieghe delle sue vesti raccolta e muta la frenesia delle moltitudini lontane.

Quasi estenuato dall'incredibile intensità di vita vissuta nella pausa, egli riprese a parlare con un accento più sommesso.

“In tal figura” egli riprese a dire “in tal figura — evidente e reale per me in quell'ora, tanto che quasi mi parve tangibile — chi m'ascolta non vede le analogie che la rendono significativa di cose singolari?

“La mutua passione di Venezia e dell'Autunno, che esalta l'una e l'altro al sommo grado di lor bellezza sensibile, ha origine in una affinità profonda; poichè l'anima di Venezia, l'anima che foggiarono alla Città bella gli antichi artefici, è autunnale.

“Avendo io scoperta la rispondenza tra l'esterno spettacolo e l'interiore, il mio gaudio ne fu moltiplicato indicibilmente. L'immensa moltitudine di forme imperiture, che popola le chiese e i palazzi, rispondeva dalle sue sedi alle armonie della luce diurna con un accordo così pieno e così possente che in breve divenne dominatore. E — poichè la luce del cielo s'avvicenda con l'ombra ma la luce dell'arte dura inestinguibile nell'anima umana — quando cessò nelle cose il prodigio dell'ora, il mio spirito si trovò solo ed estatico tra le magnificenze di un Autunno ideale.

“Tal sembra veramente a me la creazione d'arte compresa tra la giovinezza di Giorgione e la vecchiezza del Tintoretto. Essa è purpurea, dorata, opulenta ed espressiva come la pompa della terra sotto l'ultima fiamma del sole. Se io considero i creatori impetuosi di sì forte bellezza, mi si presenta allo spirito l'imagine che sorge da quel frammento pindarico: — Quando i Centauri conobbero la virtù del vino soave come il miele, che vince gli uomini, súbito respinsero dalle lor mense il bianco latte; e s'affrettarono a bere il vino in corni d'argento... — Nessuno al mondo conobbe e assaporò meglio di loro il vino della vita. Essi ne traggono una lucida ebrietà che moltiplica il lor potere e comunica alla loro eloquenza una energia fecondatrice. E nelle loro creature più belle il battito violento dei loro polsi sembra persistere a traverso i secoli come il ritmo stesso dell'arte veneziana.

“Ah, in che puro e poetico sonno posa la vergine Orsola sul suo letto immacolato! Il più benigno dei silenzii tiene la stanza solitaria ove sembra che le pie labbra della dormiente disegnino la consuetudine della preghiera. Per le porte e per le finestre dischiuse penetra la timida luce dell'alba, e illustra la parola scritta nell'angolo dell'origliere. INFANTIA è la parola semplice, che diffonde intorno al capo della vergine una freschezza simile a quella del mattino: INFANTIA. Dorme la vergine, già fidanzata al principe pagano e promessa al martirio. Non è ella forse, casta, ingenua e fervente, non è ella l'imagine dell'Arte quale la videro i precursori con la sincerità dei loro occhi puerili? INFANTIA. La parola evoca intorno all'origliere gli obliati: Lorenzo Veneziano e Simone da Cusighe e Catarino e Iacobello e Maestro Paolo e il Giambono e il Semitecolo e Antonio e Andrea e Quirizio da Murano e tutta la famiglia laboriosa per cui il colore, che doveva poi divenire emulo del fuoco, fu preparato nell'isola ardente delle fornaci. Ma essi medesimi non avrebber messo un grido di meraviglia nel vedere il flutto di sangue sgorgante dal petto della vergine saettato dal bello arciere pagano? Sì vermiglio sangue in una donzella nutrita di "bianco latte"! È quasi un tripudio la strage: gli arcieri vi recano le armi più elette, le vesti più ornate, i gesti più eleganti, come in un festino. Il chiomadoro che con sì fiero atto di grazia dardeggia la martire non sembra veramente il giovinetto Eros larvato e senz'ali?

“Questo leggiadro uccisore d'innocenze (o forse un fratel suo), deposto l'arco, si abbandonerà domani all'incanto della musica per sognare un sogno di voluttà infinito.

“Ben è Giorgione quegli che infonde in lui l'anima nuova e glie l'accende d'un desiderio implacabile. La musica incantatrice non è la melodia che pur ieri dai liuti angelici si diffondeva per gli archi incurvati su i troni raggianti o si dileguava pel silenzio delle lontananze serene, nelle visioni del terzo Bellini. Sorge ancora al tocco di mani religiose, dall'alveo del clavicordio; ma il mondo ch'ella risveglia è pieno d'una gioia e d'una tristezza in cui celasi il peccato.

“Chi ha veduto il Concerto, con occhi sagaci, conosce un momento straordinario e irrevocabile dell'anima veneziana. Per un'armonia di colore — la cui potenza significativa è senza limiti come il mistero dei suoni — l'artefice ci racconta il primo turbamento di un'anima cupida a cui la vita appare d'improvviso in aspetto d'un retaggio opimo.

“Il monaco che siede al clavicordio e il suo compagno maggiore non somigliano quelli che Vettor Carpaccio figurò fuggenti dinanzi alla fiera ammansita da Girolamo, in San Giorgio degli Schiavoni. La loro essenza è più forte e più nobile; l'atmosfera in cui respirano è più alta e più ricca, propizia alla natività d'una grande gioia o d'una grande tristezza o d'un sogno superbo. Quali note le mani belle e sensitive traggono dai tasti su cui s'indugiano? Magiche note, certo, se valgono a operare nel musico una trasfigurazione così violenta. Egli è nel mezzo della sua esistenza mortale, già distaccato dalla sua giovinezza, già in punto di declinare; ed ecco, ora soltanto la vita gli si rivela ornata di tutti i beni come una foresta carica di pomi purpurei, dei quali le sue mani intente ad altre opere non conobber mai il fresco velluto. Poichè la sua sensualità è sopita, egli non cade sotto il dominio di una sola imagine tentatrice, bensì prova una confusa angoscia in cui il rammarico vince il desiderio; mentre, su la trama delle armonie ch'egli ricerca, la visione del suo passato — quale avrebbe potuto essere e non fu — si compone come un tessuto di chimere. Indovina l'intima tempesta il compagno che già è su la soglia della vecchiezza calmo; e dolce e grave tocca la spalla dell'appassionato con un gesto pacificatore. Ma è pur quivi, emerso fuor della calda ombra come la espressione stessa del desiderio, il giovinetto dal cappello piumato e dalla chioma intonsa: l'ardente fiore d'adolescenza, che Giorgione sembra aver creato sotto un riflesso di quello stupendo mito ellenico donde sorse la forma ideale d'Ermafrodito. Egli è quivi presente ma estraneo, separato dagli altri, come colui che non ha cura se non del suo bene. La musica esalta il suo sogno indicibile e sembra moltiplicare infinitamente la sua potenza di gioire. Egli sa d'esser padrone di quella vita che sfugge ad ambo gli altri, e le armonie ricercate dal sonatore non gli sembrano se non il preludio della sua propria festa. Il suo sguardo è obliquo e intenso, rivolto a una parte come per sedurre non so qual cosa che lo seduca; la sua bocca chiusa è come una bocca che porti la pesantezza d'un bacio non dato ancora; la sua fronte è spaziosa così che non l'ingombrerebbe la più folta delle corone; ma, se io penso alle sue mani nascoste, le imagino nell'atto di frangere le foglie del lauro per profumarsene le dita.”

Le mani dell'animatore resero visibile quell'atto del concupiscente, come se in verità esprimessero l'essenza dalla foglia aromale; e il modo della voce diede alla figura evocata un rilievo così forte che quanti erano giovani ad ascoltare credettero di veder esternato il loro desiderio indicibile, di veder palesato il loro intimo sogno di piacere senza tregua e senza fine. Presi da un turbamento profondo, essi sentivano in loro un'agitazione oscura d'impeti contenuti, e intravedevano nuove possibilità, credevano ormai tangibile una preda già insperata e lontana. Li riconosceva Stelio di qua di là, per tutta la lunghezza dell'aula, addossati ai grandi armarii rossastri ove erano sepolti gli innumerevoli volumi d'una sapienza obliata e inerte. Essi stavano in piedi, occupando gli spazii liberi che correvano in giro; a simiglianza di un orlo vivace, essi parevan limitare la massa compatta; e, come in un drappo che ondeggi al vento le estremità hanno un fremito più gagliardo, così essi tremavano al soffio della poesia.

Li riconosceva Stelio; e ne distingueva taluno dalla singolarità dell'attitudine, dall'eccesso della commozione rivelato nella piega delle labbra o nel battito delle palpebre o nell'ardore delle gote. Su la faccia di taluno, rivolta al vano del balcone aperto, egli indovinava l'incanto della notte autunnale e la delizia della brezza saliente dalla laguna algosa. Gli sguardi di taluno gli indicavano per un raggio d'amore una donna assisa e come abbandonata su sé medesima, quasi indebolita da un godimento segreto, con un indefinibile aspetto di mollezza impura, con un molle viso niveo dove la bocca aprivasi come un alveolo umido di miele.

Egli aveva una strana lucidità per cui le cose gli apparivano con una evidenza insolita come in una allucinazione febrile. Tutto viveva, agli occhi suoi, d'una vita iperbolica: i ritratti dei Dogi ricorrenti in giro tra il serpeggiar bianco dei cartigli respiravano come i vecchi calvi, laggiù in fondo, di cui egli scorgeva ad intervalli il gesto eguale nel tergere le pallide fronti sudate. Nulla gli sfuggiva: non la lacrimazione assidua delle torce pendute ne' cestelli di bronzo che raccoglievano la cera gialla come l'ambra; nè l'estrema finezza d'una mano inanellata che premeva il fazzoletto su labbra dolorose come per lenire un bruciore; nè l'avvolgimento d'una sciarpa leggera intorno a spalle ignude in cui la brezza notturna alitante pei balconi aperti aveva suscitato un brivido di gelo. E tuttavia, mentre notava i mille aspetti momentanei, egli conservava nella sua visione l'imagine totale della smisurata chimera occhiuta dal busto coperto di scaglie splendide, fuor del cui fianco emergeva la musa tragica col capo alzato nell'orbe delle costellazioni.

Il suo sguardo tornava di continuo alla donna promessa, che mostravasi a lui come il fulcro vivente d'un mondo stellare. Egli le era grato di aver scelto un tal modo per apparirgli nell'atto di quella prima comunione. Egli ora non vedeva più in lei l'amante di una notte, il corpo maturato da lunghi ardori, carico di sapere voluttuoso; ma vedeva lo strumento mirabile dell'arte novella, la divulgatrice della grande poesia, quella che doveva incarnare nella sua persona mutevole le future finzioni di bellezza, quella che doveva portare ai popoli nella sua voce indimenticabile la parola risvegliatrice. Non per una promessa di piacere ma per una promessa di gloria egli ora si legava a lei. E l'opera ch'egli nutriva entro di sé, ancora informe, ebbe un altro sussulto.

“Chi m'ascolta” continuò “chi m'ascolta non vede qualche analogia fra questi tre simboli giorgioneschi e le tre generazioni, viventi a un tempo, che illumina l'aurora del secolo nuovo? Venezia, la città trionfante, si rivela ai loro occhi come un grande apparato per un convito oltrapiacente ove tutta la dovizia raccolta da secoli di guerre e di traffichi sta per essere addótta senza misura. Qual più ricca fonte di voluttà potrebbe aprire la vita al desiderio insaziabile? È un'ora di turbamento e quasi di vertigine, che vale per la sua plenitudine un'ora di violenza eroica. Voci e risa incitatrici sembrano giungere dai colli asolani ove regna in delizia la figliuola di San Marco, Domina Aceli, che rinvenne in un mirteto di Cipro il cinto di Afrodite. Ed ecco l'adolescente dalle belle piume bianche avanzarsi verso il convito come un corifeo seguito dalla sua torma sfrenata, e tutte le forti brame ardere quivi in guisa di doppieri le cui fiamme ecciti senza tregua un vento impetuoso.

“Comincia così quel divino autunno d'arte al cui splendore gli uomini si rivolgeranno sempre con un palpito profondo, finché duri nell'anima umana l'aspirazione a trascendere l'angustia dell'esistenza comune per vivere una vita più fervida o per morire di più nobile morte.

“Io veggo Giorgione imminente su la plaga meravigliosa, pur senza ravvisare la sua persona mortale; lo cerco nel mistero della nube ignea che lo circonfonde. Egli appare piuttosto come un mito che come un uomo. Nessun destino di poeta è comparabile al suo, in terra. Tutto, o quasi, di lui s'ignora; e taluno giunge a negare la sua esistenza. Il suo nome non è scritto in alcuna opera; e taluno non gli riconosce alcuna opera certa. Pure, tutta l'arte veneziana sembra infiammata dalla sua rivelazione; il gran Vecellio sembra aver ricevuto da lui il segreto d'infondere nelle vene delle sue creature un sangue luminoso. In verità, Giorgione rappresenta nell'arte l'Epifania del Fuoco. Egli merita d'esser chiamato "portatore di fuoco", a simiglianza di Prometeo.

“Quando considero la rapidità con cui il dono sacro passa d'artefice in artefice e va di colorazione in colorazione rosseggiando, mi sorge spontanea nello spirito l'imagine d'una di quelle lampadeforie con cui gli Elleni vollero appunto perpetuare la memoria del Titano figlio di Iapeto. Nel giorno della festa una torma di giovini cavalieri ateniesi partivasi a gran galoppo dal Ceramico verso Colono; e il duce agitava una fiaccola ch'era stata accesa all'ara di un santuario. Spenta dall'impeto della corsa il portatore la consegnava al compagno che la riaccendeva sempre correndo; e questi al terzo, e il terzo al quarto, e così di seguito sempre correndo finché l'ultimo la deponeva rossa ancora su l'altare del Titano. Questa imagine, per quel che ha di veemente, mi significa in qualche modo la festa dei maestri coloritori in Venezia. Ciascuno d'essi, anche il men glorioso, ha tenuto in pugno almeno per un istante il dono sacro. Taluno perfino, come quel primo Bonifacio che bisogna glorificare, sembra aver colto con mani incombustibili l'interno fiore del fuoco.”

Colse egli con le sue dita l'ideal fiore nell'aria, come dalla sommità invisibile dell'onda che l'anima estuosa della chimera mandava verso il poeta da cui ell'era ormai conquisa. E i suoi occhi andarono alla sfera celeste, volendo offrire mutamente quel dono igneo a colei che custodiva laggiù il divino bestiame zodiacale. “A te, Perdita!” Ma la donna sorrideva rivolta a una persona lontana; sorrideva accennando.

Così, nel seguire il filo del sorriso, egli fu condotto alla persona sconosciuta che s'illuminò per lui di repente su un campo d'ombra.

Non era quella forse la creatura musicale il cui nome aveva risonato contro la corazza della nave, nel silenzio e nell'ombra?

Ella quasi gli parve un'imagine interiore, generata a un tratto in quella parte della sua anima ove il fantasma della sensazione subitanea ch'egli aveva ricevuta entrando nell'ombra prodotta dal fianco della nave munita era rimasto come un punto isolato e indistinto.

Per un attimo ella fu bella com'eran belli in lui i pensieri ancora inespressi.

“Una città a cui tali creatori composero un'anima di tal possanza” egli soggiunse, agile su l'onda che saliva “non è oggi considerata, dai più, se non come un grande reliquiario inerte o come un asilo di pace e d'oblio!

“In verità, io non conosco al mondo altro luogo — se non Roma — dove uno spirito gagliardo e ambizioso possa, meglio che su questa acqua torpida, attendere ad incitare la virtù attiva del suo intelletto e tutte quante le energie del suo essere verso il grado supremo. Io non conosco palude capace di provocare in polsi umani una febbre più violenta di quella che sentimmo talvolta venire verso di noi all'improvviso dall'ombra di un canale taciturno. Né colui che meriggia profondato nella messe matura sotto la canicola sente salire alle sue tempie un'onda di sangue più fiera di quella che talvolta offuscò i nostri occhi quando c'inchinammo a cercar troppo intentamente nell'acqua se per avventura vi si scorgesse in fondo qualche antica spada o qualche antico diadema.

“Tuttavia come a un rifugio benigno non vengono qui le anime gracili, e quelle che celano qualche piaga inconfessabile, e quelle che compirono qualche finale rinunzia, e quelle che effeminò un morbido amore, e quelle che non cercano il silenzio se non per sentirsi perire? Forse ai loro pallidi occhi Venezia appare come una clemente città di morte abbracciata da uno stagno soporifero. In vero, la lor presenza non pesa più delle alghe vagabonde che fluttuano presso le scale dei palazzi marmorei. Esse aumentano quel singolare odor di cose malaticce, quello strano odor febrile su cui è così dolce, talvolta, verso sera, dopo una giornata laboriosa, cullare il sentimento della propria pienezza, che talvolta somiglia al languore.

“Pur non sempre l'ambigua indulge all'illusione di coloro che la implorano pacificatrice. Io so di taluno che a mezzo dei suoi riposi sussultò sbigottito come quegli che, giacendo con le dita leni dell'amata su le sue palpebre stanche, udì repentine serpi sibilare nei capelli di costei...

“Ah se io sapessi dire di che prodigiosa vita ella mi par palpitante nelle sue mille cinture verdi e sotto i suoi immensi monili! Ogni giorno ella assorbe la nostra anima: ed ora ce la rende intatta e fresca e tutta nuova quasi direi d'una novità originale su cui domani i vestigi delle cose avranno una ineffabile limpidezza; ed ora ce la rende infinitamente sottile e vorace come un calore che strugge quanto attinge, per modo che talvolta a sera rinveniamo tra le ceneri e le scorie qualche straordinaria sublimazione. Ella ci persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie: lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha gioito.”

Un vago mormorio di dissenso serpeggiò qua e là nell'uditorio, a questa sentenza che parve troppo audace; la Regina scosse lievemente il capo in segno di diniego; alcune dame in uno scambio di sguardi manifestarono l'una all'altra un grazioso orrore. Poi il tutto fu disperso dall'acclamazione giovenile che si levò con impeto da ogni parte verso colui che insegnava con sì schietto ardire l'arte di ascendere per le virtù della gioia alle superiori forme della vita.

Stelio sorrideva riconoscendo i suoi, ch'erano molti; sorrideva riconoscendo l'efficacia del suo insegnamento, che aveva già cacciato da più di uno spirito le nebbie della tristezza inerte e in più d'uno aveva ucciso la viltà delle lacrime vane e in più d'uno aveva infuso per sempre il disprezzo dei lamentosi dolori e delle compassioni molli. Egli era lieto d'aver enunciato anche una volta il principio della sua dottrina, che scaturiva naturalmente da quell'anima d'arte ch'egli stava glorificando. E quelli che s'eran tratti in un eremo per adorare un fantasma triste che sol viveva nello specchio dei loro occhi appannato; e quelli che s'eran creati re d'una reggia senza finestre, ove aspettavano da tempo immemorabile una Visitazione; e quelli che di sotto a una ruina avevan creduto disseppellire il simulacro della Bellezza, e non era se non una sfinge corrosa che li travagliava coi suoi enigmi senza fine; e quelli che ogni sera si mettevano su le loro soglie per veder giungere lo straniero misterioso dal mantello gonfio di doni, e pallidi ponevano l'orecchio contro la terra per udire il passo che sembrava avvicinarsi e poi dileguare: quanti insomma un cordoglio rassegnato steriliva o divorava un orgoglio disperato, quanti indurava una pertinacia inutile o rendeva insonni un'attesa di continuo delusa, tutti egli avrebbe ora voluto chiamare a riconoscere i loro mali sotto lo splendore di quell'anima antica e pur sempre novella.

“In verità,” egli disse con suono di esultanza “se tutto il popolo emigrasse abbandonando le sue case, attratto oggi da altri lidi come già la sua eroica giovinezza fu tentata dall'arco del Bosforo al tempo del doge Pietro Ziani, e nessuna preghiera più percotesse l'oro sonoro dei mosaici concavi, e nessun remo più perpetuasse col suo ritmo la meditazione della muta pietra, Venezia rimarrebbe pur sempre una Città di Vita. Le creature ideali che il suo silenzio custodisce vivono in tutto il passato e in tutto l'avvenire. Noi discopriamo in loro sempre nuove concordanze con l'imminente edifizio dell'Universo, riscontri inattesi con l'idea che nacque ieri, chiari annunzii di ciò che in noi non è se non un presentimento, aperte risposte a ciò che noi non osiamo chiedere ancora. Esse sono semplici e tuttavia cariche di significazioni innumerevoli; sono ingenue e tuttavia vestite di tuniche speciose. Se noi le contemplassimo per un tempo indefinito, esse non resterebbero mai dal versare nel nostro spirito verità dissimiglianti. Se noi le visitassimo ogni giorno, esse ogni giorno ci apparirebbero in un aspetto impreveduto, come i mari, i fiumi, i prati, i boschi, le rupi. Talvolta le cose ch'esse ci dicono non giungono fino al nostro intelletto, ma si rivelano a noi per una specie di confusa felicità in cui la nostra sostanza sembra fremere e dilatarsi dall'imo. In qualche mattino limpido esse ci indicheranno il cammino che conduce alla foresta remota ove la Bella ci attende da tempo immemorabile sepolta nella sua mistica chioma.

“Donde a loro viene lo smisurato potere?

“Dalla pura inconsapevolezza degli artefici che le crearono.

“Questi uomini profondi ignorano l'immensità delle cose ch'essi esprimono. Immersi nella vita con milioni di radici, non come alberi soli ma come vastissime selve, essi assorbono infiniti elementi per trasfonderli e condensarli in specie ideali le cui essenze rimangono a loro ignote come i sapori del pomo al ramo che lo porta. Essi sono i misteriosi tramiti per cui si appaga la perpetua aspirazione della Natura verso i tipi ch'ella non giunge a stampare integri nelle sue impronte. Per ciò, continuando l'opera della divina Madre, la loro mente si trasmuta in una similitudine di mente divina, come dice Leonardo. E, poichè la forza creatrice affluisce alle loro dita come la linfa alle gemme degli alberi incessantemente, essi creano con gioia.”

Tutto il desiderio dell'artefice duro anelante ad ottenere quell'olimpico dono, tutta la sua invidia per quei colossali fabbri della Bellezza non mai stanchi e non mai dubitosi, tutta la sua sete di felicità e di gloria si palesavano nell'accento con cui egli proferì le ultime parole. Di nuovo l'anima della moltitudine era in signoria del poeta, senza contrasto, tesa e vibrante come una sola corda fatta di mille corde, in cui ogni risonanza aveva un prolungamento incalcolabile. Risvegliavasi in lei il sentimento confuso di una verità ch'ella portava dentro oscurata e che il poeta le rivelava a un tratto in forma d'un messaggio inaudito. Ella non si sentiva più estranea in quel luogo sacro, ove una delle più splendide sorti umane aveva lasciato così larghe tracce di splendore; ma sentiva intorno a sé e sotto di sé vivere dall'ime basi la mole secolare come se le memorie, non più immobili nell'ombra del passato, vi circolassero a similitudine di aure libere in una foresta commossa. Ora, nella magica tregua che le davano le virtù della poesia e del sogno, ella sembrava ritrovare in sé stessa i segni indistruttibili delle primitive generazioni, quasi una vaga effigie dell'ascendenza remota, e riconoscere il suo diritto a un antico retaggio di cui fosse stata dispogliata: a quel retaggio che il messaggero le annunciava essere ancora intatto e recuperabile. Ella provava l'ansia di chi sia per ripossedere una ricchezza perduta. E nella notte riscintillante pe' balconi aperti, mentre già apparivano i rossi bagliori dell'incendio che stava per comprendere il bacino sottoposto, pareva diffusa l'aspettazione d'un ritorno predestinato.

Nel sonoro silenzio la voce solitaria giunse all'apogeo.

“Creare con gioia! È l'attributo della Divinità. Non è possibile imaginare al vertice dello spirito un atto più trionfale. Le parole stesse che lo significano hanno la splendidezza dell'aurora.

“E questi artefici creano con un mezzo che è per sé medesimo un mistero gioioso: col colore, che è l'ornamento del mondo; col colore, che sembra esser lo sforzo della materia per divenir luce.

“E il novissimo senso musicale ch'essi hanno del colore fa sì che la lor creazione trascenda i limiti angusti dei simboli figurati e assuma l'alta virtù rivelatrice di un'infinita armonia.

“Mai come dinanzi alle loro ampie tele sinfoniali ci appare evidente la sentenza proferita da quel Vinci a cui la Verità balenò un giorno co' suoi mille volti segreti: — La musica non ha da essere chiamata altro che sorella della pittura. — La lor pittura non è soltanto una poesia muta ma è anche una musica muta. Per ciò i più sottili ricercatori di rari simboli, coloro che più furon curiosi di segnare nella purezza di fronti meditative gli indizii di un interno Universo, ci sembrano quasi aridi al paragone di questi grandi musici inconsapevoli.

“Quando il Bonifacio, nella Parabola del ricco Epulone, intona su una nota di fuoco la più potente armonia di colore in cui siasi mai rivelata l'essenza di un'anima voluttuosa e superba, noi non interroghiamo il sire biondo che ascolta i suoni assiso tra le due cortigiane magnifiche i cui volti splendono come lampade di limpido elettro; ma, trapassando il simbolo materiale, ci abbandoniamo con ansia alla virtù evocatrice dei profondi accordi in cui il nostro spirito sembra oggi trovare il presentimento di non so qual sera grave di belle fatalità e d'oro autunnale su un porto quieto come un bacino d'olio odorifero ove una galera palpitante di orifiamme entrerà con uno strano silenzio come una farfalla crepuscolare nel calice venato di un gran fiore.

“Non la vedremo noi veramente coi nostri occhi mortali, in qualche sera di gloria approdare al Palazzo dei Dogi?

“Non ci appare essa da un orizzonte profetico nell'Allegoria dell'Autunno che il Tintoretto ci offre come una superiore imagine creata del nostro sogno di ieri?

“Seduta su la sponda, in aspetto di deità, Venezia riceve l'anello dal giovine dio pampinifero disceso nell'acqua, mentre la Bellezza si libra nell'aria a volo con un serto di stelle per coronare l'alleanza meravigliosa.

“Guardate il naviglio lontano! Sembra che rechi un annunzio. Guardate i fianchi della Donna simbolica! Sono capaci di portare il germe d'un mondo.”

Il vasto applauso scrosciante fu soverchiato dal clamore giovenile che salì come un turbine verso colui il quale faceva balenare agli occhi inquieti una così grande speranza, verso colui il quale mostrava una così lucida fede nel genio occulto della stirpe, nella virtù ascendente delle idealità trasmesse dai padri, nella sovrana dignità dello spirito, nel potere indistruttibile della Bellezza, in tutti gli alti valori dalla novissima barbarie tenuti a vile. I discepoli si protendevano verso il maestro con effusione di riconoscenza, con impeto d'amore; poichè il verbo ardente aveva acceso le loro anime come faci, eccitando il senso della vita sino alla febbre. In ciascuno d'essi riviveva la creatura di Giorgione, l'adolescente dalle belle piume bianche nell'atto di avanzarsi verso l'immensa preda accolta; e sembrava in ciascuno d'essi infinitamente moltiplicata la potenza di gioire.

Il loro grido era così espressivo dell'interno tumulto, che l'animatore ne tremò a dentro e fu attraversato da un flutto subitaneo di tristezza pensando alla cenere di quel fuoco fugace, pensando ai crudeli risvegli del giorno venturo. Contro quali ostacoli aspri e ignobili doveva infrangersi quel terribile desiderio di vivere, quella violenta volontà di foggiare pel proprio fato le ali della Vittoria e di intendere tutte le energie dell'essere verso il grado sublime!

Ma la notte favoriva il delirio giovenile. Tutti i sogni di dominazione, di voluttà e di gloria che Venezia aveva cullati e poi soffocati nelle sue braccia di marmo, tutti risuscitavano dalle fondamenta del palagio, entravano per i veroni aperti, palpitavano come un popolo rivivente, sotto le enormi volute di quel cielo ricco e greve quale un pensile tesoro. La forza che per l'ampia volta e su l'alte pareti gonfiava le musculature dei numi dei re e degli eroi effigiati, la bellezza che nelle nudità delle iddie delle regine e delle meretrici effigiate fluiva come una musica visibile, la forza e la bellezza umane trasfigurate da secoli di arte si armonizzavano in un simulacro unico che gli ebri credevano avere innanzi agli occhi reale e respirante, eretto quivi dal poeta nuovo.

Esalavano essi la loro ebrietà nel grido verso colui che aveva offerto alle loro labbra sitibonde la coppa del suo vino. Tutti vedevano ormai la fiamma inestinguibile a traverso il velo dell'acqua. Taluno già imaginava sé nell'atto di frangere le foglie del lauro per profumarsene le dita; e taluno già era deliberato di ritrovare in fondo a qualche canale taciturno l'antica spada e l'antico diadema.

Ora, nelle stanze del Museo attigue, Stelio Èffrena era rimasto solo con le statue, insofferente d'ogni altro contatto, bisognoso di raccogliersi e di sedare in sé quella insolita vibrazione per cui tutta la sua essenza eragli parsa diffusa e come dissipata a traverso l'anima innumerevole. Delle recenti parole non scorgeva egli traccia nella memoria; delle recenti imagini non scorgeva segno. Soltanto gli persisteva nel mezzo dello spirito quel “fiore del fuoco” ch'egli aveva suscitato in gloria del primo Bonifacio e aveva colto con le sue stesse dita incombustibili per offerirlo alla donna promessa. Egli ripensava come in quell'attimo dell'offerta spontanea la donna si fosse ritratta e nel luogo dello sguardo assente egli avesse trovato il sorriso indicatore. Sembrò che la nuvola dell'ebrezza, nel punto d'involarsi, si condensasse di nuovo in lui prendendo la forma vaga della creatura musicale e che questa tenendo il fiore del fuoco in un'attitudine dominatrice emergesse su l'agitazione ulteriore come sul tremolio incessante d'un mare d'estate. A celebrar quell’imagine gli giunsero dall'aula prossima le prime note della Sinfonia di Benedetto Marcello, il cui movimento fugato rivelava sùbito il carattere del grande stile. Un'idea sonora, nitida e forte come una persona vivente, sviluppavasi secondo la misura della sua potenza. Ed egli riconobbe in quella musica la virtù di quel principio medesimo intorno a cui, come intorno a un tirso, egli aveva avvolto le ghirlande della sua poesia.

Allora il nome che già aveva risonato contro la corazza della nave nel silenzio e nell'ombra, quel nome che nell'immensa onda delle campane crepuscolari erasi perduto come una foglia sibillina, propose per lui all'orchestra le sue sillabe in guisa d'un tema nuovo che raccolsero gli archi. I violini, le viole, i violoncelli lo cantarono a gara; gli squilli improvvisi delle trombe eroiche lo esaltarono; infine tutto il quartetto lo lanciò con un impeto concorde nel cielo della gioia ove più tardi doveva brillare la corona di stelle offerta ad Arianna da Afrodite d'oro.

Nella pausa, Stelio provò uno smarrimento singolare, quasi uno stupor religioso davanti a quell'annunziazione. Egli comprese quanto valesse per lui, in quell'inestimabile momento lirico, il ritrovarsi solo tra simulacri candidi e muti. Un lembo del medesimo mistero che sotto il fianco della nave munita egli aveva sfiorato come si sfiora un velo fuggitivo, pareva ora ondeggiargli su le ciglia in quella stanza deserta che pure era tanto vicina alla moltitudine umana. — Tace così, sul lido, presso il flutto, una conca marina. — Egli credeva sentire anche una volta, come già in qualche altra ora straordinaria del suo viaggio, la presenza del suo fato che stesse per dare al suo essere un nuovo impulso e per suscitarvi forse una volontà meravigliosa. E, considerando la mediocrità delle mille sorti oscure che pendevano su le teste della folla intente alle apparizioni della vita ideale, egli si compiacque di poter adorare in disparte quella fausta figura demoniaca che veniva a visitarlo quivi segretamente per recargli nel nome d'un'amante incognita un dono involuto.

Trasalì, allo scoppio delle voci umane che salutavano con un'acclamazione trionfale il dio invitto.

Viva il forte, viva il grande..

L'aula profonda rimbombò come un vasto timpano percosso; e il rimbombo si dilatò per la Scala dei Censori, per la Scala d'Oro, per gli anditi, per gli atrii, per i vestiboli, per le logge, sino ai Pozzi, sino alle fondamenta del palagio, come un tuono d'allegrezza tonante nella notte serena.

Viva il forte, viva il grande

Vincitor dell'Indie dome!

Veramente pareva che il Coro salutasse l'apparizione del dio magnifico evocato dal poeta su la Città anadiomene. Pareva che i lembi delle sue porpore fremessero in quelle note vocali come fiamme in canne di cristallo. L'imagine vivente ondeggiava sospesa su la folla che la nutriva del suo proprio sogno.

Viva il forte, viva il grande...

Nell'impetuoso movimento fugato i bassi, i contralti, i soprani ripetevano l'acclamazione frenetica all'Immortale dai mille nomi e dai mille serti “nato su letti ineffabili”, “simile a un giovine nella prima adolescenza”. Tutta l'antica ebrietà dionisiaca pareva risorgere e diffondersi da quel Coro divino. La pienezza e la freschezza della vita nel sorriso di Lieo, di colui che scioglie dagli affanni il cuore degli uomini, vi si esprimevano con un getto luminoso di gioia. Le faci inestinguibili delle Bassaridi vi fiammeggiavano e vi crepitavano. Come nell'inno orfico, un riflesso d'incendio vi illuminava la fronte giovenile coronata dai capelli cerulei. “Quando lo splendor del fuoco invase tutta la terra, egli solo incatenò i turbini striduli della fiamma.” Come nell'inno omerico, vi palpitava il grembo sterile del mare, vi echeggiava la percossa misurata dei remi numerosi che spingevano la nave ben construtta verso le terre ignote. Il Florido, il Fruttifero, il Rimedio visibile ai mortali, il Fior sacro, l'Amico del piacere, Dioniso liberatore riappariva d'improvviso in conspetto degli uomini su le ali del canto, per essi coronava di felicità quell'ora notturna come un calice colmo, ad essi poneva innanzi novellamente tutti i beni sensibili della vita.

Il canto cresceva di forza; le voci si fondevano nell'impeto. L'inno celebrava il domator delle tigri, delle pantere, dei leoni e delle linci. Le Menadi parevano gridar quivi, col capo riverso indietro, con le chiome effuse, con le vesti discinte, percotendo i cembali, agitando i crotali: — Evoè!

Ma ecco dalla sonorità eroica sorgere a un tratto un largo ritmo pastorale evocante il Bacco Tebano dalla pura fronte cinta di soavi pensieri:

Quel che all'olmo la vite in stretto nodo Pronuba accoppia, e i pampini feconda...

Due sole voci in successione di seste cantavano le nozze arboree, il verde maritaggio, i vincoli flessuosi. L'imagine del naviglio lagunare carico di grappoli come il tino che sta per essere premuto, già creata dalla parola del poeta, passò di nuovo negli occhi della moltitudine. E parve che il canto compisse di nuovo il prodigio del quale fu testimone il prudente pilota Medeide. “Ed ecco un vin dolce e aulentissimo fluì per il negro e veloce naviglio... Ed ecco fino in sommo della vela una vite si svolse; e ne pendevano innumerabili grappoli. E un'edera cupa s'attorceva all'antenna, ed era coperta di fiori; e bei frutti vi nascevano. E tutti gli scalmi dei remi avevano ghirlande...”

Lo spirito della fuga passava allora nell'orchestra, vi si alleggeriva in belle volute, mentre le voci battevano su la trama orchestrale in percussione simultanea. E, come un agile tirso brandito sopra la torma bacchica, una voce sola di nuovo levò la melodia nuziale in cui rideva la grazia del coniugio agreste.

Viva dell'olmo E della vite L'almo fecondo Sostenitor!

Le voci sole davano così imagine di Tiadi alzate che movessero mollemente tra i fumi dell'ebrezza i loro tirsi ornati di corimbi e di pampini, vestite di lunghe vesti crocee, accese in volto e palpitanti come le donne di Paolo che s'inclinavano dai balaustri aerei a bevere il canto.

Ma l'acclamazione eroica risorse con una veemenza finale. Il volto del dio conquistatore ribalenò tra le faci agitate freneticamente. Le voci e l'orchestra all'unisono tonarono in un supremo impeto di giubilo, verso la smisurata chimera occhiuta, sotto il pensile tesoro di quel cielo, in quella cerchia di rosse triremi e di torri munite e di teorie trionfali.

Viva dell'Indie, Viva de ' mari, Viva de ' mostri Il domator!

Stelio Èffrena era venuto su la soglia; per mezzo alla calca che si apriva era penetrato nell'aula; era rimasto in piedi vicino a un fianco del palco occupato dall'orchestra e dai cantori. Egli cercava con gli occhi inquieti la Foscarina presso la sfera celeste, ma senza incontrarla. Il capo della musa tragica non più si ergeva nell'orbe delle costellazioni. — Dov'era ella? Dove s'era ritratta? Era egli veduto da lei senza vederla? — Un'ansietà confusa lo turbava; e le visioni del vespero su le acque gli risorgevano nello spirito confuse, accompagnate dalle parole dell'ultima promessa. Nel guardare i balconi aperti, egli pensò che forse ella era uscita all'aria notturna e che reclinata forse contro la ringhiera ella sentiva passare le onde della musica su la sua nuca gelida godendone come di brividi comunicati da baci tenaci.

Ma l'aspettazione della voce rivelatrice soverchiò in lui ogni altra cura, abolì ogni altra ansietà. Egli s'accorse, d'improvviso, che un silenzio profondo s'era fatto nell'aula, come nell'istante in cui egli aveva dischiuso le labbra a proferire la prima sillaba. Come in quell'istante, il mostro efimero e versatile dai mille volti umani pareva tendersi mutamente e farsi vacuo per ricevere un'anima nuova.

Egli udì intorno a sé qualcuno bisbigliare il nome di Donatella Arvale. Volse gli occhi al palco, di là dai violoncelli che formavano una siepe bruna. La cantatrice rimaneva invisibile, nascosta nella selva delicata e fremente ond'era per salire l'armonia dolorosa che doveva accompagnare la lamentazione d'Arianna.

Un preludio di violini salì allora nel silenzio favorevole. Le viole e i violoncelli unirono a quel ploro supplice un sospiro più profondo. Non era, dopo il flauto frigio e il crotalo berecintio, dopo gli stromenti orgiaci i cui suoni turbano la ragione ed incitano al delirio, non era l'augusta lira dorica, grave e soave, armonico fulcro del canto? Tale dal Ditirambo strepitoso la natività del Drama. La grande metamorfosi del rito dionisiaco — la frenesia della festa sacra convertita nel creatore entusiasmo del tragedo — pareva figurata in quella vicenda musicale. Il soffio igneo del dio tracio aveva dato vita a una forma sublime dell'Arte. La corona e il tripode, decretati in premio alla vittoria del poeta, avevano sostituito il capro lascivo e il canestro di fichi attici. Eschilo, custode di una vigna, era stato visitato dal dio che avevagli infuso il suo spirito di fiamma. Sul fianco dell'Acropoli, presso il santuario di Dioniso, era sorto un teatro di marmo capace di contenere il popolo eletto.

Così, d'improvviso, nell'interno mondo dell'animatore si schiudevano le vie dei secoli prolungandosi per le lontananze dei misteri primitivi. Quella forma dell'Arte, a cui tendeva ora lo sforzo del suo genio attratto dalle aspirazioni oscure delle moltitudini umane, gli appariva nella santità delle sue origini. Il divino dolore di Arianna, saliente come un grido melodioso fuor del Tiaso furibondo, faceva sussultare anche una volta l'opera ch'egli nutriva entro di sé informe ma già vitale. Egli cercò di nuovo con gli occhi su l'orbe delle costellazioni la musa dalla voce divulgatrice. Poichè non la scorse, tornò con gli occhi alla selva degli stromenti onde saliva il gemito.

Allora, di tra gli archi sottili che brillavano come lunghi plettri alzandosi e abbassandosi su le corde con moto alterno, sorse la cantatrice eretta come uno stelo e un poco ondeggiò come uno stelo su l'armonia sommessa. La giovinezza del suo corpo agile e robusto pareva risplendere a traverso il tessuto del suo vestimento come una fiamma a traverso la tenuità di un avorio polito. Alzandosi e abbassandosi intorno alla bianca persona, gli archi parevano trarre la nota dalla musica occulta che era in lei. Quando le sue labbra si incurvarono, Stelio conobbe la purità e la forza della voce non anche modulata, quasi che egli avesse dinanzi agli occhi una statua di cristallo per entro a cui vedesse ascendere la vena d'una fonte viva.

Come mai puoi Vedermi piangere...

La melodia dell'antico amore e dell'antico dolore fluì da quelle labbra con una espressione così pura e così forte che subitamente per l'anima innumerevole si convertì in una misteriosa felicità. Era quello forse il divino pianto della Minoide protesa invano le braccia deluse, dalla riva di Nasso deserta, verso l'Ospite flavo? La favola vaniva, l'inganno del tempo era abolito. L'eterno amore e l'eterno dolore degli iddii e degli uomini si esalavano nella voce sovrana. Il rammarico inutile d'ogni gioia perduta, l'ultimo richiamo dietro ogni bene fuggitivo, l'implorazione suprema verso ogni vela che dilegui nei mari, verso ogni sole che si celi nei monti, e il desiderio implacabile e la promessa della morte passavano nell'alto canto solitario trasmutati per la virtù dell'Arte in essenze sublimi che l'anima poteva ricevere senza soffrire. Le singole parole vi si discioglievano, vi smarrivano ogni significanza, vi si cangiavano in note d'amore e di dolore indefinitamente rivelatrici. Come un cerchio che sia chiuso e che pur si dilati di continuo col palpito medesimo della vita universa, la melodia aveva circompresa l'anima innumerevole che si dilatava con essa in una immensa felicità. Per gli aperti balconi, nella calma perfetta della notte autunnale, il fascino si spandeva su le acque torpide, saliva alle stelle vigilanti, oltre gli alberi immobili dei navigli, oltre le torri sacre abitate dai bronzi ora muti. Negli interludii, la cantatrice chinava il capo giovenile, pareva rimanere esanime come un simulacro, bianca nella selva degli stromenti, tra il moto alterno dei lunghi plettri, forse inconsapevole del mondo che il suo canto in qualche attimo aveva trasfigurato.

Disceso nel cortile celatamente, per sottrarsi alla curiosità importuna, Stelio Èffrena s'era rifugiato in un lembo di ombra; e spiava di là se non apparissero tra la calca in cima alla Scala dei Giganti le due donne, l'attrice e la cantatrice, che dovevano convenire al pozzo.

Egli sentiva la sua aspettazione farsi d'attimo in attimo più ansiosa, mentre gli giungeva il grido immenso che levavasi intorno alle mura esterne del palagio perdendosi nel cielo rischiarato da un riflesso d'incendio. Una gioia quasi terribile pareva propagarsi nella notte, su la Città anadiomene. Pareva che un respiro veemente fosse venuto d'improvviso a dilatare i petti angusti e che una sovrabbondanza di vita sensuale gonfiasse le arterie degli uomini. La ripresa del Coro bacchico, celebrante la corona di stelle cinta da Afrodite al capo oblioso di Arianna, quell'alto inno di gloria seguito dal supremo clamore orgiastico del Tiaso, aveva suscitato il grido della folla addensata sul Molo, sotto i balconi aperti. Nell'elevazione finale, unisona, su la parola “Viva!” al Coro delle Menadi, dei Satiri e degli Egipani aveva risposto il coro popolare come un'eco formidabile nel bacino di San Marco. Ed era parso che in quel punto il delirio dionisiaco, memore delle antiche selve arse nelle notti sacre, avesse dato il segnale dell'incendio in cui doveva risplendere ultimamente la bellezza di Venezia.

Il sogno di Paris Eglano balenò al desiderio di Stelio: — lo spettacolo delle fiamme portentose offerto all'amore sul letto galleggiante. L'imagine di Donatella Arvale persisteva nelle sue pupille: — l'agile persona giovenile, dalle reni falcate e possenti, fuor della selva sonora, tra il moto alterno dei plettri che parevan trarre la nota dalla musica occulta ch'era in lei. Ed egli, con una strana angoscia su cui passava quasi un'ombra di orrore, evocò l'imagine dell'altra: — avvelenata dall'arte, carica di sapere voluttuoso, col gusto della maturità e della corruzione nella bocca eloquente, con l'aridezza della vana febbre nelle mani che avevano spremuto il succo dei frutti ingannevoli, con i vestigi di cento maschere sul viso che aveva simulato il furore delle passioni mortali. In quella notte alfine, dopo il lungo desiderio intermesso, egli doveva ricevere il dono di quel corpo non più giovine, ammollito da tutte le carezze e rimasto ancóra sconosciuto per lui. Come aveva egli palpitato e tremato, pur dianzi, al fianco della donna taciturna, navigando verso la città bella, su l'acqua che pareva per entrambi scorrere in una clessidra spaventosa! Ah, perchè ora ella gli veniva incontro accompagnata dall'altra tentatrice? Perchè poneva ella accanto alla sua sapienza disperata il puro splendore di quella giovinezza?

Con un palpito profondo, egli scorse in sommo della scala marmorea al lume delle fiaccole fumide la figura della Foscarina così stretta a quella di Donatella Arvale, nella ressa, che l'una si confondeva con l'altra in un medesimo biancheggiare. Le seguì con lo sguardo giù per i gradini, sospeso come se elle ad ogni tratto ponessero il piede sul margine di un abisso. L'ignota in quelle brevi ore aveva già vissuto entro di lui una vita fittiva così intensa che, vedendola avvicinarsi, egli provava un turbamento non dissimile a quello che avrebbe provato vedendosi d'improvviso venire incontro l'incarnazione spirante d'una delle creature ideali génite dalla sua arte.

Ella discendeva con lentezza, nell'onda umana che il suo canto aveva sollevato per alcuni attimi al vertice della felicità. Dietro di lei, il Palazzo dei Dogi attraversato da larghi chiarori e da confusi strepiti dava imagine d'uno di quei risvegli favolosi che di repente trasfigurano nelle foreste le reggie inaccessibili ove qualche chioma regale cresceva sola nei secoli nutrita dal silenzio come un salice eterno su un fiume letèo. I due Giganti custodi rosseggiavano al rossor delle faci; la cuspide della Porta Dorata brillava di fiammelle; di là dall'ala settentrionale le cinque cupole della Basilica regnavano nel cielo come vaste mitre tempestate di crisòliti. E l'immenso clamore saliva saliva per l'adunazione dei marmi, gagliardo come il mugghio della procella contro le muraglie di Malamocco.

In tale tumulto di festa inaudito, in tal contrasto d'insolite apparenze, Stelio Èffrena vedeva venire al suo desiderio le due tentatrici, entrambe escite dalla folla come dall'amplesso d'un mostro. Straordinarie promiscuità gli fingeva il desiderio, le quali egli credeva potessero avverarsi con la facilità dei sogni e con la solennità delle cerimonie liturgiche. Egli pensò che Perdita gli conducesse innanzi quella magnifica preda per un fine recondito di bellezza, per qualche alta opera vitale di cui volesse ella medesima esser l'artefice con lui. Egli pensò che Perdita gli avrebbe parlato nella notte stupende parole. E gli ripassò su lo spirito la malinconia indefinibile ch'egli aveva provato nel chinarsi sul margine di bronzo a guardare in quel cupo specchio interiore il riflesso delle stelle; e s'aspettò un evento il quale movesse, nell'ultima profondità del suo essere, quell'anima segreta che a simiglianza di quello specchio d'acqua rimaneva immota estranea ed intangibile. Dall'accelerazione vertiginosa dei suoi pensieri comprese ch'egli trovavasi nello stato di grazia, nell'imminenza di quel divino delirio che soltanto potevano dargli le virtù della laguna. E dall'ombra andò incontro alle due donne, con un presentimento inebriante.

— Oh, Èffrena, — disse la Foscarina, giungendo al pozzo — non speravo più di trovarvi qui. Abbiamo indugiato molto, è vero? Ma siamo rimaste prese nella folla, senza scampo...

Soggiunse, sorridendo, volgendosi alla compagna:

— Donatella, ecco il Maestro del Fuoco.

Senza parlare, ma sorridendo, Donatella Arvale rispose al profondo inchino di Stelio.

Soggiunse la Foscarina traendola seco:

— Bisogna che andiamo in cerca della gondola. Ci aspetta al Ponte della Paglia. Venite con noi, Èffrena? Bisogna profittare del momento. La folla si precipita verso la Piazzetta. La Regina esce dalla Porta della Carta.

Un lungo grido concorde salutò l'apparizione della Regina bionda e perlata in cima alla Scala dove un tempo il Doge eletto riceveva l'insegna ducale alla presenza del popolo. Anche una volta il nome del bianco fiore stellare e della perla purissima fu ripetuto agli echi del marmo. Folgori di gioia crepitarono nel cielo. Mille colombe ardenti s'involarono dai pinnacoli di San Marco, messaggere del Fuoco.

— L'Epifania del Fuoco! — esclamò la Foscarina, uscendo sul Molo, dinanzi allo spettacolo allucinante.

E al suo fianco Donatella Arvale e Stelio Èffrena si arrestarono, attoniti; e si guardarono con gli occhi abbagliati. E i loro volti splendevano accesi dai riflessi, come se fossero chini su una fornace o su un cratere.

Tutte le apparenze innumerevoli del Fuoco volatile e versicolore si spandevano pel firmamento, strisciavano su l'acqua, si avvolgevano alle antenne delle navi, inghirlandavano le cupole e le torri, ornavano le trabeazioni, fasciavano le statue, gemmavano i capitelli, arricchivano ogni linea, trasfiguravano ogni aspetto delle architetture sacre e profane nella cui chiostra il bacino profondo era come uno specchio malioso che moltiplicava le meraviglie. Attoniti gli occhi non più distinguevano i confini e le qualità degli elementi ma erano illusi da una visione mobile e smisurata ove tutte le forme vivevano d'una vita lucida e fluida, sospese in un etere vibrante; così che le snelle prore ricurve su l'acqua e le miriadi di colombe d'oro pel cielo sembravano gareggiar di leggerezza nel volo consimile e attingere le sommità degli edifizii immateriali. Era veramente un tempio edificato dai genii alacri del Fuoco quello che nel crepuscolo era parso un argenteo palagio nettunio construtto a similitudine delle tortili forme marine. Era veramente, ingigantita, una di quelle dimore labirintee fondata sul ferro degli alari, alle cui cento porte appaiono i presagi bifronti e fanno gesti ambigui alla vergine che spia; era, ingigantita, una di quelle fragili reggie vermiglie alle cui mille finestre s'affacciano per un istante le principesse salamandre e ridono voluttuosamente al poeta che medita. Rosea come una luna occidua raggiava su la triplice loggia contigua la sfera della Fortuna portata dagli omeri degli Atlanti; e nasceva dal suo riflesso un ciclo di satelliti. Dalla Riva, da San Giorgio, dalla Giudecca, con un crepitìo continuo, fasci ignei di steli convergevano all'alto e vi si schiudevano in rose, in gigli, in palme, in paradisiaci fiori, formando un giardino aereo che struggevasi e rinnovellavasi di continuo con fioriture sempre più ricche e strane. Era come una vicenda rapida di primavere e di autunni superni. Una immensa pioggia favillante di petali e di frondi cadeva dalle dissoluzioni celesti e avvolgeva tutte le cose nel suo tremolìo d'oro. Scorgevasi lungi, verso la laguna, per entro gli squarci che s'aprivano in quel folto, avanzarsi una flotta pavesata: una torma di galere simiglianti forse a quelle che navigano nel sogno del lussurioso dormente il suo ultimo sonno in un letto pregno di profumi mortali. Come quelle, forse, esse portavano cordami composti con le capellature rattorte delle schiave predate nei paesi di conquista, tuttavia stillanti d'olio soave; come quelle, avevano le stive cariche di mirra, di spicanardo, di belzuino, di eleomele, di cinnamomo, di tutti gli aromati, e di sandalo, di cedro, di terebinto, di tutti i legni odoriferi in varii strati. Gli indescrivibili colori delle vampe, ond'esse apparivano pavesate, evocavano i profumi e le spezie. Azzurre, verdi, glauche, crocee, violacee, di mescolanze indistinte, le vampe sembravano sprigionarsi da un incendio interiore e colorarsi di sconosciute sublimazioni. Non altrimenti avvamparono forse, negli antichi furori del saccheggio, i riposti serbatoi d'essenze destinati a macerar le spose dei principi sirii. Or così, nell'acqua cosparsa delle materie fuse che gemevano per le carene, la flotta magnifica e perduta s'avanzava verso il bacino lentamente, quasi fossero ebri sogni i suoi piloti e la conducessero a consumarsi, in conspetto del Leone stilite, come una gigantesca pira votiva da cui dovesse l'anima di Venezia restar profumata e stupefatta per l'eternità.

— L'Epifania del Fuoco! Quale impreveduto comento alla vostra poesia, Èffrena! La Città di Vita risponde con un prodigio al vostro atto di adorazione. Ella arde tutta, a traverso il suo velo d'acqua. Non siete pago? Guardate! Milioni di melagrane d'oro pendono ovunque.

L'attrice sorrideva, col volto rischiarato dalla festa. Ella sembrava tenuta da quell'allegrezza singolare che era ben nota a Stelio e che, per una specie di stridore sordo, gli dava imagine d'una casa chiusa e profonda ove d'improvviso mani violente aprissero tutte le porte e tutte le finestre su i cardini corrosi.

— Bisogna lodare Arianna — egli disse — per aver portata a questa armonia la nota più alta.

Egli non aveva proferito quelle parole se non per indurre la cantatrice a parlare, se non pel desiderio di conoscere qual fosse il timbro di quella voce discesa dall'elevazione del canto. Ma la sua lode si perse nel clamore iterato della folla che rigurgitò sul Molo e rese impossibile ogni indugio. Dalla riva egli aiutò le due amiche a discendere nella gondola; quindi sedette presso ai loro ginocchi, su lo sgabello. E la lunga prua dentata penetrò nell'incantesimo, scintillando.

— Al rio Marin, pel Canalazzo — ordinò la Foscarina al rematore. — Sapete, Èffrena? Avremo a cena qualcuno dei vostri migliori amici: Francesco de Lizo, Daniele Glauro, il principe Hoditz, Antimo della Bella, Fabio Molza, Baldassare Stampa...

— Avremo dunque un convito — interruppe Stelio.

— Ahimè, non quello di Cana!

— Ma non ci sarà dunque Lady Myrta coi suoi veltri paoleschi?

— Certo, Lady Myrta non mancherà. L'avete vista nella Sala. Era in una delle prime file, perduta in voi.

Poichè parlando si guardavano negli occhi, l'una e l'altro furono invasi da un turbamento subitaneo. E il ricordo della pienissima ora crepuscolare ch'essi avevano vissuta, su l'acqua medesima solcata da quel medesimo remo, riempì i loro cuori come un flutto di sangue torbido; e li sorprese un rapido ritorno di quell'angoscia che avevano provata entrambi nel punto di lasciar dietro di loro il silenzio dell'estuario già in signoria dell'ombra e della morte. E le loro labbra ripugnarono alle vane parole ingannevoli; e le loro anime si sottrassero allo sforzo di inclinarsi per prudenza verso quegli ornamenti passeggeri della vita di festa, cui elle non potevan riconoscere ora alcun pregio assorte nel considerare le strane figure che sorgevano dalle lor profondità con aspetti non mai veduti di mostruosa ricchezza, a simiglianza di quelle adunazioni tesauriche che gli sprazzi di luce scoprivano per entro all'acqua notturna.

Ma, poichè tacquero come quando erano per avvicinarsi al vascello dalla bandiera calante, sentirono più grave sul loro silenzio la presenza della creatura musicale come allora avevan sentito il suo nome; e quella gravezza a poco a poco divenne quasi intollerabile. Pur tuttavia a Stelio, che le era presso i ginocchi, ella appariva

discosta, come dianzi nella selva degli stromenti: discosta e inconsapevole come dianzi nella felicità del canto. Ella non aveva ancora parlato!

Sol per udirla parlare, Stelio le chiese quasi timido:

— Rimarrete ancora qualche tempo a Venezia?

Egli aveva cercato le parole da rivolgerle; e tutte quelle venutegli a fior delle labbra lo avevano turbato, gli erano parse piene di significati ambigui, troppo vive, insidiose, capaci di fecondazioni incalcolabili, come le ignote semenze da cui nascono le mille radici. Ed eragli parso che nessuna di quelle potesse anche essere udita da Perdita senza che l'amore di lei ne rimanesse più triste.

Soltanto dopo aver proferita la domanda semplice e usuale egli s'accorse che pur in questa poteva celarsi un infinito di desiderio e di speranza.

— Dovrò partire domani — rispose Donatella Arvale. — Già non dovrei esser qui.

La sua voce, tanto limpida e forte nelle altezze del canto, era piana, sobria, come soffusa d'una tenue opacità, suggerendo l'imagine del più prezioso metallo avvolto nel più delicato velluto. La sua risposta breve evocava un luogo di supplizio ov'ella dovesse tornare per sottomettersi a una tortura ben nota. Una volontà dolorosa, come un ferro temprato nelle lacrime, scintillò a traverso il velo della sua bellezza giovenile.

— Domani! — esclamò Stelio mostrando il suo rammarico sincero. — Avete udito, signora?

— Lo so — disse la Foscarina prendendo la mano di Donatella con un atto dolce — lo so; ed è una grande tristezza per me il vederla partire. Ma ella non può rimaner troppo tempo lontana dal padre. Voi forse ignorate ancora...

— Che? — domandò Stelio, vivacemente. — È malato? È dunque vero che Lorenzo Arvale è malato?

— No, è stanco — rispose la Foscarina toccandosi la fronte con un gesto forse involontario in cui Stelio vide l'orribile minaccia sospesa sul genio di quell'artefice ch'era parso fecondo e infaticabile come un maestro antico, come un Della Robbia o un Verrocchio. — È solamente stanco... solamente stanco... Ha bisogno di riposo e di balsami. E il canto di sua figlia è per lui un balsamo senza pari. Non avete fede anche voi, Èffrena, nelle virtù mediche della musica?

— Certo — egli rispose — Arianna ha un dono divino, per cui il suo potere trascende ogni limite.

Il nome di Arianna gli veniva spontaneo alle labbra per indicare la cantatrice quale egli la vedeva; poichè sembravagli di non poter far precedere il nome vero della fanciulla dall'appellativo ordinario che impongono le consuetudini mondane. Egli la vedeva integra e singolare, libera dai piccoli legami del costume, vivente d'una vita propria e circonscritta, simile a un'alta opera su cui lo stile abbia impresso il suo suggello inviolabile. Egli la vedeva isolata, come quelle figure che risaltano per un contorno approfondito e netto, estranea alla vita comune, fissa in un suo pensiero segretissimo; e provava già, dinanzi all'intensità di quel raccoglimento, una specie di appassionata impazienza non dissimile a quella dell'uomo curioso dinanzi a una chiusura ermetica che lo tenti.

— Arianna aveva per le sue pene il dono dell'oblìo — ella disse — che a me manca.

Un'amarezza forse involontaria tingeva le sue parole; in cui parve a Stelio di scoprire l'indizio d'una aspirazione verso una vita meno oppressa dal dolore inutile. Egli divinò in lei, per un rapido intuito, lo sdegno contro la schiavitù, l'orrore del sacrificio a cui pareva costringersi, il desiderio veemente di elevarsi verso la gioia, e l'attitudine ad esser tesa come un bell'arco da una mano forte che sapesse armarsene per un'alta conquista. Divinò ch'ella non aveva ormai più speranza per la salvezza del padre e ch'ella si doleva di non essere ormai se non la custode di un focolare estinto, di una cenere senza faville. E l'imagine del grande artefice fulminato gli apparve non quale era, poichè egli non ne aveva mai conosciuta la larva caduca, ma quale glie la fingevano le idee di bellezza espresse dal genio di lui nel marmo e nel bronzo duraturi. Ed egli la guardò fissamente, con un'angoscia di terrore più gelida di quella che inspirano i più atroci aspetti della morte. E tutta la sua forza e tutto il suo orgoglio e tutti i suoi desiderii parvero risonare in lui come un fascio d'armi squassato da una mano minacciosa; e non vi fu fibra che in lui non ne tremasse.

Allora la Foscarina sollevò quel drappo funebre che a un tratto aveva mutato la gondola in una bara, tra gli splendori della festa.

— Guardate là, Èffrena, — disse ella accennando al balcone della casa di Desdemona — la bella Nineta che riceve l'omaggio della Serenata, tra la sua scimmia e la sua cagnolina.

— Ah, la bella Nineta! — esclamò Stelio scotendo da sé il pensiero tristo, inchinandosi verso il balcone ridente, mandando con una vivacità cordiale il suo saluto alla piccola donna che ascoltava i musici illuminata da due candelabri d'argento ai cui viticci erano appese le ghirlande delle ultime rose. — Non l'avevo ancora riveduta. Ella è il più dolce e il più grazioso animale ch'io mi conosca. Che fortuna ebbe quel caro Hoditz quando la scoprì dietro il coperchio d'un arpicordo, mentre rovistava una bottega d'anticaglie a San Samuele. Due fortune in un giorno: la bella Nineta e un coperchio dipinto dal Pordenone. Da quel giorno l'armonia della sua vita fu piena. Come vorrei che voi entraste nel suo nido! Avreste un esempio veramente mirabile di ciò che io vi diceva oggi, al tramonto. Ecco un uomo che, obbedendo al suo gusto nativo della tenuità, ha saputo comporsi con un'arte minuziosa la sua favoletta in cui vive beato come il suo avo moravo nell'Arcadia di Rosswald. Ah, quante squisite cose io so di lui!

Una larga peota, ornata di lanterne variopinte, carica di musici e di cantori, stava ferma sotto la casa di Desdemona. La canzone antica della gioventù breve e della bellezza passeggera saliva dolcemente verso la piccola donna che ascoltava sorridendo del suo sorriso infantile tra la sua scimmia e la sua cagnolina, come in una stampa di Pietro Longhi.

Do beni vu ghavé, Beleza e zoventù; Co i va no i torna più, Nìna mia cara...

— Non vi sembra che sia questa la vera anima di Venezia e che quella da voi figurata alla folla non sia se non la vostra, Èffrena? — disse la Foscarina dondolando un poco il capo nel ritmo della molle melodia che fluiva per tutto il Canal Grande ripetuta in lontananza dalle altre barche canore.

— No, non è questa — rispose Stelio. — È dentro di noi, vagante come una farfalla volubile su per la superficie della nostra anima profonda, un'animula, un esiguo spirito giocoso che spesso ci seduce e ci persuade a inclinarci verso i piaceri blandi e mediocri, verso i passatempi puerili, verso le musiche facili. Quest'animula vagula è pur nelle nature più gravi e più violente, come quel clown addetto alla persona di Othello; e talvolta inganna il giudizio. Voi udite ora canterellare su le chitarre l'animula di Venezia; ma l'anima vera non si discopre se non nel silenzio e più terribilmente — siatene certa — nella piena estate, di mezzogiorno, come il gran Pan. Pur tuttavia, là, sul bacino di San Marco, dianzi, io credeva che voi l'aveste sentita per qualche attimo vibrare nell'immenso incendio. Voi dimenticate Giorgione per la Rosalba!

Intorno alla peota canora s'assembravano i battelli pieni di donne languide che si piegavano verso la musica con attitudini d'abbandono come sul punto di venir meno fra braccia invisibili. E, intorno a quella voluttà accolta, le lanterne rispecchiate dall'acqua tremolavano come una fiorita di luminose ninfee multicolori.

Se lassarè passar La bela e fresca età, Un zorno i ve dirà Vechia mauro; E bramarè, ma invan, Quel che ghavevi in man Co avè lassà scampar La congiontura.

Era veramente la canzone delle ultime rose che s'appassivano tra i viticci dei candelabri. Evocava nell'anima di Perdita il corteo dell'Estate defunta, l'involucro opalino in cui Stelio aveva chiuso il dolce cadavere vestito di oro. Ella vedeva l'imagine di sé a traverso il vetro suggellato dal Maestro del Fuoco, in fondo alla laguna, su la prateria d'alghe. Un gelo improvviso le occupò tutte le membra; di nuovo la strinsero l'orrore e il disgusto del suo corpo non più giovine. E ricordando la promessa recente, pensando che l'amato avrebbe potuto in quella notte medesima chiederle l'adempimento, di nuovo ella si contrasse tutta nel fremito di un pudore doloroso, misto di paura e d'orgoglio. I suoi occhi esperti e disperati percorsero la persona che le stava al fianco, la ricercarono, la penetrarono, ne sentirono la forza occulta ma certa, la freschezza intatta, la sanità pura, e quella indefinita virtù d'amore che tramandano come un aroma i corpi casti delle vergini quando hanno attinto la perfezione del lor fiorire. Le parve di riconoscere l'affinità segreta che già correva tra quella creatura e l'animatore; le parve d'indovinare le parole ch'egli le rivolgeva in silenzio. Un'angoscia atroce la morse nel mezzo del petto, intollerabile, così che le sue dita convulse si aggrapparono alla corda nera del bracciale con un gesto involontario e s'udì stridere il piccolo grifo di metallo che la reggeva.

Non sfuggì a Stelio quel gesto, vigilando egli inquieto. Comprese quell'angoscia estrema e la patì acutissima egli medesimo per qualche attimo ma commista a una impazienza quasi irosa poichè essa attraversava e interrompeva come un grido distruttore una finzione di vita trascendente ch'egli stava componendo in sé per conciliare il contrasto, per conquidere quella forza nuova che gli si presentava come un arco da tendere e per non perdere il sapore di quella maturità che la vita aveva impregnata di tutte le sue essenze, il beneficio di quell'attenzione e di quella fede appassionate da cui il suo intelletto era acuito come da un farmaco incensivo e il suo orgoglio era nutrito come da una continua lode. “Ah Perdita” egli pensava “perchè dal fermento dei vostri innumerevoli amori umani non s'è sprigionato un puro spirito d'amore più che umano? Ah, perchè ho io voluto finalmente vincervi col mio desiderio, se bene sappia che è troppo tardi, e perchè lasciate voi che io legga nei vostri occhi la certezza del prossimo dono tra un flutto di dubbii che non più varranno a risollevare il divieto abolito? Ben conoscendo entrambi che in quel divieto era tutta la nobiltà della nostra lunga comunione, noi non abbiamo saputo preservarlo; e cederemo ciecamente nell'ultima ora al comando di una torbida voce notturna. Pur dianzi, quando il vostro capo s'alzava nell'orbe delle costellazioni, io non ho più veduto in voi l'amante carnale ma la musa divulgatrice della mia poesia; e tutta la gratitudine della mia anima è venuta a voi per la promessa della gloria, non per la promessa del piacere. Non avete voi compreso come sempre? Con una meravigliosa invenzione, come sempre, non avete voi condotto pel raggio del vostro sorriso il mio desiderio verso una giovinezza splendente che voi mi avevate eletta e riserbata? Discendendo insieme a quella per la grande scala e venendo verso di me, non avevate voi l'aspetto di chi porta un dono o un annunzio inatteso? Non inatteso forse, Perdita, non inatteso; perchè qualche straordinario atto io mi attendeva dalla vostra sapienza infinita...”

— Com'è felice la bella Nineta tra la sua scimmia e la sua cagnolina! — sospirò la donna disperata volgendo indietro il capo verso la canzone facile e il balcone ridente.

La zoventù xe un fior Che apena nato el mor, E un zorno gnanca mi No sarò quela.

Anche Donatella Arvale volse indietro il capo, e con lei Stelio Èffrena. Senza affondare, il naviglio leggiere portava quel pesante destino dai tre volti su l'acqua e su la musica.

E vegna quel che voi, Lasse che vaga!

Per tutto il Canal Grande, ripetuta in lontananza da tutte le barche, scorreva la melodia del piacere fuggevole. Affascinati dal ritmo, anche i servi del remo unirono le loro voci al coro giocondo. Quella gioia ch'era parsa terribile all'animatore, nel primo grido della folla addensata sul Molo, ora s'attenuava, illasciviva, fioriva di giochi e di grazie, si faceva mite e indulgente. L'animula di Venezia ripeteva il ritornello della vita obliosa pizzicando le chitarre e danzando tra i festoni di lanterne.

E vegna quel che vol, Lassé che vaga!

A un tratto, dinanzi il palazzo rosso dei Foscari, nella curva del canale, un gran bucentorofiammeggiò come una torre che s'incendii. Nuove folgori crepitarono nel cielo. Nuove colombe ardenti s'involarono dal cassero, sorpassarono le altane, strisciarono giù pei marmi, si agitarono stridendo su l'acqua, vi si moltiplicarono per faville innumerevoli, vi galleggiarono fumigando. Lungo i parapetti, su pei castelli, a poppa, a prua, con una esplosione simultanea, mille fontane di fuoco s'apersero, si dilatarono, si mescolarono, illuminarono d'un violento rossore il canale dall'una parte e dall'altra, fino a San Vitale, fino a Rialto. Il bucentoro disparve alla vista, trasmutato in una nube purpurea e tonante.

— Per San Polo, per San Polo! — gridò la Foscarina al rematore, chinando il capo come sotto a una tempesta, difendendo con le palme i suoi orecchi dal tuono.

E Donatella Arvale e Stelio Èffrena si guardarono di nuovo con gli occhi abbagliati. E i loro volti splendevano accesi dai riflessi come se fossero chini su una fornace o su un cratere.

La gondola entrò nel rio di San Polo, s'insinuò nell'ombra. Un subito velo di gelo cadde su i tre taciturni. Sotto l'arco del ponte le anime riudirono la cadenza del remo; e lo strepito della festa parve infinitamente remoto. Tutte le case erano oscure; il campanile era muto e solo fra le stelle; il campiello del Remer, il campiello del Pistor erano deserti, e l'erba vi respirava in pace; gli alberi, soverchiando le mura dei piccoli orti, sentivano morire le foglie su i rami alzati verso il cielo sereno.

— Almeno per qualche ora dunque, a Venezia, il ritmo dell'arte e il polso della vita han riavuto un medesimo battito — disse Daniele Glàuro sollevando su la mensa il suo calice a cui mancava la patèna sacra. — Mi sia concesso di esprimere, anche per un gran numero di assenti, la riconoscenza e il fervore che confondono in una sola imagine di bellezza le tre persone a cui dobbiamo il miracolo: la signora del convito, la figlia di Lorenzo Arvale e il poeta di Persefone.

— Perchè anche la signora del convito, Glàuro? — domandò sorridendo la Foscarina con una grazia attonita. — Anch'io, come voi, non ho dato ma ho ricevuto gioia. Bisogna incoronare Donatella e il donatore. La gloria va ad entrambi.

— Ma la vostra presenza silenziosa, nella Sala del Maggior Consiglio, dianzi, presso la sfera celeste, — rispose il dottor mistico — non era meno eloquente della parola di Stelio, nè meno musicale del canto di Arianna. Anche una volta voi avete scolpito divinamente nel silenzio la vostra propria statua, che vive nel nostro ricordo con la parola e col canto.

Stelio Èffrena, per un brivido occulto e profondissimo, rivide il mostro efimero e versatile fuor del cui fianco emergeva la musa tragica dal capo alzato nell'orbe delle costellazioni.

— È vero! È vero! — esclamò Francesco de Lizo. — Anch'io ho questo pensiero. Chi vi guardava vi riconosceva come il centro vivente di quel mondo ideale che ognuno di noi — di noi fedeli, di noi prossimi — sentiva formarsi dalle sue stesse aspirazioni ascoltando la parola, il canto e la sinfonia.

— Ognuno di noi — disse Fabio Molza — sentiva che nella vostra figura dominante su la folla, incontro al poeta, era un significato insolito e grandissimo.

— Sembrava che voi sola foste per assistere alla nascita misteriosa di un'idea nuova — disse Antimo della Bella. — Tutto intorno sembrava animarsi per generare quell'idea, che presto sarà a noi rivelata, se ci valga l'averla attesa con tanta fede.

L'animatore, con un altro brivido, sentì sussultare entro di sé l'opera ch'egli nutriva, ancora informe ma già vitale; e tutta la sua anima si inclinò con un moto impetuoso, come investita da un soffio lirico, verso la potenza di fecondazione e di rivelazione ch'emanava dalla donna dionisiaca a cui saliva la lode di quegli spiriti ferventi.

Ella a un tratto era divenuta bellissima, creatura notturna foggiata dalle passioni e dai sogni su un'incudine d'oro, simulacro spirante dei fati immortali e degli enigmi eterni. Se bene ella fosse immobile, se bene ella tacesse, i suoi accenti famosi, i suoi gesti memorabili parevano vivere intorno a lei e vibrare indefinitamente come le melodie intorno alle corde che sogliono ripeterle, come le rime intorno al libro chiuso ove l'amore e il dolore sogliono ricercarle per inebriarsene e per consolarsene. La fedeltà eroica di Antigone, il furore fatidico di Cassandra, la divorante febbre di Fedra, la ferocia di Medea, il sacrifizio d'Ifigenia, Mirra dinanzi al padre, Polissena e Alceste dinanzi alla morte, Cleopatra volubile come il vento e la vampa sul mondo, Lady Macbeth veggente carnefice dalle piccole mani, e i grandi gigli imperlati di rugiade e di lacrime, Imogene, Giulietta, Miranda, e Rosalinda e Jessica e Perdita, le più dolci anime e le più terribili e le più magnifiche erano in lei, abitavano il suo corpo, balenavano per le sue pupille, respiravano per la sua bocca che sapeva il miele e il veleno, la coppa gemmata e la tazza di scorza. Così in una vastità senza limiti e in un tempo senza fine pareva ampliarsi e perpetuarsi il contorno della sostanza e dell'età umana; pur tuttavia non da altro se non dal moto di un muscolo, da un cenno, da un segno, da un lineamento, da un battito di palpebre, da una tenue mutazione di colore, da una lievissima reclinazione della fronte, da un fuggevole gioco di ombre e di luci, da una fulminea virtù espressiva irradiata nella carne angusta e frale si generavano di continuo quei mondi infiniti d'imperitura bellezza. I genii stessi dei luoghi consacrati dalla poesia alitavano sopra di lei, la cingevano di visioni alterne. Il piano polveroso di Tebe, l'Argolide sitibonda, i mirti arsicci di Trezene, i santi olivi di Colono, il trionfale Cidno, e la pallida campagna di Dunsinana, e la caverna di Prospero, e la selva delle Ardenne, i paesi rigati di sangue, travagliati dal dolore, trasfigurati da un sogno o rischiarati da un sorriso inestinguibile, apparivano, lontanavano, dileguavano dietro la sua testa. E altri paesi remoti, le regioni delle brume, le lande settentrionali, i continenti immensi di là dagli oceani ov'ella era passata come una forza inaudita tra le moltitudini attonite portando la parola e la fiamma, dileguavano dietro la sua testa; e le moltitudini con i monti con i fiumi con i golfi con le città impure, le stirpi assiderate e antichissime, i popoli forti anelanti al dominio della terra, le genti nuove che strappano alla natura le energie più segrete per asservirle al lavoro onnipossente negli edifizii di ferro e di cristallo, le colonie di razze imbastardite che fermentano e si corrompono su un suolo vergine, tutte le folle barbariche a cui ella era apparsa come una rivelazione sovrana del genio latino, tutte le torme ignare a cui ella aveva parlato la lingua sublime di Dante, tutte le innumerevoli greggi umane ond'era salita verso di lei sopra un flutto di ansie e di speranze confuse l'aspirazione verso la Bellezza. Ella era là, creatura di carne caduca, soggetta alle tristi leggi del tempo; e una smisurata massa di vita reale e ideale gravava su lei, si allargava intorno a lei, pulsava col ritmo di quel respiro stesso. Non nella finzione soltanto ella aveva gittato i suoi gridi e soffocato i suoi singhiozzi, ma nella vita comune. Violentemente amato, lottato, sofferto ella aveva per sé, per la sua anima, per il suo sangue. Quali amori? quali contrasti? quali spasimi? Da quali abissi di malinconia aveva ella tratto le sublimazioni della sua virtù tragica? A quali fonti d'amaritudine aveva ella abbeverato il suo libero genio? Certo ella era stata testimone delle più truci miserie, delle più cupe mine; ella aveva conosciuto gli sforzi eroici, la pietà, l'orrore, il limitare della morte. Tutte le sue seti riardevano nel delirio di Fedra, e nella sommessione d'Imogene ritremavano tutte le sue tenerezze. Così la Vita e l'Arte, il passato irrevocabile e l'eternamente presente, la facevano profonda, multanime e misteriosa; magnificavano oltre i limiti umani le sue sorti ambigue; la eguagliavano ai templi e alle foreste.

Ed ella era là, respirante, sotto gli occhi dei poeti che la vedevano una e diversa.

“Ah, io ti possederò come in un'orgia vasta; io ti scrollerò come un fascio di tirsi; io scoterò nella tua carne esperta tutte le cose divine e mostruose che t'aggravano, e le cose compiute e quelle in travaglio che crescono entro di te come una stagione sacra” parlava il demone lirico dell'animatore riconoscendo nel mistero della donna presente la potenza superstite del mito primitivo, l'iniziazione rinnovellata del nume che aveva fuso in un sol fermento tutte le energie della natura e col variare dei ritmi aveva sollevato i sensi e gli spiriti umani al sommo della gioia e del dolore nel suo culto entusiastico. “Mi gioverà, mi gioverà l'avere atteso. Il mutare degli anni, il tumulto dei sogni, i palpiti della lotta, la rapidità dei trionfi, l'impurità degli amori, gli incantesimi dei poeti, le acclamazioni dei popoli, le meraviglie della terra, la pazienza e la furia, i passi nel fango, i ciechi voli, tutto il male, tutto il bene, quel che io so e quel che io ignoro, quel che tu sai e quel che tu ignori, tutto fu per la pienezza della mia notte.”

Egli si sentiva soffocare e impallidire. Il desiderio lo aveva preso alla gola con un impeto selvaggio, per non più lasciarlo. E il cuore gli si gonfiava di quella medesima ansietà che avevano provato entrambi nel vespro navigando su quell'acqua che pareva scorrere per loro in una clessidra spaventosa.

Così per lui vanendo a un tratto la visione smisurata dei luoghi e degli eventi, la creatura notturna riappariva ancor più profondamente commista con la Città dalle mille cinture verdi e dagli immensi monili. Nella città e nella donna egli vedeva ora una forza d'espressione non mai veduta prima. L'una e l'altra ardevano nella notte d'autunno, correndo per le vene e per i canali una medesima febbre.

Scintillavano gli astri, ondeggiavano gli alberi dietro il capo di Perdita, si profondava un giardino. Dai balconi aperti entravano nel cenacolo i soffii del cielo, agitavano le fiammelle dei candelabri e i calici dei fiori, passavano per le porte, facevano palpitare le tende, animavano tutta la vecchia casa dei Capello ove quell'ultima grande figliuola di San Marco, che i popoli avevano coperta di gloria e d'oro, adunava le reliquie della magnificenza republicana. I fanali dei galioni, le targhe alla turchesca, le faretre di cuoio, i caschi di bronzo, le sciablache di velluto ornavano le stanze all'estrema discendente di quel meraviglioso Cesare Darbes che aveva tenuto in vita la Comedia dell'arte contro la riforma goldoniana e mutato in una convulsione di riso l'agonia della Serenissima.

— Io non chiedo se non di servire quell'idea, umilmente — disse la Foscarina ad Antimo della Bella, con un leggero tremito nella voce poichè ella aveva incontrato lo sguardo di Stelio.

— Voi sola potrete farla trionfare — disse Francesco de Lizo. — L'anima della folla vi è sommessa per sempre.

— Il drama non può essere se non un rito o un messaggio — sentenziò allora Daniele Glàuro. — Bisogna che la rappresentazione sia resa novamente solenne come una cerimonia, comprendendo essa i due elementi constitutivi d'ogni culto: la persona vivente in cui s'incarna su la scena come dinanzi all'altare il verbo d'un Rivelatore; la presenza della moltitudine muta come nei templi...

— Bayreuth! — interruppe il principe Hoditz.

— No; il Gianicolo, — gridò Stelio Èffrena uscendo all'improvviso dal suo silenzio vertiginoso — un colle romano. Non il legno e il mattone dell'Alta Franconia; noi avremo sul colle romano un teatro di marmo.

L'opposizione subitanea delle sue parole sembrava quasi mossa da un dispregio allegro.

— Non ammirate l'opera di Riccardo Wagner? — gli chiese Donatella Arvale con un leggero corrugar dei sopraccigli, che per un attimo rese quasi duro il suo volto ermetico.

Egli la guardò nelle pupille, sentendo quel che v'era d'oscuramente ostile nel mondo della vergine e provando contro di lei quell'indistinta nimistà egli stesso. Anche allora egli la vide isolata, vivente d'una vita propria e circonscritta, fissa in un suo pensiero segretissimo, estranea ed inviolabile.

— L'opera di Riccardo Wagner — egli ripose — è fondata su lo spirito germanico, è d'essenza puramente settentrionale. La sua riforma ha qualche analogia con quella tentata da Lutero. Il suo drama non è se non il fiore supremo del genio d'una stirpe, non è se non il compendio straordinariamente efficace delle aspirazioni che affaticarono l'anima dei sinfoneti e dei poeti nazionali, dal Bach al Beethoven, dal Wieland al Goethe. Se voi imaginaste la sua opera su le rive del Mediterraneo, tra i nostri chiari olivi, tra i nostri lauri svelti, sotto la gloria del cielo latino, la vedreste impallidire e dissolversi. Poichè — secondo la sua stessa parola — all'artefice è dato di veder risplender della perfezione futura un mondo ancora informe e di gioirne profeticamente nel desiderio e nella speranza, io annunzio l'avvento d'un'arte novella o rinnovellata che per la semplicità forte e sincera delle sue linee, per la sua grazia vigorosa, per l'ardore de' suoi spiriti, per la pura potenza delle sue armonie, continui e coroni l'immenso edifizio ideale della nostra stirpe eletta. Io mi glorio d'essere un latino; e — perdonatemi, o sognante Lady Myrta, perdonatemi, o delicato Hoditz — riconosco un barbaro in ogni uomo di sangue diverso.

— Ma anch'egli, Riccardo Wagner, sviluppando il filo delle sue teorie, si parte dai Greci — disse Baldassare Stampa che, reduce da Bayreuth, era ancor tutto pieno dell'estasi.

— Filo ineguale e confuso — rispose il maestro. — Nulla è più lontano dall'Orestiade quanto la tetralogia dell'Anello. Penetrarono assai più profondamente l'essenza della tragedia greca i Fiorentini di Casa Bardi. Omaggio alla Camerata del Conte di Vernio!

— Io ho sempre pensato che la Camerata fosse un'adunanza oziosa di eruditi e di retori — disse Baldassare Stampa.

— Hai udito, Daniele? — esclamò Stelio rivolgendosi al dottor mistico. — Quando mai vi fu al mondo un focolare d'intelligenza più fervido? Essi cercavano nell'antichità greca lo spirito di vita: essi tentavano di sviluppare armoniosamente tutte le energie umane, di manifestare con tutti i mezzi dell'arte l'uomo integro. Giulio Caccini insegnava che all'eccellenza del musico non servono solo le cose particolari ma tutte insieme le cose. La capellatura fulva di Jacopo Peri, dello Zazzerino, fiammeggiava nel canto come quella di Apollo. Nel discorso preposto alla Rappresentazione di Anima et di Corpo Emilio del Cavaliere espone intorno alla formazione del teatro novello le medesime idee che furono attuate a Bayreuth, compresi i precetti del perfetto silenzio, dell'orchestra invisibile e dell'ombra favorevole. Marco da Gagliano, nel celebrare lo spettacolo di festa, fa l'elogio di tutte le arti che vi concorrono “di maniera che con l'intelletto vien lusingato in uno stesso tempo ogni sentimento più nobile dalle più dilettevoli arti ch'abbia ritrovato l'ingegno umano”. Non basta?

— Il Bernino — disse Francesco de Lizo — fece rappresentare a Roma un'opera per la quale egli stesso costruì il teatro, dipinse le scene, scolpì le statue ornamentali, inventò le macchine, scrisse le parole, compose la musica, regolò le danze, ammaestrò gli attori, danzò, cantò, recitò.

— Basta, basta! — gridò il principe Hoditz ridendo. — Il barbaro è vinto.

— Non basta ancora — disse Antimo della Bella — Bisogna glorificare il più grande degli innovatori, che la passione e la morte consacrarono veneziano, colui che ha il sepolcro nella chiesa dei Frari, degno d'un pellegrinaggio: il divino Claudio Monteverde.

— Ecco un'anima eroica, di pura essenza italiana! — assentì Daniele Glàuro con reverenza.

— Egli compì l'opera sua nella tempesta, amando, soffrendo, combattendo, solo con la sua fede, con la sua passione e col suo genio — disse la Foscarina lentamente, come assorta nella visione di quella vita dolorosa e coraggiosa che aveva nutrito del più caldo suo sangue le creature della sua arte. — Parlateci di lui, Èffrena.

Stelio vibrò come se ella lo avesse toccato all'improvviso. Ancora una volta la virtù espressiva di quella bocca divulgatrice evocò da una indefinita profondità una figura ideale che risorse come da un sepolcro dinanzi agli occhi dei poeti assumendo il colore e il soffio dell'esistenza. L'antico sonator di viola, vedovo ardente e triste come l'Orfeo della sua favola, apparve nel cenacolo.

Fu un'apparizione di fuoco assai più fiera e più abbagliante di quella che aveva acceso il bacino di San Marco: una infiammata forza di vita, espulsa dall'imo grembo della natura verso l'ansia delle moltitudini; una veemente zona di luce, erotta da un cielo interiore a rischiarare i fondi più segreti della volontà e del desiderio umano; un inaudito verbo, emerso dal silenzio originario a esprimere quel che v'è di eterno e di eternamente indicibile nel cuore del mondo.

— Chi potrebbe parlare di lui se egli medesimo volesse parlarci? — disse l'animatore, turbato, non riuscendo a contenere la crescente pienezza che dentro gli fluttuava come un mare d'angoscia.

E guardò la cantatrice; e la vide quale ella eragli apparsa tra la selva degli stromenti, nelle pause, bianca ed esanime come un simulacro.

Ma lo spirito di bellezza evocato doveva manifestarsi in lei.

— Arianna! — soggiunse Stelio sommessamente come per risvegliarla.

Ella si levò senza parlare, andò verso una porta, entrò nella stanza attigua. S'udì il fruscio della sua veste, il suono lieve del suo passo; e poi il rumore del cembalo che s'apriva. Tutti erano muti e intenti. Un silenzio musicale occupava il posto rimasto vuoto, nel cenacolo. Una sola volta il soffio del vento inclinò le fiammelle, commosse i fiori. Tutto poi sembrò immobile e ansioso nell'aspettazione.

Lasciatemi morire!

D'un tratto, le anime furono rapite da un potere che parve l'aquila fulminea da cui Dante nel sogno fu rapito insino al fuoco. Esse ardevano insieme nella sempiterna verità, udivano la melodia del mondo passare a traverso la loro estasi luminosa.

Lasciatemi morire!

Arianna, ancora Arianna piangeva con un novo dolore? saliva saliva ancora nel martirio?

E che volete Che mi conforte In così dura sorte, In così gran martire? Lasciatemi morire!

La voce tacque; la cantatrice non riapparve. L'aria di Claudio Monteverde si compose nel ricordo come un lineamento immutabile.

— V'è forse un marmo greco che sia giunto a una perfezione di stile più ingenua e più sicura? — disse Daniele Glàuro sommessamente, quasi temesse di turbare il silenzio musicale.

— Ma quale dolore su la terra ha mai pianto così? — balbettò Lady Myrta con gli occhi pieni di lacrime che le scorrevano giù per le rughe del povero viso esangue, mentre le sue mani difformate dalla chiragra tremavano nell'asciugarle.

L'austero intelletto dell'asceta e quella dolce anima sensitiva chiusa nella vecchia carne inferma testimoniavano della medesima potenza. Così, quasi tre secoli innanzi, a Mantova, nel famoso teatro, seimila spettatori non avevano potuto contenere i singhiozzi; e i poeti avevano creduto alla presenza vivente d'Apollo su la nuova scena.

— Ecco, Baldassare, che un artefice di nostra stirpe — disse Stelio Èffrena — con i più semplici mezzi giunge a toccare il sommo grado di quella bellezza a cui s'avvicinò rare volte il Germano nella sua confusa aspirazione verso la patria di Sofocle.

— Conosci tu il lamento del re malato? — gli chiese il giovine dalla lunga capellatura febea ch'egli portava come un retaggio della Saffo Veneziana, dell'“alta Gasparra”, della sventurata amica di Collaltino.

— Tutta l'angoscia di Amfortas è in un mottetto che io conosco “Peccantem me quotidie”; ma con che impeto lirico, con che semplicità possente! Tutte le forze della tragedia vi sono quasi direi sublimate come gli istinti d'una moltitudine in un cuore eroico. La parola del Palestrina, assai più antica, mi sembra anche più pura e più virile.

— Ma il contrasto di Kundry e di Parsifal nel secondo atto, il motivo di Herzeleide, la figura impetuosa, la figura del dolore tratta dal motto dell'agape sacra, il motivo dell'aspirazione di Kundry, il tema profetico della promessa, il bacio su la bocca dell'adolescente folle, tutto quello straziante e inebriante contrasto di desiderio e di orrore... “La piaga, la piaga! Ecco che mi brucia, ecco che sanguina in me!” E su la smania disperata della tentatrice la melodia della sommessione... “Lasciami piangere sul tuo petto! Che per un'ora io mi congiunga a te e, pur se Dio mi respinga, sarò in te redenta e salva!” E la risposta di Parsifal in cui ritorna con una solennità così grandiosa il motivo del Folle ormai trasfigurato nell'Eroe promesso... “L'inferno per noi in eterno se anche un'ora io lasci che tu mi stringa fra le tue braccia.” E l'estasi selvaggia di Kundry... “Poichè il mio bacio t'ha reso veggente, l'amplesso intero del mio amore ti farà divino. Un'ora, un'ora sola con te; e sarò salva!” E gli ultimi sforzi della sua volontà demoniaca, il supremo gesto d'allettamento, la implorazione e l'offerta furibonda... “Solo il tuo amore mi salva. Lascia ch'io t'ami! Mio, un'ora sola! Tua, un'ora sola!”

Perdutamente Perdita e Stelio si guardarono negli occhi; in un battito di palpebre si mescolarono, si confusero, gioirono e spasimarono come su un letto di voluttà e di morte.

La Marangona, la massima campana di San Marco, sonava nella mezza notte. E, come già nell'ora del vespro, essi credettero sentire il rombo del bronzo nelle radici dei capelli, quasi un brivido della carne loro. Credettero sentir passare novamente su le loro teste quell'immenso turbine di suono in cui avevano veduto a un tratto levarsi le apparizioni della Bellezza consolatrice invocate dalla Preghiera unanime. Tutti i fantasmi delle acque, gli infiniti ondeggiamenti del desiderio dissimulato, l'ansietà, la promessa, l'addio, la festa, e il mostro formidabile dagli innumerevoli volti umani, e la grande sfera stellare, e le acclamazioni, e la sinfonia, e il canto, e i prodigi del fuoco, il passaggio pel canale sonoro, la canzone della gioventù breve, la lotta e l'angoscia muta nel naviglio, l'ombra improvvisa su i tre destini, il convito illuminato dall'idea bella, gli annunzii, le speranze, gli orgogli, tutte le pulsazioni della vita forte si rinnovarono in loro concordemente, si accelerarono, furono mille e furono una. E credettero essi di aver vissuto oltre ogni limite umano, e che fosse in quell'attimo dinanzi a loro una immensità ignota ch'essi potessero attrarre come in un sorso un oceano; poichè, avendo tanto vissuto, sembravano vacui; poichè, avendo tanto bevuto, erano sitibondi. Un'illusione violenta s'era impadronita delle loro anime ricche. L'una credette di crescere smisuratamente nella ricchezza dell'altra. La vergine era scomparsa. Gli occhi della donna disperata e nomade ripetevano: “L'amplesso intero del mio amore ti farà divino. Un'ora, un'ora sola con te; e sarò salva! Mio, un'ora sola! Tua, un'ora sola!”.

E la tragedia sacra continuava a innalzarsi nell'eloquenza dell'entusiasta. Kundry, la tentatrice furente, la schiava del desiderio, la Rosa dell'Inferno, l'originale Perdizione, la maledetta, riappariva ora nell'alba primaverile; riappariva umile e pallida sotto la veste della messaggera, curva il capo, spenta lo sguardo, avendo nella voce rauca e rotta un sola parola: “Servire, servire!”

La melodia della solitudine, la melodia della sommessione, la melodia della purificazione preparavano intorno alla sua umiltà l'incantesimo del Venerdì Santo. Ed ecco Parsifal nella nera armatura, col morione chiuso, con la lancia bassa, assorto in un sogno infinito. “Io vengo per sentieri perigliosi, ma forse questo giorno mi salva poichè odo il murmure della divina foresta... ” La speranza, la doglia, il rimorso, il ricordo, la promessa, la fede anelante verso la salute, misteriose melodie sacre parevano tessere il manto ideale di cui doveva coprirsi il Semplice, il Puro, il promesso Eroe inviato a guarire la piaga immedicabile. “Mi condurrai tu oggi verso Amfortas? ” Egli s'illanguidiva, mancava, tra le braccia del vecchio. “Servire, servire!” La melodia della sommessione si distendeva nell'orchestra anche una volta, fugando la primitiva figura impetuosa. “Servire!” La donna fedele portava l'acqua, s'inginocchiava umile e ardente, lavava i piedi amati. “Servire!” La donna fedele traeva dal suo seno un vasello di balsamo, ungeva i piedi amati; poi li tergeva con la sua capellatura disciolta. “Servire!” Su la peccatrice s'inclinava il Puro, su la selvaggia testa versava egli il puro elemento. “Così compio il mio primo officio. Ricevi il battesimo e credi al Redentore!” Con la fronte Kundry toccava la terra, prorompendo in pianto, liberata dal desiderio, liberata dalla maledizione. Ed ecco, dalle profonde armonie finali dell'appello al Redentore, disciogliersi, ascendere, spandersi con una sovrumana soavità la melodia del prato fiorito. “Com'è bello oggi il prato! Meravigliosi fiori un dì m'allacciarono, ma non mai l'erba e la corolla ebbero questo profumo...” Estatico Parsifal contemplava il prato e la selva ridenti di rugiade nella luce mattutina.

— Ah, chi dimenticherà mai il momento sublime? — esclamò l'affascinato nel cui volto scarno parve ribalenare quella folgore di gioia. — Tutti, nella tenebra del teatro, eravamo fissi in una perfetta immobilità, come una sola massa compatta. Pareva che il sangue si fosse arrestato in tutte le vene per ascoltare. Dal Golfo Mistico la musica saliva in illusione di luce; le note si convertivano in raggi di sole primaverile, si generavano col giubilo del filo d'erba che fende la terra, della corolla che si apre, del ramo che mette le gemme, dell'insetto che mette le ali. E tutta l'innocenza delle cose che nascono entrava in noi; e l'anima riviveva non so che sogno dell'infanzia lontana... INFANTIA, la parola di Vettor Carpaccio. Ah, come hai saputo ripeterla tu, Stelio, dianzi, alla nostra vecchiezza! E come hai saputo darci il rammarico di quel che abbiamo perduto e la speranza di recuperarlo per mezzo dell'arte ricongiunta indissolubilmente alla vita!

Stelio Èffrena taceva, sentendosi come oppresso dal peso dell'opera gigantesca fornita da quel creatore barbarico che l'entusiasmo di Baldassare Stampa aveva evocato incontro alla figura ardente del tragedo di Arianna e di Orfeo. Una specie di rancore istintivo, una oscura ostilità che non era d'intelletto, lo sollevava avverso quel Germano pertinace ch'era riuscito a infiammare di sé il mondo. Per ottener la vittoria su gli uomini e su le cose, anche colui non aveva fatto se non esaltar la sua imagine e magnificare il suo proprio sogno di bellezza dominatrice. Anche colui era andato alla folla come alla preda preferibile. Anche colui aveva posto a sua disciplina lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua. E ora egli aveva il tempio del suo culto, su la collina bàvara.

— Soltanto l'arte può ricondurre gli uomini all'unità — disse Daniele Glàuro. — Onoriamo l'alto maestro che ha testimoniato questa fede per sempre! Il suo Teatro di Festa, se bene di legno e di mattone, imperfetto e angusto, ha un sublime significato. Quivi l'opera d'arte non appare se non come la religione fatta sensibile sotto una forma vivente. Il drama è un rito.

— Onoriamo Riccardo Wagner — disse Antimo della Bella. — Ma, se quest'ora dev'essere memorabile per un annunzio e per una promessa che attendiamo da colui il quale dianzi mostrava alla folla il naviglio misterioso, invochiamo novamente come auspice l'anima eroica che ci ha parlato nella voce di Donatella Arvale. Ponendo la prima pietra del suo Teatro di Festa, il poeta di Siegfried la consacrò alle speranze e alle vittorie germaniche. Il Teatro d'Apollo, che s'alza rapidamente sul Gianicolo dove un tempo scendevano le aquile a portare i presagi, non sia se non la rivelazione monumentale dell'idea verso di cui la nostra stirpe è condotta dal suo genio. Riaffermiamo il privilegio onde la natura fece insigne il nostro sangue.

Stelio Effrena taceva, sconvolto da forze vorticose che lo travagliavano con una sorta difuror cieco, simili alle energie sotterranee che sollevano squarciano trasfigurano i paesi vulcanici creandovi i nuovi monti e i nuovi abissi. Tutti gli elementi della sua vita interiore, investiti da quell'impeto, parevano nel tempo medesimo dissolversi e moltiplicarsi. Imagini grandiose e terribili passavano su quel tumulto accompagnate da nembi di musiche. Concentrazioni e dispersioni rapidissime di pensieri si succedevano come le scariche elettriche nell'uragano. A tratti, era come s'egli udisse clamori e canti per una porta che si spalancasse e si richiudesse di continuo; era come se le raffiche gli recassero le grida di una strage e di un'apoteosi lontana alterne. Vide all'improvviso, con l'intensità delle visioni febrili, la terra arsa e fatale dove egli voleva far vivere le anime della sua tragedia; ne sentì tutta la sete in sé. Vide la fonte mitica che sola interrompeva l'arsura, e sul palpito delle polle il candore della vergine che quivi doveva morire. Vide la maschera dell'eroina sul volto di Perdita, composta nella bellezza di un dolore straordinariamente calmo. Poi l'antica arsura del piano d'Argo si convertì in fiamme; la fonte Perseia fluì come un fiume volubile. Il fuoco e l'acqua, i due elementi primordiali, passarono su tutte le cose, cancellarono ogni segno, si diffusero, errarono, lottarono, trionfarono, favellarono, ebbero un verbo, ebbero un linguaggio per rivelare la loro intima essenza, per raccontare i miti innumerevoli ch'eran nati dalla loro eternità. La sinfonia espresse il drama delle due Anime elementari su la scena dell'Universo, la lotta patetica dei due grandi Esseri viventi e mobili, delle due Volontà cosmiche, quale se la fingeva il pastore Arya su gli altipiani contemplando gli spettacoli con occhi puri. Ed ecco, dal centro medesimo del mistero musicale, dall'imo gorgo dell'oceano sinfonico, sorse l'Ode — portata dalla voce umana — e attinse la massima altezza. Il miracolo beethoveniano si rinnovava. L'Ode alata, l'Inno, erompeva dalla profondità dell'orchestra per dire, in una maniera imperiosa e assoluta, la gioia e il dolore dell'Uomo. Non il Coro, come nella Nona, ma la Voce solitaria e dominatrice: l'interprete, la messaggera della moltitudine. “La sua voce, la sua voce! Ella è scomparsa. Il suo canto pareva toccare il cuore del mondo; ed ella era di là dal velo” diceva l'animatore, avendo di nuovo negli occhi la statua di cristallo per entro a cui avea veduto ascendere la vena della melodia. “Ti cercherò, ti ritroverò, m'impadronirò del tuo segreto. Tu canterai i miei inni, alzata su la sommità delle mie musiche.” Liberato da ogni desiderio impuro, egli considerava la spoglia della vergine come il ricettacolo, come la custodia di un divino dono. Egli udiva la voce incorporea sorgere dalla profondità dell'orchestra per rivelare la parte di verità sempiterna ch'era nel fatto efimero, nell'evento passeggero. L'ode coronava di luce l'episodio. Allora, quasi a ricondurre verso il gioco delle apparenze lo spirito rapito “di là dal velo”, una figura di danza si disegnò sul ritmo dell'ode morente. Entro un parallelogramma inscritto nell'arco scenico, come entro i confini di una strofe, la danzatrice silenziosa con le linee del suo corpo, redento per alcuni attimi dalle tristi leggi del peso, imitò il fuoco l'acqua il turbine le evoluzioni delle stelle. “La Tanagra, fiore di Siracusa, tutta fatta di ali come un fiore di petali!” Così egli evocava l'imagine della Siciliana, già celebre, che aveva ritrovata l'antica arte orchestica quale era al tempo in cui Frinico potè vantarsi di avere in sé tante figure di danza quante onde solleva una notte procellosa d'inverno sul mare. L'attrice, la cantatrice, la danzatrice, le tre donne dionisiache, gli apparivano come gli strumenti perfetti e quasi divini delle sue finzioni. Con una incredibile celerità, nella parola nel canto nel gesto nella sinfonia la sua opera s'integrava e viveva d'una vita oltrepossente dinanzi alla moltitudine soggiogata.

Egli taceva, perduto in quel mondo ideale, inteso a misurare lo sforzo necessario per manifestarlo. Le voci dei prossimi gli giungevano come di lontano.

— Riccardo Wagner afferma che il solo creatore dell'opera d'arte è il popolo — diceva Baldassare Stampa — e che l'artista può soltanto cogliere ed esprimere la creazione del popolo inconsapevole...

Il sentimento straordinario, di cui egli erasi stupito quando dal trono dei Dogi parlava alla folla, tornò ad occuparlo. Nella comunione tra la sua anima e l'anima della folla un mistero era sopravvenuto, quasi divino; qualche cosa di più grande e di più forte erasi aggiunto al sentimento che egli aveva della sua persona consueto; un ignoto potere era parso convergere in lui abolendo i confini della persona particolare e conferendo alla voce solitaria la concordia d'un coro. V'era dunque nella moltitudine una bellezza riposta, donde il poeta e l'eroe soltanto potevano trarre baleni. Quando quella bellezza si rivelava per l'improvviso clamore alzato nel teatro o su la piazza publica o nella trincea, allora un torrente di gioia gonfiava il cuore di colui che aveva saputo suscitarla col verso, con l'arringa, col segno della spada. La parola del poeta comunicata alla folla era dunque un atto, come il gesto dell'eroe. Era un atto che creava dall'oscurità dell'anima innumerevole un'istantanea bellezza, come uno statuario portentoso potrebbe da una mole d'argilla trarre con un sol tocco del suo pollice plastico una statua divina. Cessava allora il silenzio disteso, come una cortina sacra, sul poema compiuto. La materia della vita non era più evocata dai simboli immateriali; ma la vita manifestavasi per il poeta integra, il verbo facevasi carne, il ritmo si accelerava in una forma respirante e palpitante, l'idea si enunciava nella pienezza della forza e della libertà.

— Ma Riccardo Wagner — diceva Fabio Molza — pensa che il popolo consista di tutti coloro i quali sentono una miseria comune, intendete?, una miseria comune...

“Verso la Gioia, verso l'eterna Gioia!” pensava Stelio Èffrena. “Il popolo consiste di tutti coloro i quali sentono un oscuro bisogno di elevarsi, per mezzo della Finzione, fuor della carcere cotidiana in cui servono e soffrono.” Scomparivano gli angusti teatri urbani ove, nel calore soffocante e pregno di tutte le impurità, dinanzi a una schiera di crapuloni e di meretrici, gli attori fanno ufficio di spintrie. Egli vedeva su le gradinate del novo teatro la folla vera, l'immensa folla unanime di cui aveva sentito l'odore e udito il clamore dianzi nella conca marmorea sotto le stelle. Nelle anime rudi e ignare la sua arte, pur non compresa, per il potere misterioso del ritmo recava un turbamento profondo, simile a quello del prigioniere che sia sul punto di essere liberato dai duri vincoli. La felicità della liberazione si spandeva a poco a poco nei più abietti; le fronti solcate si rischiaravano; le bocche, use alle vociferazioni violente, si dischiudevano alla meraviglia. E le mani alfine — le aspre mani asservite agli strumenti del lavoro — si tendevano con un moto concorde verso l'eroina che mandava alle stelle il suo dolore immortale.

— Nell'esistenza di un popolo come il nostro — diceva Daniele Glàuro — una grande manifestazione d'arte conta assai più d'un trattato d'alleanza o di una legge tributaria. Ciò che non muore val più di ciò che è caduco. L'astuzia e l'audacia di un Malatesta sono chiuse in una medaglia del Pisanello, per l'eternità. Non sopravvive alla politica del Machiavelli se non il nerbo della sua prosa...

“È vero, è vero” pensava Stelio Èffrena. “La fortuna d'Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza, cui ella è madre.” Tale ora gli appariva la verità sovrana come l'imminente sole di quella divina e remota patria ideale dove peregrinò Dante. “Italia! Italia!” Come un grido di riscossa gli risonava su l'anima quel nome che inebria la terra. Dai ruderi inondati di tanto sangue eroico non doveva levarsi robusta di radici e di rami l'arte nuova? Non doveva essa riassumere in sé tutte le forze latenti nella sostanza ereditaria della nazione, divenire una potenza determinante e costruttiva nella terza Roma, indicare agli uomini partecipi del Governo le verità originarie da porre a norma degli statuti nuovi? Fedele ai più antichi istinti della sua razza, Riccardo Wagner aveva presentito e secondato col suo sforzo l'aspirazione degli Stati germanici alla grandezza eroica dell'Impero. Egli aveva evocata la figura magnifica d'Enrico l'Uccellatore nell'atto di levarsi sotto la quercia secolare: — Che da tutta la terra alemanna sorgano i combattenti! — A Sadowa, a Sedan, i combattenti avevano vinto. Con il medesimo impeto, con la medesima pertinacia il popolo e l'artefice avevano raggiunta la meta gloriosa. La stessa vittoria aveva coronato l'opera del ferro e l'opera del ritmo. Come l'eroe, il poeta aveva compiuto un atto liberatore. Come la volontà del Cancelliere, come il sangue dei soldati, le sue figure musicali avevano contribuito a esaltare e a perpetuare l'anima della razza.

— È qui, già da alcuni giorni, al palazzo Vendramin-Calergi — diceva il principe Hoditz.

E subitamente l'imagine del creatore barbarico si avvicinò, le linee della sua faccia divennero visibili, gli occhi cerulei brillarono sotto la fronte vasta, le labbra si serrarono sul robusto mento armate di sensualità, di superbia e di dispregio. Il suo piccolo corpo incurvato dalla vecchiezza e dalla gloria si sollevò, s'ingigantì a somiglianza della sua opera, assunse l'aspetto di un dio. Il sangue vi corse come torrenti in un monte, il respiro vi alitò come il vento in una foresta. A un tratto, la giovinezza di Siegfried lo invase, vi si sparse, vi rifulse come in una nube l'aurora. “Seguire l'impulso del mio cuore, obbedire al mio istinto, ascoltare la voce della natura in me: ecco la mia suprema unica legge!” La parola eroica vi risonò, erompendo dal profondo, esprimendo la volontà giovine e sana che trionfava di tutti gli ostacoli e di tutti i maleficii, sempre in accordo con la legge dell'Universo. E le vampe allora, quelle generate dalla rupe sotto l'urto dell'asta di Wotan, salirono in cerchio. “Nel mar fiammeggiante il cammino s'è aperto. Immergermi nel fuoco, oh gioia grande! Trovare nella fiamma la sposa!” Tutti i fantasmi del mito balenarono, si oscurarono. Il casco alato di Brunehilde sfavillò al sole. “Gloria al sole! Gloria alla luce! Gloria al giorno raggiante! Lungo fu il mio sonno. Chi mi ha risvegliata?” Tutti i fantasmi tumultuarono, si dispersero. Risorse di repente su un campo d'ombra la vergine del canto, Donatella Arvale, così com'ella era apparsa laggiù nella porpora e nell'oro dell'aula immensa, tenendo il fiore del fuoco in un'attitudine dominatrice. “Non mi vedi tu dunque? Il mio sguardo che ti consuma e il mio sangue che bolle non ti fanno paura? Provi tu questo ardore selvaggio?” Assente, ella riprendeva il suo potere di sogno. Musiche infinite si generavano dal silenzio che occupava il posto rimasto vuoto nel cenacolo. Il suo volto ermetico chiudeva un segreto inviolabile. “Non mi toccare, non mi turbare; e io rifletterò per sempre la tua imagine luminosa. Ama te stesso, e rinunzia a me!” Anche una volta, come su l'acqua febrile, un'appassionata impazienza incalzava l'animatore; ed egli ritrovava nell'assente l'attitudine ad esser tesa come un bell'arco da una mano forte che sapesse armarsene per un'alta conquista. “Svegliati, svegliati, vergine! Vivi e ridi! Sii mia!”

Il suo spirito era trascinato violentemente nell'orbita del mondo creato dal dio germano; le visioni e le armonie lo sopraffacevano, le figure del mito settentrionale si sovrapponevano a quelle della sua passione e della sua arte oscurandole. Il suo desiderio e la sua speranza parlavano il linguaggio del barbaro. “È necessario che ridendo io ti ami, che ridendo io m'accechi; è necessario che ridendo noi ci perdiamo congiunti. Amor raggiante, ridente morte!” Il giubilo della vergine guerriera su la rupe cerchiata di fiamme attingeva la più ardua altezza; il grido di voluttà e di libertà saliva sino al cuore del sole. Ah che cosa non aveva egli espresso, quale apice e quale abisso non aveva egli toccato, quel formidabile agitatore dell'anima umana? Quale sforzo avrebbe potuto eguagliare il suo? Quale aquila avrebbe potuto sperare di giungere più in alto? L'opera gigantesca era là compiuta, in mezzo agli uomini. Echeggiava per la terra l'ultimo coro del Graal, il cantico di grazie: “Gloria al miracolo! Redenzione al Redentore!”.

— È stanco, — diceva il principe Hoditz — molto stanco e affranto. Per ciò non l'abbiamo veduto al Palazzo Ducale. Il suo cuore è malato...

Il gigante ridiveniva uomo, piccolo corpo incurvato dalla vecchiezza e dalla gloria, logorato dalla passione, morituro. E Stelio Èffrena riudì in sé le parole di Perdita, che avevano mutato la gondola in una bara: le parole evocanti un altro grande artefice colpito, il padre di Donatella Arvale. “L'arco ha per nome BIOS e per opera la morte.” Il giovine aveva dinanzi a sé il cammino segnato dalla vittoria, l'arte lunga, la vita breve. “Avanti! Avanti! In alto, sempre più in alto!” In ogni ora, in ogni attimo bisognava esperimentare, lottare, affermarsi, contro la distruzione, la diminuzione, la violazione, il contagio. In ogni ora, in ogni attimo bisognava tener l'occhio fisso alla mira, convergere tutte le energie a quella, senza tregua, senza fallo. Egli sentiva che la vittoria gli era necessaria come il respiro. Una furente volontà di lotta si svegliava in quell'agile sangue latino, a contatto del barbaro. “Ora a voi il volere!” aveva gridato colui nel giorno augurale, dalla scena del nuovo teatro. “Nell'opera d'arte futura, la sorgente dell'invenzione non s'inaridirà giammai.” L'arte era infinita come la bellezza del mondo. Nessun limite alla forza e all'ardire. Cercare, trovare, più oltre, sempre più oltre. “Avanti! Avanti!”

Una sola onda enorme e informe riassunse allora tutte le aspirazioni e tutte le angosce di quel delirio, si convolse in un vortice, si risollevò in un turbine, parve condensarsi, prendere la qualità della materia plastica, obbedire alla stessa energia inesausta che foggia gli esseri e le cose sotto il sole. Una forma straordinariamente bella e pura sorse da quel travaglio, visse e rifulse con una felicità insostenibile. Il poeta la vide, la ricevette nei suoi occhi puri, la sentì radicata nel centro del suo spirito. “Ah, esprimerla, manifestarla agli uomini, fermarla nella perfezione per l'eternità!” Attimo sublime e senza ritorno. Tutto scomparve. Scorreva in giro la vita comune; sonavano in giro le parole fuggitive; palpitava l'attesa; si consumava il desiderio.

Ed egli guardò la donna. Scintillavano gli astri, ondeggiavano gli alberi dietro il capo di Perdita, si profondava un giardino. Dicevano ancora gli occhi della donna: “Servire, servire!”.

Discesi nel giardino, gli ospiti erano sparsi pei viali e sotto le pergole. L'aura della notte era umida e tiepida così che le palpebre delicate la sentivano su i cigli quasi come una bocca volubile che si accosti per lambire. Le stelle nascoste dei gelsomini odoravano acutamente nell'ombra; e i frutti anche odoravano come negli orti delle isole, più gravi. Una vivida forza di fertilità emanava da quel breve spazio di terra vegetale che pareva in esilio constretto nella sua cintura d'acqua. Così l'anima esule si fa più intensa.

— Volete che io rimanga? Volete che io ritorni, quando sieno partiti gli altri? Dite! È tardi.

— No, no, Stelio. Vi prego! È tardi, è troppo tardi. Voi lo dite.

Uno sgomento mortale era nella voce della donna. Ella tremava nell'ombra con le spalle nude, con le braccia nude; e voleva ancora negarsi e voleva esser posseduta; e voleva morire e voleva essere scossa da quelle mani maschie. Ella tremava; le tremavano i denti in bocca. Un fiume escito da un ghiacciaio la sommergeva, le passava sopra, l'assiderava dalle radici dei capelli all'estremità delle dita. Tutte le giunture delle membra le dolevano, e pareva che fossero per dislegarsi, e le mascelle irrigidite le mutavano la voce nel terrore. Ed ella voleva morire, e voleva esser presa e abbattuta all'improvviso da quella violenza maschia. E sul suo sgomento e sul suo gelo e su la sua carne non più giovine pendeva quella parola atroce che l'amato stesso aveva proferita e ch'ella stessa aveva ripetuta: “È tardi, è troppo tardi!”.

— La promessa, la promessa! Non voglio più attendere, non posso, Perdita.

Il bacino voluttuoso come un seno che si offre, l'estuario perduto nell'ombra e nella morte, la Città accesa dalla febbre crepuscolare, l'acqua scorrente nella clessidra invisibile, il bronzo vibrante nel cielo, la soffocante brama, le labbra serrate, le palpebre basse, le aride mani, tutta la piena ritornò nel ricordo della promessa muta. Egli desiderò con un ardore selvaggio quella carne profonda.

— Non voglio più attendere.

Di lontano, di lontano gli veniva quel torbido ardore, dalle più remote origini, dalla primitiva bestialità delle mescolanze subitanee, dall'antico mistero delle libidini sacre. Come la torma invasa dal dio discendeva per la montagna sradicando gli alberi, e s'avanzava con una furia sempre più cieca, e s'ingrossava di nuovi dementi, propagando l'insania per ovunque al passaggio sinché diveniva un'immensa moltitudine ferina e umana animata da una volontà mostruosa; così in lui quell'istinto crudo precipitò turbando e trascinando tutte le figure del suo spirito nell'empito con una agitazione innumerevole. Ed egli desiderò nella donna sapiente e disperata colei che era premuta dall'eterna servitù della sua natura, colei che era destinata a soggiacere nelle improvvise convulsioni del suo sesso, colei che placava la lucida febbre della scena nella voluttà oscura e sonnifera, l'attrice ardente che passava dalla frenesia della folla alla forza del maschio, la creatura dionisiaca che con l'atto di vita coronava il rito misterioso come nell'Orgia.

Il suo desiderio fu insano e smisurato, contenne il fremito delle moltitudini vinte e l'ebrezza degli amanti ignoti e la visione delle promiscuità orgiache; fu fatto di crudeltà, di rancore, di gelosia, di poesia e di orgoglio. Lo punse il rammarico di non aver mai posseduta l'attrice dopo un trionfo scenico, ancora calda dell'alito popolare, coperta di sudore, ansante e smorta, con i vestigi dell'anima tragica che aveva pianto e gridato in lei, con le lacrime di quell'anima intrusa ancora umide sul viso convulso. Egli la vide in un lampo riversa, piena della potenza che aveva strappato l'urlo al mostro, palpitante come la Menade dopo la danza, assetata e stanca ma bisognosa d'essere presa, d'essere scossa, di contrarsi in un ultimo spasimo, di ricevere il seme violento, per placarsi alfine in un sopore senza sogni. — Quanti uomini erano esciti dalla folla per abbracciarla dopo avere anelato verso di lei perduti nella massa unanime? Il loro desiderio era fatto del desiderio di mille, il lor vigore era molteplice. Qualche cosa del popolo ebro, del mostro affascinato, penetrava nel grembo dell'attrice con la voluttà di quelle notti.

— Non siate crudele, non siate crudele! — supplicò la donna che sentiva nella voce di lui, che leggeva negli occhi di lui la turbolenza. — Oh, non mi fate male!

Sotto lo sguardo vorace del giovine, tutta la sua carne si contraeva anche una volta nella repulsa d'un pudore doloroso. Il desiderio di lui le giungeva come una ferita lacerante. Ella sapeva quanto d'acre e d'impuro fosse in quella concitazione subitanea e come profondamente egli la considerasse avvelenata e corrotta, carica di amori, esperta di tutto il piacere, tentatrice errante e implacabile. Ella divinava quel rancore, quella gelosia, quella malvagia febbre che erasi accesa a un tratto nel dolce amico a cui per tanto tempo aveva votato quel ch'ella chiudeva in sé di più prezioso e di più sincero preservando la bontà di quelle offerte con un costante divieto. Tutto era perduto ormai. Tutto era devastato a un tratto, come un bel dominio in balìa di schiavi ribelli e vendicativi. Ed ella, quasi fosse nell'estrema agonia, nell'attimo del trapasso, rivide tutta la sua vita aspra e turbinosa, la sua vita di lotta e di dolore, di smarrimenti e di sforzi, di passione e di trionfo. Ne sentì la pesantezza, l'ingombro. Ricordò il sentimento ineffabile di gioia, di spavento e di liberazione ch'ella aveva provato nell’abbandonarsi la prima volta all'uomo che l'aveva illusa, nella lontana adolescenza. E le traversò l'anima con una trafittura atroce “ l'imagine della vergine che s'era ritratta, ch'era scomparsa, che forse sognava nella stanza solitaria, lassù, o piangeva o si prometteva già e supina godeva già d'essersi promessa. “È tardi, è troppo tardi!” La parola irrevocabile sembrava passarle continuamente su la fronte come il rombo del bronzo. E il desiderio di lui le giungeva come una ferita lacerante.

— Oh, non mi fate male!

Ella supplicava, bianca e tenue come la piuma di cigno che correva intorno alle sue spalle nude e al suo petto palpitante. Ella pareva disciogliersi dalla sua potenza, divenir lieve e debole, vestirsi d'una sua segreta anima tenera, così facile a essere uccisa, a esser distrutta, immolata senza sangue.

— No, Perdita, nessun male! — balbettò egli sconvolto subitamente da quella voce e da quell'aspetto, preso alle viscere da una pietà umana ch'era risorta dalla stessa profondità ond'eragli venuto quell'istinto selvaggio. Perdonatemi, perdonatemi!

Egli avrebbe voluto prenderla fra le sue braccia, cullarla, consolarla, sentirla piangere, beverne le lacrime. Gli pareva di non riconoscerla più, di avere dinanzi a sé una creatura ignota, infinitamente umile e dolorosa, priva d'ogni forza. E la sua pietà e il suo rimorso somigliavano un poco al sentimento che si prova dopo aver offeso e leso, senza volere, un infermo, un fanciullo, un piccolo essere inoffensivo e solo.

— Perdonatemi!

Egli avrebbe voluto inginocchiarsi, baciarle i piedi nell'erba, dirle qualche parola puerile. S'inchinò, le toccò una mano. Ella sussultò dal capo alle piante; spalancò gli occhi verso di lui; poi riabbassò le palpebre; stette immobile. L'ombra s'accumulò sotto l'arco dei sopraccigli; segnò l'ondulazione delle gote. Di nuovo, il fiume gelido la sommergeva.

Si udirono le voci degli ospiti sparsi pel giardino; poi si fece un gran silenzio. Si udì stridere la ghiaia sotto qualche passo; poi si fece ancora un gran silenzio. Giunse un clamore indistinto dalla lontananza dei canali. Parve, a un tratto, che i gelsomini rendessero un odore più forte, come un cuore accelera i suoi battiti. La notte parve gravida di prodigi. Le forze eterne operavano armoniosamente, fra la terra e le stelle.

— Perdonatemi! Se il mio desiderio vi fa soffrire, io lo soffocherò ancora, io sarò ancora capace di rinunziare, di obbedirvi. Perdita, Perdita, io dimenticherò tutto quello che mi dicevano i vostri occhi, lassù, tra le parole inutili... Quale stretta, quale carezza potrebbe mescolarci più profondamente? Tutta la passione della notte c'incalzava e ci gettava l'un verso l'altra. Io vi ho ricevuta tutta in me, come un'onda... E ora mi sembra che io non possa più dividervi dal mio sangue, e che voi anche non possiate più allontanarvi da me, e che noi dobbiamo andare incontro a non so quale alba...

Egli le parlava sommesso, interamente effuso nelle sue parole, divenuto una sostanza vibrante in cui tutte le mutazioni della creatura notturna parevano imprimersi d'attimo in attimo.

Egli non vedeva più dinanzi a sé una forma corporea, una carne opaca e impenetrabile, la pesante carcere umana, ma un'anima rivelata in una successione di parvenze espressive come le melodie, una sensibilità oltre ogni limite delicata e possente che creava in quell'involucro a vicenda la fralezza dei fiori, il vigore del marmo, l'impeto della vampa, tutte le ombre e tutte le luci.

— Stelio!

Proferì ella quel nome appena appena; e tuttavia in quel soffio morente tra le labbra smorte era un'immensità di esultanza e di meraviglia come nel più acuto grido. Ella aveva sentito l'amore nell'accento virile: l'amore, l'amore! Ella che aveva ascoltato tante volte le belle e perfette parole fluenti nella voce limpida soffrendone stranamente come d'un supplizio e d'un gioco, ella ora vedeva per il nuovo accento trasfigurarsi a un tratto la sua vita e la vita universa. La sua anima parve invertirsi: cadde l'ingombro al fondo, disparve in una oscurità senza fine; e venne in alto qualche cosa di leggero e di lucente, qualche cosa di libero e d'immacolato, che si dilatò, che s'incurvò come un cielo mattutino. E, in quel modo che l'onda della luce sale dall'orizzonte al sommo con un'armonia muta, l'illusione della felicità salì alla sua bocca. Un sorriso infinito vi si diffuse, infinito, così che le linee delle labbra vi tremolavano come le foglie nell'aura, i denti vi rilucevano come i gelsomini nel chiarore stellare: esilissime forme nel vasto elemento.

“Tutto è abolito, tutto è scomparso. Io non ho vissuto, non ho amato, non ho gioito, non ho sofferto. Sono nuova. Non conosco che questo amore. Sono pura. Voglio morire nella voluttà che mi rivelerai. Gli anni e gli eventi sono passati sopra di me senza toccare quella parte dell'anima mia che io ti serbavo, quel cielo segreto che ora a un tratto s'è aperto e ha vinto ogni ombra ed è rimasto solo per contenere la forza e la dolcezza del tuo nome. Il tuo amore mi salva; l'amplesso intero del mio amore ti farà divino...” Parole d'ebrezza le sgorgavano dal cuore liberato, ma le sue labbra non osavano di proferirle. Ed ella sorrideva, sorrideva del suo sorriso infinito, silenziosa.

— Non è vero? Dite! Rispondete, Perdita! Non sentite anche; voi questa necessità che è forte di tutte le nostre rinunzie, di tutta la nostra costanza nell’attendere l'ora piena? Ah mi sembra che le mie speranze e i miei presentimenti non sarebbero più nulla, Perdita, se quest'ora non fosse. Dite che non potreste giungere all'alba senza di me, come io non potrei senza di voi!

— Rispondete!

— Sì, sì...

Perdutamente ella si donò in quella sillaba fioca. Il sorriso si spense; la bocca s'appesantì, si mostrò sul pallore con un rilievo quasi duro, come se la sete la gonfiasse, valida per attirare, per prendere, per ritenere, insaziata. E tutto il corpo, ch'era parso attenuarsi nel dolore e nel terrore, si risollevò come se vi crescesse di repente un'ossatura nuova, riacquistò la sua potenza carnale, fu attraversato da un'onda impetuosa; ridivenne desiderabile e impuro.

— Senza più indugio. È tardi!

Egli tremava d'impazienza. La furia lo riprendeva; la brama lo riafferrava alla gola con gli artigli felini.

— Sì — ripetè la donna, ma con un accento diverso, con gli occhi negli occhi di lui, avida e imperiosa, come se ora ella fosse certa di avere il filtro che doveva legarlo a sé ultimamente.

Egli sentì entrare nel suo cuore le voluttà che abitavano quella carne profonda. La guardò, impallidendo come se il suo sangue si disperdesse nella terra a bagnare le radici dei frutti, in sogno, fuori del tempo, solo con lei sola.

Ella stava sotto l'arbusto ornato di monili e carico di frutti, vivamente inarcata a guisa delle sue labbra, partendosi da tutte le sue membra la febbre come dalle labbra si parte il respiro. La bellezza repentina che l'aveva illuminata nel cenacolo, fatta di mille forze ideali, si rinnovellava in lei ma ancor più intensa, fatta della fiamma che non appassisce, del fervore che non langue. I frutti magnifici pendevano sul suo capo, recanti in sommo la corona d'un re donatore. Il mito del melagrano riviveva nella notte come al passaggio della barca ricolma su l'acqua vespertina. — Chi era ella? Persefone signora delle Ombre? Aveva ella vissuto là dove tutte le agitazioni umane sembrano un gioco di vènti nella polvere d'un cammino senza termine? Aveva ella guardato il mondo delle sorgenti, numerato nella terra sotterranea le radici dei fiori immote come le vene in un corpo impietrito? Era ella stanca o ebra delle lacrime e delle risa e delle lussurie umane, e dell'aver toccato a una a una tutte le cose mortali per farle fiorire, per farle perire? Chi era mai? Aveva colpito le città come un flagello? chiuso per sempre col suo bacio le labbra che cantavano, arrestato i battiti di un'anima tirannica, attossicato i giovinetti col suo sudore salso come la schiuma del mare? Chi era? Chi era? Quale passato la faceva così smorta, così cocente e così perigliosa? Aveva ella già detto tutti suoi segreti e donato tutti i suoi doni? O poteva ella ancora meravigliare con nuove opere il suo nuovo amante, pel quale la vita il desiderio e la vittoria erano una cosa sola? — Tanto, e più e più, davano al sogno le esili vene delle sue tempie, l'ondulazione delle sue gote, la possa dei suoi fianchi, l'ombra glauca e quasi marina che era l'elemento in cui viveva quel volto come l'occhio nella sua propria umidità.

“Tutto il male, tutto il bene, quel che io so e quel che io ignoro, quel che tu sai e quel che tu ignori, tutto fu per la pienezza della nostra notte.” La vita e il sogno erano una cosa sola. I sensi e i pensieri erano come vini mesciuti in una medesima tazza. Le vesti, il viso nudo, le speranze, lo sguardo erano simili alle piante di quel giardino, all'aria, alle stelle, al silenzio. Diveniva apparente quell'armonia nascosta in cui la natura ha mescolato e celato le differenze e le diversità.

Attimo sublime e senza ritorno. Prima che l'anima fosse consapevole, le mani fecero il gesto del desiderio, toccarono la carne, l'attirarono, la godettero fredda e dolce.

Sentendo le mani maschie su le sue braccia nude, la donna arrovesciò il capo nell'ombra come per abbattersi. Tra le palpebre che morivano, tra le labbra che morivano, il bianco degli occhi, il bianco dei denti brillarono come le cose che brillano per l'ultima volta. Poi, rapidamente, il capo si risollevò, risuscitò; la bocca cercò la bocca che la cercava. L'una s'impresse nell'altra. Mai suggello fu più forte. Come l'arbusto, l'amore coprì entrambi gli illusi.

Si distaccarono; si fissarono senza vedersi. Non vedevano più nulla. Erano ciechi. Udivano un rombo terribile, come se il fremito del bronzo si fosse ridestato entro le loro fronti stesse. Tuttavia poterono intendere il tonfo sordo di un frutto che cadde su l'erba, dal ramo ch'essi avevano scosso nella stretta violenta. Si scrollarono come per gittar via un'ammantatura che li gravasse. Si rividero; ridivennero lucidi. Udirono le voci amiche sparse nel giardino, l'indistinto clamore lontanante pei canali ove ripassavano forse gli antichi corteggi.

— Ebbene? — domandò il giovine avidamente, bruciato fin nelle midolle da quel bacio di carne e d'anima.

La donna si chinò a raccogliere su l'erba la melagrana. Era matura, s'era aperta cadendo, versava il succo sanguigno; che bagnò la mano arida, macchiò la chiara veste. Con la visione della barca onusta e dell'isola pallida e della prateria d'asfodelo, tornarono allo spirito amante le parole dell'animatore: “Questo è il mio corpo... Prendete e mangiate!”.

— Ebbene?

— Sì.

Ella strinse il frutto nel pugno, con un moto d'istinto, come se volesse spremerlo. L'umore stillò, le rigò il polso. Tutto il suo corpo allora si contorse e vibrò intorno a un nucleo di fuoco, chiedendo di soggiacere. Di nuovo, il fiume gelido la sommergeva, le passava sopra, l'assiderava dalle radici dei capelli all'estremità delle dita, ma senza spegnere quel nucleo ardente.

— Come? Dite! — incalzò il giovine, quasi crudamente, poichè sentiva risorgere l'insania e ritornar da lontano l'odore dell'Orgia.

— Partite con gli altri, poi tornate... Vi aspetterò al cancello del Giardino Gradenigo.

Ella tremava del tristo tremore carnale, preda della forza invincibile. Egli la rivide in un lampo riversa, coperta di sudore, palpitante come la Menade dopo la danza. Si guardarono ancora; ma non poterono tollerare lo sguardo ferino della loro cupidigia. Soffrirono. Si allontanarono.

Ella andò verso le voci dei poeti che avevano esaltata la sua potenza ideale.

Perduta, perduta, ella era ormai perduta. Ella viveva ancora, disfatta, umiliata e ferita, come se fosse stata calpesta senza pietà; viveva ancora, e l'alba si levava, e ricominciavano i giorni, e la fresca marea rifluiva nella Città bella, e Donatella era pura sul suo guanciale. In una infinita lontananza dileguavasi l'ora, tuttavia così prossima, in cui ella aveva atteso l'amato al cancello, aveva udito i passi nel silenzio quasi funebre della fondamenta deserta, aveva sentito le sue ginocchia piegarsi come sotto a una percossa e la sua testa riempirsi del rombo terribile. Lontanissima era quell'ora; e tuttavia nella sua carne, sotto il tremolio lasciatovi dagli spasimi, persistevano con una strana intensità le sensazioni dell'attesa: il freddo del ferro a cui s'era appoggiata la sua fronte, il fortore affogante che saliva dall'erbe come da un maceratoio, la lingua tiepida dei levrieri di Myrta che eran venuti senza strepito a leccarle le mani.

— Addio, addio!

Era perduta. Egli s'era levato da quel letto come dal letto d'una cortigiana, divenuto quasi estraneo, quasi impaziente, attirato dalla freschezza dell'alba, dalla libertà del mattino.

— Addio!

Dalla finestra ella lo scorse su la riva respirare largamente l'aria vivida; poi udì nella grande calma la voce di lui limpida e sicura chiamare il gondoliere.

— Zorzi!

L'uomo dormiva in fondo alla gondola immobile, e il suo sonno umano era simile al sonno di quel legno curvo che gli obbediva. Come Stelio lo toccò col piede, egli si svegliò di soprassalto, balzò a poppa, afferrò il remo. L'uomo e il legno a un tempo erano desti, in accordo come un corpo solo, pronti a scorrere su l'acqua.

— Servo suo, paron! — disse Zorzi con un sorriso bonario, guardando il cielo che si rischiarava. — La se senta, che adesso me toca vogar mi.

Di contro al palazzo la porta di un'officina s'aperse. Era un'officina di tagliapietre, dove si tagliavano gradini nella pietra di Val di Sole.

“Per salire!” pensò Stelio; e il suo cuore superstizioso si rallegrò del buon augurio. Il nome della cava gli sembrò raggiante su la tabella. L'imagine d'una scala gli significò la sua stessa ascensione. Egli l'aveva già veduta, nel giardino abbandonato, su l'arme dei Gradenigo. “In alto, sempre più in alto!” La gioia ripullulava dal profondo. Il mattino eccitava le opere umane.

“E Perdita? E Arianna?” Egli le rivide in sommo della scala marmorea al lume delle fiaccole fumide così strette, nella ressa, che l'una si confondeva con l'altra in un medesimo biancheggiare, le due tentatrici, entrambe escite dalla folla come dall'amplesso d'un mostro. “E la Tanagra?” La Siracusana dai lunghi occhi caprini gli apparve in riposo congiunta alla terra madre, come la figura d'un bassorilievo appresa al piano in cui è scolpita. “La Trinità dionisiaca!” Egli se le figurava scevre d'ogni passione, immuni d'ogni male, come le creature dell'arte. La superficie della sua anima si copriva d'imagini splendide e rapide, come un mare sparso di vele gonfie. Il suo cuore non soffriva più. Un aspro senso di novità si spandeva per tutta la sua sostanza, col diffondersi della luce. Il calore della febbre notturna si disperdeva interamente nella brezza, i vapori si dissipavano. Accadeva in lui quel che accadeva intorno. Egli rinasceva col mattino.

Adesso no serve più che ti fazzi chiaro — mormorò maliziosamente il rematore, spegnendo il fanale della gondola.

— Per San Giovanni Decollato al Canal Grande! — gli gridò Stelio, sedendosi.

E, mentre la prua dentata volgeva pel rio di San Giacomo dall'Orio, egli si volse a riguardare il palazzo ch'era plumbeo nell'ombra. Una finestra illuminata si oscurò, come un occhio che s'accechi. “Addio, addio!” Il suo cuore ebbe un sussulto; la voluttà riondeggiò nelle sue vene; le imagini del dolore e della morte passarono su tutte le altre. La donna non più giovine era rimasta sola, lassù, con l'aspetto dell'agonizzante; la vergine chiusa si disponeva a ritornare verso il luogo del suo supplizio. Egli non seppe compiangere ma soltanto promettere. Dall'abondanza della sua forza egli trasse l'illusione di poter mutare quelle due sorti per la sua gioia. Il suo cuore non soffriva più. Ogni ansia cedette al piacere semplice che davano ai suoi occhi gli spettacoli mattutini. Gli celarono il pallore di Perdita le fronde soverchianti i muri degli orti, ove già si svegliava il cinguettìo dei passeri. Nelle ondulazioni dell'acqua si persero le labbra sinuose della cantatrice. Accadeva in lui quel che accadeva intorno. L'arco e l'eco dei ponti, le alghe natanti, il gemito dei colombi erano come il suo respiro, la sua fiducia, la sua fame.

— Férmati davanti al Palazzo Vendramin-Calergi — ordinò al rematore.

Lungo il muro di un orto, al passaggio, egli strappò alcune gracili piante fiorite negli interstizii del mattone che aveva il color cupo e ricco del sangue aggrumato. I fiori erano violetti, d'una estrema delicatezza, quasi impalpabili. Egli pensò ai mirti che crescono lungo il golfo di Egina, duri e fieri come cespugli di bronzo; pensò ai cipressetti foschi che coronano le cime sassose dei poggi toscani, agli alti allori che proteggono le statue nelle ville di Roma. Col pensiero accrebbe l'offerta di quei fiori autunnali troppo esigua per Colui che aveva saputo dare alla sua vita la grande vittoria che le aveva promessa.

— Accosta alla riva.

Il canale era deserto, antico fiume di silenzio e di poesia. Il cielo verde vi si specchiava con le sue ultime stelle morienti. Il palazzo al primo sguardo aveva un'apparenza aerea, come di una nuvola effigiata che posasse su l'acqua. L'ombra, ond'era ancora soffuso, aveva la qualità del velluto, la bellezza di una cosa magnifica e molle. E in quella guisa che in un velluto profondo si scoprono all'occhio l'opere, lentamente le linee dell'architettura si rivelarono nei tre ordini corintii che salivano con un ritmo di grazia e di forza al fastigio ove le aquile i corsieri le anfore, emblemi della vita nobile, s'intramezzavano alle rose dei Loredan. NON NOBIS, DOMINE, NON NOBIS.

Il gran cuore malato palpitava là. L'imagine del creatore barbarico riapparve: gli occhi cerulei brillarono sotto la fronte vasta, le labbra si serrarono sul robusto mento armate di sensualità, di superbia e di dispregio. — Dormiva egli? Poteva egli dormire? O era insonne, con la sua gloria? — Il giovine ripensò le strane cose che aveva udito raccontare di lui. — Era vero ch'egli non potesse dormire se non sul cuore della sua donna, strettamente abbracciato alla sua donna, e che pur nella vecchiezza gli persistesse questo bisogno del contatto d'amore? — Ripensò il racconto di Lady Myrta che aveva visitato a Palermo la Villa d'Angri dove gli armarii della stanza abitata dal vecchio erano rimasti impregnati d'un'essenza di rose così violenta che dava ancora le vertigini. Vide il piccolo corpo stanco inviluppato in drappi suntuosi, ornato di gemme, profumato come un cadavere composto pel rogo. — Non forse Venezia aveva dato a lui, come già ad Alberto Durero, il gusto delle voluttà e dei fasti? Ben nel silenzio dei canali egli aveva udito passare il più ardente soffio delle sue musiche: la passione mortale di Tristano e di Isolda.

Ora il gran cuore malato palpitava là; il formidabile impeto si placava là. Il palazzo patrizio, con le aquile con i corsieri con le anfore con le rose, era chiuso e muto come un alto sepolcro. Sopra quel marmo il cielo si infiammava all'alito dell'aurora.

“Salute al Vittorioso!” E Stelio Èffrena gettò i fiori dinanzi alla porta.

— Avanti! Avanti!

Incitato da quell'impazienza subitanea, il rematore si curvò sul remo. Il legno sottile guizzò su l'acqua. Tutto il canale era chiaro da una banda. Una vela fulva passava senza romore. Il mare, i flutti allegri, le risa dei gabbiani, il vento del largo si rappresentarono al desiderio.

— Voga, Zorzi! Alla Veneta Marina pel rio dell'Olio — gridò il giovine.

Il canale gli sembrava troppo angusto pel respiro della sua anima. Come il respiro la vittoria gli era ormai necessaria. Egli voleva riconoscere alla luce del mattino e all'acredine del mare la bontà della sua tempra, escito dal delirio notturno. Non aveva sonno. Sentiva intorno ai suoi occhi un cerchio di freschezza, come se li avesse lavati con la rugiada. Non provava alcun bisogno di riposarsi; e il letto dell'albergo gli faceva orrore come un giaciglio vilissimo. “Il ponte d'una barca, l'odore del catrame e del sale, il battito d'una vela rossa...”

— Voga, Zorzi!

Il vigore del gondoliere si raddoppiò. La forcola strideva di tratto in tratto sotto lo sforzo. Si dileguò il Fondaco dei Turchi, avorio meravigliosamente trascolorato e consunto, simile al portico superstite d'una meschita in ruina; passarono il palazzo dei Cornaro e il palazzo dei Pesaro, i due colossi opachi anneriti dal tempo come dal fumo d'un incendio; passò la Ca' d'oro, divino gioco della pietra e dell'aria; ed ecco, il Ponte di Rialto mostrò il suo ampio dorso, già tutto strepitoso di vita popolare, carico delle sue botteghe ingombre, odorante di ortaggi e di pesci, simile a una smisurata cornucopia che riversasse intorno per le rive l'abondanza dei frutti terrestri e marini a nutrirne la Città Dominante.

— Ho fame, Zorzi, ho una gran fame — disse Stelio ridendo.

Bon segno co' la notolada fa fame; xe ai vechi che la ghe fa sono — fece Zorzi.

— Accosta!

Egli comprò da una peata l'uva delle Vignole, i fichi di Malamocco raccolti su un piatto di pampini.

— Voga!

La gondola virò, sotto il Fondaco dei Tedeschi; scivolò per i canali angusti e oscuri, verso il rio di Palazzo. Le campane di San Giovanni Crisostomo, di San Giovanni Elemosinaro, di San Cassiano, di Santa Maria dei Miracoli, di Santa Maria Formosa, di San Lio sonavano sull'aurora gioiosamente. Lo strepito del mercato si perdeva nella salutazione dei bronzi, con gli odori della pesca, della verdura, del vino. Tra le mura di marmo e di mattone ancora dormenti, sotto la striscia del cielo la striscia dell'acqua andava sempre più risplendendo innanzi al ferro della prua come se l'accendesse la corsa; e quel crescere del fulgore dava a Stelio l'illusione d'una rapidità fiammeggiante. Egli pensò i vari delle navi che scendono nel mare sollevando nell'attrito le fiamme: l'onda fumiga intorno, il popolo acclama e applaude...

— Al Ponte della Paglia!

Un pensiero spontaneo come un istinto lo portava verso il luogo glorioso dove gli sembrava dovessero ancora rimaner le tracce delle sue animazioni liriche e gli echi del gran coro bacchico. “Viva il forte...” La gondola rasentò il fianco possente del Palazzo ducale, compatto in guisa d'un masso unico lavorato da scalpelli abili a trovar melodie come i plettri dei musici. Egli abbracciò la mole con tutta la sua anima rinata; vi riudì il suono della sua propria voce e lo scroscio degli applausi; vi rivide la smisurata chimera occhiuta dal busto coperto di scaglie splendide, lunga nereggiante sotto le enormi volute d'oro; e sé medesimo raffigurò oscillante su la moltitudine come un corpo concavo e sonoro, abitato da una volontà misteriosa. Egli diceva: “Creare con gioia! È l'attributo della divinità. Non è possibile imaginare al vertice dello spirito un atto più trionfale. Le parole stesse che lo significano hanno la splendidezza dell'aurora...”.

Egli ripeteva a sé, all'aria, all'acqua, alla pietra, all'antica Città, alla giovine aurora: “Creare con gioia! Creare con gioia!”.

Quando la prua passò di sotto al ponte ed entrò nello specchio di luce, egli ebbe nel più largo respiro, con la sua speranza e con il suo coraggio, tutta la bellezza e tutta la forza della vita anteriore.

— Trovami una barca, Zorzi, una barca che vada in alto mare!

Gli bisognava un respiro anche più largo, il vento, la salsedine, la schiuma, la vela gonfia, il bompresso appuntato verso l'orizzonte immenso.

— Alla Veneta Marina, trovami una barca di pescatori, un bragozzo di Chioggia!

Egli scorse una gran vela rossa e nera, allora allora issata, che palpitava nel prender vento, superba come un vecchio stendardo republicano, con il Leone ed il Libro.

— Eccola! Eccola! Raggiungila, Zorzi!

Impaziente, egli agitò la mano facendo il segnale dell'indugio.

— Grida alla barca che m'aspetti!

L'uomo del remo, acceso e grondante, gittò un grido di richiamo verso gli uomini della vela. La gondola volava come un sandalo in una regata. S'udiva l'anelito del petto robusto.

— Bravo Zorzi!

Ma anch'egli anelava, come se fosse per raggiungere la sua fortuna, una méta felice, la certezza d'un regno.

Semo andai in bandiera — disse il rematore stropicciandosi le palme cocenti, con un franco riso che parve rinfrescarlo tutto. — Vardè che stravaganza!

Il gesto, il tono, l'arguzia popolana, le facce attonite dei pescatori che si sporgevano dal parapetto, i riflessi della vela che facevano sanguigna l'acqua, l'odor cordiale del pane che esciva da un forno, l'odor della pece che cominciava a bollire in uno squero vicino, il vocìo degli arsenalotti che andavano al lavoro guerresco, tutta l'emanazione forte di quella riva ove si sentivano ancora le vecchie galere imputridite della Serenissima e rimbombavano sotto il martello le corazze delle navi d'Italia, tutte quelle cose rudi e sane suscitarono dal cuore del giovine un impeto di allegrezza che scoppiò in un riso della sua bocca. Egli e il rematore insieme ridevano, concordi, presso il fianco rattoppato e incatramato della barca peschereccia che aveva l'aspetto vivo d'una buona bestia da travaglio con la pelle aspra di rughe d'escrescenze e di cicatrici.

Cossa vorla? — domandò l'anziano dei marinai, inclinando verso le risa sonore la sua faccia barbata e cotta in cui non v'era di chiaro se non qualche pelo canuto e gli occhi grigi tra le palpebre arrovesciate dai vènti salmastri. — Cossa comandela, paron?

La maestra sbatteva e garriva come un vessillo.

El paron vorìa montar a bordo — rispose Zorzi. L'albero scricchiolava tutto vivo dal calcagnolo al pomo.

Ch'el monta pur. Co' nol vol altro, paron! — fece l'anziano semplicemente; e si volse per prendere la scala penzola.

L'attaccò a mezzapoppa. Era fatta d'alcuni cavigliotti consumati e d'una sola corda a doppino logora. Ma anch'essa, come tutte le particolarità del rozzo legno, parve a Stelio una cosa straordinariamente viva. Mettendovi il piede, ebbe vergogna della sua scarpa lucida e fine. La grossa mano dura del marinaio, segnata di emblemi azzurri, l'aiutò, lo tirò a bordo con una stratta.

— L'uva e i fichi, Zorzi!

Dalla gondola il rematore gli porse il piatto di pampini.

Che i vada in tanto sangue!

— E il pane?

Gavemo el pan caldo, — disse un marinaio alzando la bella forma tonda e bionda — apena cavà dal forno.

La fame doveva dargli un sapore delizioso, trovarvi adunata tutta la bontà del frumento.

— Servo suo, paron! E vento in pope! — gridò il rematore salutando.

Orza!

La vela latina si gonfiò, purpurea, col Leone e col Libro. La barca prese la bordata del largo, volgendo la prua verso San Servolo. La riva parve inarcarsi a sospingerla. Nella scia si mescolarono i filoni, uno glauco, l'altro roseo, producendo un vortice opalino; poi si cangiarono, alternarono tutti i colori, come se l'onda prodiera fosse un'iride fluida.

— Poggia!

Il naviglio virò di gran forza. Un miracolo lo colse. I raggi primi del sole trapassarono la vela palpitante, folgorarono gli angeli ardui su i campanili di San Marco e di San Giorgio Maggiore, incendiarono la sfera della Fortuna, coronarono di lampi le cinque mitre della Basilica. La Città anadiomene fu regina su l'acque con tutti i suoi veli lacerati.

“Gloria al Miracolo!” Un sentimento sovrumano di potenza e di libertà gonfiò il cuore del giovine come il vento gonfiò la vela per lui trasfigurata. Nello splendore purpureo della vela egli stette come nello splendore del suo proprio sangue. Gli parve che tutto il mistero di quella bellezza gli chiedesse l'atto trionfale. Si sentì capace di compierlo. “Creare con gioia!”

E il mondo era suo.

II. L'IMPERO DEL SILENZIO

“COL TEMPO.” In una sala dell'Academia, la Foscarina s'era soffermata dinanzi alla Vecchia di Francesco Torbido, a quella donna rugosa sdentata floscia e gialliccia che non può più sorridere né piangere, a quella specie di ruina umana che è peggiore della putredine, a quella specie di Parca terrestre che invece della conocchia o del filo o delle forbici tiene fra le dita il cartiglio su cui è scritto l'ammonimento.

— Col tempo! — ella ripetè, all'aria aperta, interrompendo il silenzio pensieroso in cui ella aveva sentito il suo cuore a poco a poco appesantirsi e discendere al fondo come una pietra in un'acqua cupa. — Conoscete, Stelio, la casa chiusa della Calle Gàmbara?

— No. Quale?

— La casa della contessa di Glanegg. — Non la conosco.

— Non sapete la storia della bellissima Austriaca?

— No, Fosca. Raccontate.

— Volete che andiamo sino alla Calle Gàmbara? Pochi passi.

— Andiamo.

Camminarono l'una a fianco dell'altro, verso la casa chiusa. Stelio si trattenne un poco indietro per guardare l'attrice, per vederla avanzare nell'aria morta. Abbracciò tutta la persona col suo sguardo caldo: la linea delle spalle declinante con una grazia così nobile, la cintola pieghevole e libera su i fianchi forti, le ginocchia che si movevano leggermente tra le pieghe della gonna, e quel pallido viso appassionato, quella bocca di sete e di eloquenza, quella fronte bella come una bella fronte virile, quegli occhi che s'allungavano nelle ciglia come vaporati da una lacrima che di continuo vi salisse e vi si dissolvesse senza sgorgarne, tutto quell'appassionato viso di luce e d'ombra, d'amore e di dolore, quella forza febrile, quella vita tremante.

— Ti amo, ti amo; tu sola mi piaci; tutto mi piace in te — le disse egli a un tratto, piano, presso la gota, quasi stringendosi a lei nel passo, mettendo il suo braccio sotto il braccio di lei, non potendo tollerare ch'ella fosse ripresa da quella pena, ch'ella soffrisse dell'atroce ammonimento. Ella trasalì, s'arrestò, abbassò le palpebre, bianca.

— Amico dolce! — disse, con una voce così lieve che le due parole parvero modulate non dalle sue labbra ma dal sorriso della sua anima.

Tutta la sua pena era divenuta fluida, mutata in una sola onda di tenerezza che si versava su l'amico abbandonatamente. Un'infinita gratitudine le diede il bisogno ansioso di trovare qualche gran dono per lui.

— Che posso fare, che posso fare per te? Dimmelo!

Ella imaginò una prova meravigliosa, una testimonianza d'amore inaudita e fulminea. “Servire, servire!” Ella desiderò il mondo per offrirglielo.

— Che vuoi? Dimmelo! Che posso fare per te?

— Amarmi, amarmi.

— Il mio amore è triste, povero amico!

— È perfetto, colma la mia vita.

— Tu sei giovine...

— Ti amo.

— Tu devi possedere le forze che ti somigliano...

— Tu esalti la mia forza e la mia speranza, ogni giorno. Il mio sangue aumenta, quando ti sono vicino, e tu taci. Allora nascono in me le cose che nel tempo ti meraviglieranno. Tu mi sei necessaria.

— Non dire!

— Ogni giorno tu mi assicuri che tutte le promesse mi saranno mantenute.

— Sì, tu avrai la tua bella sorte. Non temo per te. Tu sei sicuro. Nessun pericolo può sbigottirti; nessun ostacolo può interrompere il tuo cammino... Oh, poter amare senza temere! Chi ama teme. Io non temo per te. Tu mi sembri invincibile. Grazie anche di questo!

Ella mostrava la sua fede profonda come la sua passione, illimitata e lucida. Lungo tempo, pur nell'ardore della sua lotta e nelle vicende del suo peregrinare, ella aveva tenuto gli occhi intenti a quella giovine esistenza vittoriosa come a una forma ideale nata dalla purificazione del suo proprio desiderio. Più d'una volta, nella tristezza dei vani amori e nella nobiltà del divieto imposto, ella aveva pensato: “Ah, se alfine di tutto il mio coraggio che s'è indurito sotto le tempeste, se alfine di tutte le cose forti e limpide che il dolore e la ribellione hanno scoperto in fondo alla mia anima, se del meglio di me io potessi un giorno foggiarti le ali per l’altissimo volo!”. Più d'una volta la sua malinconia s'era inebriata d'un presentimento quasi eroico. Ella aveva talora assoggettata la sua anima alla constrizione e allo sforzo, l'aveva sollevata talora alla più ardua bellezza morale, l'aveva condotta verso gli atti dolorosi e puri, soltanto per meritare quel ch'ella sperava e temeva a un tempo, soltanto per sentirsi degna di offrire la sua servitù a colui ch'era impaziente di vincere.

Ed ora da un urto violento e repentino del fato ella era stata gettata contro di lui come una femmina bramosa, con tutta la sua carne tremante. Ella s'era mescolata a lui con tutto il suo sangue più acre. Ella lo aveva veduto dormire su lo stesso guanciale il sonno pesante della fatica d'amore; aveva conosciuto al suo fianco i risvegli subitanei, agitati dallo sgomento crudele, e l'impossibilità di richiudere le palpebre stanche, nel dubbio ch'egli la guardasse dormente, che le cercasse nel volto i segni degli anni, ne avesse disgusto, anelasse a una fresca giovinezza inconsapevole.

— Nulla vale quel che tu mi dai — disse Stelio premendole il braccio, cercandole con le dita il polso nudo sotto il guanto, per un bisogno quasi smanioso di sentire il battito di quella vita devota, la pulsazione di quel cuore fedele nei desolati luoghi ov'essi camminavano, sotto lo squallido fumo che li avvolgeva assordendo il rumore dei loro passi. — Nulla vale questa certezza di non esser più solo fino alla morte.

— Ah, tu lo senti dunque, tu lo sai che questo è per sempre! — esclamò ella con un impeto di gioia, vedendo trionfare il suo amore. — Per sempre, qualunque cosa avvenga, dovunque ti conduca la tua sorte, comunque tu voglia ch'io ti serva, Stelio, da vicino, da lontano...

Si diffondeva per l'aria fumida una confusa monotonia ch'ella riconobbe. Era il coro delle passere, nel giardino della contessa di Glanegg, adunate su i grandi alberi moribondi. La parola le si spense su le labbra. Ella fece l'atto istintivo di volgersi, di trarre seco l'amico verso un'altra parte.

— Dove andiamo? — chiese egli, riscosso dal brusco movimento della sua compagna e da quell'interruzione inattesa che era come la fine di un incanto o di una musica.

Ella s'arrestò. Sorrise di quel suo tenue sorriso asconditore. “COL TEMPO.”

— Volevo fuggire — disse — ma non si può.

Ella era là come una pallida fiamma.

— Avevo dimenticato che vi conducevo verso la casa chiusa, Stelio.

Ella era là, nel giorno cinereo, priva d'ogni forza, smarrita come in un deserto.

— Mi pareva che avessimo un'altra mèta. Ma siamo giunti. Col tempo!

Ella gli appariva ora come in quella notte indimenticabile quando aveva supplicato: “Non mi fate male!”. Era là, vestita di quella sua segreta anima tenera, così facile a essere uccisa, a esser distrutta, immolata senza sangue.

— Andiamo, andiamo, — disse egli facendo l'atto di muoverla — andiamo oltre.

— Non si può.

— Andiamo a casa tua, andiamo a casa tua; accendiamo il fuoco, il primo fuoco d'ottobre. Lascia che io passi la sera con te, Foscarina! Fra poco piove. Sarà così dolce restare nella tua stanza, a parlare, a tacere, con le mani nelle mani... Vieni. Andiamo.

Egli avrebbe voluto prenderla fra le sue braccia, cullarla, consolarla, sentirla piangere, beverne le lacrime. Il suono stesso delle sue parole carezzevoli aumentava la sua tenerezza. Di tutta la persona amante egli amò allora perdutamente i segni delicati che si partivano dall'angolo degli occhi verso le tempie, e le piccole vene oscure che rendevano le palpebre simili alle violette, e l'ondulazione delle gote, e il mento estenuato, e tutto quello che pareva tócco dal male d'autunno, tutta l'ombra su l'appassionato viso.

— Foscarina! Foscarina!

Quando egli la chiamava pel suo vero nome, il cuore gli palpitava più forte, come se qualche cosa di più profondamente umano entrasse nel suo amore, come se a un tratto tutto il passato si riattaccasse alla figura ch'egli isolava nel sogno e innumerevoli fili ne riallacciassero tutte le fibre alla vita implacabile.

— Vieni. Andiamo!

Ella sorrideva penosamente.

— Ma perchè, se la casa è là? Passiamo per la Calle Gàmbara. Non volete sapere la storia della contessa di Glanegg? Guardate! Sembra un monastero.

La calle era soletta come il sentiere di un eremo, grigiastra, umidiccia, sparsa di foglie màcere. Il grecolevante creava nell'aria una fumèa tarda e molle che assordiva i romori. La monotonia confusa somigliava or sì or no a un suono di legni e di ferri che cigolassero.

— Dietro quelle mura un'anima desolata sopravvive alla bellezza d'un corpo — disse la Foscarina pianamente. — Guardate! Le finestre sono chiuse, le persiane sono fisse, le porte hanno i suggelli. Una sola fu lasciata aperta, quella dei servitori, per dove entra il nutrimento della morta, come nelle tombe egizie. I servitori nutrono un corpo estinto.

Gli alberi sopravanzando la cinta claustrale parevano fumigare per le cime quasi nude; e le passere, più numerose delle foglie malate su i rami, cigolavano cigolavano senza pause.

— Indovinate il nome. È bello e raro, come se voi l'aveste ricercato.

— Non so.

— Radiana! Si chiama Radiana, la prigioniera.

— Ma di chi è prigioniera?

— Del Tempo, Stelio. Il Tempo veglia alle porte con la sua falce e col suo polverino, come nelle vecchie stampe...

— Un'allegoria?

Passò un fanciullo, zufolando. Come vide i due che guardavano verso le finestre chiuse, si soffermò a guardare anch'egli con i suoi larghi occhi curiosi ed attoniti. Essi tacquero. Il cigolare assiduo delle passere non sopraffaceva il silenzio delle mura, dei tronchi, del cielo poichè la monotonia era negli orecchi loro come il rombo nelle conche marine ed essi attraverso quella sentivano la taciturnità delle cose intorno e qualche voce remota. L'urlo rauco d'una sirena si prolungò nella lontananza fumosa facendosi a poco a poco dolce come una nota di flauto. Si spense. Il fanciullo si stancò di guardare: non accadeva nulla di visibile; le finestre non s'aprivano; tutto restava immobile. Partì di corsa.

S'udì la fuga dei suoi piccoli piedi scalzi su le pietre umide e su le foglie màcere.

— Dunque? — domandò Stelio. — Che fa Radiana? Non mi avete ancora detto chi ella sia e perchè chiusa. Raccontatemi. Ho pensato a Soranza Soranzo.

— È la contessa di Glanegg, una tra le più alte dame della nobiltà viennese, forse la più bella creatura ch'io abbia mai incontrata in terra. Franz Lenbach l'ha ritratta nell'armatura delle Valchirie, col casco dalle quattro ali. Non conoscete Franz Lenbach? Non siete mai entrato nel suo studio rosso al Palazzo Borghese?

— No, mai.

— Andateci, un giorno. E domandategli che vi mostri quel ritratto. Non dimenticherete il volto di Radiana mai più. Lo vedrete, come ora lo vedo io a traverso le mura immutato. Ella ha voluto rimaner tale nella memoria di chi l'aveva vista risplendere. Quando in un mattino troppo chiaro si accorse che era venuto per lei il tempo di sfiorire, risolse di accommiatarsi dal mondo perchè gli uomini non assistessero al deperimento e allo sfacelo della sua bellezza illustre. Forse la simpatia delle cose che si disgregano e cadono in rovina la trattenne a Venezia. Ella diede una magnifica festa di congedo, in cui parve ancora sovranamente bella. Poi si ritirò per sempre in questa casa che vedete, dentro quest'orto murato, con i suoi servitori, aspettando la fine. È divenuta una figura di leggenda. Si dice che nella casa non vi sia uno specchio e ch'ella abbia dimenticato il suo volto. Pur ai suoi amici più devoti e ai suoi parenti prossimi è imposto il divieto di visitarla. Come vive? In compagnia di quali pensieri? Con quale arte inganna il tedio dell'attesa? La sua anima è in uno stato di grazia?

Ogni pausa della sua voce velata, che interrogava il mistero, si empiva d'una malinconia così densa che pareva quasi materiale, quasi misurata da quel ritmo di singulto che ha l'acqua entrando in un'urna.

— Prega? Contempla? Piange? O forse è divenuta inerte; non soffre, come non soffre un pomo che s'aggrinzisce in fondo a un vecchio armadio.

La donna tacque. Le sue labbra si piegarono in giù, quasi che quelle parole le avessero fatte appassire.

— Se ora, d'improvviso, s'affacciasse a quella finestra? — disse Stelio; che ebbe nell'udito, come una sensazione reale, lo stridore dei cardini.

Entrambi spiarono gli interstizii delle gelosie inchiodate.

— Potrebbe esser là a guardarci — soggiunse egli sommessamente.

L'uno comunicò all'altra il suo brivido.

Erano addossati al muro di contro e non avevano volontà di muovere un passo. L'inerzia delle cose li invadeva, l'umido fumo cinerino li fasciava addensandosi; la confusa monotonia li stordiva come quella medicina che stordisce i febricitanti. Le sirene ululavano nella lontananza. Gli ululi rochi a poco a poco diminuendo si facevano dolci come note di flauti nell'aria molle, parevano indugiarsi come quelle foglie trascolorate che abbandonavano il ramo a una a una senza gemere. Quanto era lungo il tempo che passava tra il distaccarsi della foglia e il suo giungere a terra! Tutto era lentezza, vapore, abbandono, consumo, cenere.

— Bisogna che io muoia, amico mio dolce, bisogna che io muoia! — disse la donna, dopo un lungo silenzio, con una voce straziante, sollevando la faccia dal cuscino dov'ella l'aveva premuta per domare la convulsione di voluttà e di dolore che le avevano date le carezze improvvise e furenti.

Vide il suo amico su l'altro divano, discosto, là, presso il balcone, nell'attitudine di chi sta per assopirsi, con gli occhi socchiusi, col capo riverso, colorato d'oro dalla luce della sera. Vide sotto il labbro di lui un segno rosso come una piccola ferita, su la fronte di lui i capelli sconvolti. Sentì che di quelle cose si nutriva il suo desiderio e si riaccendeva torbidamente. Sentì che le sue palpebre facevano male alle sue pupille, come più ella guardava, e che il suo sguardo bruciava i suoi cigli, e che dalle pupille entrava in lei e le si spandeva per tutto il corpo sfiorito quel male inguaribile. Perduta, perduta, ella era ormai perduta senza rimedio!

— Morire? — disse il suo amico, debolmente, senza aprire gli occhi, senza muoversi, come dal fondo della sua malinconia e del suo sopore.

Ella scorse la piccola ferita sanguinante muoversi sotto il labbro, nella parola.

— Prima che tu mi odii...

Egli aprì gli occhi, si sollevò, tese verso di lei la mano come per impedirle di proseguire.

— Ah, perchè ti tormenti?

La vide quasi livida, coperta le gote dalle ciocche disfatte, consumata come se un veleno la corrodesse, piegata come se la sua anima fosse rotta a traverso la sua carne, tremenda e miserabile.

— Che fai tu di me? Che facciamo di noi? — disse la donna angosciosamente.

Essi avevano combattuto, col fiato nel fiato, col cuore contro il cuore; s'erano congiunti come in una mischia; avevano sentito nella saliva il sapore del sangue. D'improvviso, avevano ceduto a un impeto di desiderio come a una cieca volontà di distruggersi. L'uno aveva scosso la vita dell'altra come per isvellerla dalle infime radici. Spasimando avevano sentito l'acutezza dei denti nei loro baci crudeli.

— Ti amo.

— Non così, non così vorrei...

— Tu mi turbi. A un tratto la furia mi prende...

— È come un odio...

— No, no, non dire!

— Tu mi scrolli e mi schianti come se tu volessi finirmi...

— Tu m'accechi. Non so più nulla.

— Che ti turba? Che vedi tu in me?

— Non so, non so che sia.

— Io lo so.

— Non ti tormentare! Ti amo. Questo è l'amore...

— Che mi condanna. Bisogna ch'io ne muoia. Dammi ancora il nome che tu mi davi!

— Sei mia; ti posseggo; non ti perderò.

— Mi perderai.

— Ma perchè? Non comprendo. Che demenza è la tua? Il mio desiderio ti offende? Ma tu, non mi desideri tu forse? Non sei presa dalla stessa furia di possedermi e d'esser posseduta? I tuoi denti battevano, prima che io ti toccassi...

Insofferente, egli la bruciava più a dentro, le inaspriva la piaga. Ella si coprì il volto con le palme. Il cuore le colpiva il petto divenuto rigido, in guisa d'un maglio di cui ella sentisse ripercuotersi a sommo del cranio i colpi duri.

— Guarda!

Egli si toccò il labbro dove gli doleva, spremette la piccola ferita; stese verso la donna le sue dita tinte dalla stilla di sangue che n'era sgorgata.

— Tu m'hai lasciato il segno. Tu mordevi come una fiera...

Subitamente ella si levò in piedi torcendosi, come s'egli l'avesse aizzata con ferro rovente. Spalancò gli occhi sopra di lui, come per divorarlo con lo sguardo. Le sue narici palpitarono. Una forza spaventosa s'agitò nella sua cintura. Tutto il suo corpo vibrando si sentì nudo sotto la tunica come se le pieghe non più vi aderissero. Il suo volto, escito dal cavo delle palme come da una maschera cieca, riarse cupo come un fuoco senza raggi. Ella fu bellissima, terribile e miseranda.

— Ah Perdita, Perdita!

Mai mai mai quell'uomo dimenticherà il passo che la Lussuria mosse verso di lui, il modo ch'ella ebbe nell'appressarsi, la rapida onda muta che gli si rovesciò sul petto, che l'avviluppò, che l'aspirò, che gli diede per alcuni attimi la paura e la gioia di patire una violenza divina, di dissolversi in una specie di calda umidità letale, come se tutto il corpo della donna avesse assunto a un tratto la qualità di una bocca suggente ed egli vi fosse preso intero.

Chiuse gli occhi; obliò il mondo, la gloria. Una profondità tenebrosa e sacra si fece in lui come in un tempio. Il suo spirito era opaco e immobile; ma tutti i suoi sensi aspiravano a trascendere il limite umano, a gioire oltre l'impedimento, divenuti sublimi, atti a penetrare i misteri più remoti, a scoprire i segreti più reconditi, a trarre una voluttà da una voluttà come un'armonia da un'armonia, meravigliosi istrumenti, infinite virtù, realtà certe come la morte. Tutto vaniva come vapori: nella sola mescolanza dei sessi convergevano le energie e le aspirazioni dell'Universo; i cieli la consacravano; l'ombra e la cortina la rendevano religiosa; l'accompagnava il rombo della morte.

Aprì gli occhi. Vide la stanza oscurata, per il balcone aperto i cieli lontanissimi, gli alberi, le cupole, le torri, la laguna estrema su cui s'inclinava la faccia del crepuscolo, i Colli Euganei ceruli e quieti come le ali ripiegate della terra nel riposo della sera. Vide le forme del silenzio, e la silenziosa forma che aderiva a lui come la scorza al fusto.

La donna gli pesava sopra con tutto il suo peso, lo teneva allacciato e coperto, premeva la fronte contro l'omero di lui, nascosta il volto, soffocatamente, con una stretta che non si allentava mai, indissolubile come quella del cadavere quando le sue braccia s'irrigidiscono intorno al vivente. Pareva ch'ella non volesse più abbandonare la sua presa, ch'ella non potesse più esserne distaccata se non con la recisione dei cubiti. Egli sentiva nel cerchio la solidità e la tenacità delle ossa, mentre sentiva sul suo petto e lungo le sue gambe la mollezza di quella carne che gli tremava sopra a quando a quando come trema su la ghiaia l'acqua corrente. Indefinite cose passavano passavano in quel tremolio d'acqua, innumerevoli, continue, sorgendo dal fondo, scendendo di lontano; passavano passavano, sempre più folte, più oscure, più impure, fiume di torbida vita. Anche una volta egli conobbe che di quella impurità si nutriva l'acre sua brama, di quell'ignoto ingombro, di quelle tracce d'amori perduti, di quella corporale tristezza, di quella indicibile disperazione. Anche una volta egli seppe che i fantasmi d'altri gesti incitavano la violenza del suo gesto bramoso verso la donna nomade. Ora egli soffriva di lei, di sé; e la sentiva soffrire, e la sentiva sua come il legno è della fiamma che lo consuma; e riudiva le parole inaspettate dopo il furore: “Bisogna ch'io muoia!”.

Volse ancora gli occhi all'aperto; vide nereggiare gli orti, le case illuminarsi, una stella sgorgare dalla doglia del cielo, in fondo alla laguna rilucere una lunga spada pallida, i colli confondersi con i lembi della notte, le lontananze distendersi verso contrade ricche di beni ignoti. V'erano azioni da compiere pel mondo, conquiste da proseguire, sogni da esaltare, destini da sforzare, enigmi da tentare, lauri da cogliere. V'erano cammini laggiù, misteriosi d'imprevedibili incontri. Qualche felicità velata vi passava senza che alcuno la incontrasse o la riconoscesse. Non forse viveva in quell'ora pel mondo un eguale, un fratello o un nemico lontano, su la cui fronte scendeva, dopo un giorno di travagliata attesa, l'inspirazione fulminea onde nasce l'opera eterna? Qualcuno in quell'ora aveva finito qualche alto lavoro o aveva trovato alfine una ragione eroica di vivere. Ma egli era là, nella carcere del suo corpo, giacente sotto il peso della donna disperata. Quella sorte magnifica di dolore e di potenza, simile a un naviglio carico di ferro e d'oro, veniva a infrangersi contro di lui come contro uno scoglio. Che faceva, che pensava nella sera Donatella Arvale sul suo colle toscano, nella sua casa solitaria, presso il padre demente? Temprava la sua volontà per una lotta meditata? Approfondiva il suo segreto? Era pura?

Egli divenne inerte sotto la stretta; sentì le sue braccia impedite dal cerchio rigido. Muta e immobile la repulsa occupò tutto il suo essere. Una malinconia forte come un'ambascia s'addensò intorno al suo cuore. Gli parve che il silenzio attendesse un grido. Nelle sue membra intorpidite sotto il peso le vene pulsarono dolenti. La stretta a poco a poco s'allentava, come se la vita venisse meno. Le parole strazianti gli tornarono nell'anima. Uno sgomento subitaneo l'assalì, all'apparizione di un'imagine funebre. E tuttavia egli non si mosse, non parlò, non tentò di dissipare quella nube d'angoscia che s'accumulava sopra entrambi. Restò inerte. Smarrì la conoscenza dei luoghi, la misura del tempo. Vide sé e la donna in mezzo a una pianura infinita, sparsa d'erbe arsicce, sotto un cielo bianco. Essi attendevano, attendevano che una voce li chiamasse, che una voce li sollevasse... Un sogno confuso nasceva dal suo torpore, ondeggiava, si mutava, si attristava sotto l'incubo. Ora egli credeva di salire per un'erta con la sua compagna, affannosamente, e l'affanno di lei troppo inumano incrudiva il suo affanno...

Ma trasalì, riaprì le palpebre, udendo una squilla. Era la campana di San Simeone Profeta, così vicina che pareva sonasse entro la stanza. Il suono metallico trafiggeva gli orecchi come uno stocco.

— T'eri assopita anche tu? — chiese egli alla donna, sentendola abbandonata quasi fosse già estinta.

E levò una mano, le sfiorò i capelli, la gota, il mento.

Come se quella mano le schiantasse il cuore, ella ruppe in singhiozzi. Singhiozzò singhiozzò, là, sopra il petto di lui, senza morirvi.

— Ho un cuore, Stelio — disse la donna guardandolo nelle pupille con uno sforzo penoso che le fece tremare il labbro, come s'ella avesse dovuto vincere una timidezza selvaggia per proferire quelle parole. — Soffro d'un cuore che è vivo qui, ah, Stelio, vivo e avido e angosciato come non saprete mai...

Ella sorrise del suo tenue sorriso asconditore, esitò, tese la mano verso un mazzo di violette, lo prese, lo accostò alle nari. Le sue palpebre si abbassarono, la sua fronte rimase scoperta tra i capelli e i fiori meravigliosamente bella e triste.

— Voi lo ferite qualche volta, — disse piano con l'alito nelle violette — qualche volta gli siete crudele...

Pareva che quella cosa umile e odorante l'aiutasse a confessare la sua pena, a velare anche di più il suo rimprovero timido verso il suo amico. Ella tacque; egli chinò il capo. S'udivano crepitare i tizzi su gli alari; s'udiva la pioggia eguale battere il giardino in lutto.

— Una gran sete di bontà, ah voi non saprete mai che sete!... La bontà, amico mio dolce, quella vera, quella profonda, che non sa parlare ma che comprende, che sa tutto donare in un solo sguardo, in un piccolo gesto, ed è forte, ed è sicura, sempre diritta contro la vita che macchia e che seduce... La conoscete?

La sua voce era a volta a volta ferma e vacillante, così calda di lume interiore, così piena di anima rivelata, che il giovine la sentiva passare a traverso tutto il suo sangue non come un suono ma come un'essenza spiritale.

— In voi, in voi la conosco!

Egli le prese le mani che tenevano su le ginocchia le violette; le baciò entrambe con sommessione, curvandosi. Restò ai piedi di lei, nell'atto sommesso. Il delicato profumo ingentiliva la sua tenerezza. Nella pausa, il fuoco e l'acqua parlarono.

La donna domandò limpidamente:

— Credete che io sia sicura per voi?

— Non mi hai tu guardato dormire sul tuo cuore? — rispose egli, con la voce alterata, preso a un tratto da una commozione nuova, poichè egli vide nella domanda l'anima nuda e alzata presentarsi a lui, sentì scoperto il suo segreto bisogno di credere e di confidare.

— Sì, ma che vale? La giovinezza ha il sonno tranquillo su qualunque origliere. Tu sei giovine...

— Ti amo e credo in te; m'abbandono intero. Tu sei la mia compagna. La tua mano è salda.

Egli aveva veduto la nota angoscia scomporre le linee del caro viso; e il suo accento aveva tremato d'amore.

— Bontà! — disse la donna accarezzandogli i capelli su la tempia con un gesto lieve. — Tu sai essere buono, tu hai il bisogno di consolare, amico dolce! Ma un fallo è stato commesso, e conviene espiarlo. Prima mi pareva che avrei potuto fare per te le cose più umili e più alte; ed ora mi sembra di non potere se non una sola cosa: andarmene, scomparire, lasciarti libero con la tua sorte...

Egli la interruppe sollevandosi, prendendo il caro viso tra le sue palme.

— Questa cosa io posso, che l'amore non può! — disse ella piano, impallidendo, guardandolo come non l'aveva guardato mai.

Egli sentì un'anima nel cavo delle sue palme, un'imagine di fonte viva, infinitamente bella e preziosa.

— Foscarina, Foscarina, anima, vita, sì, sì, più che l'amore, io so che tu puoi darmi più che l'amore; e nulla vale per me questo che tu puoi darmi; e nessuna altra offerta potrebbe consolarmi di non averti al mio fianco nel mio cammino. Credi, credi! Tante volte te l'ho ripetuto, ricordati!, anche quando tu non eri ancora tutta mia, anche quando ci separava ancora il divieto...

Tenendola chiusa in quell'atto, egli si chinò, la baciò su le labbra appassionatamente.

Ella rabbrividì per tutte le ossa: il fiume gelido le passava sopra, l'assiderava.

— No, non più! — pregò, bianca.

Allontanò da sé il suo amico. Non seppe contenere l'anelito nel suo petto. Si chinò, come in sogno, a raccogliere le violette che erano cadute.

— Il divieto! — disse, dopo un intervallo di silenzio.

Un sordo ruggito esciva da un tizzo resistente al morso della vampa; la pioggia crosciava su le pietre e su i rami. Di tratto in tratto il romore imitava l'agitazione del mare, evocava le solitudini ostili, le lontananze inospiti, gli esseri vaganti sotto il rigore dei cieli.

— Perchè l'abbiamo violato?

Stelio aveva gli occhi intenti allo splendore mobile del focolare; ma nelle sue mani aperte e supine persisteva la sensazione portentosa, il vestigio del miracolo, la traccia di quella sembianza umana a traverso il cui pallore miserevole era passata quell'onda di sublime bellezza.

— Perchè? — ripetè la donna, dolorosamente. — Ah, confessate, confessate che anche voi in quella notte, prima che la furia cieca ci prendesse e ci travolgesse, anche voi sentiste che tutto stava per essere devastato e perduto, anche voi sentiste che non bisognava cedere se volevamo salvare il bene che era nato da noi, quella cosa forte e inebriante che mi pareva il solo pregio della mia vita. Confessate, Stelio, dite la verità! Io potrei quasi ricordarvi il momento in cui la buona voce vi parlò. Non fu su l'acqua, andando verso la casa, mentre era là con noi Donatella?

Aveva avuto un attimo d'esitazione, prima di proferire quel nome; e aveva provato poi un'amarezza quasi fisica che dalle labbra le scese dentro, come se quelle sillabe fossero ormai divenute venefiche per lei. Soffrendo, attese che il suo amico le rispondesse.

— Non so più rivolgermi indietro, Fosca, — egli rispose — né vorrei. Non ho perduto il mio bene. Mi piace che la tua anima abbia una bocca pesante, e che il tuo sangue se ne vada dal tuo viso quando ti tocco e tu senti che ti desidero...

— Taci, taci, — ella implorò — non mi turbar sempre! Lascia che io possa parlarti della mia pena! Perchè non mi aiuti?

Si ritrasse un poco fra i cuscini ov'era seduta, si contrasse come sotto una violenza brutale, guardando fissamente la vampa per non guardare l'amato.

— Più d'una volta ho veduto nei tuoi occhi qualche cosa che m'ha fatto orrore — potè dire alfine con uno sforzo che rese rauca la parola.

Egli trasalì ma non osò contrastarla.

— Orrore! — ella ripetè, più chiaramente, implacabile contro sé stessa, avendo ormai vinta la sua paura e afferrato il suo coraggio.

Erano entrambi dinanzi alla verità, con i loro cuori palpitanti e nudi.

La donna parlò senza debolezza.

— La prima volta fu laggiù, nel giardino, quella notte... Io so quel che vedevi in me: tutto il fango sul quale ho camminato, tutta l'infamia che ho calpestata, tutta l'impurità di cui ho avuto ribrezzo... Ah, tu non avresti potuto confessare le visioni che accendevano la tua febbre! Tu avevi gli occhi crudeli e la bocca convulsa. Quando sentisti che mi ferivi, avesti pietà... Ma poi, ma poi...

Ella s'era coperta di rossore, e la sua voce s'era fatta impetuosa, e le sue pupille brillavano.

— Avere alimentato, per anni, del meglio di me un sentimento di devozione e di ammirazione senza limiti, da vicino, da lontano, nella gioia, nella tristezza; aver ricevuto col più puro atto di riconoscenza ogni consolazione offerta agli uomini dalla vostra poesia, e avere atteso ansiosamente altri doni e sempre più alti e sempre più consolanti; aver creduto nella forza grande del vostro genio sin dall'aurora e non aver mai distaccato gli occhi dalla vostra salita e averla accompagnata con un voto che è stato come la mia preghiera del mattino e della sera per anni; silenziosamente, ferventemente aver proseguito lo sforzo continuo di dare qualche bellezza, qualche armonia al mio spirito per renderlo meno indegno di avvicinarsi al vostro; tante volte, su la scena, dinanzi a una platea ardente, aver pronunziato con un brivido qualche parola immortale pensando a quella che un giorno voi avreste forse voluto dare alla folla per mezzo della mia bocca; aver lavorato senza tregua, aver tentato sempre di giungere a un'arte più semplice e più intensa, avere aspirato di continuo alla perfezione, pel timore di non piacervi, di apparir troppo diseguale al vostro sogno; avere amata la mia gloria fugace soltanto perchè potesse un giorno servire alla vostra; avere affrettato col fervore della fede più certa le vostre nuove rivelazioni, per potermi offrire a voi come uno strumento della vostra vittoria, prima della mia decadenza; e aver difeso contro tutto e contro tutti questa idealità della mia anima nascosta, contro tutti e pur contro me stessa, anzi più coraggiosamente e più duramente contro me stessa; aver fatto di voi la mia malinconia, la mia speranza tenace, la mia prova eroica, il segno di tutte le cose buone forti e libere, ah Stelio, Stelio...

Ella s'arrestò un istante, soffocata dalla piena, offesa dal ricordo come da una nuova onta.

— ... e arrivare a quell'alba, e vedervi così partire dalla mia casa, in quell'alba orrenda!

Ella si sbiancò, perse tutto il sangue della sua faccia.

— Te ne ricordi?

— Felice, felice, ero felice! — egli le gridò, con la voce strozzata, sconvolto nel profondo.

— No, no... Te ne ricordi? Ti levasti dal mio letto come dal letto d'una cortigiana, sazio, dopo qualche ora di piacere violento...

— T'inganni, t'inganni!

— Confessa! Di' la verità! Soltanto con la verità potremmo salvarci ancora.

— Ero felice, avevo tutto il cuore aperto, sognavo e speravo, credevo di rinascere...

— Sì, sì, felice di respirare, di ritrovarti libero, di sentirti giovine ancora nel vento e nel giorno. Ah, tu avevi mescolato troppe cose acri alle tue carezze, troppi veleni al tuo piacere. Che vedesti tu in quella che tante volte aveva agonizzato nella rinunzia — e tu lo sai, — sì, agonizzato piuttosto che rompere il divieto necessario a far vivere il sogno ch'ella portava seco nel suo continuo errare pel mondo? Di': che vedesti tu se non la creatura corrotta, la carne di voluttà, l'avanzo degli amori avventurosi, l'attrice vagabonda che è nel suo letto come su la scena, di tutti e di nessuno...

— Foscarina! Foscarina!

Egli si gettò sopra di lei, le chiuse le labbra con la mano tremante, sconvolto, rimescolato.

— No, no, non dire! Taci! Tu sei folle, tu sei folle...

— Orrore! — mormorò ella cadendo riversa su i cuscini, come se perdesse la conoscenza, estenuata dall'impeto, smorta sotto quel fiotto di amarezza che le era sgorgato dal fondo del cuore.

Ma i suoi occhi rimanevano aperti e dilatati, immobili come due cristalli, induriti come se più non avessero ciglia, fissi sopra di lui. Gli impedivano di parlare: di negare o di attenuare la verità ch'essi avevano scoperto. Dopo alcuni attimi, gli divennero intollerabili. Egli li chiuse con le sue dita, come si chiudono quelli degli estinti. Ella vide il gesto che era d'una infinita malinconia, sentì su le palpebre le dita che la toccavano come soltanto l'amore e la pietà sanno toccare. L'amarezza si dileguò; il nodo aspro si disciolse; le ciglia s'inumidirono. Ella tese le braccia, le cinse al collo di lui, e un poco si sollevò sostenendovisi. Parve restringersi tutta in sé, divenire anche una volta lieve e debole, piena d'una silenziosa implorazione.

— Bisogna dunque che io me ne vada! — sospirò, con la voce umida del pianto interiore. — Non v'è riparo? Non v'è perdono?

— Ti amo — disse l'amato.

Ella liberò un braccio e tese la mano aperta verso il focolare, come per uno scongiuro. Poi riabbracciò il giovine strettamente.

— Sì, ancóra per poco, ancóra per poco! Lasciami rimanere ancora con te! Poi me ne andrò, me ne andrò a morire lontano, laggiù, sotto un albero, sopra una pietra. Lasciami rimanere ancóra un poco!

— Ti amo — disse l'amato.

Pareva che le forze cieche e indòmite della vita turbinassero sul loro capo, sul loro abbracciamento. Poichè le sentivano e se ne sbigottivano, essi si stringevano più forte; e dalla stretta dei due corpi nascevano per le loro anime un bene e un male strazianti, ch'erano commisti e confusi e non più separabili. La voce degli elementi parlava nel silenzio un linguaggio oscuro che era come un'incompresa risposta alla loro muta interrogazione. Il fuoco e l'acqua, da presso, da lungi, favellavano, rispondevano, raccontavano. A poco a poco attrassero lo spirito dell'animatore, lo sedussero, se ne impadronirono, lo trascinarono nel mondo dei miti innumerevoli ch'eran nati dalla loro eternità. Egli udì nei suoi orecchi, in sensazione reale e profonda, risonare le due melodie che esprimevano l'intima essenza delle due Volontà elementari, le due melodie meravigliose ch'egli aveva già trovate per intesserle nella trama sinfonica della nuova tragedia. Le fitte del dolore, il tremolio dell'inquietudine cessarono a un tratto, come per una tregua felice, per un intervallo d'incanti nella miseria. Anche le braccia della donna si disciolsero, come se obbedissero a un misterioso comando di liberazione.

— Non v'è riparo — disse ella a sé medesima, come ripetendo la parola d'una condanna ch'ella avesse udita con i suoi orecchi in quel modo che l'altro aveva udito le grandi melodie.

Si curvò, appoggiò il mento su la palma e il cubito sul ginocchio; restò in quell'atto fissa al focolare, con la fronte corrugata.

Egli la guardò, tornò alla sua pena. La tregua gli era trascorsa, troppo breve; ma il suo spirito s'era orientato verso la sua opera, e gli rimaneva una concitazione che somigliava all'impazienza. Ora quella pena gli sembrava inutile; l'angoscia della donna gli sembrava quasi importuna, poichè egli l'amava, poichè egli la desiderava e le sue carezze erano ardenti ed entrambi erano liberi e il luogo ov'essi vivevano era favorevole ai loro sogni e ai loro piaceri. Avrebbe voluto trovare un modo improvviso di rompere quel cerchio ferreo, di dissipare quel tristo vapore, di ricondurre la sua amica alla gioia. Chiese alla sua grazia qualche invenzione delicata per trarre l'afflitta al sorriso, per addolcirla. Ma gli mancava ora quell'abbandonata malinconia e quella pietà tremante che avevano dato alle sue dita un tocco tanto soave nel chiudere i disperati occhi. L'istinto non gli suggeriva se non il gesto sensuale, la carezza che attutisce l'anima, il bacio che confonde i pensieri.

Esitò; la guardò. Ella rimaneva in quel medesimo atto, curva, poggiata alla palma il mento, corrugata la fronte. La vampa le rischiarava il viso, i capelli, con i suoi guizzi allegri. La fronte era bella come una bella fronte virile; ma eravi qualche cosa di selvaggio nella piega naturale e nel riflesso fulvo che avevano le ciocche dense al lor partirsi dalle tempie, qualche cosa di fiero e di rade che ricordava l'ala degli uccelli da preda.

— Che guardi? — disse ella, sentendo quell'attenzione. — Mi scopri un capello bianco?

Egli si chinò, si mise in ginocchio davanti a lei, pieghevole, carezzevole.

— Ti vedo bella; scopro sempre in te qualche cosa che mi piace, Foscarina. Guardavo la piega dei tuoi capelli, qui, strana, che non è fatta dal pettine ma dalla tempesta.

Egli insinuò le sue mani sensuali nelle ciocche folte. Ella chiuse gli occhi, presa dal gelo, dominata dal terribile potere; fu di lui come una cosa che si tiene nel pugno, come un anello in un dito, come un guanto, come una veste, come una parola che può esser detta o taciuta, un vino che può esser bevuto o versato a terra.

— Ti vedo bella. Quando tu chiudi gli occhi così, ti sento mia fin nell'ultima ultima profondità, mia, in me, come l'anima è confusa col corpo; una sola vita, la mia e la tua... ah non so dirti... Tutto il tuo viso impallidisce dentro di me... Sento l'amore in tutte le tue vene, nei tuoi capelli salire salire; lo veggo sgorgare di sotto alle tue palpebre... Quando le tue palpebre battono, mi sembra che battano come il mio sangue e che l'ombra delle tue ciglia tocchi l'intimo del mio cuore...

Ella ascoltava, nell'oscurità ove giungevate a traverso il tessuto vivente la vibrazione rossa della vampa; e di tratto in tratto le pareva che quella voce fosse lontana e che non parlasse a lei ma a un'altra e ch'ella ascoltasse un colloquio d'amore nascostamente e fosse dilaniata dalla gelosia e fosse percossa dai baleni d'una volontà micidiale, fosse invasa da uno spirito di vendetta sanguinosa, e che pertanto il suo corpo rimanesse immobile, le sue mani pendessero occupate da un torpore pesantissimo, inermi, impotenti.

— Tu sei la mia voluttà e sei il mio risveglio. È in te una potenza risvegliatrice, di cui tu medesima sei inconsapevole. Il più semplice dei tuoi atti basta a rivelarmi una verità che ignoravo. E l'amore è come l'intelletto: risplende a misura delle verità che discopre. Perchè, perchè ti rammarichi? Nulla è distrutto, nulla è perduto. Dovevamo congiungerci così come ci siamo congiunti, per salire insieme verso la gioia. Era necessario che io fossi libero e felice nella verità del tuo amore intiero per creare l'opera bella che da tanti è attesa. Ho bisogno della tua fede, ho bisogno di gioire e di creare... La tua sola presenza basta per dare al mio spirito una fecondità incalcolabile. Dianzi, mentre tu mi tenevi abbracciato, ho sentito all'improvviso passare nel silenzio un torrente di musica, un fiume di melodia...

A chi parlava egli? A chi chiedeva egli la gioia? Il suo bisogno musicale non si tendeva verso colei che cantava e trasfigurava col suo canto l'Universo? A chi, se non alla fresca giovinezza, alla verginità intatta, poteva egli chiedere di gioire e di creare? Mentre ella lo teneva fra le sue braccia, l'altra cantava in lui! Ed ora, ed ora a chi parlava egli se non all'altra? Soltanto l'altra poteva dargli quel che gli era necessario per la sua arte e per la sua vita. La vergine era una forza nuova, una bellezza chiusa, un'arme non ancora impugnata, magnifica ed acuta per l'ebrietà della guerra. Maledizione! Maledizione!

Un dolore misto di collera travagliò la donna in quella oscurità vibrante e rotta da cui ella non osava escire. Ella soffriva come se fosse riversa sotto un incubo. Le pareva di precipitare al fondo col suo ingombro indistruttibile, con la sua vita vissuta, con i suoi anni di miseria e di trionfo, con il suo volto appassito e con le sue mille maschere, con la sua anima disperata e con le mille anime che avevano abitata la sua spoglia. Quella passione che doveva salvarla, ora la spingeva irreparabilmente verso la ruina e la morte. Per giungere a lei, per godere di lei, il desiderio dell'amato doveva attraversare l'ingombro confuso ch'egli credeva fatto d'innumerevoli amori ignoti, e doveva contaminarsi, corrompersi, inacerbirsi, incrudelirsi, alfine dall'acredine passare al disgusto, forse all'odio, al dispregio. Egli doveva vedere pur sempre l'ombra di altri uomini su la sua carezza e da quell'ombra sentire pur sempre incitato l'istinto di ferocia bestiale che si celava in fondo alla sua sensualità possente. Ah, che aveva ella fatto? Ella aveva armato un devastatore furibondo e l'aveva messo là, tra sé e il suo amico. Non v'era per lei più scampo. Ella medesima gli aveva condotto innanzi, quella sera d'incendio, la bella e fresca preda su cui egli aveva posato uno di quegli sguardi che sono una elezione e una promessa. Ora a chi parlava egli se non a quella? A chi chiedeva egli la gioia?

— Non esser triste! Non esser triste!

Ella ora udiva le parole in confuso, d'attimo in attimo più deboli come se la sua anima si sprofondasse e quella voce rimanesse in alto; ma sentiva le mani impazienti, che l'accarezzavano, che la tentavano. E, nell'oscurità sanguigna che pareva quella onde nascono i delirii e le follie, dalle midolle, dalle vene, da tutta la sua carne turbata sorse d'improvviso una ribellione selvaggia.

— Vuoi che ti conduca a lei? Vuoi che te la chiami? — gridò, fuori di sé, aprendo gli occhi in faccia a lui attonito, afferrandolo per i polsi e scotendolo con una forza convulsa che mostrava l'unghia. — Va, va! T'aspetta. Perchè resti qui? Va, corri! T'aspetta.

Ella s'alzò, lo sollevò, tentò di spingerlo verso la porta. Era irriconoscibile, trasfigurata dalla violenza in una creatura minacciosa e pericolosa. Incredibile era la forza delle sue mani, l'energia nociva che si sviluppava in tutte le sue membra.

— Chi, chi m'aspetta? Che dici? Che hai? Torna in te! Foscarina!

Egli balbettava, la chiamava, tremante di sgomento perchè credeva di vedere la figura della follia disegnarsi in quel viso stravolto. Insensata, ella non l'udiva.

— Foscarina!

La chiamò con tutta l'anima sua, bianco di terrore, quasi volesse arrestare col suo grido la ragione che pareva partirsi.

Ella ebbe un gran sussulto; dischiuse le mani; volse intorno uno sguardo smarrito, come se si svegliasse e non si ricordasse. Ansava.

— Vieni, siedi.

Egli la ricondusse verso i cuscini, ve l'adagiò pianamente. Ella si lasciò blandire, medicare da quella tenerezza desolata. Pareva che si fosse ridesta dopo aver perduta la conoscenza e non si ricordasse più di nulla. Si lamentò.

— Chi m'ha battuta?

Si palpò le braccia indolenzite, si toccò le guance presso il nodo delle mascelle che le dolevano. Cominciò a tremare di freddo.

— Stenditi, posa la testa qui...

Egli la fece distendere, le fece posare la testa, le coprì i piedi con un cuscino, pianamente, dolcissimamente, chino sopra di lei come su una cara inferma, abbandonandole tutto il suo cuore che batteva batteva ancora sbigottito.

— Sì, sì — ripeteva ella con un soffio lieve, ad ogni atto di lui, come per prolungare la dolcezza di quelle cure.

— Hai freddo?

— Sì.

— Vuoi che ti copra?

— Sì.

Egli cercò una coperta, trovò su una tavola un vecchio velluto. La coprì con quello. Ella gli sorrise appena appena.

— Stai bene così?

Ella accennò appena appena con le palpebre che le si chiudevano. Egli raccolse allora le violette, che erano illanguidite e tiepide. Posò il mazzo sul cuscino dov'ella posava la testa.

— Così?

Ella mosse le ciglia con un cenno ancor più. lieve. Egli le baciò la fronte, nell'odore; poi si volse ad attizzare il fuoco, aggiunse molta legna, alzò una gran fiammata.

— Ti viene il calore? Ti riscaldi? — chiese a bassa voce.

Si riavvicinò, si chinò su la povera anima. Trattenne il fiato. Ella s'era assopita. Le contratture del suo volto si distendevano, le linee della sua bocca si ricomponevano nel ritmo eguale del sonno, una calma simile a quella della morte si diffondeva sul pallore. “Dormi! Dormi!” Egli era così pieno di pietà e d'amore che avrebbe voluto trasfondere in quel sonno una infinita virtù di consolazione e di dimenticanza. “Dormi! Dormi!”

Restò là, sul tappeto, a vegliarla. Per qualche attimo, misurò quel respiro. Quelle labbra avevano detto: “Una cosa io posso, che l'amore non può!”. Quelle labbra avevano gridato: “Vuoi che ti conduca a lei? Vuoi che la chiami?”. Egli non giudicava, non risolveva; lasciava i suoi pensieri disperdersi. Anche una volta sentì le forze cieche e indòmite della vita turbinare sul suo capo, su quel sonno, e la sua terribile volontà di vivere. “L'arco ha per nome BIOS e per opera la morte.”

Nel silenzio, il fuoco e l'acqua parlarono. La voce degli elementi, la donna addormentata nel dolore, l'imminenza del fato, l'immensità del futuro, il ricordo e il presentimento, tutti quei segni crearono nel suo spirito uno stato di mistero musicale ove l'opera inespressa risorse e s'illuminò. Egli udì le sue melodie svilupparsi indefinitamente. Udì una persona della favola dire: “Ella sola estingue la nostra sete; e tutta la sete che è in noi si tende avidamente verso la sua freschezza. S'ella non fosse, nessuno potrebbe vivere qui, tutti moriremmo d'arsura...”. Vide una campagna solcata dal letto arido e bianco d'un antico fiume, sparsa di roghi accesi nella sera straordinariamente calma e pura. Vide un funebre sfolgorìo d'oro, una tomba piena di cadaveri tutti coperti d'oro, il cadavere di Cassandra coronato tra i vasi sepolcrali. Una voce diceva: “Come sono dolci le sue ceneri! Scorrono fra le dita come la sabbia del mare...”. Una voce diceva: “Ella parla d'un'ombra che passa su tutte le cose e d'una spugna umida che cancella tutte le tracce...”. Quivi si faceva la notte: scintillavano le stelle, odoravano i mirti, una vergine apriva un libro, leggeva una lamentazione. E una voce diceva: “Ah, la statua di Niobe! Prima di morire, Antigone vede una statua di pietra da cui sgorga una fonte di lacrime eterna...” . L'errore del tempo era scomparso; le lontananze dei secoli erano abolite. L'antica anima tragica era presente nell'anima novella. Con la parola e con la musica il poeta ricomponeva l'unità della vita ideale.

In un pomeriggio di novembre egli tornava dal Lido, accompagnato da Daniele Glàuro sul battello. Avevano lasciato dietro di loro l'Adriatico in tempesta, il fragore delle onde verdi e canute su le sabbie deserte, gli alberi di San Niccolò spogliati da un vento di rapina, i turbini delle foglie morte, i fantasmi eroici delle dipartite e degli approdi, il ricordo dei balestrieri in gara per lo scarlatto e dei galoppi di Lord Byron divorato dall'ansia di superare il suo destino.

— Anch'io avrei dato oggi un regno per un cavallo — disse Stelio Èffrena schernendo sè stesso, irritato dalla mediocrità della vita. — Né una balestra né un cavallo, a San Niccolo, e neppure il coraggio d'un rematore! Perge audacter... Eccoci su questa ignobile carcassa grigia che fumica e borbotta come una pentola. Guarda Venezia che danza, laggiù!

Il corruccio del mare si propagava su la laguna. Le acque erano agitate da un tremito gagliardo, e pareva che l'agitazione si comunicasse alle fondamenta della città e che i palazzi le cupole i campanili ondeggiassero galleggiando a guisa di navigli. Le alghe divelte dai fondi fluttuavano con tutte le loro radici bianchicce. Stormi di gabbiani roteavano nel vento, e s'udiva a tratti il loro strano riso pendulo su le innumerevoli creste della burrasca.

— Riccardo Wagner! — disse a bassa voce Daniele Glàuro, con una commozione subitanea, indicando un vecchio appoggiato al parapetto di prua. — Là, con Franz Liszt e con Donna Cosima. Lo vedi?

Anche il cuore di Stelio Èffrena palpitò più forte; anche per lui disparvero a un tratto tutte le figure circostanti, s'interruppe il tedio amaro, cessò l'oppressione dell'inerzia; e solo rimase il sentimento di sovrumana potenza suscitato da quel nome, sola realtà sopra tutte quelle larve indistinte fu il mondo ideale evocato da quel nome intorno al piccolo vecchio inclinato verso il tumulto delle acque.

Il genio vittorioso, la fedeltà d'amore, l'amicizia immutabile, supreme apparizioni della natura eroica, erano là insieme, ancora una volta sotto la tempesta, silenziosamente. Un medesimo candore abbagliante coronava le tre persone vicine: i loro capelli erano straordinariamente bianchi su i loro pensieri tristi. Una tristezza inquieta si rivelava nei loro volti, nelle loro attitudini, come se un medesimo presentimento oscuro gravasse i loro cuori comunicanti. La donna aveva su un viso di neve una bella bocca robusta, fatta di linee ferme e nette, rivelatrice d'un'anima tenace; e i suoi occhi di chiaro acciaio erano di continuo fissi su colui che l'aveva eletta per compagna nell'alta guerra, discontinuo adoranti e vigilanti su colui che, avendo vinto ogni cosa nemica, non avrebbe potuto vincere la morte ond'era minacciato di continuo. Quello sguardo femineo di timore e di tutela si opponeva così allo sguardo invisibile dell'altra Donna, e creava intorno al protetto una vaga ombra funebre.

— Sembra ch'egli soffra — disse Daniele Glàuro. — Non vedi? sembra che stia per abbandonarsi. Vuoi che ci avviciniamo?

Stelio Èffrena guardava con una commozione inesprimibile i capelli bianchi che il vento crudo agitava su quella nuca senile, sotto le larghe falde del feltro, e l'orecchio quasi livido dal lobo gonfio. Quel corpo, che era stato sostenuto nella lotta da un così fiero istinto di predominio, aveva ora l'apparenza di uno straccio che la raffica dovesse portar via e disperdere.

— Ah, Daniele, che potremmo fare per lui? — disse egli all'amico, assalito da un bisogno religioso di manifestare con qualche segno la sua reverenza e la sua pietà verso quel gran cuore oppresso.

— Che potremmo fare? — ripetè l'amico, a cui si comunicò subitamente quella fervida volontà d'offrire qualche cosa di sé all'eroe che pativa il fato umano.

Essi furono un'anima sola in quell'atto di gratitudine e di fervore, in quella improvvisa elevazione della loro nobiltà profonda.

Ma null'altro potevano dare; se non quello che davano. Nulla valeva a interrompere l'opera occulta del male. Ed entrambi s'appenavano guardando quei capelli bianchi, quella debole cosa semiviva, agitarsi su la nuca del vecchio al soffio veemente che arrivava dal largo recando alla laguna sbigottita i tuoni e le schiume del mare.

“Ah, mare superbo, tu dovrai portarmi ancora! La salvezza che io cerco su la terra, non la troverò giammai. A voi resterò fedele, o flutti del mare immenso...” Le armonie impetuose del Vascello Fantasma si ridestavano nella memoria di Stelio Èffrena col disperato richiamo che a quando a quando le traversa; e gli pareva di riudire nel vento la canzone selvaggia della ciurma su la nave dalle vele sanguigne: “ Iohohé! iohohé! Scendi a terra, o nero capitano: sette anni sono trascorsi...”. Ed egli ricomponeva nella sua imaginazione la figura di Riccardo Wagner giovine, si rappresentava il solitario smarrito nel vivo orrore di Parigi, miserabile e indòmito, divorato da una febbre meravigliosa, fisso alla sua stella e risoluto di costringere il mondo a riconoscerla. Nel mito del pallido navigatore l'esule aveva ritrovata un'imagine della sua corsa anelante, della sua lotta furente, della sua speranza suprema. “Ma un giorno l'uomo pallido potrà esser liberato, se incontrerà su la terra una donna che gli sia fedele sino alla morte!”

Quella donna era là, al fianco dell'eroe, come una custode sempre vigile. Anch'ella, come Senta, conosceva la legge sovrana della fedeltà; e la morte stava per sciogliere il voto sacro.

— Credi tu che immerso nella poesia dei miti egli abbia sognato un modo straordinario di trapassare e ch'egli preghi ogni giorno la Natura di rendere la sua fine conforme al suo sogno? — domandò Daniele Glàuro, considerando la volontà misteriosa che trasse l'aquila a scambiare per una rupe la fronte di Eschilo e condusse il Petrarca a spirare solitariamente su le pagine d'un libro. — Quale potrebbe essere per lui una fine degna?

— Una melodia nuova, d'una potenza inaudita, che gli apparve indistinta nella sua prima giovinezza e che allora egli non potè fermare, all'improvviso gli fenderà il cuore come una spada terribile.

— È vero — disse Daniele Glàuro.

Incitate dal gran vento le falangi delle nuvole combattevano negli spazii sopraffacendosi; le cupole, le torri ondeggiando al fondo parevano anch'esse difformarsi; e le ombre della città e le ombre del cielo egualmente vaste e mobili su le acque irte si confondevano e si mutavano, quasi fossero prodotte da cose egualmente prossime a dissolversi.

— Guarda il Magiaro, Daniele. Egli è certo un generoso spirito: ha servito l'eroe con una devozione e con una fede senza limiti. E questa servitù lo consacra alla gloria, più che la sua arte. Ma guarda come dal suo sentimento sincero e forte egli tragga una rappresentazione quasi istrionica, per il bisogno continuo d'imporre agli spettatori un'imagine magnifica di sé che li illuda!

L'abate raddrizzava il suo busto magro ed ossuto che pareva serrato in un giaco; e, tenendosi così eretto, si scopriva il capo per pregare, per rivolgere la sua preghiera muta al Dio delle Tempeste. Il vento scompigliava la sua canizie folta e prolissa, la gran chioma leonina ond'eran partiti tanti fremiti e lampi a turbare la folla e le femmine. I suoi occhi magnetici erano alzati alle nuvole, mentre le parole non proferite si disegnavano su le sue lunghe labbra sottili diffondendo un'aura mistica in quel volto aspro di rughe e di nei enormi.

— Che importa? — disse Daniele Glàuro. — Egli possiede la divina facoltà del fervore e ha il gusto della forza oltrepossente e della passione dominatrice. La sua arte non ha aspirato verso Prometeo, Orfeo, Dante, il Tasso? Egli fu attratto da Riccardo Wagner come dalle grandi energie naturali; udì forse in lui quel ch'egli tentò d'esprimere in un suo poema sinfonico: “quel che si ode su la montagna”.

— È vero — disse Stelio Èffrena.

Ma entrambi trasalirono vedendo il vecchio reclinato volgersi a un tratto con il gesto di chi affoga nel buio e aggrapparsi convulsamente alla sua compagna che gittò un grido. Accorsero. Quanti erano sul battello, colpiti dal grido angoscioso, accorsero, si affollarono intorno. Uno sguardo della donna bastò perchè nessuno osasse di avvicinarsi al corpo che pareva esanime. Ella medesima lo sostenne, lo adagiò sul sedile, gli palpò i polsi, gli si chinò sul cuore, in ascolto. Il suo amore e il suo dolore segnavano intorno all'uomo inerte un cerchio inviolabile. Tutti indietreggiarono, rimasero in silenzio, ansiosi, spiando su quel volto livido i segni del ritorno alla conoscenza.

Il volto era immobile, abbandonato su le ginocchia della donna. Due profondi solchi scendevano per le gote verso la bocca semiaperta, s'incavavano presso le pinne del curvo naso imperioso. Le raffiche movevano i capelli radi e sottilissimi su la fronte convessa, la bianca collana di barba sotto il mento quadrato ove la robustezza dell'osso mascellare appariva a traverso le grinze molli. Dalla tempia stillava un sudore viscido, e un lieve tremito agitava uno dei piedi pendente. Ogni minimo segno di quella figura smorta restò impresso nello spirito dei due giovani per sempre.

Quanto durò la pena? La vicenda delle ombre continuava sul cupo sciacquìo, interrotta a quando a quando da grandi fasci di raggi che parevano traversar l'aria e affondarsi con peso di strali. S'udiva il rumore cadenzato della macchina, a tratti il riso irridente dei gabbiani, e già l'ululo sordo che veniva dal Canal Grande, il vasto gemito della città percossa.

— Noi lo porteremo — disse Stelio Èffrena all'orecchio dell'amico, inebriato dalla tristezza delle cose e dalla solennità delle sue visioni.

Il volto immobile dava appena qualche segno del ritorno alla vita.

— Sì, offriamoci — disse Daniele Glàuro impallidendo. Essi guardarono la donna dal viso di neve; s'avanzarono, pallidi; offersero le loro braccia.

Quanto durò quel trasporto terribile? Breve era il passaggio dal battello alla riva; ma quei pochi passi contarono per un lunghissimo cammino. L'acqua strepitava contro le travi dello sbarcatoio, l'ululo irrompeva dal Canale come dai meandri delle caverne, le campane di San Marco sonavano a vespro; ma il romore confuso perdeva ogni realità immediata e pareva infinitamente profondo e remoto come una lamentazione dell'Oceano.

Essi portavano su le loro braccia il peso dell'Eroe, portavano il corpo tramortito di Colui che aveva diffusa la potenza della sua anima oceanica sul mondo, la carne moritura del Rivelatore che aveva trasformato in infinito canto per la religione degli uomini le essenze dell'Universo. Con un brivido ineffabile di spavento e di gioia, come l'uomo che veda un fiume precipitarsi da una rupe, un vulcano fendersi, un incendio divorare una foresta, una meteora abbagliante nascondere il cielo stellato, come l'uomo al conspetto di una forza naturale che si manifesti improvvisa e irresistibile, Stelio Èffrena sentì sotto la sua mano che reggeva il busto passata per l'ascella — egli s'arrestò un istante a riafferrare il vigore che gli fuggiva e guardò quel capo tutto bianco presso il suo petto — sentì sotto la sua mano ripalpitare il cuore sacro.

— Eri forte, Daniele: tu che non sai rompere una canna! Pesava quel corpo di vecchio barbaro, pareva armato d'una ossatura di bronzo: ben costruito, fatticcio, adatto a restare in piedi su un ponte che traballi: struttura d'uomo destinato all'alto mare. Ma da che ti veniva quella forza, Daniele? Io temevo di te. Non vacillavi! Abbiamo portato un eroe su le nostre braccia. Bisogna segnare questa giornata e celebrarla. I suoi occhi si sono riaperti in faccia a me; il suo cuore ha ripalpitato sotto la mia mano. Eravamo degni di portarlo, Daniele, per il nostro fervore.

— Degno tu non di portarlo soltanto ma di raccogliere, per mantenerla, qualcuna delle più belle promesse offerte dalla sua arte agli uomini che sperano ancora.

— Ah se non sarò sopraffatto dalla mia stessa abondanza e se riuscirò a domare quest'ansietà che mi soffoca, Daniele!...

Andavano andavano i due amici, l'uno a fianco dell'altro, ebri e confidenti come se la loro amicizia fosse divenuta più alta, come se si fosse aumentata di qualche ideal tesoro; vano andavano nel vento, nel rombo, per la sera commossa, incalzati dal furore del mare.

— Sembra che l'Adriatico abbia abbattuto i Murazzi, stasera, e voglia irridere il divieto del Senato — disse Daniele Glàuro arrestandosi dinanzi all'onda che rifluiva nella Piazza e minacciava le Procuratie. — Bisogna tornare indietro.

— No. Facciamoci traghettare. Ecco un sandalo. Guarda San Marco su l'acqua!

Il rematore li traghettava alla Torre dell'Orologio. La Piazza era inondata, simile a un lago in una chiostra di portici, rispecchiando il cielo che si discopriva dietro la fuga delle nuvole colorato dal crepuscolo verdegiallo. Più viva, la Basilica d'oro, quasi che si ravvivasse al contatto dell'acqua come una foresta inaridita, splendeva d'ali e d'aureole nell'estremo lume; e le croci delle sue mitre si scorgevano in fondo allo specchio cupo, come le sommità d'un'altra basilica sommersa.

EN VERVS FORTIS QVI FREGIT VINCULA MORTIS — lesse Stelio Èffrena su la corda di un arco, sotto il mosaico della Risurrezione. — Sai tu che a Venezia Riccardo Wagner ebbe i suoi primi colloquii con la morte, or son più di vent'anni, al tempo del Tristano? Consunto da una passione disperata, venne a Venezia per morirvi in silenzio; e vi compose quel delirante secondo atto che è un inno alla notte eterna. Ora il suo fato lo riconduce su le lagune. Sembra destinato ch'egli abbia qui la sua fine, come Claudio Monteverde. Non è un desiderio musicale questo di cui Venezia è piena, immenso e indefinibile? Tutti i rumori vi si trasformano in voci espressive. Ascolta!

Al soffio impetuoso la città di pietra e d'acqua s'era fatta sonora come uno smisurato organo. Il sibilo e il rombo si cangiavano in una specie d'implorazione corale che cresceva e diminuiva con un modo ritmico.

— Non percepisce il tuo orecchio la linea d'una melodia in questo coro di gemiti? Ascolta!

Essi erano discesi dal sandalo, e s'avanzavano nelle calli, valicavano i piccoli ponti, si dilungavano per le fondamenta, s'internavano alla ventura; ma, pur nella sua ansietà di correre, Stelio s'orientava quasi per istinto verso una casa lontana che di tratto in tratto gli appariva come nel guizzo d'un lampo animata da un'attesa profonda.

— Ascolta! Io distinguo un tema melodico che si perde e risorge senza avere la forza di svilupparsi...

Stelio si soffermò, attento, con una così acuta intensità di attenzione che l'amico n'ebbe meraviglia come se lo vedesse trasfondersi nel fenomeno naturale ch'egli scrutava, a poco a poco annullarsi in una volontà più vasta e più possente che lo assorbiva e lo faceva simile a sé stessa.

— Hai udito?

— A me non è dato udire quel che tu odi — rispose l'asceta sterile allo spirito geniale. — Aspetterò che tu possa ripetermi la parola che la Natura ti ha detto.

Ambedue tremavano nel loro intimo cuore: l'uno, lucidissimo; l'altro, inconsapevole.

— Non so — disse questi — non so più... Mi pareva...

Ora sfuggiva alla sua conoscenza il messaggio ch'egli aveva ricevuto in uno stato fugace d'inconsapevolezza. Il lavoro del suo spirito ricominciava; risorgeva la sua volontà agitandosi in ansiose aspirazioni.

— Ah, poter rendere alla melodia la sua semplicità naturale, la sua perfezione ingenua, la sua divina innocenza; trarla tutta viva dalla sorgente eterna, dal mistero stesso della Natura, dall'anima stessa delle cose universe! Hai tu mai meditato quel mito che si riferisce all'infanzia di Cassandra? Ella fu lasciata una notte nel tempio d'Apollo; e al mattino fu ritrovata stesa sul marmo, stretta nelle spire d'una serpe che le leccava gli orecchi. Da allora ella comprese tutte le voci sparse nell'aria; ella conobbe tutte le melodie del mondo. La potenza della Divinatrice non era se non una potenza musicale. Una parte di quella virtù apollinea entrò nei poeti che cooperarono alla creazione del Coro tragico. Uno di quei poeti si vantava di conoscere le voci di tutti gli uccelli; e un altro, di favellare coi venti; e un altro, d'intendere appieno il linguaggio del mare. Più d'una volta io ho sognato di giacere sul marmo, stretto nelle spire di quella serpe... Bisognerebbe, Daniele, che il mito si rinnovasse perchè ci fosse dato di creare l'arte nuova.

Di passo in passo egli s'infervorava nel discorso, abbandonandosi al flutto dei suoi pensieri ma pur sentendo una parte oscura di sé in comunione con l'aria sonora.

— Hai tu mai pensato quale potesse essere la musica di quella specie d'ode pastorale che il Coro canta nell'Edipo re quando Giocasta fugge inorridita e il figlio di Laio è tuttavia illuso da un'ultima speranza? Te ne ricordi? “O Citerone, sia testimonio l'Olimpo, prima che un altro plenilunio si compia...” L'imagine delle montagne interrompe per alcuni attimi l'orrore del drama; la serenità agreste dà una tregua allo spavento umano. Te ne ricordi? Cerca di rappresentarti la strofe in guisa d'una cornice, entro le cui linee si svolga una serie di movimenti corporei, una espressiva figura di danza, che la melodia animi della sua vita perfetta. Ecco evocato dinanzi a te lo spirito della Terra nel disegno essenziale delle cose; eccoti l'apparizione consolatrice della grande Madre comune su la sventura dei suoi figli percossi e tremanti; eccoti, infine, una celebrazione di ciò che è divino ed eterno, su gli uomini trascinati alla demenza e alla morte dal Fato crudele. Cerca ora di intuire in qual modo quel canto mi abbia aiutato a trovare per la mia tragedia i mezzi della più alta e della più semplice espressione...

— Tu intendi di ristabilire su la scena il Coro?

— Oh, no! Io non voglio risuscitare una forma antica; voglio inventare una forma nuova, obbedendo soltanto al mio istinto e al genio della mia stirpe, così come fecero i Greci quando crearono quel meraviglioso edifizio di bellezza, non imitabile, che è il loro drama. Poichè da tempo le tre arti pratiche, la musica, la poesia e la danza, si sono disgiunte e le prime due han proseguito il loro sviluppo verso una superior potenza di espressione e la terza è decaduta, io penso che non sia più possibile fonderle in una sola struttura ritmica senza togliere a taluna il carattere proprio e dominante ormai acquistato. Concorrendo a un effetto comune e totale, esse rinunziano al loro effetto particolare e supremo: esse, insomma, appaiono diminuite. Tra le materie atte ad accogliere il ritmo, la Parola è il fondamento di ogni opera d'arte che tenda alla perfezione. Stimi tu che nel drama wagneriano sia riconosciuto alla Parola tutto il suo valore? E non ti sembra che il concetto musicale vi perda la sua purità primitiva, dipendendo spesso da rappresentazioni estranee al genio della Musica? Riccardo Wagner, certo, ha il sentimento di questa debolezza e lo confessa, quando in Bayreuth si accosta a qualcuno dei suoi amici e gli copre gli occhi con le sue mani perchè quegli si abbandoni interamente alla virtù della sinfonia pura e sia quindi rapito in una più profonda visione da una gioia più alta.

— Quasi tutto ciò che mi esponi, mi riesce nuovo; — disse Daniele Glàuro — pure a me da un'ebrezza simile a quella che si prova quando si apprendono le cose presentite e prevedute. Tu dunque non sovrapporrai le tre arti ritmiche, ma le presenterai con manifestazioni singole, collegate tra loro da una idea sovrana ed elevate al supremo grado della loro energia significativa.

— Ah, Daniele, come darti un'imagine dell'opera che vive in me? — esclamò Stelio Èffrena. — Meccaniche e dure sono le parole con cui tu cerchi di formulare il mio intendimento... No, no... Come ti comunicherò la vita e il mistero infinitamente fluido che ho dentro di me?

Erano a pie della gradinata di Rialto. Stelio salì i gradini rapidamente e s'arrestò contro i balaustri al vertice dell'arco, attendendo l'amico. Il vento gli passava sopra come un esercito di vessilli i cui lembi gli percotessero la faccia; il Canale si perdeva sotto di lui nell'ombra dei palagi incurvandosi come una correntia verso cateratte romoreggianti di lontano; una plaga di cielo era sgombra a sommo tra le agglomerazioni delle nuvole, cristallina e vivida come quella serenità che si effonde su le cime dei ghiacciai.

— Impossibile rimanere qui — disse Daniele Glàuro addossandosi alla porta d'una bottega. — Il vento ci porta via.

— Scendi. Ti raggiungo. Un minuto! — gli gridò il maestro, chino su i balaustri, coprendosi gli occhi con le palme, concentrando tutta la sua anima nell'ascolto.

Formidabile era la voce del turbine in quella immobilità di secoli impietrati: sola dominatrice su la solitudine come quando i marmi dormivano nel grembo delle montagne e dalle isole fangose della laguna crescevano l'erbe selvagge intorno ai nidi degli uccelli, assai prima che in Rialto sedesse il Doge, assai prima che i patriarchi guidassero i fuggiaschi verso il gran destino. La vita umana era scomparsa; non eravi sotto il cielo se non un immenso sepolcro ne' cui vani rimbombava quella voce, sola quella voce. Le moltitudini incenerite, i fasti dispersi, le grandezze cadute, gli innumerevoli giorni di nascita e di morte, le cose del tempo senza forma e senza nome commemorava ella col suo canto senza lira, con la sua lamentazione senza speranza. Tutta la malinconia del mondo passava nel vento su l'anima protesa.

— Ah, ti ho colta! — gridò la gioia dell'artefice trionfante. La linea intera della melodia gli si era svelata, era ormai sua, immortale nel suo spirito e nel mondo. Di tutte le cose viventi nessuna gli parve più vivente di quella. La sua vita medesima cedeva all'energia illimitata di quell'idea sonora, alla forza generatrice di quel germe capace d'indefiniti sviluppi. Egli la imaginò immersa nel mare sinfonico svolgersi per mille aspetti fino alla sua perfezione.

— Daniele, Daniele, ho trovato!

Egli alzò gli occhi, vide nel cielo adamantino le prime stelle, intuì l'alto silenzio in cui esse palpitavano. Imagini di cieli incurvati su paesi lontani traversarono il suo spirito; erano agitazioni di sabbie, di alberi, di acque, di polvere in giornate di vento: il Deserto libico, l'oliveto su la baia di Sàlona, il Nilo presso Memfi, l'Argolide sitibonda. Altre imagini sopraggiunsero. Egli temette di smarrire quel che aveva trovato. Con uno sforzo serrò la sua memoria come si serra il pugno che tiene. Scorse presso un pilastro l'ombra d'un uomo, un luccicore in cima a un'asta lunga; udì il piccolo scoppio della fiamma accesa in un fanale. Con una rapidità ansiosa, a quella luce, segnò le note del tema su una pagina del suo taccuino; fissò nelle cinque linee la parola dell'elemento.

— Giornata di meraviglie! — disse Daniele Glàuro guardandolo discendere agile e leggero come s'egli avesse rapito all'aria anche la qualità elastica. — Che la Natura ti prediliga sempre, fratello!

— Andiamo, andiamo! — disse Stelio prendendogli il braccio e traendolo, con un'allegrezza infantile. — Ho bisogno di correre.

Egli lo traeva per le calli verso San Giovanni Elemosinario. Ripeteva a sé stesso i nomi delle tre chiese ch'egli doveva incontrare nel cammino per giungere a quella casa lontana che di tratto in tratto gli appariva come nel guizzo d'un lampo animata da un'attesa profonda.

— È vero, Daniele, quel che tu mi comunicasti un giorno: la voce delle cose è essenzialmente diversa dal loro suono — disse egli soffermandosi al principio della Ruga Vecchia, presso il campanile, poichè s'accorse che il suo amico era affaticato dalla fretta. — Il suono del vento simula ora i gemiti d'una moltitudine atterrita, ora gli ululi delle belve, ora il croscio delle cateratte, ora il fremito degli stendardi spiegati, ora lo scherno, ora la minaccia, ora la disperazione. La voce del vento è la sintesi di tutti questi rumori, è la voce che canta e che racconta il travaglio terribile del tempo, le crudeltà del fato umano, la guerra eternamente combattuta per un inganno che eternamente si rinnova.

— E hai tu mai pensato che l'essenza della musica non è nei suoni? — domandò il dottor mistico. — Essa è nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che li segue. Il ritmo appare e vive in questi intervalli di silenzio. Ogni suono e ogni accordo svegliano nel silenzio che li precede e che li segue una voce che non può essere udita se non dal nostro spirito. Il ritmo è il cuore della musica, ma i suoi battiti non sono uditi se non durante la pausa dei suoni.

Quella legge di natura metafisica, enunciata dal contemplatore, confermò a Stelio la giustezza della sua propria intuizione.

— In fatti — disse egli — imagina l'intervallo tra due sinfonie sceniche in cui tutti i motivi concorrano ad esprimere l'essenza interiore dei caratteri che lottano nel drama, a rivelare il fondo intimo dell'azione, come per esempio nel gran preludio beethoveniano della Leonora o in quello del Coriolano. Quel silenzio musicale, in cui palpita il ritmo, è come l'atmosfera vivente e misteriosa ove soltanto può apparire la parola della poesia pura. Le persone sembrano quivi emergere dal mare sinfonico come dalla verità stessa del celato essere che opera in loro. E il lor linguaggio parlato avrà in quel silenzio ritmico una risonanza straordinaria, toccherà l'estremo limite della potenza verbale, poichè sarà animato da una continua aspirazione al canto, che non si potrà placare se non nella melodia risorgente dall'orchestra alla fine dell'episodio tragico. Hai tu compreso?

— Tu poni dunque l'episodio tra due sinfonie che lo preparano e lo compiono, poichè la musica è il principio e la fine del verbo umano.

— Io avvicino così le persone del drama allo spettatore. Ti ricordi tu di quella figura che Federico Schiller, nell'ode da lui composta a celebrare la traduzione goethiana del Maometto, adopera per significare che su le scene non può aver vita se non un mondo ideale? Il Carro di Tespi, come la Barca d'Acheronte, è così lieve da non poter sopportare se non il peso delle ombre o delle imagini umane. Su la scena comune quelle imagini sono distanti così che qualunque contatto con loro ci sembra impossibile come il contatto con i fantasmi mentali. Esse sono distanti ed estranee. Ma facendole apparire nel silenzio ritmico, facendole accompagnare dalla musica alla soglia del mondo visibile, io le avvicino meravigliosamente poichè rischiaro i fondi più segreti della volontà che le produce. Intendi? La loro intima essenza è là, discoperta e messa in comunione immediata con l'anima della folla che sente sotto le Idee significate dalle voci e dai gesti la profondità dei Motivi musicali che a quelle corrispondono nelle sinfonie. Io mostro insomma le imagini dipinte sul velo e ciò che accade di là dal velo. Intendi? E per mezzo della musica, della danza e del canto lirico creo intorno ai miei eroi un'atmosfera ideale in cui vibra tutta la vita della Natura così che in ogni loro atto sembrino convergere non soltanto le potenze dei loro destini prefissi ma pur anche le più oscure volontà delle cose circostanti, delle anime elementari che vivono nel gran cerchio tragico; poichè vorrei che, come le creature di Eschilo portano in loro qualche cosa dei miti naturali ond'escirono, le mie creature fossero sentite palpitare nel torrente delle forze selvagge, dolorare al contatto della terra, accomunarsi con l'aria, con l'acqua, col fuoco, con le montagne, con le nubi nella lotta patetica contro il Fato che deve esser vinto, e la Natura fosse intorno a loro quale fu veduta dagli antichissimi padri: l'attrice appassionata di un eterno drama.

Entravano nel campo di San Cassiano deserto sul suo rio livido; e la voce e i passi vi echeggiarono come in un circo di rupi, chiaramente, sul rombo che veniva dal Canal Grande come da un fiume. Un'ombra violacea pareva salire dall'acqua febbricosa, spandersi nell'aria come un'esalazione letifera. La morte pareva occupare il luogo da tempo. In un'alta finestra un'impòsta sbatteva al vento contro la muraglia cigolando su i cardini, segno d'abbandono e di ruina. Ma tutte quelle apparenze operavano nello spirito dell'animatore straordinarie trasfigurazioni. Egli rivedeva un luogo solitario e selvaggio presso i sepolcri di Micene, in un avvallamento tra il minor corno della montagna Eubea e il fianco inaccessibile della cittadella. I mirti vigoreggiavano per mezzo agli aspri macigni e ai ruderi ciclopici. L'acqua della fonte Perseia, sgorgando di tra le rocce, si raccoglieva in una cavità simile a una conca: d'onde poi scorreva e perdevasi pel botro pietroso. Presso il margine, a pie d'un cespuglio, era disteso il cadavere della Vittima, supino, rigido, candido. Nel silenzio mortale s'udiva lo strepito dell'acqua e il soffio intermesso del vento su i mirti che s'inclinavano...

— In un luogo augusto — disse egli — ebbi la prima visione della mia nuova opera: a Micene, sotto la Porta dei Leoni, rileggendo l'Orestiade... Terra di fuoco, paese di sete e di delirio, patria di Clitemnestra e dell'Idra, suolo sterilito per sempre dall'orrore del più tragico destino che mai abbia divorato una stirpe umana... Hai tu mai pensato a quell'esploratore barbarico che, avendo trascorsa gran parte della sua esistenza fra le droghe e dietro un banco di commercio, si diede a ricercare i sepolcri degli Atridi nelle rovine di Micene ed ebbe un giorno (è caduto da poco il sesto anniversario) ebbe la più grande e la più strana visione che sia mai stata offerta a occhi mortali? Hai tu mai pensato a quel grosso Schliemann nell'atto di scoprire il più fulgido tesoro che la Morte abbia adunato nell'oscurità della terra da secoli, da millennii? Hai tu mai pensato che quello spettacolo sovrumano e terribile avrebbe potuto apparire a un altro: a uno spirito giovenile e fervente, a un poeta, a un animatore, a te, a me forse? Allora la febbre, la frenesia, la demenza... Imagina!

Egli si accendeva e vibrava, sentendosi rapire a un tratto dalla sua finzione come da un nembo. I suoi occhi di veggente risplendevano dei funebri tesori. La forza creatrice affluiva al suo spirito come il sangue ai precordii. Egli era l'attore del suo drama: il suo accento e il suo gesto significavano una bellezza e una passione trascendenti, oltrepassando il potere della parola detta, il limite della lettera. Il suo fratello gli pendeva dalle labbra, tremando dinanzi a quello splendore improvviso che avverava le sue divinazioni.

— Imagina! Imagina! La terra che tu frughi è maligna: sembra che debbano ancora escirne le esalazioni delle colpe mostruose. La maledizione che pesò su quegli Atridi era così truce che veramente sembra debba esserne rimasto qualche vestigio ancor temibile nella polvere che fu calpestata da loro. Tu sei colpito dal maleficio. I morti che tu cerchi, e che non riesci a scoprire, si rianimano dentro di te violentemente e respirano dentro di te col tremendo soffio a loro infuso da Eschilo, enormi e sanguinosi come ti sono apparsi nell'Orestiade, percossi senza tregua dal ferro e dalla face del loro Destino. Ecco che tutta la vita ideale di cui ti sei nutrito assume in te le forme e i rilievi della realtà! E tu ti ostini, nel paese di sete, ai piedi della montagna nuda, chiuso nel fascino della città morta, a scavare la terra, a scavare la terra, con quegli spaventosi fantasmi sempre diritti innanzi agli occhi tra la polvere ardente. Ad ogni colpo di piccone tu tremi per tutte le ossa, ansioso di vedere apparire veramente il volto di un Atride, ancora intatto, con i segni ancora visibili della violenza sofferta, dell'eccidio crudele... Ed ecco, tu lo vedi apparire! L'oro, l'oro, i cadaveri, una immensità di oro, i cadaveri tutti coperti d'oro...

Erano là, nel buio della calle, su la pietra distesi, evocato prodigio, i principi Atridi. Ambedue, l'evocatore e l'ascoltatore, avevano avuto il medesimo brivido nel medesimo lampo.

— Una successione di sepolcri: quindici cadaveri intatti, l'uno accanto all'altro, su un letto d'oro, con i visi coperti di maschere d'oro, con le fronti coronate d'oro, con i petti fasciati d'oro; e da per tutto, su i loro corpi, ai loro fianchi, ai loro piedi, da per tutto una profusione di cose d'oro, innumerevoli come le foglie cadute da una foresta favolosa... Tu vedi? Tu vedi?

Lo soffocava l'ansia di rendere palpabile tutto quell'oro, di mutare in realtà sensibile la sua visione allucinante.

— Vedo, vedo!

— Per un attimo l'anima ha varcato i secoli e i millennii, ha respirato nella leggenda spaventosa, ha palpitato nell'orrore dell'antica strage; per un attimo l'anima ha vissuto d'una vita antichissima e violenta. Sono là, gli uccisi Agamennone, Eurimedone, Cassandra e la scorta regale: là, sotto i tuoi occhi per un attimo, immobili. Ed ecco — vedi? — come un vapore che si esala, come una schiuma che si strugge, come una polvere che si disperde, come un non so che indicibilmente labile e fugace, tutti si dileguano nel loro silenzio, sono inghiottiti dallo stesso silenzio fatale che è intorno alla loro immobilità raggiante. Là, un pugno di polvere e un ammasso d'oro...

Là, su le pietre della calle deserta come su le pietre dei sepolcri, il prodigio di vita e di morte! Agitato da una commozione inesprimibile, Daniele Glàuro afferrò le mani del suo amico tremando; e l'animatore vide negli occhi fedeli la muta fiamma dell'entusiasmo consacrata al capolavoro.

Ristettero contro la parete oscura, presso una porta. Era in entrambi un sentimento arcano di lontananza, come se i loro spiriti fossero perduti nella profondità dei tempi e dietro quella porta vivesse un'antica gente asservita all'immoto Destino.

S'udiva nella casa ondeggiare una culla al ritmo di una cantilena sommessa: una madre conciliava il sonno al suo figliuolo, con la melodia tramandata dagli avi; copriva con la sua voce tutelare il rombo minaccioso degli elementi. Sopra, in quell'angusta zona di cielo, ardevano le stelle; laggiù laggiù, contro le dune, contro le muraglie, mugghiava il mare; altrove, il cuore di un eroe pativa attendendo la morte; e la culla ondeggiava tuttavia, da presso, e la voce materna pregava la felicità sul pianto infantile.

— La vita! — disse Stelio Èffrena riprendendo il cammino, traendo seco l'amico. — In un attimo solo, ecco, tutto quel che trema piange spera anela delira nell'immensità della vita, si aduna nel tuo spirito e si condensa con una sublimazione così rapida che tu credi di poterla manifestare in una sola parola. Quale? Quale? La sai tu? Chi la dirà mai?

Egli ricominciava a soffrire di ansietà e di scontento, volendo tutto abbracciare e tutto esprimere.

Hai tu mai veduto, in qualche istante, l'Universo intero dinanzi a te come una testa umana? Io sì, mille volte. Ah, reciderla come colui che recise d'un colpo la testa di Medusa, e tenerla sospesa dinanzi alla folla, da un palco, perchè essa non la dimentichi mai più! Non hai tu mai pensato che una grande tragedia potrebbe somigliare al gesto di Perseo? Io ti dico che vorrei togliere dalla Loggia dell'Orcagna e trasportare nell'atrio del nuovo teatro il bronzo di Benvenuto, per ammonimento. Ma chi darà a un poeta il ferro di Erme e lo specchio di Atena?

Daniele Glàuro taceva, divinando il tormento dello spirito fraterno, egli che aveva sortito dalla natura il dono di gioire della bellezza ma non di crearla. Muto camminava al fianco del suo fratello, china l'enorme fronte meditativa che pareva gonfia d'un mondo non partorito.

— Perseo! — soggiunse l'animatore, dopo una pausa riempita dai baleni delle invenzioni. — Sotto la cittadella di Micene, nell'avvallamento, è una fonte detta Perséia: la sola cosa viva in quel luogo, dove tutto è morto e bruciato. Gli uomini sono attratti verso di lei come verso una sorgente di vita, in quella terra ove fin nel più tardo crepuscolo si vedono biancheggiare dolorosamente i letti dei fiumi disseccati. Ogni sete umana si tende avidamente verso la sua freschezza. Si udrà a traverso tutta la mia opera il mormorio di quella vena: l'acqua, la melodia dell'acqua... L'ho trovata! In lei, nel puro elemento, si compirà l'Atto puro che è il fine della tragedia nuova. Su la sua acqua gelida e chiara si addormenterà la vergine destinata a morire “priva di nozze” come Antigone. Comprendi? L'Atto puro segna la sconfitta dell'antico Destino. L'anima nuova rompe a un tratto il cerchio di ferro ond'è stretta, con una determinazione generata dalla follia, da un lucido delirio che è simile all'estasi, che è come una più profonda visione della Natura. L'ultima ode nell'orchestra canta la salvezza e la libertà dell'uomo, ottenute per mezzo del dolore e del sacrifizio. Il Fato mostruoso è vinto, là, presso i sepolcri ove discese la stirpe di Atreo, innanzi ai cadaveri stessi delle vittime. Comprendi? Colui che si libera con l'Atto puro, il fratello che uccide la sorella per salvare la sua anima dall'orrore che stava per afferrarla, ha veduto veramente la faccia di Agamennone! Il fascino dell'oro funereo lo riprendeva; l'evidenza della sua visione interiore gli dava l'aspetto di un allucinato.

— Uno dei cadaveri, là, supera di statura e di maestà tutti gli altri, cinto d'una larga corona d'oro, con la corazza, col balteo, con gli schinieri d'oro, circondato di spade, di lance, di pugnali, di coppe, cosparso d'innumerevoli dischi d'oro gittati a piene mani sul suo corpo come corolle, più venerabile di un semidio. Egli si china sopra di lui, che sta per dissolversi nella luce, e solleva la maschera pesante... Ah, non vede egli dunque la faccia di Agamennone? Non è quello forse il Re dei Re? La sua bocca è aperta, le sue palpebre sono aperte... Ti ricordi, ti ricordi di Omero? “Come io giaceva morente, sollevai le mani verso la mia spada; ma la femmina dagli occhi di cane si allontanò, e non volle chiudermi le palpebre e la bocca nel punto in cui io discendeva alla dimora di Ade.” Ti ricordi? Ora, la bocca del cadavere è aperta, le palpebre sono aperte... Egli ha una gran fronte, ornata d'una foglia rotonda d'oro; il naso lungo e diritto; il mento ovale...

L'evocatore s'arrestò un istante, con gli occhi dilatati e fissi. Egli vedeva, era il veggente. Tutto scompariva intorno, e la sua finzione rimaneva come la sola realtà. Daniele Glàuro ebbe un brivido, poichè egli stesso vide per quegli occhi.

— Ah, anche la macchia bianca su la spalla! Ha sollevata la corazza... La macchia, la macchia, il segno ereditario della stirpe di Pelope “dalla spalla d'avorio”! Non è il Re dei Re?

Le parole del veggente interrotte e rapide sembravano un succedersi di lampi ond'egli medesimo era abbagliato. Si stupiva egli medesimo di quell'apparizione subitanea, di quella improvvisa scoperta che, illuminandosi nel buio del suo spirito, si esternava e quasi diveniva tangibile. Come aveva egli potuto scoprire quella macchia su la spalla del Pelopide? Da quale abisso della sua memoria era sorta a un tratto quella particolarità tanto strana e pur precisa e decisiva come il connotato pel riconoscimento d'un corpo ieri estinto?

— Tu eri là! — disse Daniele Glàuro nell'ebrezza. Tu stesso hai sollevata la maschera e la corazza... Se hai veduto veramente quel che tu dici, tu non sei più un uomo...

— Ho veduto, ho veduto!

Anche una volta egli si trasformava in attore del suo drama, e con un violento palpito udiva dalla bocca di una persona viva le parole dell'interlocutore, quelle stesse che dovevano essere proferite nell'episodio. “Se hai veduto veramente quel che tu dici, tu non sei più un uomo.” Da quell'istante l'esploratore di sepolcri prese l'aspetto di un alto Eroe combattente contro l'antico Fato risorto dalle ceneri stesse degli Atridi per contaminarlo e sopraffarlo.

— Non impunemente — disse — un uomo scoperchia i sepolcri e guarda il viso dei morti; e di quali morti! Colui vive solo con la sua sorella, con la più dolce creatura che abbia mai respirato l'aria terrestre, solo con lei, nelle case piene di luce e di silenzio, come in una preghiera, come in un vóto... Ora, imagina uno che inconsapevole beva un tossico, un filtro, qualche cosa d'impuro che gli avveleni il sangue, che gli contamini il pensiero: così, all'improvviso, mentre la sua anima è in pace... Imagina questo terribile maleficio, questa vendetta dei morti! Egli è invaso a un tratto dalla passione incestuosa, diventa la preda miserabile e tremante di un mostro, combatte una lotta disperata e nascosta, senza tregua, senza scampo, di giorno e di notte, in ogni ora e in ogni attimo, più atroce come più s'inclina verso il suo male la pietà inconsapevole della povera creatura... In qual modo potrà egli essere liberato? Dal momento in cui la tragedia ha principio, dal momento in cui la compagna innocente comincia a parlare, ella appare destinata a morire. E tutto quello che si dice e si compie negli episodii, e tutto quello che viene espresso dalla musica dal canto lirico e dalla danza negli stàsima, tutto serve a condurla lentamente e inesorabilmente verso la morte. Ella è l'eguale di Antigone. Nella breve ora tragica ella passa accompagnata dalla luce della speranza e dall'ombra del presentimento, ella passa accompagnata da canti e da pianti, dall'alto amore che offre la gioia, dall'amor furente che genera il lutto, e non s'arresta se non per addormentarsi su l'acqua gelida e chiara della fontana che ininterrottamente la chiama col suo gemito nella solitudine. Appena l'ha uccisa, il fratello riceve da lei, a traverso la morte, il dono della sua redenzione. “Ogni macchia è scomparsa dalla mia anima!” egli grida. “Io sono divenuto puro, tutto puro. Tutta la santità del mio amore primo è tornata alla mia anima come un torrente di luce... S'ella ora si levasse, potrebbe camminare su la mia anima come su la neve immacolata... S'ella rivivesse, tutti i miei pensieri per lei sarebbero come i gigli, come i gigli... Ora ella è perfetta; ora ella può essere adorata come una creatura divina... Nel più profondo dei miei sepolcri io l'adagerò e le metterò intorno tutti i miei tesori...” Così l'atto di morte a cui egli è stato trascinato dal suo delirio lucido è un atto di purificazione e di liberazione, e segna la sconfitta dell'antico Destino. Emergendo dal mare sinfonico l'ode canta la vittoria dell'uomo, rischiara d'insolita luce la tenebra della catastrofe, inalza su la sommità della musica la prima parola del drama rinnovellato.

— Il gesto di Perseo! — esclamò Daniele Glàuro nell'ebrezza. — Alla fine della tragedia, tu recidi il capo della Moira e lo mostri al popolo sempre giovine e sempre novello che chiude lo spettacolo con alte grida.

Entrambi videro in sogno il teatro di marmo sul Gianicolo, la moltitudine dominata da quell'idea di verità e di bellezza, la grande notte stellata su Roma; videro la turba frenetica discendere giù per la collina recando nei rudi cuori confusa la rivelazione della poesia; udirono il clamore prolungarsi nell'ombra della città immortale.

— Ora addio, Daniele — disse il maestro, ripreso dalla fretta come se qualcuno l'attendesse o lo chiamasse.

Gli occhi della musa tragica stavano immobili in fondo al suo sogno, senza sguardo, impietriti nella cecità divina delle statue.

— Dove vai?

— Al Palazzo Capello.

— La Foscarina conosce già la trama della tua opera?

— Vagamente.

— E quale sarà la sua figura?

— Ella sarà cieca, già trapassata in un altro mondo, già semiviva di là dalla vita. Ella vedrà quel che gli altri non vedranno. Avrà il piede nell'ombra, la fronte nell'eterna verità. I contrasti dell'ora tragica si ripercoteranno nella sua tenebra interiore moltiplicandosi come i tuoni nelle chiostre profonde delle rupi solitarie. Al pari di Tiresia, ella comprenderà tutte le cose, permesse e vietate, celesti e terrestri, e saprà “come sia duro il sapere quando il sapere è inutile”. Ah, meravigliose parole io vorrò mettere nella sua bocca e silenzii da cui nasceranno infinite bellezze...

— La sua potenza su la scena, quando parla e quando tace, è più che umana. Ella risveglia nei nostri cuori il male più occulto e la speranza più segreta; e pel suo incanto il nostro passato si fa presente, e per la virtù dei suoi aspetti noi ci riconosciamo nei dolori sofferti dalle altre creature in ogni tempo, come se l'anima da lei rivelata fosse la nostra medesima anima.

Si soffermarono sul Ponte Savio. Stelio taceva sotto un flutto d'amore e di malinconia che l'inondò repente. Egli riudiva la voce triste: “Avere amata la mia gloria fugace soltanto perchè potesse un giorno servire alla vostra!”. Riudiva la sua propria voce: “Ti amo e credo in te; m'abbandono intero. Tu sei la mia compagna. La tua mano è salda”. La forza e la sicurezza di quell'alleanza sollevavano il suo orgoglio; ma tuttavia gli tremolavano in fondo in fondo al cuore un'aspirazione e un presentimento indefiniti che a tratti addensandosi gli si facevano gravi come un'angoscia.

— Mi rincresce di lasciarti, stasera, Stelio — confessò il buon fratello, preso anch'egli in un velo di malinconia. — Quando ti sono accanto, il mio respiro si allarga e mi sento vivere d'una vita più rapida.

Stelio taceva. Il vento sembrava affievolirsi. I soffii intermessi rapivano le foglie alle acacie, nel Campo di San Giacomo, e le avvolgevano. La chiesa bruna e il campanile quadrato, di nudo mattone, pregavano in silenzio verso le stelle.

— Conosci la colonna verde che è in San Giacomo dall'Orio? — soggiunse Daniele, con l'animo di trattenere l'amico ancora qualche istante, poichè temeva il commiato. — Che materia sublime! Sembra la condensazione fossile d'una immensa foresta verdeggiante. Seguendo le sue innumerevoli venature l'occhio viaggia in sogno pel mistero silvano. Guardandola, io ho visitato la Sila, l'Ercinia.

Stelio la conosceva. Un giorno, Perdita era rimasta lungamente appoggiata al grande stelo prezioso per contemplare il magico fregio d'oro che s'incurva su la tela del Bassano oscurandola.

— Sognare, sempre sognare! — sospirò egli, per un ritorno di quell'amara impazienza che gli aveva suggerito parole di scherno sul battello partente dal Lido. — Vivere di reliquie! Ma pensa a quel Dandolo che abbattè nel tempo medesimo quella colonna e un impero, e volle rimaner doge potendo diventare imperatore. Egli visse più di te, forse, che erri per le foreste se indaghi il suo marmo predato. Addio, Daniele.

— Non abbassare la tua sorte.

— Vorrei sforzarla.

— Il pensiero è la tua arme.

— Spesso la mia ambizione brucia il mio pensiero.

— Tu puoi creare. Che altro cerchi?

— In altri tempi avrei forse saputo anche conquistare un Arcipelago.

— Che t'importa? Una melodia vale una provincia. Per un'imagine nuova non cederesti un principato?

— Vivere tutta la vita vorrei, non essere soltanto un cervello.

— Un cervello contiene il mondo.

— Ah, tu non puoi comprendere. Tu sei l'asceta; tu hai domato il desiderio.

— E tu lo domerai.

— Non so se vorrò.

— Sono certo.

— Addio, Daniele. Sei il mio testimone. Mi sei caro come nessun altro.

Si strinsero forte le mani.

— Passerò dal Palazzo Vendramin per avere notizie — disse il buon fratello.

Le parole rievocarono il gran cuore malato, il peso dell'eroe su le loro braccia, il trasporto terribile.

— Egli ha vinto; può morire — disse Stelio Èffrena.

Entrò nella casa della Foscarina come uno spirito. La sua concitazione intellettuale mutava gli aspetti delle cose. L'atrio illuminato da un fanale di galera gli parve immenso. Un felse posato sul pavimento, presso la porta, lo turbò come l'incontro d'un feretro.

— Ah, Stelio! — gridò l'attrice sollevandosi con un balzo e slanciandosi verso di lui, quando lo vide apparire, impetuosa, con tutto l'impeto del suo desiderio contenuto nell'aspettazione. — Finalmente!

S'arrestò a un tratto dinanzi a lui, senza toccarlo. La rapidità frenata vibrò nel suo corpo dal tallone alla nuca, visibile; parve le si ripercotesse nella gola con un breve anelito. Ella era come il vento quando cade.

“Chi t'ha preso a me?” pensò, stretta il cuore dal dubbio; poichè a un tratto ella aveva sentito nell'amato qualche cosa che lo rendeva per lei intangibile, aveva scorto negli occhi di lui qualche cosa di estraneo e di lontano.

Ma egli l'aveva veduta bellissima irrompere dall'ombra, animata da una violenza non dissimile a quella del turbine che agitava le lagune. Il grido, il gesto, il balzo, il súbito arrestarsi, la vibrazione dei muscoli sotto la tunica, lo spegnersi del volto come d'una vampa che si risolva in cenere, l'intensità dello sguardo simile al bagliore d'un combattimento, il respiro che le apriva le labbra come il calore apre le labbra della terra, tutti gli aspetti della persona vera manifestavano una potenza di vita patetica non paragonabile se non al fermento delle energie naturali, all'azione delle forze cosmiche. L'artefice riconosceva in lei la creatura dionisiaca, la vivente materia atta a ricevere i ritmi dell'arte, a esser foggiata secondo le figure della poesia. E, poichè la vedeva innumerevole come le onde del mare, gli parve inerte la maschera cieca ch'egli voleva porle sul volto, angusta la favola tragica per ove ella doveva passare dolorando, troppo limitato l'ordine dei sentimenti ond'ella doveva trarre le sue espressioni, quasi sotterranea l'anima ch'ella doveva rivelare. “Ah, tutto quel che trema piange spera anela delira nell'immensità della vita!” I suoi fantasmi mentali furono presi da una specie di pànico, da un repentino terrore dissolvente. Che cosa poteva essere quell'opera sola dinanzi all'immensità della vita? Eschilo aveva composto più di cento tragedie, Sofocle anche più. Essi avevano formato un mondo con frammenti colossali sollevati dalle loro braccia titaniche. Il loro lavoro era vasto come una cosmogonìa. Le figure eschilee parevano ancor calde del foco etereo, lucide della luce sideralè, umide della nuvola fecondante. La statua di Edipo pareva scolpita nel masso medesimo del mito solare; quella di Prometeo pareva tratta dall'ordegno primitivo con cui il pastore Arya produceva il fuoco su l'altipiano asiatico. Lo spirito della Terra travagliava i creatori.

— Nascondimi, nascondimi; e non mi domandare nulla, e lasciami tacere! — pregò egli, non sapendo dissimulare il suo turbamento, non riuscendo a dominare il tumulto dei suoi pensieri sconvolti.

Il cuore ignaro della donna palpitò di paura.

— Perchè? Che hai fatto?

— Soffro.

— Di che?

— D'ansietà, d'ansietà, di quel male che tu mi conosci. Ella lo prese fra le sue braccia. Egli sentì ch'ella aveva tremato di dubbio.

— Mio? ancora mio? — domandò ella, con la bocca su la spalla di lui, soffocatamente.

— Sì, tuo sempre.

Orribile tremore era quello che agitava la donna ogni volta che lo vedeva partirsi, ogni volta che lo vedeva apparire. Partendosi, andava egli verso la sposa ignota? Apparendo, veniva egli a prender l'estremo commiato da lei?

Ella lo strinse fra le sue braccia, con l'amore dell'amante, della sorella, della madre, con tutto l'amore umano.

— Che posso fare, che posso fare per te? Dimmelo!

Di continuo la tormentava il bisogno di offrire, di servire, di obbedire a un comando che la spingesse verso il pericolo e la lotta per un bene da recare tornando a lui.

— Che posso darti?

Egli sorrideva un poco, al sopravvenire della stanchezza.

— Che vuoi? Ah, io lo so!

Egli sorrideva; si lasciava medicare da quella voce, da quelle mani adoranti.

— Tutto; è vero? Tu vuoi tutto.

Egli sorrideva di malinconia, come un fanciullo infermo a cui un compagno parli di bei giuochi.

— Ah, se io potessi! Ma nessuno mai potrà darti nulla che valga, su la terra, amico dolce. Soltanto alla tua poesia e alla tua musica tu puoi chiedere tutto. Mi ricordo di quella tua ode che comincia: “Io fui Pan”.

Egli chinò la fronte sul cuore fedele, piena di bellezze che si rischiaravano.

— “Io fui Pan!”

Gli ritraversò lo spirito lo splendore di quel momento lirico, il delirio dell'ode.

— Hai veduto il tuo mare, oggi? Hai veduta la tempesta? Egli scosse il capo, senza rispondere.

— Era grande la tempesta? Tu mi dicesti un giorno che avevi molti marinai fra i tuoi maggiori. Hai pensato alla tua casa che sta su la duna? Hai la nostalgia delle sabbie? Vuoi tornare laggiù? Hai molto lavorato, laggiù, e di forte lavoro. Quella casa è benedetta. Tua madre era teco, quando lavoravi. Tu l'udivi camminar piano nelle stanze vicine... Origliava ella, qualche volta?

Egli la serrò, in silenzio. La voce gli penetrava nel profondo, e pareva quasi inumidirgli l'anima chiusa.

— Anche la sorella era teco? Tu mi dicesti un giorno il suo nome. Non l'ho dimenticato. Si chiama Sofia. So che ti somiglia. Vorrei udirla parlare una volta o vederla passare per un sentiere... Tu mi lodasti un giorno le sue mani. Belle; è vero? Tu mi dicesti un giorno che, quando ella è afflitta, le dolgono “come se fossero le radici dell'anima sua”. Così mi dicesti tu: le radici dell'anima sua!

Egli l'ascoltava quasi beato. In che modo aveva ella scoperto il segreto di quel balsamo? Da quale sorgente nascosta traeva ella la fluidità melodiosa di quei ricordi?

— Sofia non saprà mai il bene che ha fatto alla povera pellegrina! Io so poco di lei, ma so che ti somiglia nel viso; e ho potuto figurarmela. (Anche ora la vedo.) Nei paesi lontani, laggiù, laggiù, tra la gente estranea e dura, quando mi sentivo perduta, più d'una volta ella m'è apparsa; è venuta a farmi compagnia. Appariva d'improvviso, senza che io la chiamassi o l'aspettassi... Una volta, a Mürren, dov'ero giunta dopo un lungo viaggio faticoso per rivedere una povera amica che doveva morire... Fu verso l'alba; le montagne avevano quel delicato e freddo color di berillo che solo si vede nei ghiacciai, colore di cose che rimarranno per sempre lontane e intatte, oh invidiate, invidiate! Perchè ella venne? Attendemmo, insieme. Il sole toccò l'estremità delle cime. Allora un'iride abbagliante corse per gli orli, durò pochi attimi, disparve. Ed ella se ne andò con l'arcobaleno, col miracolo...

Egli l'ascoltava quasi beato. Tutta la bellezza e tutta la verità ch'egli voleva esprimere non erano contenute in un sasso o in un fiore di quelle montagne? Nessuna più tragica lotta di passioni umane valeva l'apparizione di quell'iride su le nevi eterne.

— E un'altra volta? — domandò egli pianamente, poichè la pausa si prolungava ed egli temeva ch'ella non seguitasse.

Ella sorrise; poi si attristò.

— Un'altra volta, ad Alessandria d'Egitto, in una giornata confusa d'orrore, come dopo un naufragio... La città aveva l'aspetto della putredine; sembrava una città marcita... Ricordo: una strada piena d'acqua fangosa; un cavallo scheletrito e biancastro che vi guazzava dentro, con la criniera e la coda tinte di ocra; le stele di un cimitero arabo; il luccichio lontano della palude Mareotide... Disgusto, perdizione!

“Oh, cara anima, non più, non più tu sarai disperata e sola!” egli disse, nel suo cuore gonfio di bontà fraterna, alla donna nomade che rievocava le tristezze del suo continuo migrare. Ora il suo spirito, che s'era proteso così violentemente verso l'avvenire, pareva ritrarsi con un leggero brivido verso il passato che il potere di quella voce rendeva presente. Egli si sentiva in uno stato di raccoglimento dolce e imaginoso come quello che generano i racconti d'inverno presso il focolare. Come già davanti alla clausura di Radiana, si sentiva preso dal fascino del Tempo.

— E un'altra volta?

Ella sorrise; poi si attristò.

— Un'altra volta, a Vienna, in un museo... Una grande sala deserta, il crepitio della pioggia su le vetrate, innumerevoli reliquiarii preziosi nelle custodie di cristallo, segni di morte ovunque, cose in esilio, non pregate, non adorate più... Insieme chinammo la fronte contro un cristallo che chiudeva una collezione di bracci santi con le loro mani di metallo atteggiate in un gesto immobile... Mani di martiri, tempestate di agate, di ametiste, di topazii, di granati, di turchesi malaticce... Per certe aperture si scorgevano nell'interno le schegge delle ossa. Ve n'era una che teneva un giglio d'oro; un'altra, una piccola città; un'altra, una colonna. Una era più sottile, con un anello in ciascun dito, e teneva un vasetto di balsamo: il reliquiario di Maria Maddalena... Cose in esilio, divenute profane, non pregate, non adorate più... È divota Sofia? Ha la consuetudine della preghiera?

Egli non rispondeva. Gli pareva ch'egli non dovesse parlare, che non dovesse dare alcun segno sensibile della sua propria esistenza in quell'incantamento della lontana vita.

— Entrava qualche volta nella tua stanza, mentre lavoravi, e posava un filo d'erba su la pagina incominciata.

L'incantatrice tremò dentro; poichè un'imagine che era avvolta di veli si svelò a un tratto e le suggerì altre parole, che non furono proferite. “Sai tu che io incominciai ad amare quella creatura che canta, quella che tu non puoi aver dimenticata; sai tu che incominciai ad amarla pensando alla tua sorella? Per versare in un'anima pura la tenerezza che il cuore voleva dare alla tua sorella da cui mi separavano tante cose crudeli! Lo sai tu?” Vive erano queste parole, ma non furono proferite. Però la voce tremò della loro presenza muta.

— Tu allora ti davi qualche istante di riposo. Andavi alla finestra e rimanevi affacciato con lei a guardare il mare. Un bifolco spingeva due bovi giovani aggiogati all'aratro, ed arava la sabbia per insegnare ai giovenchi il solco diritto. Tu li guardavi con lei, ogni giorno, alla stessa ora. Quando erano istruiti, non venivano più ad arare la sabbia; andavano su la collina... Chi me le ha dette queste cose?

Egli medesimo le aveva dette a lei un giorno, quasi con le stesse parole; ma ora quei ricordi gli tornavano come inattese visioni.

— Poi passavano le greggi, lungo la riva del mare: venivano dalla montagna, andavano verso le pianure della Puglia, da una pastura a un'altra pastura. Le pecore lanose camminando imitavano il movimento delle onde; ma il mare era quasi sempre quieto, quando passavano le greggi con i loro pastori. Tutto era quieto; su le spiagge era disteso un silenzio d'oro. I cani correvano lungo i fianchi della mandra; i pastori s'appoggiavano alle aste; fiochi erano i campani in quell'immensità. Tu seguivi con gli occhi il viaggio sino al promontorio. Poi, più tardi, andavi con la sorella a guardare le tracce nella sabbia umida che qua e là era bucherellata e dorata come i favi... Chi me le ha dette queste cose?

Egli l'ascoltava quasi beato. La sua febbre era caduta. Una pace lenta scendeva su lui come un sopore.

— Poi venivano i fortunali; il mare superava la duna, invadeva la macchia, lasciava le sue bave sul ginepro e su la tamerice, su la mortella e sul rosmarino. Una gran quantità di alghe e di rottami era gettata a riva. Qualche barca aveva fatto naufragio, laggiù. Il mare portava le legna ai poverelli, e il lutto chi sa dove! La spiaggia si popolava di donne, di vecchi, di fanciulli che gareggiavano a raccogliere il fascio più grande. Allora la sorella distribuiva altri soccorsi: il pane, il vino, i legumi, le biancherie. Le benedizioni superavano il fragore dei marosi. Tu guardavi dalla finestra; e ti sembrava che nessuna delle tue belle imagini valesse l'odore del pane nuovo. Lasciavi la pagina a mezzo, e discendevi ad aiutare Sofia. Parlavi con le donne, con i vecchi, con i fanciulli... Chi me le ha dette queste cose?

Dall'ora della prima notte Stelio preferiva di andare verso la casa della sua amica entrando pel cancello del giardino Gradenigo e passando in mezzo agli alberi ed agli arbusti ridivenuti selvaggi. La Foscarina aveva ottenuto di congiungere il suo giardino con quello del palazzo abbandonato, per mezzo d'una breccia aperta nel muro divisorio. Ma da qualche tempo Lady Myrta era venuta ad abitare le immense stanze silenziose che avevano accolto ultimo ospite il figlio di Giuseppina imperatrice, il Viceré d'Italia. Le stanze s'erano adornate di antichi strumenti senza corde e il giardino s'era popolato di bei levrieri senza prede.

Nulla a Stelio pareva più dolce e più triste di quel cammino verso la donna che l'aspettava contando le ore così lente e pur così fugaci. Nel pomeriggio la Fondamenta di San Simeon Piccolo s'indorava come una riva di fino alabastro. I riflessi del sole giocavano con i ferri delle prue allineate presso l'approdo, tremolavano su per i gradini della chiesa, su per le colonne del perittero, animando le pietre disgiunte e consunte. Alcuni felsi marciti giacevano all'ombra, sul lastrico, con la rascia guasta dalle piogge e stinta, simili a bare logorate dall'uso funebre, invecchiate su la via del cimitero. L'odore affogante della canape esciva da un palazzo decaduto, ridotto a fabbrica di cordami, per le inferriate ingombre d'una pelurie cinerina come di ragnateli confusi. E quivi, in fondo al Campiello della Comare erboso come il sagrato d'una parrocchia campestre, s'apriva il cancello del giardino tra due pilastri coronati da statue mùtile su le cui membra i rami inariditi dell'edera davano imagine di vene in rilievo. Nulla al visitatore pareva più triste e più dolce. Fumigavano in pace i camini delle umili case intorno al campiello, verso la cupola verde. Di tratto in tratto un volo di colombi traversava il canale partendosi dalle sculture degli Scalzi; s'udiva il fischio d'un treno che passava sul ponte della laguna, la cantilena d'un cordaio, il rombo dell'organo, la salmodia dei preti. L'estate dei morti illudeva la malinconia dell'amore.

— Helion! Sirius! Altair! Donovan! Ali-Nour! Nerissa! Piuchebella!

Seduta sul sedile contro il muro abbracciato dai rosai, Lady Myrta chiamava i suoi cani. La Foscarina stava presso di lei, alzata, in una veste fulva che pareva fatta di quella fiera stoffa detta rovana usata nell'antica Venezia. Il sole avvolgeva le due donne e le rose in un medesimo tepore biondo.

— Siete vestita come Donovan, oggi — disse Lady Myrta all'attrice sorridendo. — Sapete che Stelio predilige Donovan sopra tutti gli altri?

La Foscarina si colorò di rossore. Ella cercò con gli occhi il levriere fulvo.

— Il più bello e il più forte — disse.

— Credo che egli lo desideri — soggiunse la vecchia signora con una dolcezza indulgente.

— Che cosa non desidera egli?

La vecchia sentì la malinconia che velava la voce della donna amante. Rimase per qualche minuto in silenzio.

I cani erano da presso, gravi e tristi, pieni di sonnolenza e di sogni, lontani dalle pianure, dalle steppe e dai deserti, accovacciati sul prato di trifoglio, per ove serpeggiavano le zucche con i lor vani frutti verdegialli. Gli alberi stavano immobili, quasi fossero fusi nel bronzo medesimo che ricopriva le tre cupole digradanti di San Simeone. Un medesimo aspetto selvaggio avevano il giardino e la gran dimora di pietra offuscata dal fumo tenace del Tempo, rigata dalla ruggine dei ferri colante sotto le piogge d'infiniti autunni. E la chioma d'un alto pino risonava tutta di quel cigolio che certo in quel momento giungeva anche agli orecchi di Radiana dall'orto concluso.

“Vi fa soffrire?” avrebbe voluto chiedere la vecchia alla donna amante, poichè quel silenzio le pesava ed ella si sentiva scaldare dall'ardore di quell'anima dolorosa come da quell'estate intempestiva. Ma non osò. Trasse un sospiro. Il suo cuore sempre giovine palpitava allo spettacolo della passione disperata e della bellezza minacciata. “Ah voi siete ancora bella, e la vostra bocca attira ancora i baci, e l'uomo che vi ama può ancora inebriarsi del vostro pallore e dei vostri occhi!” ella pensava guardando l'attrice assorta, verso di cui si tendevano le rose di novembre. “Ma io sono una larva.”

Abbassò lo sguardo, vide su le sue ginocchia le sue proprie mani deformi; e si meravigliò che fossero sue, tanto le parvero contorte e morte, miserabili mostri che non potevano toccare senza destar ribrezzo, che non potevano ormai accarezzare se non i cani sonnacchiosi. Sentì le rughe su la sua faccia, i denti falsi contro le sue gengive, i capelli posticci su la sua testa, tutta la mina del suo povero corpo che aveva obbedito un tempo alle grazie del suo spirito delicato; e si meravigliò della sua propria persistenza a lottare contro i guasti dell'età, ad ingannar sé medesima, a ricomporre ogni mattina la ridevole illusione con le acque, con gli olii, con gli unguenti, con i belletti, con le tinture. Ma nella continua primavera del suo sogno la sua giovinezza non era presente tuttavia? Non aveva ella ieri, pur ieri, accarezzato un volto amabile con le dita perfette, cacciato la volpe e il cervo nelle alte contèe, danzato col suo promesso sposo in un parco su un'aria di John Dowland?

“Non vi sono specchi nella casa della contessa di Glanegg; troppi ve ne sono nella casa di Lady Myrta!” pensava la Foscarina. “Quella ha nascosto agli altri e a sé la sua decadenza; questa s'è vista invecchiare ogni mattina, ha contato a una a una le sue rughe, ha raccolto nel suo pettine i capelli morti, ha sentito vacillare i suoi denti nelle gengive pallide; ed ha voluto riparare con gli artifizii al danno irreparabile. Povera anima tenera che vorrebbe ancora vivere incantando e sorridendo! Bisogna sparire, morire, sprofondare sotterra.” Ella scorse il mazzolino di violette appuntato con uno spillo all'orlo della veste di Lady Myrta. In ogni stagione un fiore fresco era appuntato laggiù, in una piega, appena visibile, come il segno della cotidiana illusione primaverile, del sempre nuovo incantamento ch'ella faceva a sé medesima con la memoria, con la musica, con la poesia, con tutte le arti del sogno, contro la vecchiezza, contro l'infermità, contro la solitudine. “Bisogna vivere una suprema ora di fiamma e sparire per sempre sotterra, prima che ogni fascino sia svanito, prima che ogni grazia sia morta.”

Ella sentì la bellezza dei suoi propri occhi, la voracità delle sue labbra, la forza rude dei suoi capelli piegati dalla tempesta, tutta la potenza dei ritmi e degli impeti che dormivano nei suoi muscoli e nelle sue ossa. Riudì le parole del suo amico, che l'avevano lodata; rivide lui nella furia della brama, nella dolcezza del languore, nell'oblio più profondo. “ancóra per poco, ancóra per poco gli piacerò, gli sembrerò bella, gli brucerò il sangue. Ancóra per poco!” Con i piedi nell'erba, con la fronte al sole, nell'odore delle rose che si appassivano, in quella veste fulva che la accomunava al magnifico animale da preda e da corsa, ella ardeva di passione e di attesa, con un súbito émpito di vita, come se rifluisse nel presente quel futuro a cui ella rinunziava per proposito di morte. “Vieni! Vieni!” In sé ella chiamava l'amato, quasi ebra, sicura ch'egli era per giungere poichè ella lo presentiva e mai era stata ingannata dal suo presentimento. “ ancóra per poco!” Ogni attimo passato le parve una iniqua rapina. Immobile, ella desiderò e soffrì vertiginosamente. Col suo polso palpitò tutto il giardino selvaggio penetrato di calore fin nelle radici. Ella credette di perdere la conoscenza, di cadere.

— Ah, ecco Stelio! — esclamo Lady Myrta vedendo apparire il giovine tra i lauri.

L'amante si volse rapida, colorandosi di rossore. I levrieri si levarono, drizzarono le orecchie. L'incontro dei due sguardi ebbe il guizzo della folgore. Ancóra una volta, come sempre, alla presenza della meravigliosa creatura l'amato provava la sensazione divina d'essere avvolto subitamente in un etere infiammato, in un'aura vibrante che pareva isolarlo dall'atmosfera comune e quasi rapirlo. Egli un giorno aveva congiunto quel prodigio d'amore a un'imagine fisica, ricordandosi che in una sera lontana della sua puerizia a traverso un terreno solitario s'era sentito d'improvviso avviluppare dai fuochi fatui e aveva gittato un grido.

— Eravate atteso qui, da tutto quel che vive in questa clausura — gli disse Lady Myrta con un sorriso che dissimulava il turbamento ond'era preso il povero cuore giovenile nella prigione del vecchio corpo infermiccio allo spettacolo dell'amore e del desiderio. — Avete obbedito a un richiamo, venendo.

— È vero — disse il giovine, mentre teneva già pel collare Donovan che gli si era accostato memore delle carezze. — In fatti vengo da un luogo remoto. Di dove? Indovinate.

— Da un paese di Giorgione!

— No; dal chiostro di Santa Apollonia. Conoscete voi il chiostro di Santa Apollonia?

— È la vostra invenzione di oggi?

— Invenzione? È un chiostro di pietra, vero, con le sue colonnette e col suo pozzo.

— Può essere. Ma tutti i luoghi che voi guardate diventano vostre invenzioni, Stelio.

— Ah, Lady Myrta, vorrei donarvi quel gioiello; vorrei trasportarvelo nel giardino. Imaginate un piccolo chiostro segreto, aperto su un ordine di colonne assottigliate ed accoppiate come le monache quando passeggiano digiune al sole, delicatissime, non bianche, non grige, non nere, ma del più misterioso colore che mai abbia dato alla pietra quel gran maestro colorista che si chiama il Tempo; e, nel mezzo, un pozzo; e, sul margine solcato dalla fune, una secchia senza fondo. Le monache sono scomparse, ma credo che le ombre delle Danaidi frequentino il luogo...

S'interruppe all'improvviso, vedendosi circondato di levrieri, e si mise ad imitare le voci gutturali che manda l'uomo della muta nei canili da caccia. I cani si fecero inquieti: i loro occhi malinconici si ravvivarono. Due, che erano discosti, accorsero con lunghi balzi sorpassando gli arbusti e si arrestarono dinanzi a lui secchi e lucenti come viluppi di nervi ricoperti di seta.

— Ali-Nour! Crissa! Nerissa! Clarissa! Altair! Helion! Hardicanute! Veronese! Hierro!

Egli li conosceva tutti per nome, ed essi chiamati pa

revano riconoscerlo per padrone. V'era il levriere di Scozia, nativo delle alte montagne, col pelo rude e spesso, più duro e più folto verso le gote e il muso, grigio come il ferro nuovo; v'era, il levriere d'Irlanda distruttore di lupi, rossastro, robusto, il cui occhio bruno girando mostrava il bianco; v'era quello di Tartaria, brizzolato di giallo e di nero, originario delle immense steppe asiatiche, ove di notte custodiva la tenda contro le iene e i leopardi; v'era quello di Persia, biondo ed esiguo, dalle orecchie coperte di lunghi peli serici, dalla coda fioccuta, pallido su i fianchi e giù per le gambe, più grazioso delle antilopi che aveva ucciso; v'era il galgo spagnuolo, migrato coi Mori, quello magnifico che il nano pomposo regge a guinzaglio nella tela di Diego Velasquez, istrutto a raggiungere e ad abbattere nelle nude pianure della Mancia o nelle macchie della Murcia e di Alicante fitte di stipa; v'era lo sloughi arabo, l'illustre predatore del deserto, fosco la lingua e il palato, con tutti i tendini visibili, con tutta l'ossatura rivelata a traverso la pelle fina, nobilissimo animo fatto di orgoglio, di coraggio e di eleganza, abituato a dormire su' bei tappeti e a bere il latte puro in un vaso mondo. E, raccolti insieme come una muta, essi fremevano intorno a colui che sapeva risvegliare nel loro sangue intorpidito gli istinti primitivi dell'inseguimento e dell'uccisione.

— Chi di voi era il migliore amico di Gog? — domandò egli guardando via via i belli occhi inquieti che si fissavano in lui.

— Tu, Hierro? Tu, Altair?

Il suo accento singolare eccitava le bestie sensitive che l'ascoltavano con un mugolìo sommesso e interrotto. Ogni loro moto suscitava un'onda lucida nel pelame diverso; e le lunghe code, ricurve all'estremità in guisa d'uncini, battevano leggermente le cosce muscolose, i garetti bassi.

— Ebbene, vi dirò quel che ho taciuto fino a oggi: Gog, intendete?, quello che stroncava la lepre con un sol colpo di mascelle, Gog è storpio.

— Oh, veramente? — esclamò Lady Myrta rammaricandosi.

— Come mai, Stelio? E Magog?

— Magog è sano e salvo.

Era la coppia di levrieri che Lady Myrta aveva donata al giovine amico e ch'egli aveva portata seco alla sua casa sul mare.

— Ma come avvenne?

— Ah, povero Gog! Aveva già ucciso trentasette lepri. Possedeva tutte le virtù della grande razza: la celerità, la resistenza, una prontezza inaudita nelle volte, e il desiderio costante di uccidere la preda, e la maniera classica di afferrarla pel didietro correndole sopra in linea retta e facendo l'angolo con essa quasi sempre nel medesimo tempo. Avete mai veduta una corsa di levrieri, Foscarina?

Ella era così intenta che il suono inatteso del suo nome la fece trasalire.

— Mai.

Ella pendeva dalle labbra di lui, affascinata dalla loro istintiva espressione crudele nel significare l'opera di sangue.

— Mai? Non conoscete allora uno dei più rari spettacoli dell'ardimento, della veemenza e della grazia nel mondo. Guardate!

Egli trasse a sé Donovan, si chinò a terra, e cominciò a palparlo con le mani esperte.

— Non v'è una macchina più precisa e più possente per la sua destinazione nella natura. Il muso è aguzzo per fendere l'aria, è lungo perchè le mascelle possano fiaccare la preda al primo colpo. Il cranio è largo tra le due orecchie, per contenere il più gran coraggio e la più gran perizia. Le gote sono secche e muscolose, le labbra corte in modo che appena appena ricoprono i denti...

Con una sicura facilità egli aprì la bocca del cane che non tentò di resistere. Apparve la dentatura abbagliante, il palato segnato di larghe onde nere, la lingua sottile e rosea.

— Guardate che denti! Guardate come sono lunghi i canini e un po' ricurvi alla punta per meglio ritenere la presa! Nessun'altra specie di cani ha la bocca costruita per mordere in una maniera così perfetta.

Le sue mani s'indugiavano nell'esame; e pareva che la sua ammirazione per quell'esemplare superbo non avesse limiti. Egli aveva posato un ginocchio su i trifogli, ricevendo nel volto l'alito dell'animale che si lasciava palpare con una insolita docilità come se comprendesse l'elogio del buon conoscitore e ne godesse.

— Le orecchie sono piccole e appiccate molto in alto, diritte nell'eccitazione, ma cadenti e aderenti al cranio nel riposo. Non impediscono che il collare possa esser tolto e rimesso senza sfibbiarlo: così.

Egli tolse e rimise il collare che cerchiava esattamente il collo.

— Collo di cigno, lungo e flessibile, che gli permette d'afferrare la selvaggina nella massima velocità senza perdere l'equilibrio. Ah, ho visto Gog una volta fermare in aria una lepre che aveva spiccato un salto a traverso un fosso... Ma osservate ora le parti più importanti: la larghezza e la profondità del petto per la lunga lena, l'obliquità delle spalle proporzionata alla lunghezza delle gambe, la formidabile massa muscolare nelle cosce, i garetti corti, la spina dorsale cava tra due fasci di muscoli solidi... Guardate! Le vertebre di Helion sono visibili in rilievo: queste sono nascoste in un solco. I piedi somigliano a quelli dei gatti, con le unghie serrate ma non troppo, elastici, sicuri. E che eleganza nelle costole disposte in forma d'una bella carena e in questa linea rientrante verso il ventre interamente nascosto! Tutto è inteso a un solo scopo. La coda, forte all'appiccatura e fine all'estremità — guardate! — quasi come quella d'un topo, serve di timone all'animale e gli è necessaria per girare quando la lepre fa un angolo. Vediamo, Donovan, se anche in questo tu sei perfetto.

Egli prese la punta della coda, la passò sotto la coscia, la tirò verso l'osso dell'anca, giunse a toccare con quella esattamente la sporgenza.

— Perfetto! Vidi un giorno un arabo della tribù d'Arbâa prendere questa misura sul suo sloughi. Ali-Nour, tremavi tu quando scorgevi il branco delle gazelle? Pensate, Foscarina: lo sloughi trema quando scopre la preda, trema come una canna, e volge al suo signore due occhi supplichevoli e dolci per essere disciolto! Non so perchè tanto mi piaccia questo e mi commuova. Terribile è in lui il desiderio d'uccidere, tutto il suo corpo è pronto a scattare come un arco; ed egli trema! Non di paura, non d'incertezza; trema di quel desiderio. Ah, Foscarina, se voi vedeste uno sloughi in quel momento, certo gli rapireste quella sua maniera di tremare e sapreste renderla umana con la vostra arte tragica e dareste agli uomini ancora un nuovo brivido... Su, Ali-Nour, torrente di rapidità nel deserto! Te ne ricordi? Ora tremi soltanto di freddo...

Allegro e volubile, egli lasciò Donovan e prese fra le sue mani la testa serpentina dell'uccisor di gazelle, lo guardò in fondo alle pupille ove ondeggiava la nostalgia dei paesi torridi e silenziosi, delle tende spiegate dopo il viaggio illuso dalle meteore, dei fuochi accesi pel pasto della sera sotto le larghe stelle che sembrano vivere nella palpitazione del vento su la cima delle palme.

— Occhi di sogno e di malinconia, di coraggio e di fedeltà! Avete mai pensato, Lady Myrta, che il levriere dai belli occhi è appunto il mortal nemico degli animali dai belli occhi come la gazella e la lepre?

L'amante era entrata in quel corporale incantamento d'amore per cui sembra che i confini della persona si spandano e si fondino nell'aria così che ogni parola e ogni atto dell'amato vi suscitano un tremolìo più dolce di qualunque carezza. Il giovine aveva preso tra le sue mani la testa di Ali-Nour, ma ella sentiva il tocco di quelle mani su le sue proprie tempie. Il giovine indagava le pupille di Ali-Nour, ma ella sentiva lo sguardo di lui nel fondo della sua propria anima. E le parve che la lode degli occhi andasse ai suoi propri occhi.

Ella era là, alzata su l'erba come quegli alteri animali ch'egli amava, vestita come quello ch'egli prediligeva su i compagni, com'essi piena del confuso ricordo d'una lontana origine, e un poco stupefatta dall'ardenza dei raggi che rifletteva il muro coperto di rosai, stupefatta e fervente come in una leggera febbre. Ella lo udiva parlare delle cose vive, delle membra atte alla corsa e alla presa, del vigore, della destrezza, della potenza naturale, della virtù di sangue; e lo vedeva presso la terra, nell'odore dell'erba, nel calore del sole, pieghevole e forte palpare la pelle e le ossa, misurare l'energia dei muscoli palesi, gioire al contatto di quei corpi generosi, quasi partecipe di quella bestialità delicata e crudele che più d'una volta egli erasi piaciuto di rappresentare nelle invenzioni della sua arte. Ed ella medesima, con i piedi nella terra calda, sotto i soffii del cielo, simile nel color della veste al predatore fulvo, sentiva sorgere dalle radici della sua sostanza uno strano senso di bestialità primitiva, quasi l'illusione di una lenta metamorfosi in cui ella perdesse una parte della sua consapevolezza umana e ridivenisse una figlia della natura, una forza ingenua e breve, una vita selvaggia.

Non toccava egli così in lei il più oscuro mistero dell'essere? non le faceva sentire così la profondità animale da cui erano scaturite quelle rivelazioni del suo genio tragico inattese che avevano scosso e inebriato la moltitudine come gli spettacoli del cielo e del mare, come le aurore, come le tempeste? Quando egli le aveva parlato dello sloughi tremante, non aveva egli divinato da quali analogie naturali traesse ella le potenze d'espressione che meravigliavano i poeti e i popoli? Per aver ritrovato il senso dionisiaco della natura naturante, l'antico fervore delle energie istintive e creatrici, l'entusiasmo del dio multiforme emerso dal fermento di tutti i succhi, ella appariva nel teatro così nuova e così grande. Ella aveva sentito in sé, talvolta, quasi l'imminenza di quel prodigio che faceva gonfiare d'un latte divino il seno delle menadi all'appressarsi delle piccole pantere avide di nutrimento.

Era là, alzata su l'erba, agile e fulva come il veltro prediletto, piena del confuso ricordo d'una lontana origine, vivente e desiderosa di vivere smisuratamente nella breve ora che le era concessa. Vaniti erano i vapori molli delle lacrime, cadute erano le aspirazioni affannose alla bontà e alla rinunzia, e tutte le malinconie cineree del giardino abbandonato. La presenza dell'animatore allargava lo spazio, alterava il tempo, accelerava il battito del sangue, moltiplicava la facoltà di gioire, creava anche una volta il fantasma di una magnifica festa. Ella era anche una volta quale egli voleva foggiarla, obliosa delle miserie e dei timori, guarita d'ogni male tristo, creatura di carne vibrante nella luce nel calore nel profumo nei giochi delle apparenze, pronta a traversare con lui le evocate pianure e le dune e i deserti nella furia degli inseguimenti, a inebriarsi di quell'ebrezza, a rallegrarsi nella vista del coraggio, dell'astuzia, delle prede sanguinanti. D'attimo in attimo, parlando, movendosi, egli la faceva a sua somiglianza.

— Ah, ogni volta che vedevo la lepre rompersi sotto i denti del cane, un lampo di rammarico passava nella mia gioia, per quei grandi occhi umidi che si spegnevano! Più grandi dei tuoi, Ali-Nour, e anche dei tuoi, Donovan, e risplendenti come gli stagni nelle sere d'estate con le loro selve di giunchi che vi si bagnano e con tutto il cielo che vi si specchia dentro e vi si muta. Avete mai vista una lepre, di mattina, uscire dai solchi freschi dell'aratro, correre per un tratto su l'argento della brina, poi arrestarsi nel silenzio, sedersi su le zampe di dietro, drizzare le orecchie, guardare l'orizzonte? Sembra che il suo sguardo pacifichi l'Universo. La lepre immobile che contempla i campi fumanti, in una tregua della sua perpetua inquietudine! Non si potrebbe imaginare un più certo indizio di perfetta pace all'intorno. In quell'istante, è un animale sacro che bisogna adorare...

Lady Myrta ruppe nel suo riso giovenile che scoperse la sua dentatura criselefantina e mosse le grinze di testuggine sotto il suo mento.

— Dolcissimo Stelio! — esclamò ella ridendo. — Prima adorare e poi fare a pezzi: è questo il vostro rito?

La Foscarina la guardò con meraviglia poichè l'aveva dimenticata; e, là, seduta su quel sedile di pietra giallastro di licheni, con quelle mani contorte, con quel luccichio d'oro e d'avorio fra le labbra sottili, con quei piccoli occhi glauchi sotto le palpebre flosce, con quella voce roca e quel riso chiaro, le diede imagine d'una di quelle vecchie fate palmipedi che vanno per la foresta seguite da un rospo obbediente. Nell'oblio in cui ella s'era perduta, le strane parole non la penetrarono; pur tuttavia le furono aspre come uno stridore.

— Non è colpa mia — rispose Stelio — se i levrieri sono fatti per uccidere le lepri e non per sonnecchiare in un giardino murato su l'acqua d'un canale morto.

Di nuovo egli si mise ad imitare le voci gutturali che manda l'uomo della muta nei canili da caccia.

— Crissa! Nerissa! Altair! Sirius! Piuchebella! Helion!

I cani eccitati si agitavano: i loro occhi si riaccesero; i muscoli secchi guizzarono sotto il pelame fulvo, nero, bianco, plumbeo, maculato, misto; le lunghe cosce s'incurvarono su i garetti come archi pronti a distendersi per scagliare nello spazio l'ossatura più arida e più snella d'un fascio di frecce.

— Là, là, Donovan! Là!

Egli additava una forma tra grigia e rossiccia a fior dell'erba, in fondo al giardino, che aveva l'apparenza di una lepre dalle orecchie ripiegate assisa su i suoi tarsi. La voce imperiosa ingannava i veltri esitanti. Ed era bello vedere al sole quei corpi scarni e possenti nella viva seta rilucere fremere ondeggiare allo stimolo della voce umana come nelle pavesate i più leggeri vessilli al soffio dell'aura.

— Là, Donovan!

E il gran cane fulvo lo guardò nelle pupille, diede un balzo formidabile, si lanciò verso la preda illusoria, con tutta la veemenza del suo istinto risvegliato. In un attimo la raggiunse; s'arrestò, deluso; ristette nell'atto, piegato su le zampe anteriori, proteso il collo; poi balzò di nuovo, si mescolò ai giochi della torma che l'aveva seguito in grande scompiglio, venne a rissa con Altair; seguì, erto il muso aguzzo, latrando, un volo di passeri levatosi dalla chioma del pino con un gaio frullo nell’azzurro.

— Una zucca! Una zucca! — gridava l'ingannatore tra gli scrosci di risa. — Neppure un coniglio! Povero Donovan! Un colpo di denti in una cucùrbita. Ah, povero Donovan, che umiliazione! Badate, Lady Myrta, ch'egli non si anneghi nel canale per la vergogna...

Presa dal contagio dell'ilarità, la Foscarina rideva con lui. La sua veste rovana e le vesti dei veltri brillavano al sole obliquo sul verde dei trifogli. Il candore dei denti e il riso squillante le empivano la bocca di gioventù novella. Il tedio del giardino secolare pareva lacerarsi come le tele dei ragni quando una mano violenta apre una finestra chiusa da tempo.

— Volete Donovan? — disse Lady Myrta con una maliziosa grazia della sua anima, che si perse nelle sue rughe come un rivolo pei botri. — Io so, io so la vostra arte...

Stelio cessò di ridere, e arrossì come un fanciullo.

Un'onda di tenerezza gonfiò il petto della Foscarina, per quel rossore puerile. Tutta quanta ella sfavillò di amore. E un desiderio folle di prendere l'amato fra le sue braccia le fece tremare i polsi, le labbra.

— Lo volete? — chiese di nuovo Lady Myrta, felice di poter donare e grata a colui che sapeva ricevere il dono con un piacere così fresco e così vivace. — Donovan è vostro!

Prima di dir grazie, egli cercò il levriere con gli occhi quasi ansioso. Lo rivide splendente, forte, bellissimo, con l'impronta dello stile in tutte le sue membra come se il Pisanello l'avesse disegnato pel rovescio d'una medaglia.

— Ma Gog? Che è avvenuto di Gog? Non ne avete più fatto parola! — disse la donatrice. — Ah, come facilmente gli invalidi sono posti in oblio!

Stelio guardava la Foscarina che s'era rivolta per andare verso il gruppo dei veltri camminando su l'erba con una svelta ondulazione a imagine di quel passo dagli antichi Veneziani chiamato appunto “alla levriera”. La veste rovana, dorata dal sole declinante, pareva ardere su la sua persona pieghevole. Ed era palese ch'ella si dirigeva così verso l'animale del suo colore, a cui per un profondo istinto mimetico l'attrice s'assomigliava stranamente, quasi in punto di trasfigurare.

— Fu dopo una corsa — raccontò Stelio. — Avevo l'abitudine di lanciare quasi ogni giorno una lepre, su per le dune, lungo la riva del mare. I contadini me ne portavano spesso delle vive, di quelle della mia terra, brune, robuste, pronte alla difesa, astutissime, capaci di graffiare e di mordere. Ah, Lady Myrta, non v'è terreno di corsa più bello della mia spiaggia libera. Voi conoscete gli immensi altipiani del Lancashire, il suolo asciutto del Yorkshire, le dure pianure di Altcar, gli acquitrini della bassa Scozia, le sabbie dell'Inghilterra meridionale; ma un galoppo su le mie dune più bionde e più luminose delle nuvole d'autunno, oltre le macchie di ginepro e di tamerici, oltre le brevi foci limpide dei fiumicelli, oltre i piccoli stagni salsi, lungo il mare più verde di una prateria, in vista delle montagne di neve e di turchino, oscurerebbe i vostri più lieti ricordi, Lady Myrta.

— Italia, Italia! — sospirò la vecchia fata benigna. Fiore del mondo!

— Per quella spiaggia lanciavo la lepre. Avevo ammaestrato un uomo a liberare dal guinzaglio i cani nel momento opportuno; e io seguivo la corsa a cavallo... Certo, Magog è un ottimo corsiere; ma non avevo mai veduto un uccisore più ardente e più pronto di Gog...

— Dei canili di Newmarket! — disse la donatrice con orgoglio.

— Un giorno tornavo verso la casa per la riva del mare. La corsa era stata breve: Gog aveva raggiunta la lepre dopo due o tre miglia. Tornavo al piccolo galoppo, rasentando l'acqua calma. Gog galoppava con Cambise a paro, lanciandosi di tratto in tratto verso la selvaggina che mi pendeva dall'arcione e latrando. D'un tratto, come su la riva era una carogna, il cavallo mi si gettò a destra e nello scarto colpì col ferro il cane che si mise a guaire sollevando la zampa sinistra davanti che pareva spezzata alla caviglia. Frenai a stento la bestia sbigottita e tornai indietro. Ma, come Cambise vide di nuovo la carogna, fece un voltafaccia e mi pigliò la mano. Fu allora una fuga furiosa per le dune. Con una commozione che non so dire, udii dopo alcuni attimi alla coda del cavallo l'ansare di Gog. Mi seguiva, comprendete? Con la zampa spezzata, spinto dalla generosità del suo sangue, dimentico del dolore, mi aveva raggiunto, mi seguiva, passava innanzi! I miei occhi incontrarono i suoi belli occhi dolci; e, mentre mi sforzavo di domare il cavallo impazzato, il cuore mi si fendeva ogni volta che la povera zampa ferita sfiorava la sabbia. L'adorai, l'adorai... Mi credete voi capace di piangere?

— Sì — rispose Lady Myrta — anche di piangere.

— Ebbene, quando Sofia, mia sorella, prese a lavare la ferita con quelle sue belle mani su cui gocciolavano le lacrime, credo che anch'io...

La Foscarina era là, con Donovan ch'ella reggeva pel collare, ridivenuta pallida, quasi attenuata, come se già incominciasse a penetrarla il gelo vespertino. L'ombra della cupola bronzea s'allungava su l'erbe, su i lauri, su i càrpini. Una umidità di viola, entro di cui natavano gli ultimi atomi dell'oro solare, si diffondeva tra gli steli e tra i rami che tremolavano ai soffii intermessi. E gli orecchi riudivano ormai il cigolio che riempiva la chioma del pino sparsa di coni vacui.

“Ecco, vi apparteniamo” sembrava dire la donna accompagnata al levriere che le si stringeva contro le ginocchia assalito dai primi brividi. “Vi apparteniamo per sempre. Siamo qui per servire.”

— Nulla al mondo mi turba e mi accende quanto queste apparizioni subitanee della virtù di sangue — seguitava il giovine sollevandosi nel ricordo di quell'ora commossa.

S'udì il fischio lungo d'un treno che passava sul ponte della laguna. Un soffio disfogliò interamente una larga rosa bianca, onde non restò se non una boccia in cima a uno stecco. I cani si appressarono, si raggrupparono, si strinsero gli uni contro gli altri, freddolosi: le loro ossa scarne rabbrividivano sotto la pelle sottile, e nelle loro teste allungate e piatte come quelle dei rettili rilucevano gli occhi malinconici.

— Non vi ho mai raccontato, Stelio, la maniera ch'ebbe nel morire una donna, del miglior sangue di Francia, appunto in una gran battuta a cui assistevo? — gli domandò Lady Myrta, in cui l'imagine tragica e pietosa era stata risvegliata dall'espressione ch'ella aveva scorto nel viso della Foscarina impallidito.

— No, mai. Chi era ella?

— Jeanne d'Elbeuf. Per imprudenza o inesperienza sua e del cavaliere che le stava al fianco, fu ferita — non si seppe mai da chi — insieme con la lepre che passava tra le zampe del suo cavallo. Fu veduta piombare a terra. Accorremmo tutti; e la trovammo là, su l'erba, raggomitolata nel sangue, accanto alla lepre che si contorceva. Nel silenzio e nello sgomento, quando tutti eravamo là come impietriti, quando nessuno ancora osava parlare o muoversi, la povera creatura alzò la mano appena appena, indicò l'animale ferito che soffriva, disse (non dimenticherò mai il suo accento): “Tuez-le, tuez-le, mes amis... Ça fait si mal!”. E morì sùbito.

Straziante dolcezza di quel novembre sorridente come un infermo che si crede ormai nella convalescenza e prova in sé un insolito bene e non sa di esser prossimo alla sua agonia!

— Ma che avete oggi, Fosca? Che vi accade? Perchè siete con me così chiusa? Dite! Parlatemi!

Stelio, entrando per caso in San Marco, l'aveva vista addossata alla porta della Cappella ov'è il Battistero. Ella era là sola, immobile, con un volto divorato dalla febbre e dall'ombra, con gli occhi pieni di spavento fissi alle figure terribili dei musaici che fiammeggiavano in un fuoco giallo. Dietro la porta un coro faceva le sue prove; il canto s'interrompeva, poi ricominciava, nella medesima cadenza.

— Vi prego, vi prego, lasciatemi sola! Ho bisogno di star sola! Vi supplico!

Il suono delle sue parole rivelava l'aridità della sua bocca convulsa. Ella fece l'atto di volgersi, di fuggire. Egli la trattenne.

— Ma parlate! Ditemi almeno una parola perchè io comprenda!

Ancóra ella fece l'atto di sottrarsi; e il suo movimento espresse una sofferenza indicibile. Ella ebbe l'aspetto di una creatura lacerata da un supplizio, torta da un carnefice. Ella parve più miserabile che un corpo legato alla ruota, attanagliato dal ferro rovente.

— Vi supplico! Se vi faccio pena, una sola cosa potete ora per me: lasciarmi andare...

Ella parlava sommessamente; e ch'ella non gridasse, che dalla sua gola non escissero gli urli e gli aneliti, sembrava cosa non umana, tanto era palese lo spasimo di tutta l'anima scossa.

— Ma una parola, almeno una, perchè io comprenda! Una vampa di furore salì per quel viso disfatto.

— No. Voglio essere lasciata sola.

La voce fu dura come lo sguardo. Ella si volse, diede i primi passi come chi sia colto dalla vertigine e s'affretti verso un sostegno.

— Foscarina!

Ma egli non osò trattenerla. Vide la donna disperata camminare nella zona di sole che invase la Basilica con l'irruenza d'un torrente per la porta aperta da una mano ignota. La profonda caverna d'oro, con i suoi apostoli con i suoi martiri con il suo bestiame sacro, sfavillò tutta quanta dietro di lei come se vi si precipitassero le mille torce del giorno. Il canto s'arrestò, poi riprese.

“Affogo nella tristezza... L'impeto di ribellarmi alla mia sorte, di andarmene alla ventura, di cercare... Chi salverà la mia speranza? Da chi mi verrà la luce?... Cantare, cantare! Ma vorrei cantare alfine un canto di vita... Sapreste dirmi dove sia in questi giorni il Maestro del Fuoco?” Ella portava stampate negli occhi, stampate nell'anima le parole contenute nella lettera di Donatella Arvale, con tutte le particolarità della scrittura, con tutte le diversità dei segni, vive come la mano che le aveva vergate, palpitanti come quel polso impaziente. Ella le vedeva incise nelle pietre, delineate nelle nuvole, riflesse nelle acque, indelebili e inevitabili come le sentenze del Destino.

“Dove andrò? Dove andrò?” A traverso la sua agitazione e la sua disperazione le giungeva la dolcezza delle cose, il tepore dei marmi dorati, l'odore dell'aria calma, il languore degli ozii umani. Ella guardò una donna del popolo, avvolta nella sua ammantatura bruna, seduta su i gradini della Basilica, non vecchia né giovine, non bella né brutta, che godeva il sole e mangiava un gran pezzo di pane staccandone il boccone coi denti, masticando poi con lentezza, socchiusa gli occhi nell'assaporare quel bene, mentre le sue ciglia bionde rilucevano a sommo delle gote. “Ah, potessi mutarmi in te, prendermi la tua sorte, contentarmi del sole e del pane, non pensar più, non soffrir più!” La sosta di quella poveretta le parve una felicità infinita.

Ella si volse con un sussulto, temendo sperando che l'amato la seguisse. Non lo scorse. Sarebbe fuggita scorgendolo; ma il cuore le si strinse come s'egli l'avesse mandata alla morte senza richiamarla. “Tutto è compiuto.” Ella smarriva ogni misura e ogni certezza. I pensieri passavano in lei rotti e trascinati dall'angoscia confusamente come le piante e i macigni nella rapina d'una fiumana. In ogni aspetto delle cose i suoi occhi smarriti vedevano una conferma della sua condanna o una minaccia oscura di nuovi mali o una figurazione del suo stato o una significazione di occulte verità che fossero per operare crudelmente su la sua esistenza. Nell'angolo di San Marco, presso la Porta della Carta, ella sentì vivere come se fossero di cupo sangue quei quattro re di porfido che si abbracciano per un patto con un sol braccio mentre stringono nel pugno duro l'elsa terminata da un becco di sparviere. Le innumerevoli vene dei marmi diversi ond'è incrostato il fianco del tempio, quelle indistinte trame di vario colore, quei labirinti e quei meandri commisti, parvero quasi renderle visibile la sua stessa diversità interiore, la confusione stessa dei suoi pensieri. Ella sentiva le cose a volta a volta estranee, remote, inesistenti, e familiari, prossime, partecipanti della sua intima vita. A volta a volta ella credeva ritrovarsi in luoghi sconosciuti e in mezzo a forme che le appartenessero come se ella le avesse materiate della sua propria sostanza. Simile all'agonizzante, ella era illuminata a tratti da imagini della sua più lontana infanzia, da ricordi di lontanissimi eventi, dall'apparizione rapida e netta di un viso, di un gesto, di una stanza, di una contrada. E, sopra tutti quei fantasmi, da un campo d'ombra gli occhi materni la guardavano, clementi e fermi, non più grandi degli occhi umani quando vivono in terra ma pure infiniti come un orizzonte verso di cui ella fosse chiamata. “Vengo verso di te? Mi chiami tu veramente, per l'ultima volta?”

Era entrata sotto la Porta della Carta, aveva traversato l'androne. L'ebrezza del dolore la riconduceva nel punto ove, in una notte di gloria, s'erano incontrati i tre destini. Ella cercò il pozzo del convegno. Intorno a quel margine di bronzo, tutta la vita di quei pochi attimi risuscitò con l'evidenza e col rilievo della realtà. Là ella aveva detto sorridendo, volgendosi alla compagna: “Donatella, ecco il Maestro del Fuoco!” Il grido immenso della moltitudine aveva coperto la sua voce, e il cielo sul loro capo s'era acceso di mille colombe ardenti.

Si appressò al pozzo. Com'ella lo considerava, ogni particolarità le s'imprimeva nello spirito e assumeva una strana forza di vita fatale: il solco delle funi nel metallo, l'ossido verde che rigava la pietra della base, le mammelle delle cariatidi consunte dalle ginocchia delle donne che un tempo le premettero nello sforzo dell'attingere, e quel profondo specchio interiore che l'urto delle secchie non turbava più, quel breve cerchio sotterraneo che rifletteva il cielo divino. Si chinò su la sponda, vide la sua faccia, vide il suo spavento e la sua perdizione, vide la Medusa immobile ch'ella portava nel centro della sua anima. Inconsapevole, ripeteva l'atto di colui ch'ella amava. E vide anche il volto di colui e il volto di Donatella quali ella li aveva veduti per un attimo risplendere in quella notte l'uno accanto all'altro accesi dai bagliori celesti come se fossero chini su una fornace o su un cratere. “Amatevi, amatevi! Io me ne andrò, sparirò. Addio.” Serrò le palpebre sul pensiero della morte; e nel buio ricomparvero le pupille clementi e ferme, infinite come un orizzonte di pace. “Tu sei in pace e mi aspetti, tu che vivesti e moristi di passione.” Si sollevò. Uno straordinario silenzio occupava il cortile deserto. La ricchezza delle alte mura scolpite riposava metà nell'ombra, metà nella luce; le cinque mitre della Basilica superavano la chiostra leggiere quanto le nuvole nivee che facevano apparire più azzurro il cielo come fan più verde la foglia i fiori del gelsomino. Di nuovo, a traverso il suo tormento, ella fu toccata dalla dolcezza delle cose. “La vita ancora potrebbe essere dolce!”

Uscì sul Molo, discese in una gondola, si fece portare alla Giudecca. Il bacino, la Salute, la Riva degli Schiavoni, tutta la pietra e tutta l'acqua erano un miracolo d'oro e di opale. Ella guardò ansiosamente per la Piazzetta se v'apparisse una figura. Le ribalenò alla memoria l'imagine della defunta Estate vestita d'oro e chiusa nell'involucro di vetro opalino. Imaginò sé medesima sommersa nella laguna, posata su un letto d'alghe. Ma il ricordo della promessa, fatta su quell'acqua e mantenuta nel delirio notturno, le traversò il cuore come un coltello, la gittò di nuovo nell'orribile convulsione. “Mai più, dunque? Mai più?” Tutti i suoi sensi si ricordarono di tutte le carezze. La bocca, le mani, la forza, l'ardore del giovine passarono nel suo sangue come se si fossero distrutti in lei. Il tossico la bruciò a dentro, sin nelle infime fibre. Ella aveva trovato con lui al limite estremo della voluttà uno spasimo che non era ancora la morte ed era oltre la vita. “Mai più, ora? Mai più?”

Giungeva nel rio della Croce. La verdura traboccava da una muraglia rossa. La gondola s'arrestò a una porta chiusa. Ella sbarcò, cercò una piccola chiave, aprì, entrò nell'orto.

Era il suo rifugio, il segreto luogo della sua solitudine, serbato dalla fedeltà delle sue malinconie come da custodi taciturne. Tutte le vennero incontro, le antiche e le nuove; l'accerchiarono, l'accompagnarono.

Con le sue lunghe pergole, con i suoi cipressi, con i suoi alberi di frutti, con le sue siepi di spigo, con i suoi oleandri, con i suoi garofani, con i suoi rosai, porpora e croco, meravigliosamente dolce e stanco nei colori della sua dissoluzione, l'orto pareva perduto nell'estrema laguna, in un'isola obliata dagli uomini, a Mazzorbo, a Torcello, a San Francesco del Deserto. Il sole lo abbracciava e lo penetrava in ogni parte, così che le ombre per la loro tenuità non vi parevano. Tanta era la quiete dell'aria che i pampini secchi non si distaccavano dai tralci. Nessuna foglia cadeva, se bene tutte morissero.

“Mai più?” Ella camminò sotto le pergole, andò verso l'acqua, si arrestò sul rialto erboso, si sentì affaticata, sedette su una pietra, si strinse le tempie fra le palme, fece uno sforzo per raccogliersi, per riprendere il dominio di sé, per considerare, per deliberare. “Egli è ancora qui, è vicino, posso rivederlo. Forse lo ritroverò fra poco su la soglia della mia porta. Egli mi prenderà fra le sue braccia, mi bacerà gli occhi e le labbra, mi ripeterà che m'ama, che tutto in me gli piace. Egli non sa, non comprende. Non è accaduto nulla d'irreparabile. Quale è dunque il fatto che mi sconvolge e mi schianta? Ho ricevuto una lettera da una creatura che è lontana, prigione in una villa solitaria, presso il padre demente, e che si lagna del suo stato e aspira a mutarlo. Questo è il fatto. Non v'è altro. La lettera, eccola.” Ella la cercò, l'aprì per rileggerla. Le dita le tremavano; ed ella credeva sentire l'odore di Donatella come se l'avesse a fianco là, su quella pietra.

“È bella? Veramente? Com'è?” Da principio le linee dell'imagine si confondevano. Ella cercava di riafferrarle, ed esse vanivano. Una particolarità, prima d'ogni altra, si fermò, divenne precisa ed evidente: la mano grande e greve. “La vide egli, quella sera? È sensibilissimo alla bellezza delle mani. Le guarda sempre, quando incontra una donna. Non adora le mani di Sofia?” Ella si lasciò prendere da quelle considerazioni puerili, vi s'indugiò per alcuni attimi; poi ne sorrise amaramente. E a un tratto l'imagine s'integrò, visse, rifulse di potenza e di giovinezza, la sopraffece, l'abbagliò. “È bella. Ed è bella come egli la vuole.”

Restò fissa nello splendore tacito delle acque, con la lettera su le ginocchia, inchiodata dalla verità inflessibile. E su quello scoraggiamento inerte balenavano pensieri involontarii di distruzione: il viso di Donatella si bruciava in un incendio, il corpo rimaneva difformato da una caduta, la voce era alterata da una malattia. Ebbe orrore di sé medesima, e poi pietà di sé e dell'altra. “Non ha ella diritto di vivere? Che viva, che ami, che abbia la sua gioia!” Imaginò per lei un'avventura magnifica, un amore felice, uno sposo adorabile, la prosperità, il lusso, il piacere. “Non v'è forse in terra se non un uomo solo ch'ella possa amare? Non potrebbe ella incontrare domani colui che le prenderà il cuore? Non potrebbe a un tratto la sua sorte volgersi verso un'altra parte, trarla molto lontano, condurla verso un ignoto cammino, separarla per sempre da noi? È forse necessario ch'ella sia amata dall'uomo che io amo? Potrebbero non più incontrarsi...” Così tentava di sfuggire al suo stesso presentimento. Ma uno spirito avverso le diceva: “Si sono incontrati una volta, si cercheranno, s'incontreranno ancora. Ella non è l'anima oscura che si perde nella moltitudine o per un sentiero discosto. Ella ha in sé un dono che splende come un astro e che la farà sempre riconoscere di lontano: il suo canto. Il portento della sua voce sarà il suo segnale. Ella certo farà valere nel mondo quella sua virtù; passerà anch'ella tra gli uomini lasciando dietro di sé un solco di meraviglia. Come ha la bellezza, avrà la gloria: due fari di richiamo a cui egli andrà facilmente. Si sono incontrati una volta, s'incontreranno ancora. ”

La dolorosa si piegò come sotto un giogo. Ai suoi piedi i fili d'erba ricevevano i raggi e parevano ritenerli respirando in una luce verde ch'essi coloravano della lor trasparenza quieta. Ella sentì salire le lacrime ai suoi cigli. Per quel velo guardò la laguna che tremolò di quel tremolio. Una chiarità di perla faceva beate le acque. Le isole della Follia, San Clemente e San Servilio, erano avvolte in un vapore pallidissimo; e mandavano a quando a quando per la lontananza grida fioche come di naufraghi perduti nella bonaccia, cui rispondeva ora l'ululo d'una sirena, ora il riso chioccio dei gabbiani dispersi. Il silenzio diveniva terribile, poi si raddolciva.

Ella ritrovò la sua bontà profonda. Ritrovò la sua tenerezza per la bella creatura in cui ella aveva illuso un giorno il suo bisogno di amare Sofia, la buona sorella. Ripensò le ore passate nella villa solitaria su la collina di Settignano, dove Lorenzo Arvale creava le sue statue nella pienezza della forza e del fervore, ignaro della folgore che stava per colpirlo. Rivisse in quel tempo, rivide quei luoghi: — ella stava dinanzi al famoso artefice che la ritraeva nella creta, e Donatella cantava qualche canzone antica, e lo spirito del canto animava il modello e l'effigie, e i suoi pensieri e la pura voce e il mistero dell'arte componevano quasi una parvenza di vita divina in quel grande studio aperto da ogni parte al giorno, onde si scopriva nella valle primaverile Firenze e il suo fiume.

Da che cosa, oltre che dal riflesso di Sofia, era stata ella attratta verso quella fanciulla che non aveva conosciuta la carezza della madre partitasene dal mondo nel metterla alla luce? Ella la rivedeva grave e ferma accanto al padre, consolatrice dell'alto lavoro, custode della sacra fiamma e anche di una sua propria volontà segreta che doveva conservarsi lucida e tagliente come una spada nella guaina.

“Ella è sicura di sé, è padrona della sua forza. Quando si sentirà libera, si rivelerà dominatrice. Ella è fatta per soggiogare gli uomini, per eccitare le loro curiosità e i loro sogni. Il suo istinto già la conduce, ardito e prudente come l'esperienza...” E considerò l'attitudine di lei verso il giovine in quella notte, la taciturnità quasi sdegnosa, le parole brevi e aride, e il modo di alzarsi dalla mensa, di uscire dal cenacolo, di scomparire per sempre lasciando la sua imagine chiusa nel cerchio d'una melodia indimenticabile. “Ah, ella conosce l'arte di turbare l'anima di chi sogna! Certo, egli non può averla dimenticata. Certo anzi egli aspetta l'ora in cui gli sarà dato di andarle incontro, ed è impaziente come colei che chiede a me dov'egli sia.”

Prese la lettera e si diede a scorrerla; ma la sua memoria precorreva la rapidità delle pupille. La domanda enigmatica era in fondo alla pagina come un poscritto, quasi dissimulata. Rivedendo la scrittura, ella provò la stessa lacerazione acuta della prima volta. E, di nuovo, tutto si sconvolse nel suo cuore, come se il pericolo fosse imminente, come se la sua passione e la sua speranza fossero già perdute senza riparo. “Che farà ella? Quale è il suo pensiero? S'attendeva forse ch'egli la cercasse senza indugio e, delusa, vuole ora tentarlo? Che farà?” Ella si dibatteva contro quell'incertezza come contro una porta ferrata, di là dalla quale fosse il lume della sua vita da recuperare. “Le risponderò? E se le rispondessi in modo da farle comprendere la verità? Il mio amore potrebbe essere un divieto pel suo?” La sua anima si risollevò in un moto di ripugnanza, di pudore e di fierezza. “Mai mai ella saprà da me la mia piaga; mai, pur se ella m'interroghi.” E sentì tutto l'orrore della rivalità palese tra l'amante non più giovine e la fanciulla che è forte della sua giovinezza intatta. Sentì l'umiliazione e la crudeltà della lotta ineguale. “Ma se non fosse quella”, le diceva uno spirito avverso “non sarebbe dunque un'altra? Pensi tu di poter serbare alla tua triste passione un uomo di tal natura? A un solo patto tu potevi amarlo ed offrirgli il tuo amore fedele sino alla morte, a patto di quel divieto che tu hai violato.”

— È vero! È vero! — ella mormorò come se rispondesse a una voce distinta, a una chiara sentenza proferita nel silenzio dal Destino invisibile.

“A un solo patto egli potrà ora accettare il tuo amore e riconoscerlo, a patto che tu lo lasci libero, che tu rinunzii al possesso, che tu dia tutto sempre e non chieda nulla mai: a patto di essere eroica. Intendi?”

— È vero! È vero! — ella ripetè sollevando la fronte, poichè tutta la sua bellezza morale rilampeggiava in cima della sua anima.

Ma il tossico la morse. Anche una volta, tutti i suoi sensi si ricordarono di tutte le carezze. La bocca, le mani, la forza, l'ardore del giovine passarono nel suo sangue come se si fossero distrutti in lei. Ed ella stette là, immobile nel suo male, muta nella sua febbre, consumandosi nella sua carne e nella sua anima, come quei pampini rossi e maculati che parevano bruciare per gli orli a guisa delle carte gittate su la brace.

Allora un canto lontano oscillò per l'aria senza mutamento, tremò nell'immenso stupore: un canto di voci feminili, che pareva escire da rotti petti, da gole fendute come fragili canne, simile a quei suoni che si svegliano in fondo alle vecchie spinette dalle corde spezzate se una mano tocchi i tasti logori, fioco e stridulo, con un ritmo volgare e allegro che era triste come le più tristi cose della vita in quella immobilità e in quella luce.

— Chi canta?

Con una commozione oscura, ella si alzò, si accostò alla sponda, inchinò l'orecchio ad ascoltare.

— Sono le pazze di San Clemente!

Da quell'isola della Follia, da quell'ospizio desolato e chiaro, dalle finestre sbarrate della tremenda carcere veniva il coro allegro e lugubre, tremolava, esitava nell'immensità estatica, diventava quasi infantile, s'affievoliva, stava per cadere; poi risaliva, si afforzava, strideva, si faceva quasi lacerante; poi s'interrompeva come se tutte le corde vocali si spezzassero insieme, si rialzava come un grido di strazio, come un richiamo di naufraghi perduti che vedano passare all'orizzonte una nave, come un clamore di moribondi; si estingueva, finiva, non risorgeva più.

Straziante dolcezza di quel novembre sorridente come un infermo che ha una tregua al suo patire e sa che è l'ultima e assapora la vita che con una grazia novella gli scopre i suoi più delicati sapori nel punto di abbandonarlo, e il suo sonno diurno somiglia a quello di un pargolo che s'addorma pieno di leggero latte su le ginocchia della morte!

— Guardate laggiù i Colli Euganei, Foscarina. Se il vento si leva, andranno vagando per l'aria come veli, ci passeranno sul capo. Non li ho mai veduti così trasparenti... Un giorno vorrei andare con voi ad Arquà. I villaggi sono rosei laggiù come le conchiglie che si trovano nella terra a miriadi. Quando arriveremo, le prime gocce d'una pioggerella improvvisa toglieranno qualche petalo ai fiori dei peschi. Ci fermeremo sotto un arco del Palladio, per non bagnarci. Poi cercheremo la fontana del Petrarca, senza domandare a nessuno la via. Porteremo con noi le Rime nella piccola stampa del Missirini, quel libretto che tenete presso il capezzale e che omai non si può più chiudere perchè s'è gonfiato di erbe come un erbario da bambola... Volete che andiamo, un giorno di primavera, ad Arquà?

Ella non rispondeva ma gli guardava le labbra che dicevano quelle gentili cose; e, senza speranza, si piaceva del suono e dell'atto e non d'altro, fuggevolmente. In quelle imagini di primavera e in una sestina del Petrarca era per lei il medesimo incanto lontano. Ma nell'una ella poteva mettere un segno per ritrovarla, mentre le altre si perdevano con l'ora. “Io non beverò a quella fontana, voleva rispondere; ma tacque per lasciarsi accarezzare senza sussulti. “Oh, sì, illudimi, illudimi; fa il tuo gioco, fa di me quel che tu vuoi. ”

— Ecco San Giorgio in Alga. Fra poco siamo a Fusina. Passò l'isoletta murata, con la sua Madonna di marmo che si specchia perpetuamente nell'acqua come una ninfa.

— Perchè siete così dolce, amica? Non vi ho sentita mai mai così. Non si tocca fondo in voi oggi. Non so dirvi che sentimento d'infinita melodia io trovi oggi nella vostra presenza. Siete qui accanto a me, prendo la vostra mano; e pure siete anche diffusa nell'orizzonte, siete l'orizzonte con le acque, con le isole, con i colli che vorrei salire. Quando parlavo, dianzi, mi pareva che ogni sillaba creasse in voi quei cerchi che si dilatano all'infinito come quelli, là, intorno a quella foglia che è caduta da quell'albero tutt'oro... È vero? Dite che è vero! O guardatemi.

Egli si sentiva circonfuso dall'amore della donna come dall'aria e dalla luce; respirava in quell'anima come in un elemento, e ne riceveva una pienezza ineffabile di vita come se da lei e dalle profondità del giorno nascesse un medesimo fiume di cose misteriose e gli si versasse nel cuore traboccante. Il bisogno di rendere la felicità che gli era data lo sollevava a un grado di riconoscenza quasi religioso e gli suggeriva parole di grazie e di laude che avrebbe proferite se fosse stato chino dinanzi a lei nell'ombra. Ma lo splendore del cielo e delle acque s'era fatto così grande intorno, ch'egli tacque com'ella taceva. E fu per entrambi un minuto di meraviglia e di comunione nella luce, fu un viaggio breve e pure immenso, in cui varcarono le vertiginose distanze ch'essi avevano dentro di loro.

Il battello toccò la riva di Fusina. Riscossi, si guardarono con gli occhi abbacinati; e provarono entrambi una specie di smarrimento che somigliava alla delusione, quando posero il piede a terra, quando videro quella riva squallida ove crescevano pallide erbe rade. E il muovere i primi passi fu ad entrambi increscioso perchè sentirono il peso della loro carne ch'era parso alleviarsi nel fluido tragitto.

“Mi ama, dunque?” Nel cuore della donna si ravvivava la pena con la speranza. Ella non dubitava che l'ebrezza dell'amato fosse sincera, che le sue parole rispondessero a un interno fervore. Ella sapeva com'egli s'abbandonasse interamente ad ogni onda della sua sensibilità e fosse incapace di simulazione e di menzogna. Ella lo aveva udito più d'una volta proferire le verità crudeli con quella medesima grazia pieghevole e felina che hanno nel mentire certi uomini dati alla seduzione. Ella conosceva bene quello sguardo limpido e diritto, che diveniva talora glaciale o tagliente e non mai obliquo. Ma conosceva anche le meravigliose rapidità e diversità del sentire e del pensare che rendevano quello spirito inafferrabile. Eravi in lui sempre qualche cosa di ondeggiante, di volubile e di possente, che le suscitava l'imagine duplice e diversa della fiamma e dell'acqua. Ed ella voleva fermarlo, tenerlo, possederlo! Eravi in lui sempre un ardore di vivere smisurato, quasi che ogni attimo gli sembrasse il supremo ed egli stesse per dipartirsi dalla gioia e dalla doglia dell'esistenza come dalle carezze e dalle lacrime di un commiato d'amore. Ed ella voleva attrarre al suo solo cibo quell'avidità insaziabile!

Che era ella dunque per lui se non un aspetto di quella “Vita dai mille e mille volti” verso di cui il desiderio, secondo un'imagine della sua poesia, scoteva di continuo “tutti i suoi tirsi”? Ella era per lui un motivo di visioni e d'invenzioni come le colline, come i boschi, come le piogge. Egli beveva da lei il mistero e la bellezza come da tutte le forme dell'Universo. Ed ecco, egli era già discosto, era già a una ricerca nuova: i suoi occhi ingenui e mobili cercavano intorno il miracolo per meravigliarsi e per adorare.

Ella lo guardò, senza ch'egli volgesse verso di lei il viso, intento a considerare le campagne umide e vaporose che la vettura percorreva con lentezza. Ella era là priva d'ogni forza, non più capace di vivere in sé e per sé, di respirare col suo proprio soffio, di seguire un pensiero che fosse estraneo al suo amore, esitante persino nel gioire delle cose naturali che non le fossero indicate da lui, bisognosa di attendere ch'egli le comunicasse i suoi affetti e i suoi sogni per inclinare verso quelle campagne il cuore che le doleva.

La sua vita sembrava dissolversi e condensarsi per intervalli. Un attimo d'intensità era passato ed ella aspettava l'altro; e tra l'uno e l'altro ella non aveva se non il sentimento del tempo che fugge, della lampada che si consuma, del corpo che appassisce, delle infinite cose che si corrompono e periscono.

— Amica mia, amica mia, — disse Stelio all'improvviso volgendosi e prendendole una mano, con una commozione che gli era salita a poco a poco sino alla gola e lo soffocava — perchè siamo venuti in questi luoghi? Sembrano così dolci e sono pieni di spavento.

Egli la fissava con quello sguardo che di tratto in tratto gli appariva negli occhi subitaneo come un pianto, con quello sguardo che toccava il segreto stesso della conscienza altrui e scendeva nell'infima oscurità dell'inconsapevolezza, profondo come quello d'un vecchio, profondo come quello d'un fanciullo. Ed ella ne tremava come se la sua anima fosse una lacrima di quelle ciglia.

— Tu soffri? — le chiese egli con una pietà angosciosa che fece impallidire la donna. — Senti questo spavento?

Ella si guardò intorno con l'ansia di chi sia incalzato, e credette di veder sorgere dai campi mille fantasmi funesti.

— Quelle statue! — disse Stelio con un accento che le mutò agli occhi di lei in testimoni della sua propria ruina.

E la campagna si distendeva intorno a loro silenziosa come se gli abitatori l'avessero disertata da secoli o dormissero tutti coricati nelle fosse da ieri.

— Vuoi che torniamo indietro? Il battello è ancora là.

Pareva ch'ella non udisse.

— Rispondi, Foscarina!

— Andiamo, andiamo — ella rispose. Dovunque si vada, la sorte non cangia.

Il suo corpo consentiva al moto delle ruote, allo scorrere lento; e temeva d'interromperlo, repugnava al più lieve sforzo, alla più piccola fatica, occupato da un'inerzia pesante. Il suo viso era come quelle delicate falde di cenere che si formano intorno ai carboni accesi e ne velano la consunzione.

— Cara cara anima, — le disse l'amato inchinandosi verso di lei e sfiorandole la gota smorta con le sue labbra — stringiti a me, abbandonati a me, sicura. Io non ti mancherò e tu non mi mancherai. Troveremo, troveremo la verità segreta su cui il nostro amore potrà riposare per sempre, immutabile. Non ti chiudere a me, non soffrire sola, non nascondermi il tuo tormento! Parlami, quando il cuore ti si gonfia di pena. Lasciami sperare che io potrei consolarti. Nulla sia taciuto fra noi e nulla sia celato. Oso ricordarti un patto che tu medesima hai posto. Parlami e ti risponderò sempre senza mentire. Lascia che io ti aiuti, poichè da te mi viene tanto bene! Dimmi che non hai paura di soffrire... Credo la tua anima capace di sopportare tutto il dolore del mondo. Fa che io non perda la fede in questa tua forza di passione, per cui tu mi sei parsa divina più d'una volta. Dimmi che non hai paura di soffrire... Non so; forse m'inganno... Ma ho sentito in te un'ombra, come una volontà disperata di allontanarti, di sottrarti, di trovare un termine... Perchè? Perchè?... E dianzi, mentre guardavo questa terribile desolazione che ci sorride, un grande spavento mi ha stretto il cuore all'improvviso perchè ho pensato che anche il tuo amore potrebbe mutare come tutto, passare, dissolversi. “Mi perderai.” Ah, questa parola è tua, Foscarina, è uscita dalle tue labbra!

Ella non rispondeva. E, per la prima volta da che ella lo amava, le parole di lui le sembravano vane, inutili suoni che movevano l'aria e non avevano alcun potere. Per la prima volta, egli medesimo le sembrò una debole e ansiosa creatura curvata sotto le leggi infrangibili. Ebbe pietà di lui come di sé. Ecco che anch'egli le poneva il patto di essere eroica, il patto del dolore e della violenza. Mentre egli tentava di consolarla e di sollevarla, le prediceva le forti prove, la preparava al supplizio. Ma che valeva il coraggio? che valeva lo sforzo? che mai valevano le misere agitazioni umane? E perchè mai pensavano essi all'avvenire, al domani incerto? Il Passato regnava solo intorno, ed essi erano niente, e tutto era niente. “Siamo moribondi; io e tu siamo due moribondi. Sognamo, e moriamo. ”

— Taci! — ella disse con un fievole soffio, come se andasse per un sepolcreto; e le apparve a fior della bocca un sorriso tenuissimo, eguale a quello ch'era diffuso nelle campagne, e vi si fermò, vi rimase immobile come su le labbra d'un ritratto.

Le ruote scorrevano scorrevano, nella strada bianca, lungo gli argini della Brenta. Il fiume, magnifico e glorioso nei sonetti degli abati cicisbei quando per la sua corrente scendevano i burchielli pieni di musiche e di piaceri, aveva ora l'aspetto umile d'un canale ove guazzavano le anitre verdazzurre in frotte. Per la pianura bassa e irrigua i campi fumigavano, le piante si spogliavano, il fogliame marciva nell'umidità delle zolle. Il lento vapor d'oro fluttuava su una immensa decomposizione vegetale che sembrava toccare anche le pietre le mura le case e disfarle come le frondi. Dalla Foscara alla Barbariga le ville patrizie — ove la vita dalle vene pallide, avvelenata delicatamente dai belletti e dagli odori, s'era spenta in languidi giochi sopra un neo, intorno a un cagnolino o dietro a un bombé — si disgregavano nell'abbandono e nel silenzio. Talune avevano l'aspetto della ruina umana, con le loro aperture vacue che somigliavano alle orbite cieche, alle bocche senza denti. Altre al primo vederle parevano sul punto di ridursi in frantumi e in polvere come le capellature delle defunte quando si scoperchiano le tombe, come le vecchie vesti róse dai tarli quando si aprono gli armarii da lungo tempo chiusi. I muri di cinta erano abbattuti, rotti i pilastri, contorti i cancelli, invasi dalle ortaglie i giardini. Ma qua, là, da presso, da lungi, ovunque, nei frutteti, nelle vigne, tra i cavoli argentati, tra i legumi, in mezzo ai pascoli, su i cumuli di concime e di vinaccia, sotto i pagliai, alla soglia dei tugurii, ovunque per la campagna fluviàtile s'alzavano le statue superstiti. Erano innumerevoli, erano un popolo disperso, ancora bianche, o grige, o gialle di licheni, o verdastre di muschi, o maculate, e in tutte le attitudini e con tutti i gesti, Iddie, Eroi, Ninfe, Stagioni, Ore, con gli archi, con le saette, con le ghirlande, con le cornucopie, con le faci, con tutti gli emblemi della potenza, della ricchezza e della voluttà, esuli dalle fontane dalle grotte dai labirinti dalle pergole dai portici, amiche del busso e del mirto sempreverdi, protettrici degli amori fuggitivi, testimoni dei giuramenti eterni, figure di un sogno ben più antico delle mani che le avevano formate e degli occhi che le avevano mirate nei giardini distrutti. E nel dolce sole di quella tardiva estate dei morti le loro ombre, che s'allungavano a poco a poco su la campagna, erano come le ombre del Passato irrevocabile, di ciò che non ama più, che non ride più, che non piange più, che non rivivrà più mai, che non ritornerà più mai. E la muta parola su le loro labbra di pietra era quella medesima che diceva l'immobile sorriso su le labbra della donna consunta: — NIENTE.

Ma essi conobbero in quel giorno altre ombre, altri spaventi.

Il senso tragico della vita li occupava ormai entrambi; ed invano tentavano di vincere quella corporale tristezza entro di cui gli spiriti si facevano d'attimo in attimo più lucidi e più inquieti. Si tenevano per mano come se camminassero nel buio o per luoghi pericolosi. Di rado parlavano, ma a quando a quando si guardavano nelle pupille e l'uno sguardo versava nell'altro un'onda confusa che non era se non l'orrore e l'amore traboccanti. Ma i loro cuori non s'alleviavano.

— Andiamo innanzi?

— Sì, andiamo.

Si tenevano per mano strettamente, come se fossero a una strana prova, risoluti di esperimentare sino a qual profondità potessero giungere le forze della loro malinconia commiste. Al Dolo le ruote fecero cricchiare le foglie dei castagni che ricoprivano la via; e i grandi alberi trascolorati fiammeggiarono sul loro capo come cortinaggi di porpora che s'incendiassero. Più lungi, la Villa Barbariga apparve sola e desolata in mezzo al suo giardino nudo, rossastra, con le tracce delle antiche pitture su gli screpoli della facciata come resti di cinabro nelle rughe di una vecchia galante. E le lontananze della campagna a ogni sguardo più s'attenuavano e s'inazzurravano come le cose che si sommergono.

— Ecco Strà.

Discesero dinanzi alla villa dei Pisani; entrarono; accompagnati dal custode, visitarono gli appartamenti deserti. Udirono il suono dei loro passi sul marmo che li rispecchiava, l'eco nelle volte istoriate, il gemito delle porte che s'aprivano e si richiudevano, la voce tediosa che risvegliava le memorie. Le stanze erano vaste, parate di stoffe svanite, ornate nello stile dell'Impero, con gli emblemi napoleonici. In una le pareti erano coperte dai ritratti dei Pisani procuratori di San Marco; in un'altra, dai medaglioni marmorei di tutti i Dogi; in un'altra, da una serie di fiori dipinti ad acquerello e posti in delicate cornici, pallidi come quei fiori disseccati che si pongono sotto i vetri per ricordo di un amore o di una morte. In un'altra, la Foscarina entrando disse:

— Col tempo! Anche qui.

V'era, su una mensola, una traduzione in marmo della figura di Francesco Torbido, resa più orrida dal rilievo, dallo studio sottile dello statuario nel distinguere a una a una con lo scalpello le grinze, le corde, le fosse. E agli usci della stanza apparvero i fantasmi delle donne coronate che avevano celato la loro sventura e il loro deperimento in quella dimora ampia come una reggia e come un monastero.

— Maria Luisa di Parma, nel 1817 — continuava la voce tediosa.

E Stelio:

— Ah, la regina di Spagna, la moglie di Carlo IV, l'amante di Manuel Godoi! Questa, fra tutte, mi attira. Passò di qui nel tempo dell'esilio. Sapete se vi sia rimasta col re e col favorito?

Il custode non sapeva se non quel nome e quella data.

— Perchè vi attira? — chiese la Foscarina. — Non so nulla di lei.

— La sua fine, gli ultimi anni della sua vita esule, dopo tanta passione e tante lotte, sono d'una poesia insolita.

Ed egli le rappresentò quella figura violenta e tenace, il re debole e credulo, il bellissimo avventuriero che aveva goduto il letto della regina ed era stato trascinato sul lastrico dalla folla furibonda, le agitazioni di quelle tre vite legate dalla sorte e cacciate nella volontà di Napoleone come fuscelli in un turbine, il tumulto d' Aranjuez, l'abdicazione, l'esilio.

— Quel Godoi dunque, il Principe della Pace, come lo aveva chiamato il re, seguì i sovrani nell'esilio fedelmente: fu fedele alla sua amante regale ed ella a lui. E vissero sempre insieme sotto lo stesso tetto, e Carlo non sospettò mai della virtù di Maria Luisa e coprì della sua benignità eguale i due amanti, fino alla morte. Imaginate la loro sosta in questo luogo, imaginate qui un tale amore escito salvo da un così terribile uragano. Tutto era spezzato, abbattuto, ridotto in polvere sotto la forza del distruttore. Il Bonaparte era passato di là e non aveva soffocato sotto la ruina quel già canuto amore! Tanto mi commuove la fedeltà dei due violenti quanto la credulità del re mite. Invecchiarono così. Pensate! Prima morì la regina, poi il re; e il favorito, ch'era meno vecchio di loro, visse ancora alcuni anni errando…

— Questa è la stanza dell'Imperatore! — disse il custode solennemente spalancando una porta.

La grande ombra pareva onnipresente nella villa del doge Alvise. Le aquile imperiali, il segno della sua potenza, dominavano dall'alto su tutte quelle pallide reliquie. Ma nella stanza gialla essa occupò il vasto letto, si coricò sotto il baldacchino, tra le quattro colonne sormontate dalle fiamme d'oro. La sigla formidabile entro la corona di lauro splendeva sul capezzale. E quella specie di talamo funebre si prolungava nello specchio appannato tra due Vittorie che reggevano i candelabri.

— In questo letto ha dormito l'Imperatore? — chiese il giovine al custode che gli mostrava su la parete l'effigie del condottiere ammantato d'ermellino, laureato e scettrato ridevolmente come nella sagra benedetta da Pio VII. — È certo?

Si stupiva di non aver provato quel turbamento che danno ai cuori ambiziosi i vestigi dell'eroe, energico palpito ch'egli ben conosceva. Forse gli ottundevano lo spirito l'odore del rinchiuso, il tanfo delle vecchie stoffe e delle materasse, la sordità del silenzio ove il gran nome non dava alcuna risonanza mentre lo stridore di un tarlo vi persisteva così distinto ch'egli credeva di averlo dentro l'orecchio.

Sollevò un lembo della coltre gialla, e lo lasciò ricadere rapidamente come se il guanciale sottostante fosse verminoso.

— Andiamo! Usciamo! — pregò la Foscarina, che aveva guardato pei vetri della finestra il parco ove il sole obliquo alternava le sue bande fulve con le zone glauche dell'ombra. — Non si respira qui.

Infatti, mancava l'aria come in una cripta.

— Ora si passa nella camera di Massimiliano d'Austria — seguitò la voce tediosa — il quale aveva messo il suo letto nel gabinetto di Amalia Beauharnais.

Traversarono la stanza in un bagliore vermiglio. Il sole batteva su un canapè di cremisi, svegliava l'iride in un gracile lampadario a gocciole di cristallo pendente dalla volta, accendeva le strisce rosse perpendicolari nella parete. Stelio si soffermò su la soglia, si rivolse indietro, evocò in quel sangue splendente la figura pensosa del giovine arciduca dagli occhi cerulei, il bel fiore d'Asburgo caduto su la terra barbarica in un mattino d'estate.

— Andiamo! — pregò di nuovo la Foscarina che lo vide indugiarsi.

Ella fuggiva attraverso la sala immensa istoriata dal Tiepolo, mentre dietro di lei il bronzo corintio del cancello nel chiudersi dava un suono chiaro come un tintinno che propagavasi per la concavità in lunghe vibrazioni. Ella fuggiva sbigottita, quasi che tutto stesse per crollarle addosso e la luce fosse per mancare ed ella temesse di ritrovarsi sola nelle tenebre con quei fantasmi di sventura e di morte. Camminando nell'aria mossa da quella fuga tra quelle pareti gravi di reliquie e di larve dietro l'attrice famosa che su tutte le scene del mondo aveva simulato il furore delle passioni mortali, gli sforzi disperati della volontà e del desiderio, il contrasto violento delle sorti superbe, Stelio Èffrena perdeva il calore delle sue vene come se camminasse in un vento gelido, sentiva il suo cuore agghiacciarsi, il suo coraggio affievolirsi, la sua ragione di vivere perdere ogni forza, i suoi legami con gli esseri e con le cose allentarsi, vacillare e dileguare le illusioni magnifiche ch'egli aveva date alla sua anima per incitarla a sorpassar sé medesima e il suo destino.

— Siamo ancora viventi? — disse egli quando furono all'aperto, nel parco, lungi dall'odore tetro.

E prese per le mani la donna, la scosse un poco, la guardò in fondo agli occhi, tentò di sorridere; poi la trasse verso il sole, su l'erba del prato.

— Che tepore! Senti? Com'è buona l'erba!

Egli socchiuse gli occhi per ricevere i raggi su le palpebre, subitamente ripreso dalla voluttà di vivere. Ella lo imitò, sedotta dal piacere del suo amico; e di tra i cigli guardava la bocca di lui fresca e sensuale. Rimasero così per qualche attimo sotto la carezza del sole, con i piedi nell'erba, con le mani nelle mani, sentendo nel silenzio palpitare le loro vene come i ruscelli che si fanno più rapidi quando il gelo si discioglie a primavera. Ella ripensò i Colli Euganei, i villaggi rosei come le conchiglie fossili, le prime gocce della pioggia su le foglie nuove, la fontana del Petrarca, tutte le gentili cose.

— La vita ancóra potrebbe essere dolce! — sospirò, con una voce che fu il miracolo della speranza in punto di rinascere.

Il cuore dell'amato fu come un frutto che d'improvviso un raggio miracoloso maturi e fonda. La bontà e la delizia gli si sparsero nell'anima e nella carne. Anche una volta egli gioì dell'attimo come colui che sta per dipartirsi. L'amore fu esaltato sopra il destino.

— Mi ami? Di' !

La donna non rispose; ma spalancò gli occhi ed ebbe nel cerchio delle sue iridi la vastità dell'Universo. Né mai l'amore immenso fu significato con un segno più possente da una creatura terrestre.

— Dolce, dolce la vita con te, per te, ieri come domani!

Egli pareva ebro di lei, del sole, dell'erba, del cielo divino, come di cose non mai vedute, non mai possedute. Il prigioniero che esce all'alba dal carcere soffocante, il convalescente che guarda il mare dopo aver guardata la morte, non sono ebri com'egli era.

— Vuoi che partiamo? Vuoi che lasciamo dietro di noi la malinconia? Vuoi che andiamo nei paesi che non hanno autunno?

“È in me l'autunno, e dovunque io lo porterò meco!” ella pensò; ma sorrideva del suo tenue sorriso asconditore. “Io, io partirò, scomparirò, me ne andrò a morire lontano, amore, amore mio!”

Ella non era riuscita a vincere la tristezza né a rinnovellare la speranza in quella sosta; ma pure la sua pena s'era ammollita, aveva perduto ogni acredine, ogni rancore.

— Vuoi che partiamo?

“Partire, sempre partire, andar vagando per il mondo, andar lontano!” pensava la donna nomade. “Mai posa, mai pace. L'ansia della corsa non è placata; ed ecco, già la tregua spira. Tu vorresti consolarmi, amico dolce; e, per consolarmi, tu mi proponi di andar lontano ancora una volta, mentre son tornata alla mia casa ieri!”

Subitamente i suoi occhi furono come un'acqua pullulante.

— Lasciami nella mia casa ancóra un poco! E tu rimani, se puoi. Dopo, sarai libero, sarai felice... Tanto tempo tu hai dinanzi a te! Sei giovine. Avrai quel che ti è dovuto. Chi t'aspetta, non ti perde.

Gli occhi avevano due visiere di cristallo che brillavano al sole, quasi fisse, in quel viso febrile.

— Ah, sempre la medesima ombra! — esclamò Stelio dolendosi, con un'impazienza che non riuscì a contenere. — Ma che pensi? che temi? Perchè non mi parli di quel che ti fa pena? Parliamo, dunque. Chi m'aspetta?

Ella tremò di sgomento a quella interrogazione che le parve improvvisa e nuova, se bene vi fossero ripetute le sue parole ultime. Ella tremò di ritrovarsi tanto vicina al pericolo, come se camminando per quella buona erba un precipizio le si aprisse sotto il piede.

— Chi m'aspetta?

Ecco che a un tratto, là, in quel luogo estraneo, su quel bel prato, alla fine del giorno, dopo tante apparizioni di spettri sanguinosi od esangui, sorgeva una forma viva di volontà e di desiderio che l'empiva d'un terrore ben più gagliardo. Ecco che a un tratto sopra tutte quelle figure del passato s'alzava una figura d'avvenire; e la sembianza della vita si trasmutava novellamente, e il bene di quella sosta breve era già perduto, e quella buona erba sotto il piede non valeva più.

— Sì, parleremo, se volete... Non ora...

La gola chiusa lasciava appena passare la voce; ed ella teneva il viso un poco sollevato perchè le ciglia potessero frenare il pianto.

— Non esser triste! Non esser triste! — pregò il giovine, con l'anima sospesa a quelle ciglia come quelle lacrime che non sgorgavano. — Tu hai il mio cuore nella tua mano. Io non ti mancherò. Non tormentarti! Sono tuo.

Anche per lui Donatella era là, alta, con le reni falcate, con il corpo agile e robusto di una Vittoria senz'ali, tutta armata della sua verginità, attirante e ostile, pronta a combattere e a donarsi. Ma la sua anima era sospesa alle ciglia dell'altra come quelle lacrime che velavano le pupille ov'egli aveva veduto l'immensità dell'amore.

— Foscarina!

Alfine le stille calde si versarono; ma ella non le lasciò scorrere lungo le gote. Per uno di quei gesti che solevano escire dal suo dolore con la grazia impreveduta di un'ala che si liberi, le arrestò, se ne bagnò le dita, se ne sparse l'umidità su le tempie, senza asciugarle. E, mentre lasciava così sopra sé stessa il suo pianto, volle sorridere.

— Perdonatemi, Stelio, se sono tanto debole.

Perdutamente allora egli amò i segni delicati che si partivano dall'angolo degli occhi verso quelle tempie inumidite, e le piccole vene oscure che rendevano le palpebre simili alle violette, e l'ondulazione delle gote, e il mento estenuato, e tutto quello che pareva tócco dal male d'autunno, tutta l'ombra su l'appassionato viso.

— Ah, care dita, belle come le dita di Sofia! Lascia che io te le baci così bagnate ancora!

Egli la traeva nella sua carezza per il prato, su una zona d'oro verde. Leggero, tenendo il suo braccio sotto quello di lei, le baciava a una a una le falangi più fini delle tuberose non aperte. Ella rabbrividiva. Egli ne sentiva i brividi a ogni tocco delle sue labbra.

— Sanno di salso.

— Via, Stelio. Qualcuno vede.

— Non c'è nessuno.

— Laggiù, nelle serre.

— Non si sente una voce. Ascolta.

— Strano silenzio. L'estasi!

— Si sente cadere una foglia.

— E quel custode?

— È andato incontro a qualche altro visitatore.

— Chi viene qui?

— So che l'altro giorno venne Riccardo Wagner con Daniela von Bülow.

— Ah, la nipote della contessa d'Agoult, di Daniel Stern.

— Con quale parlò, di quei fantasmi, il gran cuore malato?

— Chi sa!

— Soltanto, forse, con sé stesso.

— Forse.

— Guarda i vetri delle serre, come brillano. Sembrano iridati. La pioggia il sole e l'età li dipingono così. Non sembra che vi si specchi un crepuscolo lontano? Ti sei forse fermata una volta su la Fondamenta Pesaro a guardare la bella pentafora degli Evangelisti. Se tu alzavi gli occhi, vedevi le vetrate del palazzo dipinte dall'intemperie meravigliosamente.

— Sai tutti i segreti di Venezia, tu.

— Non tutti ancora.

— Che caldo, qui! Guarda come sono grandi quei cedri. V'è un nido di rondine, là, appeso alla trave.

— Sono partite tardi, quest'anno, le rondini.

— Veramente, a primavera, mi condurrai su i Colli Euganei?

— Sì, Fosca, vorrei.

— Com'è lontana la primavera!

— La vita può ancóra essere dolce.

— Si sogna.

— Orfeo con la sua lira, tutto vestito di licheni!

— Ah, che viale di sogni! Nessuno ci passa più. Erba, erba... Non v'è una traccia.

— Deucalione con le pietre, Ganimede con l'aquila, Diana col cervo, tutta la mitologia.

— Quante statue! Ma queste almeno non sono in esilio. I vecchi càrpini le chiudono ancóra.

— Qui passeggiava Maria Luisa di Parma, tra il re e il favorito. Si arrestava di tratto in tratto per ascoltare il rumore delle cesoie che tagliavano i càrpini in forma di archi. Lasciava cadere il fazzoletto profumato di gelsomino e Don Manuel Godoi lo raccoglieva con un atto ancora svelto dissimulando il dolore che gli dava all'anca l'inchinarsi: ricordo dello strazio patito per le vie di Aranjuez in balìa della canaglia. Come il sole era tiepido e il tabacco era eccellente nella scatola di smalto, il re senza corona diceva sorridendo: “Certo il nostro caro Bonaparte sta meno bene a Sant'Elena”. Ma il demone della potenza, della lotta e della passione si risvegliava nel cuore della regina... Guarda le rose rosse!

— Ardono. Sembra che abbiano nella corolla un carbone acceso. Ardono veramente.

— Il sole s'imporpora. Questa è l'ora delle vele di Chioggia, su la laguna.

— Coglimi una rosa.

— Eccola.

— Oh, si sfoglia!

— Eccone un'altra.

— Si sfoglia!

— Sono tutte in punto di morte. Ecco, questa forse no.

— Non la cogliere!

— Guarda. Diventano sempre più rosse. Il velluto del Bonifazio... Ti ricordi? La stessa forza.

— “L'interno fiore del fuoco.”

— Che memoria!

— Senti? Si chiudono le porte delle serre.

— È l'ora d'avviarsi per l'uscita.

— L'aria già comincia a rinfrescare.

— Hai freddo?

— No, non ancóra.

— Hai lasciato il tuo mantello nella vettura?

— Sì.

— Aspetteremo al Dolo il passaggio del treno. Torneremo col treno a Venezia.

— Sì.

— C'è ancóra tempo.

— Che è questo? Guarda.

— Non so...

— Che odore amaro! Un boschetto di bussi e di càrpini...

— Ah, è il labirinto.

Un cancello di ferro rugginoso lo chiudeva, tra due pilastri che portavano due Amori cavalcanti delfini di pietra. Non si scorgeva di là dal cancello se non il principio di un tràmite e una sorta di selva intricata e dura, un'apparenza misteriosa e folta. Dal centro dell'intrico s'alzava una torre, e in cima della torre la statua d'un guerriero pareva stesse alle vedette.

— Sei mai entrata in un labirinto? — chiese Stelio all'amica sua.

— Mai — ella rispose.

S'indugiarono a mirare quel gioco fallace composto da un giardiniere ingegnoso per il diletto delle dame e dei cicisbei nel tempo dei calcagnini e dei guardinfanti. Ma l'abbandono e l'età l'avevano inselvatichito, intristito; gli avevano tolto ogni aspetto di leggiadria e di eguaglianza; l'avevano mutato in una chiusa macchia tra bruna e giallastra, piena di ambagi inestricabili, ove i raggi obliqui del tramonto rosseggiavano così che i cespi qua e là vi parevano roghi che bruciassero senza fumo.

— È aperto — disse Stelio sentendo cedere il cancello nell'appoggiarvisi. — Vedi?

Egli sospinse il ferro rugginoso che stridette su i cardini malfermi; poi diede un passo varcando il limitare.

— Che fai? — disse la sua compagna, con un timore istintivo, stendendo la mano per trattenerlo.

— Non vuoi che entriamo?

Ella era perplessa. Ma il labirinto li attirava col suo mistero, illuminato da quella fiamma profonda.

— E se ci perdiamo?

— Vedi: è piccolo. Ritroveremo facilmente l'uscita.

— E se non si ritrova?

Egli rise della paura puerile.

— Rimarremo a girare in eterno.

— Non c'è nessuno nelle vicinanze. No, no andiamo via.

Ella cercò di ritrarlo. Egli si schermì, indietreggiò verso il sentiere, subitamente scomparve ridendo.

— Stelio! Stelio!

Ella non lo vedeva più, ma udiva il riso squillare nell'avvolgimento selvaggio.

— Torna indietro! Torna!

— Vieni tu a cercarmi.

— Stelio, torna indietro! Ti perderai.

— Troverò Arianna.

Ella sentì balzare il suo cuore a quel nome, poi serrarsi, spasimare in confuso. Non aveva egli chiamata Donatella con quel nome, la prima sera? Non l'aveva chiamata Arianna, là, su l'acqua, seduto presso i ginocchi di lei? Ella si ricordava perfino delle parole. “Arianna ha un dono divino, per cui il suo potere trascende ogni limite...” Ella si ricordava dell'accento, dell'attitudine, dello sguardo di lui.

Un'angoscia tumultuosa la sconvolse, le offuscò la ragione, le impedì di considerare la spontaneità del caso, di riconoscere l'inconsapevolezza del suo amico. Il terrore che si celava in fondo al suo amore disperato insorse, fu padrone di lei, l'accecò miseramente. Il piccolo fatto vano assunse un aspetto di crudeltà e di scherno. Ella udiva ancora quel riso squillare nell'avvolgimento selvaggio.

— Stelio!

Gridò come se lo vedesse allacciato dall'altra, strappato per sempre alle sue braccia, in un'allucinazione frenetica.

— Stelio!

— Cercami! — ridendo egli le rispose, invisibile.

Ella si slanciò nell'intrico per ritrovarlo; andò diritta verso la voce e il riso, portata dall'impeto. Ma il sentiere si torse; una muraglia di busso cieca le si parò dinanzi, l'arrestò, impenetrabile. Ella seguì la tortuosità ingannevole; e una svolta succedeva all'altra, e tutte erano eguali, e il giro pareva non aver fine.

— Cercami! — ripetè la voce di lontano, a traverso le siepi vive.

— Dove sei? Dove sei? Mi vedi?

Ella cercò qua e là le radure per ficcarvi lo sguardo. Non scorgeva se non la trama spessa dei rami e il rossore del vespro che li accendeva tutti da una banda mentre l'ombra dall'altra li annerava. I bussi e i càrpini erano commisti, le foglie sempreverdi si confondevano con le morienti, quelle più fosche con quelle più pallide, in un contrasto di vigore e di languore, in un'ambiguità che aumentava lo smarrimento della donna ansante.

— Mi perdo. Vienimi incontro!

Di nuovo il riso giovenile squillò nel folto.

— Arianna, Arianna, il filo!

Ora il suono veniva dalla parte opposta, la feriva alle reni come uno stocco.

— Arianna!

Ella si volse, corse, girò, tentò di penetrare la muraglia, allargò la fronda, spezzò un ramo. Non vide nulla fuorché l'intrico molteplice ed eguale. Udì alfine un passo così da presso che credette di averlo alle spalle, e trasalì. Ma s'ingannava. Esplorò anche una volta l'irremeabile carcere arborea che la serrava, ascoltò, attese; udì il suo proprio anelito e il battito dei suoi polsi. Il silenzio era divenuto altissimo. Ella guardò il cielo che s'incurvava immenso e puro su le due pareti ramose in cui ella era prigione. Pareva che non vi fosse al mondo se non quell'immensità e quell'angustia. Ed ella non riusciva a separare col suo pensiero la realtà del luogo dall'imagine del suo supplizio interiore, l'aspetto naturale delle cose da quella specie di vivente allegoria creata dalla sua propria angoscia.

— Stelio, dove sei?

Non le fu risposto. Ascoltò. Attese invano. Gli attimi sembravano ore.

— Dove sei? Ho paura.

Non le fu risposto. Ma dov'era andato egli? Aveva ritrovato forse l'uscita? L'aveva lasciata là sola? Voleva continuare quel gioco crudele?

Una voglia furiosa di urlare, di singhiozzare, di gettarsi a terra, di dibattersi, di farsi male, di morire assalì l'insensata. Ella di nuovo levò gli occhi verso il cielo tacito. Le cime delle grandi siepi rosseggiavano come i sermenti quando non danno più vampa e stanno per incenerirsi.

— Ti vedo — disse all'improvviso nell'ombra bassa la voce ridente, vicinissima.

Ella sobbalzò; si chinò nell'ombra.

— Dove sei?

Egli rise tra le foglie, senza mostrarsi, come un fauno in agguato. Il gioco l'eccitava: tutte le sue membra si riscaldavano snodandosi nell'esercizio della destrezza; e il mistero selvaggio, il contatto del suolo, l'odore dell'autunno, la singolarità dell'avventura impreveduta, lo sbigottimento della donna, la presenza stessa delle deità di pietra mescevano al suo piacere corporeo un'illusione di antica poesia.

— Dove sei? Oh, non giocar più! Non ridere così! Basta.

Carponi egli s'era insinuato nel cespuglio, a capo scoperto. Sentiva sotto i ginocchi le foglie macere, il musco molle. E come egli respirava nei rami e palpitava in essi e aveva tutti i sensi presi da quel piacere, la comunione della sua vita con la vita arborea si fece più stretta e l'incanto della sua imaginazione rinnovò in quel viluppo di vie dubbie l'industria del primo fabbro di ali, il mito del mostro nato da Pasifae e dal Toro, la favola attica di Teseo in Creta. Tutto quel mondo si fece reale per lui. Sotto la sera purpurea d'autunno egli si trasfigurava, secondo gli istinti del suo sangue e i ricordi del suo intelletto, in una di quelle forme ancípiti tra bestiali e divine, in uno di quei genii agresti la cui gola era gonfia delle glandule stesse che pendono dal collo delle capre. Una salacità ilare gli suggeriva atti e gesti strani, sorprese, insidie; gli figurava l'allegrezza d'un inseguimento, d'un abbattimento, d'un congiungimento rapido sul musco o contro il busso inculto. Egli desiderò allora una creatura che gli somigliasse, un petto fresco a cui egli potesse comunicare le sue risa, due gambe veloci, due braccia pronte alla lotta, una preda da ghermire, una verginità da sforzare, una violenza da compiere. Donatella dalle reni falcate gli riapparve.

— Basta! Non posso più, Stelio... Mi lascio cadere a terra.

La Foscarina gittò un grido sentendosi trarre pel lembo della veste da una mano che passava a traverso il cespuglio. Si chinò, travide nell'ombra fra i rami la faccia del fauno ridente. Quel riso le balenò su l'anima senza muoverla, senza rompere l'orribile pena che la fasciava. Più acutamente ella anzi patì del contrasto fra quell'ilarità e la sua tristezza, fra quella gioia sempre nuova e la sua perpetua inquietudine, fra quell'oblio leggero e il peso del suo ingombro. Più lucidamente conobbe il suo errore e la crudeltà della vita che poneva là, nel luogo dov'ella pativa, la figura dell'altra. Nel chinarsi, com'ella scorse la faccia giovenile, con la medesima evidenza scorse anche quella della cantatrice che si chinava con lei imitando il suo atto come l'ombra ripete un gesto su la parete rischiarata. Tutto si confuse nel suo spirito; e il suo pensiero non riesci a porre un intervallo tra la realtà e quell'imagine. L'altra si sovrappose a lei, la oppresse, la soppresse.

— Lasciami! Lasciami! Non sono quella che cerchi...

La voce era così mutata che Stelio interruppe il suo riso, il suo gioco; ritrasse il braccio; si levò in piedi. Ella non lo vide più. La muraglia ramosa stava tra loro due, impenetrabile.

— Conducimi fuori! Non mi reggo più, non ho più forze... Soffro.

Egli non trovava le parole per placarla, per confortarla. La simultaneità del suo desiderio recente e di quella sùbita divinazione lo aveva colpito a dentro.

— Aspetta, aspetta un poco! Cercherò di ritrovare l'uscita. Chiamerò qualcuno...

— Te ne vai?

— Non aver paura, non aver paura. Non v'è nessun pericolo.

E mentre parlava così per rassicurarla, egli sentiva l'inanità di quel che diceva, il discordo tra quell'avventura ridevole e la commozione oscura che sorgeva da una ben altra causa. Ed anch'egli ora aveva in sé stesso la strana ambiguità per cui il piccolo evento appariva in due aspetti confusi, persistendo sotto la sollecitudine la sua voglia di ridere repressa, così che quella sofferenza gli era nuova come certi affanni che nascono dalla stravaganza dei sogni.

— Non te n'andare! — pregava ella in balìa della sua allucinazione. — Forse là alla svolta c'incontreremo. Proviamo. Prendimi le mani.

Per una radura egli le prese le mani e trasalì nel toccarle, tanto erano fredde.

— Foscarina! Che hai? Ti senti male veramente? Aspetta! Cercherò di rompere la siepe.

Egli sforzò il folto, ruppe alcuni rami; ma l'intrico resisteva, robustissimo. Si ferì inutilmente.

— Non è possibile.

— Grida, chiama qualcuno.

Egli gridò nel silenzio. Le cime delle alte siepi s'erano spente, ma nel cielo superiore si spandeva un rossore simile a un riverbero di boschi incendiati su l'orizzonte. Una torma di anitre selvatiche passava ordinata a triangolo, tesa i lunghi colli, negra.

— Lasciami andare! Ritroverò la torre facilmente. Dalla torre chiamerò. Si udranno le grida.

— No! No!

Ella lo udì allontanarsi, seguì il rumore dei passi, fu ripresa nelle ambagi, si ritrovò sola e perduta. S'arrestò. Aspettò. Ascoltò. Guardò il cielo; vide lo stuolo triangolare scomparire nella lontananza. Smarrì il senso del tempo. Gli attimi le sembrarono ore.

— Stelio! Stelio!

Non era più capace d'altri sforzi per dominare il disordine dei suoi nervi esasperati. Sentiva venire l'accesso estremo della manìa come si sente il turbine che s'approssima.

— Stelio!

Egli udiva la voce d'angoscia, e s'affannava alla ricerca per le vie ricurve che ora l'avvicinavano ora l'allontanavano dalla torre. Il riso gli s'era congelato nel cuore. Tutta l'anima gli tremava dalle radici ogni volta che gli giungeva all'orecchio il suo nome proferito dall'invisibile agonia. E la diminuzione graduale della luce gli dava imagine del sangue che cola, della vita che manca.

— Eccomi! Eccomi!

Una delle vie sboccò finalmente nello spiazzo ove sorgeva la torre. Egli salì in furia la scala a chiocciola; ebbe la vertigine quando fu alla cima, chiuse gli occhi reggendosi ai balaustri, li riaprì; vide all'orizzonte una lunga zona di fuoco, il disco della luna senza raggi, la pianura simile a una palude cinerea, il labirinto sotto di sé nerastro di bussi e maculato di càrpini, angusto nei suoi interminabili avvolgimenti, con l'aspetto di un edifizio smantellato e invaso dagli sterpi, simile a una mina e a una macchia, selvaggio e lugubre.

— Férmati, férmati! Non correre così! Qualcuno ha udito. Viene un uomo. Lo vedo che viene. Aspetta! Férmati!

Egli guardava la donna girare in corsa come una demente per i sentieri ciechi e dubbii, come una creatura condannata a un supplizio vano, a un affanno inutile ma sempiterno, sorella delle martiri mitiche.

— Férmati!

Pareva ch'ella non intendesse, o ch'ella non potesse arrestare la sua agitazione fatale; e ch'egli non potesse soccorrerla ma dovesse rimaner testimone di quel castigo terribile.

— Eccolo!

Uno dei custodi aveva udito i richiami, s'era appressato; varcava la soglia. Stelio l'incontrò a pie della torre. Insieme andarono alla ricerca della smarrita. L'uomo conosceva il segreto del labirinto. Stelio gli impedì di ciarlare e di motteggiare confondendolo con la sua generosità.

“Ha perduto i sensi? È caduta?” L'ombra e il silenzio gli sembravano sinistri, lo sgomentavano. Chiamata, ella non rispondeva; né s'udivano i suoi passi. Il luogo era già notturno, sotto l'umidità che scendeva dal cielo paonazzo. “La troverò svenuta a terra?”

Egli trasalì vedendo d'improvviso apparire a una svolta la figura misteriosa, la faccia pallida che attraeva tutto il lume del crepuscolo splendendo come una perla, gli occhi larghi e fissi, le labbra strette e rigide.

Tornarono verso il Dolo, ripresero la stessa via lungo la Brenta. Ella non parlò, non aprì mai bocca, non rispose mai, come se non potesse disserrare i denti, distesa in fondo alla vettura, coperta dal mantello sino al mento, attraversata a quando a quando da brividi forti come sussulti, soffusa d'un lividore simile a quello della febbre palustre. Il suo amico le prendeva le dita e le teneva entro le sue per riscaldarle, ma inutilmente: erano inerti, sembravano esanimi. E le statue passavano passavano.

Il fiume fluiva cupo tra i suoi argini, sotto il cielo di viola e d'argento ove saliva il plenilunio. Una barca nera discendeva la corrente, tirata per una corda da due cavalli grigi che camminavano su l'erba della ripa con sorde péste, condotti da un uomo che andavasene zufolando in pace; e un fumaiuolo fumicava sul ponte come la torricella del camino sul tetto d'un tugurio, e gialleggiava una lucerna nella stiva, e si spandeva all'aria l'odore del pasto serale. E di qua, di là, nella campagna irrigua, le statue passavano passavano.

Era come una landa stigia, come una visione dell'Ade: un paese di ombre, di vapori e di acque. Tutte le cose vaporavano e vanivano come spiriti. La luna incantava e attirava la pianura com'ella incanta e attira il mare: beveva dall'orizzonte la grande umidità terrestre, con una gola insaziabile e silenziosa. Ovunque brillavano pozze solinghe; si vedevano piccoli canali argentei riscintillare in una lontananza indefinita tra file di salci reclinati. La terra pareva perdere a ora a ora la sua saldezza e liquefarsi; il cielo poteva mirarvi la sua malinconia riflessa da innumerevoli specchi quieti. E di qua, di là, per la scolorata riviera, come i Mani d'una gente scomparsa le statue passavano passavano.

— Pensate spesso a Donatella Arvale, Stelio? — chiese d'improvviso la Foscarina, dopo un lungo intervallo in cui entrambi non avevano udito se non la cadenza dei loro passi per la Fondamenta dei Vetrai illuminata dal fulgore innumerevole delle fragili opere che riempivano le mostre delle botteghe contigue.

La voce fu veramente come un vetro che s'incrina. Stelio si soffermò, con l'atto di chi si trovi dinanzi a una difficoltà imprevista. Il suo spirito era sparso per quella rossa e verde isola di Murano tutta fiorita di quei gemmei fiori nella povertà sconsolata ov'essa perdeva anche la memoria del tempo giocondo in cui la cantarono i poeti “luogo da ninfe e da semidei”. Egli pensava agli orti illustri ove Andrea Navagero, il Bembo, l'Aretino, Aldo e il dotto coro gareggiavano di eleganze in dialoghi platonici lauri sub umbra; pensava ai monasteri molli come ginecèi, abitati dalle monacelle vestite di cambellotto candido e di trine, con la fronte ghirlandata di riccioli e con le mammelle scoperte a simiglianza delle honeste meretrici, date ai segreti amori, molto ricercate dai patrizii licenziosi, nomate di dolci nomi come Ancilla Soranzo, Cipriana Morosini, Zanetta Balbi, Beatrice Falier, Eugenia Muschiera, pie maestre di lascivie. Accompagnavagli il sogno ondeggiante un'arietta ch'egli aveva udita, nel museo, gemere lentamente a gocciole sonore da un piccolo congegno metallico che il giro d'una chiave faceva muovere dissimulato sotto un giardino di vetro ove amanti adorni di margheritine danzavano intorno a una fontanella di calcedonia. Era una melodia indistinta, un'obliata aria di danza, a cui mancavano alcune note ammutolite dai guasti e dalla polvere, ma pur tanto espressiva ch'egli non poteva più cacciarla dal suo orecchio. E tutto intorno per lui ora aveva la fragilità e la malinconia remota di quelle figurine che danzavano a quei suoni più lenti d'uno stillicidio. L'anima fioca di Murano aveva parlottato in quel vecchio passatempo.

Alla domanda subitanea, l'arietta si tacque, le imaginazioni si dispersero, vanì l'incantesimo della lontana vita. Lo spirito vagante si ritrasse e si contrasse con rammarico. Stelio sentì al suo fianco palpitare un cuore vivo che inevitabilmente egli doveva ferire. Guardò la sua amica.

Ella camminava lungo il canale, tra il verdore dell'acqua malaticcia e l'iridescenza dei vasi delicati, senza agitazione, quasi calma. Appena appena il mento tremolava, smagrito, fra l'orlo della veletta e il collare di zibellino.

— Sì, qualche volta — egli rispose, dopo un minuto d'esitanza, ripugnando alla menzogna e sentendo la necessità di risollevare quell'amore sopra gli inganni e le pretensioni comuni perchè potesse rimanere per lui una causa di forza e non di indebolimento, un accordo libero e non un vincolo gravoso.

La donna andava innanzi senza vacillare, ma aveva perduto il senso di tutte le sue membra nel battito terribile del cuore che si ripercoteva dalla nuca al tallone come su una sola corda. Non vedeva più nulla, ma sentiva allato la presenza dell'acqua affascinante.

— La sua voce non si dimentica — soggiunse egli dopo una pausa, avendo raccolto il suo coraggio. — È d'una potenza inaudita. Fin dalla prima sera pensai ch'ella potrebbe essere uno strumento meraviglioso per la mia opera. Vorrei ch'ella consentisse a cantare le parti liriche della mia tragedia, le odi che s'alzano dalle sinfonie per risolversi alla fine in figure di danza, tra l'uno e l'altro episodio. La Tanagra consente a danzare. Confido nei vostri buoni uffici, amica, per ottenere il consentimento di Donatella Arvale. La Trinità dionisiaca sarebbe così ricostituita in un modo perfetto su la nuova scena, per la gioia degli uomini...

Parlando egli s'accorse che le sue frasi avevano un suono falso, che la sua disinvoltura contrastava troppo crudamente con l'ombra mortale che occupava la faccia velata dell'amante. A mal suo grado, egli aveva esagerata la sua franchezza nel considerare la cantatrice come un semplice strumento d'arte, come una pura forza ideale da attrarre nel cerchio della sua impresa magnifica. A mal suo grado, turbato dalla sofferenza che gli camminava al fianco, egli s'era piegato leggermente verso la dissimulazione. Certo, quel ch'egli diceva era la verità, ma l'amante aveva chiesta un'altra verità. Egli s'interruppe, bruscamente, non potendo più tollerare il suono delle sue parole. Sentì che in quell'ora, tra lui e l'attrice, l'arte non aveva alcuna risonanza, alcun valore vivo. Un'altra forza, più imperiosa e più torbida, li dominava. Il mondo creato dall'intelletto era inerte come quelle vecchie pietre su cui essi camminavano. La sola potenza verace e formidabile era il veleno che correva nel loro sangue umano. La volontà dell'una diceva: “Io ti amo e ti voglio tutto per me sola, anima e corpo”. La volontà dell'altro diceva: “Io voglio che tu mi ami e mi serva, ma non posso rinunziare nella vita a nessuna cosa che ecciti il mio desiderio”. La lotta era ineguale e atroce.

Poichè la donna taceva affrettando il passo involontariamente, egli si dispose ad affrontare l'altra verità.

— Comprendo che non questo volevate sapere...

— Sì, non questo. Ebbene?

Ella si volse verso di lui con una sorta di violenza spasimosa che gli ricordò il furore di una lontana sera e il folle grido: “Va, corri! T'aspetta”. Su quella fondamenta tranquilla, tra quell'acqua pigra e quegli esili vetri, nell'isola attediata, la faccia del pericolo gli riappariva lampeggiante.

Ma un importuno attraversò il passo offrendosi di condurli alla fornace prossima.

— Entriamo, entriamo — fece la donna seguendo quell'uomo, internandosi nell'andito come in un rifugio, per evitare l'onta della strada, la luce del giorno profano su la sua perdizione.

Il luogo era umido, maculato di salmastro, odorante di sale come un antro marino. Passando per un cortile ingombro di legna da ardere, varcando una porta decrepita essi giunsero nella sede del fuoco, furono avviluppati dall'alito igneo, si trovarono davanti alla grande ara incandescente che diede ai loro occhi un barbaglio doloroso come se le ciglia d'un tratto avvampassero.

“Scomparire, essere inghiottita, non lasciar traccia!” ruggiva il cuore della donna ebro di distruzione. “In un attimo quel fuoco potrebbe divorarmi come un sermento, come un fuscello”. Ed ella si avvicinava alle bocche aperte per ove si scorgevano le fiamme fluide, più splendide del meriggio d'estate, avvolgere i vasi di terra in cui fondevasi il minerale informe che gli artefici attorno disposti dietro gli anzipetti attingevano con una canna di ferro per foggiarlo col soffio delle labbra e con gli ordegni dell'arte.

“Virtù del fuoco!” pensava l'animatore, sottratto all'inquietudine dalla miracolosa bellezza dell'elemento che gli era familiare come un fratello dal giorno in cui aveva trovata la melodia rivelatrice. “Ah, poter dare alla vita delle creature che mi amano le forme della perfezione cui aspiro! poter fondere nel più alto fervore tutte le loro debolezze e farne una materia obbediente per imprimervi i comandamenti della mia volontà eroica e le imagini della mia poesia pura! Perchè, perchè, amica mia, non volete voi essere la divina statua mobile del mio spirito, l'opera di fede e di dolore con cui la nostra vita potrebbe superare la nostra arte? Perchè siamo noi sul punto di somigliare ai piccoli amanti che si lamentano e maledicono? Io credetti che veramente voi avreste potuto darmi più che l'amore, quando udii dalle vostre labbra la parola mirabile: — Questa cosa io posso, che l'amore non può. — Bisogna sempre potere tutte le cose che può e tutte quelle che non può l'amore, per eguagliare la mia natura insaziabile”.

Ferveva il lavoro intorno alla fornace. In cima ai ferri da soffio il vetro fuso si gonfiava, serpeggiava, diventava argentino come una nuvoletta, splendeva come la luna, scoppiava, si divideva in mille frammenti sottilissimi, crepitanti, rutilanti, più esigui dei fili che si vedono al mattino nelle foreste tra ramo e ramo. Gli artefici foggiavano le coppe armoniose, ciascuno obbedendo nell'operare a un ritmo suo proprio generato dalla qualità della materia e dalla consuetudine delle movenze atte a dominarla. I garzoni ponevano una piccola pera di pasta ardente nei punti indicati dai maestri; e la pera s'allungava, si torceva, si mutava in un'ansa, in un labbro, in un becco, in uno stelo, in una base. Disperdevasi a poco a poco il rossore sotto gli ordegni; e il calice nascente era esposto di nuovo alla fiamma, infisso nell'asta; poi n'era tratto docile, duttile, sensibile ai più tenui tocchi che l'ornavano, che l'affinavano, che lo rendevano conforme al modello trasmesso dagli avi o all'invenzione libera del novo creatore. Straordinariamente agili e leggeri erano i gesti umani intorno a quelle eleganti creature del fuoco, dell'alito e del ferro, come i gesti d'una danza silenziosa. La figura della Tanagra apparve all'animatore nell'ondulazione perpetua della fiamma, come una salamandra. La voce di Donatella gli cantò la possente melodia.

“Anche oggi io stessa te l'ho data per compagna!” pensava la Foscarina. “Io stessa l'ho chiamata tra noi, ho evocata la sua figura mentre forse il tuo pensiero andava altrove, te l'ho condotta innanzi all'improvviso come in quella notte di delirio!”

Era vero, era vero. Fino dall'istante in cui il nome della cantatrice aveva risonato contro la corazza della nave da guerra, proferito per la prima volta dalle labbra dell'amico nell'ombra prodotta dal fianco del colosso in arme su le acque crepuscolari, sin da quell'istante ella aveva inconsciamente esaltata nello spirito di lui la nuova imagine, l'aveva nutrita con la sua stessa gelosia, con la sua stessa paura, l'aveva afforzata e magnificata di giorno in giorno, infine l'aveva rischiarata di certezza. Più d'una volta ella aveva ripetuto a lui forse immemore: — T'aspetta! — Più d'una volta ella aveva rappresentato all'imaginazione di lui forse incurante quell'attesa lontana e misteriosa. Come nella notte dionisiaca l'incendio di Venezia aveva acceso i due volti giovenili con un medesimo riflesso, così ora li accendeva la sua passione ed essi non ardevano se non perchè ella voleva che ardessero. “Certo” pensava “egli è ora posseduto dall'imagine e la possiede. La mia stessa angoscia incita il suo desiderio. Egli gode di amarla sotto i miei occhi disperati...” E il suo supplizio era senza nome; poichè ella vedeva alimentato del suo proprio amore quell'amore che la faceva morire, ella sentiva il suo proprio ardore cingerlo come d'un'atmosfera necessaria fuor della quale esso non avrebbe forse potuto vivere.

— Appena formato, si mette il vaso nella camera della fornace per dargli la tempera — rispondeva uno dei maestri vetrai a Stelio che l'interrogava. — Si spezzerebbe in mille frantumi se fosse esposto all'aria esterna d'un tratto.

Si scorgevano in fatti per un'apertura, adunati entro un ricettacolo che era il prolungamento del forno fusorio, i vasi brillanti, ancora schiavi del fuoco, ancora nel suo dominio.

— Sono già là da dieci ore — diceva il vetraio indicando la leggiadra famiglia.

Poi le belle creature esigue abbandonavano il padre, si distaccavano da lui per sempre; si raffreddavano, diventavano gelide gemme, vivevano della lor vita nuova nel mondo, si assoggettavano agli uomini voluttuosi, andavano incontro ai perigli, seguivano le variazioni della luce, ricevevano il fiore succiso o la bevanda inebriante.

Xela la nostra gran Foscarina? — domandò sommessamente a Stelio il piccolo uomo dagli occhi rossi, che riconobbe l'attrice nel momento in cui ella soffocata sollevava la veletta.

Tremando d'una commozione ingenua, il maestro vetraio fece un passo verso di lei e s'inchinò umilmente.

— Una sera, parona, Ela me ga fato tremar e pianzer come un putèlo. Me permetela che in memoria de quela sera, che no podarò desmentegar fin che vivo, ghe ofra un picolo lavoro vegnuo fora da le man del povaro Seguso?

— Un Seguso? — esclamò Stelio Èffrena chinandosi vivacemente verso il mingherlino per guardarlo bene in faccia — della gran famiglia dei vetrai? puro? della buona razza?

— Per obedirla, paron.

— Un principe, dunque.

— Sì, un Arlechin finto principe.

— Conoscete tutti i segreti, non è vero?

Il Muranese fece un gesto misterioso che evocò l'arcana sapienza avita di cui egli si affermava ultimo erede. Gli altri vetrai sorridevano presso gli anzipetti, avendo interrotta l'opera, mentre i loro vetri in cima dei ferri trascoloravano.

— Dunque, parona mia, se dégnela de acetar?

Pareva escito da una tavola di Bartolomeo Vivarini, fratello d'uno di quei fedeli che stanno in ginocchio sotto il manto della Vergine in Santa Maria Formosa: curvo, scarno, asciutto, come affinato dal fuoco, fragile come se la sua pelle coprisse un'ossatura di vetro, con cernecchi grigi e radi, con un naso affilato e rigido, con un mento aguzzo, con due labbra sottilissime da' cui angoli si partivano le rughe dell'arguzia e dell'attenzione, con due mani pieghevoli mobili prudenti, arrossate da cicatrici di bruciature, forme espressive di destrezza e di esattezza, use ai gesti conduttori delle belle linee nella materia sensibile, veri strumenti dell'arte delicata, resi perfetti nell'erede dall'esercizio ininterrotto di tante generazioni laboriose.

— Sì, siete un Seguso — disse Stelio Èffrena che le considerava. — La prova della vostra nobiltà è nelle vostre mani.

Il vetraio se le guardò sorridendo, prone e supine.

— Legatele, nel vostro testamento, al Museo di Murano, insieme con la vostra canna da soffio.

— Sì, perchè i le meta in composta come el cuor de Canova e le vissole padovane.

Il riso franco dei lavoratori corse intorno all'ara, e le coppe nascenti oscillarono in cima dei ferri tra rosee e azzurrognole come i corimbi dell'ortensia in punto di variare.

— Ma la prova decisiva sarà nel vostro vetro. Vediamo.

La Foscarina non aveva parlato, temendo l'alterazione della sua voce; ma tutta la sua grazia dolce, riapparsa d'improvviso a fior della sua tristezza, aveva accettato il dono e compensato il donatore.

— Vediamo, Seguso.

Il piccolo uomo si grattò la tempia sudata, con un gesto di perplessità, fiutando il buon conoscitore.

— Forse indovino — soggiunse Stelio Èffrena avvicinandosi alla camera del crogiolo e gittando uno sguardo di elezione su i vasi adunati. — Se è quello...

Ecco che, con la sua presenza, aveva portato in mezzo al consueto lavoro un'animazione insolita, il lieto ardore del gioco ch'egli proseguiva nella sua vita perpetuamente. Tutte quelle anime semplici, dopo aver sorriso, si appassionavano alla prova; attendevano la scelta con l'ansietà curiosa con cui si attende l'esito della scommessa; sollecitavano il confronto tra la sottigliezza del maestro e quella del giudice. E il giovine sconosciuto, che si ritrovava nell'officina come in un luogo familiare agguagliandosi agli uomini e alle cose con una simpatia tanto rapida e spontanea, già non era più per loro uno straniero.

— Se è quello...

La Foscarina si sentiva attirata nel gioco e quasi costretta a inclinarvisi, subitamente scevra di acredine e di rancore dinanzi alla felicità del suo amico. Anche là, senza sforzo, egli aveva acceso di bellezza e di passione gli attimi fuggitivi e comunicato per contagio il fervore della sua vitalità ai prossimi, sollevato gli spiriti a una sfera superiore, risvegliato in quegli artefici decaduti l'antico orgoglio dell'arte loro. L'armonia d'una linea pura era divenuta in quegli attimi il centro del loro mondo. E l'animatore si tendeva verso i vasi adunati come se dalla scelta dipendesse la fortuna del piccolo vetraio titubante.

“Sì, è vero, tu solo sai vivere” gli diceva ella guardandolo teneramente. “Bisogna che tu abbia tutto. Io sarò contenta di vederti vivere, di vederti gioire. E fa di me quel che tu vuoi!”

Sorrise annientandosi. Gli appartenne come una cosa che si tiene nel pugno, come un anello in un dito, come un guanto, come una veste, come una parola che può esser detta o taciuta, un vino che può esser bevuto o versato a terra.

— Dunque, Seguso? — esclamò Stelio Èffrena insofferente dell'esitazione che si prolungava.

L'uomo lo guardò nelle pupille; poi, fattosi franco, s'affidò al suo istinto nativo. Cinque vasi, fra tanti, erano esciti dalle sue mani: si distinguevano come se appartenessero a una specie diversa. Ma quale dei cinque era il più bello?

I lavoratori piegavano verso di lui la faccia, mentre esponevano al fuoco le coppe infisse nelle canne perchè non si freddassero. E le fiamme, chiare come quelle che da la fronda crepitante dell'alloro, ondeggiavano di là dagli anzipetti sembrando tenére incatenati gli uomini per i ferri dell'arte.

— Sì, sì! — gridò Stelio Èffrena vedendo il maestro vetraio estrarre con infinita cautela il vaso eletto. — Il sangue non mente. Il dono è degno della dogaressa Foscarina, Seguso.

Il Muranese, reggendo lo stelo del calice tra l'indice e il pollice, sorrideva dinanzi alla donna rischiarato dalla calda lode. Il suo aspetto di acume e di sagacia richiamava al pensiero la volpicina d'oro che corre su la coda del gallo nello stemma di Murano. Le palpebre arrossite dai riflessi violenti battevano sul suo sguardo rivolto all'opera fragile che ancora gli brillava nella mano prima di dipartirsi; e nelle sue dita quasi carezzevoli e in tutta la sua attitudine si rivelava la facoltà ereditaria di sentire la difficile bellezza delle linee semplici e delle tenuissime colorazioni. Come uno di quei miracolosi fiori che spuntano dagli arbusti magri e torti, così era il calice retto dall'uomo curvo che lo aveva creato.

Bellissimo, veramente, e come le cose naturali misterioso, recante nella sua concavità la vita del soffio umano, nella sua trasparenza emulo delle acque e dei cieli, simile nel suo orlo violetto alle meduse che vagano su i mari, semplice, puro, senza altro ornamento che quell'orlo marino, senz'altre membra che il suo piede il suo stelo e il suo labbro; e perchè fosse tanto bello, nessuno avrebbe potuto dire né con una parola né con mille. E il suo pregio era nullo o incalcolabile, secondo la qualità dell'occhio che lo rimirava.

— Si romperà — disse Stelio.

La Foscarina aveva voluto portare seco il dono, senza invilupparlo, come si porta un fiore.

— Mi leverò il guanto.

Ella posò il calice su la sponda del pozzo che era in mezzo al sagrato. La ruggine della carrucola, la faccia frusta della basilica con i suoi vestigi bizantini, il rosso mattone del campanile, l'oro dei pagliai di là dal muro e il bronzo degli alti lauri, e i visi delle donne che infilavano le conterie su i limitari, e le erbe, e le nuvole, e tutte le apparenze d'intorno variarono la sensibilità del vetro luminoso. Nel suo colore si fusero tutti i colori. Ed esso parve vivente d'una vita molteplice nella sua esiguità, come l'iride animale ove si specchia l'Universo.

— Imaginate qual somma d'esperienza ha prodotto questa cosa bella! — disse Stelio, attonito. — Tutte le generazioni dei Seguso a traverso i secoli concorsero, pel soffio e pel tocco, alla natività di questa creatura, nell'attimo felice in cui quel piccolo vetraio inconscio potè seguire l'impulso remoto e trasmetterlo alla materia esattamente. Il fuoco era eguale, la pasta era ricca, l'aria era temperata; ogni cosa era favorevole. Il miracolo avvenne.

La Foscarina prese con le sue dita nude lo stelo del calice.

— Se si rompesse, bisognerebbe alzargli un mausoleo come fece Nerone ai Mani di quella sua tazza infranta. Amore delle cose! Un altro despota, Serse, vi ha preceduta, amica mia, nell'ornare di monili un bell'albero.

Ella aveva su le labbra, ove cadeva l'estremità del velo, un sorriso appena visibile ma continuo; ed egli conosceva quel sorriso per averne sofferto su la riva della Brenta, nella campagna funestata dalle statue.

— Orti, orti, dovunque orti! Un tempo erano i più belli del mondo, paradisi terrestri, come li chiama Andrea Calmo, dedicati alla poesia, alla musica e all'amore. Forse qualcuno di quei vecchi lauri ha udito Aldo Manuzio parlar greco col Navagero o Madonna Gasparina sospirare su l'orme del conte di Collalto...

Andavano per una via chiusa tra le cinte degli orti desolati. Alla sommità delle mura, negli interstizii dei mattoni sanguigni, tremolavano certe strane erbe lunghe e rigide come dita. Gli allori bronzei avevano le cime indorate dal sole declinante. L'aria brillava d'un folto pulviscolo d'oro, come le avventurine.

— Dolce e terribile sorte quella di Gaspara Stampa! Conoscete le sue Rime? Sì, le vidi un giorno su la vostra tavola. Miscuglio di gelo e di ardore. Di tratto in tratto la sua passione mortale, a traverso il petrarchismo del cardinal Bembo, getta qualche bel grido. Io so di lei un verso magnifico:

Vivere ardendo e non sentire il male!

— Vi ricordate, Stelio, — disse la Foscarina con quel sorriso inestinguibile che le dava la sembianza di una sonnambula — vi ricordate del sonetto che incomincia:

Signore, io so che in me non son più viva, E veggo ormai ch'ancor in voi son morta...?

— Non mi ricordo, Fosca.

— Vi ricordate di quella vostra bella imaginazione su l'Estate defunta? L'Estate giaceva nella barca funebre, vestita d'oro come una dogaressa; e il corteo la conduceva all'isola di Murano dove un maestro del fuoco doveva chiuderla in un involucro di vetro opalino affinchè, sommersa nella laguna, ella potesse almeno guardare le ondulazioni delle alghe... Ve ne ricordate?

— Era una sera di settembre.

— L'ultima di settembre, la sera dell'Allegoria. Una gran luce su l'acqua... Eravate un poco ebro: parlavate, parlavate... Quante cose diceste! Venivate dalla solitudine, eravate pieno traboccante. Versaste un fiume di poesia su la vostra amica. Passò una barca carica di melagrane... Io mi chiamavo Perdita... Ve ne ricordate?

Ella stessa camminando sentiva l'estrema leggerezza del suo passo e in sé qualche cosa di sparente, come se il suo corpo fosse per mutarsi in una larva. Il sentimento della sua persona fisica pareva dipendere da quel vetro ch'ella portava in mano, non sussistere se non in quella inquietudine che le davano la fragilità dell'oggetto e il timore di lasciarlo cadere a terra mentre la sua mano nuda a poco a poco si raffreddava e le vene vi prendevano il colore dell'orlo marino che correva intorno al labbro del calice.

— Mi chiamavo ancora Perdita... Avete in mente, Stelio, un altro sonetto di Gaspara che incomincia:

Io vorrei pur che Amor dicesse come Debbo seguirlo...?

E quel madrigale che incomincia:

Se tu credi piacere al mio signore...?

— Non vi sapevo così familiare della misera Anassilla, amica mia.

— Ah, vi dirò... Avevo appena quattordici anni quando recitai in una vecchia tragedia romantica intitolata Gaspara Stampa. Io facevo la parte della protagonista... Fu al Dolo, dove passammo l'altro giorno per andare a Strà; fu in un piccolo teatro di campagna, in una specie di baracca... Fu un anno prima che morisse mia madre... Mi ricordo bene... Mi ricordo di certe cose come se fossero di ieri. E sono passati venti anni! Mi ricordo del suono che aveva la mia voce ancora gracile quando la sforzavo nelle tirate perchè qualcuno di tra le quinte mi sussurrava che gridassi forte, sempre più forte... Gaspara si disperava, spasimava, delirava, dietro il suo crudele Conte... Tante cose non sapevo, non comprendevo, nella mia piccola anima profanata; e non so quale istinto di dolore mi conducesse a trovare gli accenti e i gridi che dovevano scuotere quella folla miserabile da cui aspettavamo il pane quotidiano. Dieci persone affamate facevano strazio di me come d'una cosa da guadagno; il bisogno brutale tagliava e strappava tutti i fiori di sogno che nascevano dalla mia precocità tremante... Tempo di singhiozzi, di soffocazioni, di sbigottimenti, di stanchezze smaniose, di chiuso orrore! Quelli che mi martoriavano non sapevano quel che si facessero, povera gente ottusa dalla miseria e dalla fatica. Dio li perdoni e li abbia in pace! Sola mia madre, che anch'ella, Stelio,

Per amar molto ed esser poco amata Visse e morì infelice,

sola mia madre aveva pietà della mia pena e pativa il mio stesso tormento e sapeva tenermi fra le sue braccia, calmare il mio orribile tremito, piangere con me, consolarmi. Benedetta! Benedetta!

La sua voce si mutò. Si riaprirono dentro di lei gli occhi materni, clementi e fermi, infiniti come un orizzonte di pace. “Dimmi, dimmi tu quel che debbo fare! Guidami, insegnami, tu che sai!” Tutta la sua anima risentì la stretta di quelle braccia; e dalla lontananza degli anni il dolore rifluì verso di lei pieno ma senza asprezza, fatto quasi soave. I ricordi della lotta e del patimento sembravano irrigarla d'un caldo flutto, riconfortarla, risollevarla. Su quali incudini era stato battuto il ferro della sua volontà, in quali acque era stato temprato! Dura veramente era stata per lei la prova, difficile la vittoria, ottenuta a prezzo di fatica e di pertinacia, contro le forze brute e ostili. Ella era stata testimone delle più truci miserie, delle più cupe ru

ine; ella aveva conosciuto gli sforzi eroici, la pietà, l'orrore, il limitare della morte.

— Io so che cosa sia la fame, Stelio, e che cosa sia l'approssimarsi della notte quando è incerto il ricovero — disse dolcemente, soffermandosi tra i due muri.

E sollevò il velo verso la fronte, guardò con gli occhi liberi il suo amico.

Egli impallidì sotto quello sguardo, tanto fu subitaneo il suo turbamento, fiero il suo sbigottimento all'apparire dell'inatteso aspetto. Si trovò confuso come nell'incoerenza d'un sogno, incapace di collegare quella straordinaria apparizione con le recenti tracce della vita, incapace di apporre il significato di quelle parole a quella stessa figura di donna che gli sorrideva tenendo ancora il delicato vetro fra le dita nude. Eppure egli aveva udito; ed ella era là, nel suo bel mantello di zibellino, con la dolcezza di que' suoi belli occhi che s'allungavano nelle ciglia come vaporati da una lacrima che di continuo vi salisse e vi si dissolvesse senza sgorgarne, là nel sentiere solitario tra i due muri.

— E so altro ancóra.

Ella provava un insolito bene, così parlando. Quella umiltà pareva raffermare il suo cuore come il più vivace atto di fierezza. Dalla conscienza del suo dominio e della sua gloria nel mondo ella non s'era mai sentita esaltare al conspetto dell'uomo ch'ella amava; ma ora la memoria di quel suo oscuro martirio, di quella sua povertà, di quella sua fame creava in lei un sentimento di superiorità reale su colui ch'ella credeva invincibile. Come lungo la riva della Brenta per la prima volta le parole di lui le erano parse vane, così ora per la prima volta ella nell'esperienza della vita si sentiva più forte di lui che tutte le fortune avevano prediletto fin dalla culla e che non angosciavano se non i furori del suo desiderio e le ansietà della sua ambizione. Lo imaginò alle prese col bisogno, costretto alla fatica come lo schiavo, oppresso dalle angustie materiali, sottoposto ai disagi vili. — Avrebbe egli trovata l'energia per resistere, la pazienza per tollerare? — Le apparve debole e perduto nell'aspre tanaglie della necessità, umiliato e infranto. “Ah, per te tutte le cose liete e superbe, finché vivi, finché vivi!” Ella non sostenne la tristezza di quell'imagine, ma la respinse con un impeto di difesa e di protezione quasi materno. E, con un gesto involontario, posò una mano su la spalla di lui; la ritrasse, accorgendosene; poi ve la posò di nuovo. Sorrise come colei che sapeva quel ch'egli non doveva mai sapere, come colei che aveva vinto quel ch'egli non avrebbe potuto vincere. Riudì in sé le parole gravi d'una promessa terribile. “Dimmi che non hai paura di soffrire... Credo la tua anima capace di sopportare tutto il dolore del mondo.” Le sue palpebre simili alle violette si abbassarono su quel segreto orgoglio; ma nelle linee del suo volto apparve una bellezza infinitamente sottile e complessa che emanava da una concordanza nuova delle forze interiori, da una misteriosa orientazione della volontà riscossa. Nell'ombra, che discendeva dalle pieghe del velo rialzato su i suoi sopraccigli, il suo pallore s'animò d'una vita inimitabile.

— Non ho paura di soffrire — disse rispondendo a colui che aveva parlato su la riva del fiume distante.

E la sua mano alzandosi dalla spalla sfiorò la gota del suo amico, che comprese com'ella rispondesse a quelle lontane parole.

Egli tacque, inebriato, quasi ella gli avesse dato a bevere l'essenza medesima del suo cuore spremuto come un grappolo in quel calice. Di tutte le forme naturali intorno, per la diffusa luce, nessuna gli parve eguagliare in mistero e in bellezza quella faccia umana che lasciava intravedere di là da' suoi lineamenti una profondità sacra ove certo qualche grande cosa erasi compiuta in silenzio. Egli tremava, attendendo ch'ella continuasse.

Camminarono per un tratto, l'uno a fianco dell'altra, fra i due muri. Il cammino era umile; sordo e molle era sotto il piede; ma sopra vi pendevano le nuvole fulgide. Essi giunsero a un quadrivio, ove sorgeva una casa di poveri quasi cadente. La Foscarina si soffermò a guardarla. Le imposte tarlate e sconquassate erano tenute aperte da una canna che le forzava messa di traverso. Il sole basso penetrandovi batteva su la parete fuligginosa, scopriva le suppellettili: una tavola, una panca, una culla.

— Vi ricordate, Stelio, — disse ella — di quell'osteria dove entrammo, al Dolo, per aspettare il treno? L'osteria del Vampa: un gran fuoco ardeva sotto la cappa; gli arnesi di cucina luccicavano per le mura; le fette della polenta si cocevano su la graticola. Vent'anni fa, era tale e quale: lo stesso fuoco, gli stessi arnesi, la stessa polenta. Io e mia madre entravamo, dopo la recita, e ci sedevamo sopra una panca dinanzi a una tavola. Io avevo pianto, avevo urlato, avevo delirato, ero morta di veleno o di ferro, nel teatro. Mi rimaneva negli orecchi la risonanza dei versi, come d'una voce che non fosse mia, e nell'anima una volontà estranea che non riescivo a cacciare, come una figura che contro la mia inerzia tentasse ancora di fare quei passi e quei gesti... La simulazione della vita mi rimaneva nei muscoli della faccia, che certe sere non potevano quietarsi... La maschera, il senso della maschera viva che nasceva già... Aprivo smisuratamente gli occhi... Un gelo tenace mi rimaneva alle radici dei capelli... Non riuscivo a riavere la piena conscienza di me medesima e di quel che intorno accadeva... L'odore della cucina mi dava la nausea; il cibo, che era nel piatto, mi pareva troppo grossolano, pesante come le pietre, da non potersi ingoiare. La ripugnanza sorgeva da qualche cosa d'indicibilmente delicato e prezioso che io sentivo in fondo alla mia stanchezza, da una nobiltà indistinta che io sentivo in fondo alla mia umiliazione... Non so dire... Era forse la presenza oscura di quella forza che doveva poi svilupparsi in me, di quella elezione, di quella diversità per cui la Natura mi aveva segnata... Certe volte il sentimento di quella diversità diveniva così profondo che quasi mi separava da mia madre — Dio mi perdoni! —, che quasi mi allontanava da lei... Una grande solitudine si faceva dentro di me; nulla mi toccava, di tutto ciò che era intorno. Rimanevo sola con la mia sorte... Mia madre, che mi stava al fianco, si ritraeva in una lontananza infinita. Ah, ella doveva morire e si preparava già a partirsi da me, e quelli forse erano i presagi! Mi sollecitava a mangiare, con le parole che sapeva ella sola. Io le rispondevo “Aspetta! Aspetta!” Potevo soltanto bere; avevo l'avidità dell'acqua fredda. Certe volte, quando ero più stanca e più tremante, sorridevo lungamente. E anche la benedetta, col suo cuore profondo, non poteva comprendere da che nascesse il mio sorriso... Ore senza pari, in cui sembra che la prigione del corpo sia rotta, per lo spirito che se ne va errando agli estremi limiti della vita! Che cosa fu mai la vostra adolescenza, Stelio? Chi può imaginarla? Tutti abbiamo provato il peso del sonno che piomba a un tratto su la carne dopo la fatica o dopo l'ebrezza, greve e rapido come un colpo di maglio, e sembra annientarci. Ma anche il potere del sogno, nella veglia, s'impadronisce talvolta di noi con quella stessa violenza, ci afferra e ci tiene; e la nostra volontà non vale a resistergli, e sembra che tutto il tessuto della nostra esistenza si disfaccia e che con quegli stessi fili le nostre speranze ne tessano un altro più lucente e più strano... Ah, mi torna alla memoria qualcuna delle belle parole che diceste di Venezia, quella sera, quando la raffiguraste con mani meravigliose intenta a comporre le sue luci e le sue ombre in una continua opera di bellezza. Voi solo sapete dire quel che non è dicibile... Là, su quella panca, dinanzi a quella tavola rozza, nell'osteria del Vampa, al Dolo, dove l'altro giorno la sorte mi ricondusse con voi, ebbi le più straordinarie visioni che il sogno abbia mai suscitate dalla mia anima. Vidi quel che non è dimenticabile: vidi sovrapporsi alle forme reali che mi circondavano le figure che nascevano dal mio istinto e dal mio pensiero. Là, sotto i miei occhi fissi che aveva riarsi la luce rossa e fumosa del petrolio dalla ribalta improvvisata, là incominciò ad animarsi il mondo delle mie espressioni... Le prime linee della mia arte si svilupparono in quello stato di angoscia, di stanchezza, di febbre, di ripugnanza, in cui la mia sensibilità diveniva quasi direi plastica come quella materia incandescente che i vetrai dianzi tenevano in cima alle loro canne. V'era in lei un'aspirazione naturale a essere foggiata, a ricevere un soffio, a riempire il cavo d'un'impronta... Certe sere, su quella parete coperta dal rame, come in uno specchio, mi vedevo atteggiata di dolore o di furore con un viso irriconoscibile; e, per sfuggire all'allucinazione e per interrompere la fissità del mio sguardo, battevo le palpebre rapidamente. Mia madre ripeteva: “Mangia, figliuola, mangia almeno questo!”. Ma che erano mai il pane il vino la carne i frutti, tutte quelle cose che pesavano, comprate col duro guadagno, al paragone di quel che io avevo dentro? Ripetevo: “Aspetta!”. E, quando ci alzavamo per andarcene, prendevo meco un gran pezzo di pane. Mi piaceva di mangiarmelo, la mattina dopo, nella campagna, sotto un albero o alla riva della Brenta, seduta su una pietra o su l'erba... Quelle statue!

La Foscarina si soffermò ancóra, alla fine del nuovo sentiere murato che metteva in un prato deserto, nel Campo di San Bernardo, ov'era l'antico cenobio. Si scorgeva in fondo il campanile degli Angeli, sul quale una bella nuvola imitava una rosa in cima a uno stelo. E l'erba era molle, placida, verdissima, come nel parco dei Pisani a Strà.

— Quelle statue! — ripetè l'attrice, con lo sguardo intento, quasi elle fossero là dinanzi a lei in moltitudine e le impedissero il cammino. — Non mi riconobbero, l'altro giorno; ma io le riconobbi, Stelio.

Le ore lontane, le campagne umide e vaporose, le piante dispogliate, le ville in ruina, il fiume silente, le reliquie delle regine e delle imperatrici, le visiere di cristallo sul volto febrile, il labirinto selvaggio, l'inseguimento vano, il terrore e l'agonia, il pallore splendido e terribile, il corpo agghiacciato su i cuscini della vettura, le mani esanimi, tutte quelle tristezze s'illuminarono d'una nuova luce nello spirito dell'amato. Ed egli guardò la creatura meravigliosa, palpitando di sgomento e di stupore, come se la vedesse per la prima volta e i lineamenti il passo la voce le vesti di lei avessero significazioni molteplici e straordinarie che fossero per lui inafferrabili come i baleni nella lor rapidità e nel loro numero. Ella era là, creatura di carne caduca, soggetta alle tristi leggi del tempo; e una smisurata massa di vita reale e ideale gravava su lei, si allargava intorno a lei, pulsava col ritmo di quel respiro stesso. Era pervenuta al limite dell'esperienza umana la donna disperata e nomade: sapeva quel ch'egli non avrebbe potuto saper mai. L'uomo di gioia sentì l'attrazione di tanto accumulato dolore, di tanta umiltà e di tanto orgoglio, di tanta guerra e di tanta vittoria. Avrebbe voluto vivere quella vita. Ebbe invidia di quella sorte. Mirava attonito nel dorso di quella mano nuda le delicate vene violacee, palesi come se la pelle non le ricoprisse, e le unghie esigue che brillavano intorno allo stelo del calice. Pensava a una stilla di quel sangue circolante per quella sostanza limitata dai contorni comuni e pure immensurabile come l'Universo. Gli sembrò che un solo tempio vi fosse al mondo: il corpo umano. Provò una smania ansiosa di arrestare la donna, di mettersi incontro a lei, di considerarla intentamente, di scoprirne tutti gli aspetti, di interrogarla senza fine. Strane domande gli sorgevano nello spirito: “Passavi giovinetta per le strade maestre, sopra il carro carico degli attrezzi scenici, distesa su un fascio di frondi, seguita dalla torma degli istrioni, lungo le vigne, e un vendemmiatore t'offriva un canestro di grappoli? L'uomo che ti possedette per la prima volta aveva la sembianza d'un satiro, e udivi tu nel tuo terrore il vento rombare su la pianura portandosi lungi quella parte di te che cercherai sempre e non ritroverai più mai? Quante lagrime bevesti tu, il giorno che t'udii, perchè Antigone parlasse in te con una voce tanto pura? Vincesti tu i popoli, l'uno dopo l'altro, come si vincono le battaglie per conquistare un impero? Li riconosci tu all'odore, come le belve, diversi? Un popolo si ribellò, ti resistette, e nel domarlo tu lo amasti più di quelli che ti adorarono al tuo primo apparire. Un altro, di là dall'Oceano, a cui tu rivelasti una maniera di sentire sconosciuta, non può dimenticarti e ti manda messaggi perchè tu gli ritorni... Quali improvvise bellezze vedrò io nascere dal tuo amore e dal tuo dolore?”. Ella gli riappariva, là su quel prato solitario dell'isola obliata, sotto il chiaro cielo d'inverno, quale eragli apparsa nella lontana notte dionisiaca tra le lodi dei poeti che sedevano intorno alla mensa. La stessa potenza di fecondazione e di rivelazione emanava dalla donna che aveva detto sollevando il suo velo: “Io so che cosa sia la fame...”.

— Era di marzo: mi ricordo — continuava la Foscarina dolcemente. — Uscivo per i campi di buon'ora col mio pane. Camminavo alla ventura. Le statue erano le mie mète. Andavo dall'una all'altra, e mi fermavo come se le visitassi. Alcune mi sembravano bellissime, e io mi provavo a imitare i loro gesti. Ma rimanevo più lungamente in compagnia con le mutilate, quasi per istinto di consolarle. La sera, sul palco, recitando, mi ricordavo di qualcuna e avevo un sentimento così profondo della sua lontananza e della sua solitudine nella campagna tranquilla sotto le stelle, che mi pareva di non poter più parlare. La folla s'impazientiva per quelle pause troppo lunghe... Certe volte, quando dovevo aspettare che finisse la gran tirata dell'interlocutore, prendevo l'attitudine di qualcuna che m'era più familiare e rimanevo immobile come se fossi anch'io di pietra. Incominciavo già a scolpirmi...

Ella sorrise. La grazia della sua malinconia vinceva quella del giorno declinante.

— Amai teneramente una che non aveva più le braccia, con cui un tempo reggeva su la sua testa un canestro di frutti. Ma le mani erano rimaste attaccate al canestro, e mi facevano pena. S'alzava sul suo piedestallo in un campo di lino; un piccolo canale stagnava in vicinanza, dove il cielo specchiandosi continuava l'azzurro dei fiori. Se chiudo gli occhi, rivedo la faccia di pietra e il sole che si colora passando pei gambi del lino come per un vetro verde... Sempre poi, da quel tempo, ai più caldi momenti della mia arte su la scena mi sorgono visioni di paesi nella memoria; e specialmente quando con la sola forza del silenzio riesco a comunicare un gran brivido alla folla che mi guarda...

Ella s'era accesa un poco a sommo delle gote; e, come il sole obliquo la investiva traendo scintille dallo zibellino e dalla coppa, la sua animazione pareva un aumento di luce.

— Che primavera fu quella! Nella mia vita errante vidi allora per la prima volta un gran fiume. M'apparve a un tratto, gonfio e veloce fra due ripe selvagge, in una pianura infiammata, quasi fosse stoppia, ai raggi orizzontali del sole che ne rasentava il limite come una ruota rossa. Sentii allora quel che v'è di divino in un gran fiume a traverso la terra. Era l'Adige, scendeva da Verona, dalla città di Giulietta...

Un turbamento ambiguo nascondevasi in fondo a lei mentre così ella evocava la miseria e la poesia della sua adolescenza. Ella era tratta a continuare da una specie di fascino, e tuttavia non sapeva in che modo fosse giunta a quelle confessioni mentre si era disposta a parlare col suo amico di un'altra giovinezza non passata ma presente. Per quale inganno dell'amore da una tensione improvvisa della sua volontà, da un proposito risoluto di affrontare la verità dolorosa, da un raccoglimento della sua energia smarrita ella era venuta a rallentarsi nella memoria di giorni tanto lontani ed a coprire con l'effigie virginale di sé quell'altra così diversa?

— Entrammo a Verona una sera di maggio, per la porta del Palio. L'ansietà mi soffocava. Mi stringevo contro il cuore il quaderno dove avevo trascritta di mio pugno la parte di Giulietta; e ripetevo in me le parole del primo apparire: “Chi mi chiama? Eccomi. Qual è la volontà vostra?”. La mia imaginazione era sconvolta da una strana congiuntura: compivo quel giorno quattordici anni, l'età di Giulietta! Il cinguettio della nutrice mi risonava negli orecchi; e a poco a poco il mio destino si confondeva con quello della Veronese. Al canto d'ogni via credevo di vedermi venire incontro un corteo che accompagnasse un feretro coperto di rose bianche. Come scorsi le Arche degli Scaligeri chiuse dalle maglie di ferro, gridai a mia madre: — Ecco la tomba di Giulietta! — E scoppiai in un pianto dirotto, ed ebbi un desiderio disperato di amare e di morire. “O tu che troppo presto vidi senza conoscerti e conobbi troppo tardi!”

La sua voce ripetendo le parole immortali penetrò il cuore dell'amato come una melodia straziante. Ella si soffermò un poco e ripetè:

— Troppo tardi!

Erano quelle le parole atroci che l'amato stesso aveva proferite ed ella stessa aveva ripetute, nel giardino notturno ove le stelle nascoste dei gelsomini odoravano acutamente e i frutti anche odoravano come negli orti delle isole, quando entrambi erano per cedere al desiderio crudele. “È tardi, è troppo tardi!” La donna non più giovine, là, su la buona erba, stava ora dinanzi all'imagine antica di sé, alla sua verginità palpitante nella veste di Giulietta e al sogno primo del suo amore. Pervenuta al limite della sua esperienza, non aveva ella conservato intatto quel sogno, sopra gli uomini e sopra il tempo? Ma che valeva? Ecco che ella evocava la sua più lontana giovinezza morta, sol per passarvi sopra, per calcarla col suo piede conducendo l'amato verso quell'altra che era viva ed aspettante.

Disse col sorriso della sua inimitabile pena:

— Io fui Giulietta.

L'aria intorno era tanto calma che il fumo delle fornaci vi s'impigriva contaminandola. L'oro pareva tremolare da per tutto come nelle avventurine. La nuvola sul campanile degli Angeli s'imporporava agli orli. L'acqua era invisibile, ma su le sembianze delle cose passava la sua dolcezza.

— Una domenica di maggio, nell'immensa Arena, nell'anfiteatro antico, sotto il cielo aperto, dinanzi a una moltitudine di popolani che avevano respirato nella leggenda di amore e di morte, io fui Giulietta. Nessun fremito delle platee più vibranti, nessun clamore, nessun trionfo valse mai per me l'ebrezza e la pienezza di quella grande ora. Veramente, quando udii Romeo dire: “Ah, ella insegna alle torce ardere...”, veramente io mi accesi, mi feci di fiamma. Avevo comprato col mio gruzzolo, nella Piazza delle Erbe, sotto la fontana di Madonna Verona, un gran fascio di rose. Le rose furono il mio solo ornamento. Le mescolai alle mie parole, ai miei gesti, ad ogni mia attitudine: ne lasciai cadere una ai piedi di Romeo quando c'incontrammo, ne sfogliai una sul suo capo dal balcone, e di tutte ricopersi alla fine il suo cadavere nel sepolcro. Il profumo l'aria e la luce mi rapivano. Le parole scorrevano con una strana facilità, quasi involontarie, come nel delirio, e le udivo accompagnate dal rombo continuo delle mie vene. Vedevo il vaso profondo dell'anfiteatro metà al sole, metà all'ombra, e nella parte illuminata un luccichio come di mille e mille occhi. Il giorno era quieto come oggi. Non un soffio moveva le pieghe della mia veste o i miei capelli che rabbrividivano sul mio collo nudo. Il cielo era lontanissimo e tuttavia mi pareva a quando a quando che le più deboli parole vi risonassero fino all'estrema lontananza come tuoni, o che il suo azzurro si facesse così cupo ch'io ne fossi colorata come da un'acqua marina ove m'annegassi. E i miei occhi andavano a ogni tratto verso le lunghe erbe che sorgevano alla sommità delle muralie; e mi pareva che mi venisse da loro non so qual consentimento a quel che dicevo e facevo; e, quando le vidi ondeggiare al primo soffio del vento che si levava su le colline, sentii crescere la mia animazione e la forza del mio respiro. Come parlai dell'usignuolo e dell'allodola! Mille volte avevo udito l'uno e l'altra nelle campagne: conoscevo tutte le loro melodie del bosco, del prato, della nuvola; le avevo negli orecchi vive e selvagge. Ogni parola, prima di uscire dalle mie labbra, pareva passare a traverso tutto il calore del mio sangue. Non v'era fibra di me che non desse un suono all'armonia. Ah, la grazia, lo stato di grazia! Ogni volta che m'è dato di toccare il culmine della mia arte, ritrovo quell'indicibile abbandono. Fui Giulietta. “È il giorno, è il giorno!” gridò il mio terrore. Il vento mi passava nei capelli. Sentivo lo straordinario silenzio in cui cadeva la mia lamentazione. Pareva che la folla fosse scomparsa sotterra: era muta su le gradinate ricurve, omai tutta nell'ombra. Laggiù, la cima della muraglia rimaneva rovente. Io dicevo il terrore del giorno, ma veramente sentivo già “la maschera della notte” su la mia faccia. Romeo era disceso. Eravamo già morti, già entrati nel buio. Vi ricordate? “Ora che tu sei là, tu m'appari come un morto in fondo a un sepolcro. O i miei occhi m'ingannano, o tu sei tanto pallido...” Ero tutta di gelo, dicendo queste cose. I miei occhi cercarono il bagliore alla cima della muraglia: s'era spento. Il popolo s'agitava nell'Arena, chiedeva la morte; non voleva più ascoltare né la madre né la nutrice né il frate. Il fremito della sua impazienza accelerava i battiti del mio cuore intollerabilmente. La tragedia precipitava. Ho il ricordo di un gran cielo bianco come le perle, e di quel rumore quasi marino che si quetava al mio apparire, e della resina che odorava nella torcia, e delle rose che mi ricoprivano guaste dalla mia febbre, e d'un suono lontano di campane che faceva avvicinare il cielo, e di quel cielo che perdeva a poco a poco la luce come io perdevo la vita, e d'una stella, della prima stella che tremò nei miei occhi col mio pianto... Quando ricaddi sul corpo di Romeo, la folla urlò nell'ombra con tanta violenza ch'io mi sbigottii. Qualcuno mi sollevò, mi trasse verso quell'urlo. La torcia fu accostata al mio viso lacrimoso: crepitava forte, e odorava di resina ed era rossa e nera, fumo e fiamma. Anche quella, come la stella, non la dimenticherò mai. E io certo dovevo avere il colore della morte... Così, Stelio, una sera di maggio, fu mostrata al popolo di Verona Giulietta rediviva.

Ella s'arrestò ancóra, e chiuse le palpebre, come chi sia preso dalla vertigine; ma le sue labbra dolenti sorrisero ancora al suo amico.

— Poi? Il bisogno di andare, di andare dovunque, di traversare lo spazio, di respirare nel vento... Mia madre mi seguiva in silenzio. Traversammo un ponte, camminammo lungo l'Adige; poi traversammo un altro ponte, entrammo in una piccola strada, ci perdemmo nei vicoli oscuri, trovammo una piazza con una chiesa, e via via, sempre avanti. Mia madre mi chiedeva di tratto in tratto: — Dove andiamo? — Io volevo trovare alla ventura un convento di Cappuccini dov'era nascosta la tomba di Giulietta, giacché con mio gran dolore non l'avevano sepolta in una di quelle belle arche ricinte da que' bei cancelli. Ma non lo volevo dire, e non lo potevo dire. Aprire la bocca, pronunziare una parola, m'era impossibile come distaccare una stella dal cielo. La mia voce s'era perduta con l'ultima sillaba della morente. Le mie labbra erano rimaste suggellate da un silenzio necessario come la morte. E tutto il mio corpo mi pareva semivivo, ora ghiaccio, ora infocato e ora, non so, come se soltanto i nodi delle ossa ardessero e il resto fosse di gelo. — Dove andiamo? — mi chiese un'altra volta la bontà in angoscia. Ah, l'ultima parola di Giulietta le rispondeva in me! Eravamo di nuovo presso l'acqua, su l'Adige, a capo d'un ponte. Credo che mi misi a correre, perchè poco dopo mi sentii afferrare dalle braccia di mia madre e rimasi là, stretta, contro il parapetto del ponte, soffocata dai singhiozzi. “Gettiamoci giù, così abbracciate” volevo dirle; ma non potevo. Il fiume portava seco la notte con tutte le sue stelle. E io sentii che non era in me sola il desiderio di scomparire... Ah, benedetta!

Ella diventò pallidissima, tutta la sua anima risentendo la stretta di quelle braccia, i baci di quelle labbra, le lacrime di quella tenerezza, la profondità di quella pena. Ma guardò il suo amico, e subitamente un flutto vivo di sangue si diffuse su le sue gote, salì alla sua fronte, quasi mosso da un segreto pudore.

— Che vi dico io mai? Perchè vi racconto tutte queste cose? Si parla, si parla, senza sapere perchè.

Ella abbassò le ciglia su la sua confusione. Al ricordo di quello spavento misterioso che aveva preceduto i segni della pubertà, al ricordo dell'accorato amore materno, l'istinto originale del suo sesso si risvegliava nel suo grembo sterile. La sua avidità feminile, che si ribellava al proposito eroico dell'abnegazione totale, stranamente si turbò, fu pronta ad essere illusa. Dalle radici stesse della sua sostanza si levò un'aspirazione informe ch'ella non osava fissare. La possibilità d'un compenso divino balenò su la tristezza della sua rinunzia necessaria. Ella sentiva tremare il suo cuore, ma era come chi non osi alzare lo sguardo verso un viso sconosciuto nel dubbio di leggervi una sentenza di vita o di morte. Ella temeva di vedere a un tratto dissolversi quella cosa che non era una speranza e che pure somigliava a una speranza, nata dalla sua anima e dalla sua carne in una maniera così nuova. Fu insofferente della gran luce che accendeva il cielo, e del luogo per ove ella passava, e dei passi ch'era costretta a muovere, e pur della presenza del suo amico. Pensò la lentezza del dormiveglia, l'indugio del sopore verso l'alba, quando la volontà velata guida leggermente il sogno felice. Ella desiderò la solitudine, la quiete, la stanza chiusa e remota, l'ombra delle cortine gravi. All'improvviso, per un'ansietà impetuosa che sorse da quell'insofferenza, come per fermare con un atto mentale un fantasma che fosse in punto di dileguarsi, ella formò queste parole che salirono fino alle labbra ma non le mossero: “Un figlio, da te!”.

Si volse verso il suo amico e lo guardò nelle pupille, tutta tremante. Il pensiero segreto ondeggiava nel suo sguardo come un'implorazione e come una disperazione. Ella parve cercare in lui ansiosamente un segno irrivelato, quasi un aspetto incognito, quasi un altro uomo. Ella lo chiamò, sommessa.

— Stelio!

E la sua voce era così mutata che il giovine trasalì dentro e si piegò verso di lei come per aiutarla.

— Amica mia, amica mia!

Attonito e timoroso egli vedeva passare in lei quelle larghe onde di vita, quelle straordinarie espressioni, quelle luci e quelle ombre alterne; e non osava parlare, non osava interrompere il travaglio occulto in cui si agitavano le potenze di quell'anima grande e miserabile. Egli sentiva sotto le parole di lei la bellezza e la tristezza delle cose inespresse, ma in confuso; e, mentre era certo che qualche difficile bene fosse per sorgere da una tal febbre, non sapeva a quale èsito fosse condotto quell'amore dalla necessità di farsi perfetto o di perire. Il suo spirito era teso in un'aspettazione meravigliosa, sentendosi vivere con tanto fervore in quei luoghi obliati, su quell'umile erba, per quel cammino silente. Mai aveva avuto in sé più profondo il sentimento della forza incalcolabile ond'è capace il cuore dell'uomo. E gli pareva, udendo il battito del suo proprio cuore e divinando la violenza dell'altro, udir rimbombare i colpi del martello su l'incudine dura ove si foggia il destino umano.

— Parlatemi ancóra! — disse. — Avvicinatemi ancora a voi, cara anima! Nessun momento, da che vi amo, vale questo cammino che abbiamo fatto insieme oggi.

Ella seguitava innanzi, chinata il capo, avvolta dall'illusione. “Potrebbe essere?” Ella sentiva la sua sterilità intorno ai suoi fianchi come una cintura di ferro; pensava la tenacia inesorabile dei mali radicati nella carne bruta. Ma la potenza della sua passione e del suo desiderio, afforzata da un'idea di giustizia, le appariva nell'atto di compiere un prodigio. E quel che v'era di superstizioso nella sua natura, sorgendo a velare la sua lucidità, favoriva la speranza nascente. “Ho io forse amato, prima d'ora? Non ho atteso per tutti i miei anni questo grande amore che deve salvarmi o distruggermi? Da quale, di coloro che hanno aumentata la mia tristezza, avrei voluto un figlio? Non è giusto che una nuova vita esca dalla mia vita, ora che ho fatto il dono intero di me al mio signore? Non gli ho io portato intatto il mio sogno di vergine, il sogno di Giulietta? Tutta la mia esistenza, trascorsa da quella sera di primavera a una notte d'autunno, non fu abolita?” Ella vedeva dalla sua illusione trasfigurato l'Universo. La memoria della madre le dava dell'amore materno un'imagine sublime. Gli occhi clementi e fermi si riaprivano dentro di lei; ed ella pregava: “Oh dimmi che anch'io sarò, per una creatura della mia carne e della mia anima, quale tu fosti per me! Assicurami, tu che sai!” La solitudine del passato le riapparve spaventevole. Non vide nel futuro se non la morte o quella salvezza. Pensò che avrebbe sostenuto tutte le prove per meritarla; la considerò come una grazia da impetrare; fu invasa da un religioso ardore di sacrifizio. Sembrava che il battito febrile della lontana adolescenza evocata si rinnovasse in quel suo turbamento ed ella andasse come allora sotto il cielo spinta da una forza quasi mistica.

Andava incontro alla figura di Donatella Arvale che si disegnava su l'orizzonte infiammato, in fondo a una via aperta verso l'acqua. E la sua prima domanda improvvisa le risonava dentro: “Pensate spesso a Donatella Arvale, Stelio?”

La via corta conduceva alla Fondamenta degli Angeli, al canale ingombro di barche pescherecce, ond'era visibile la gran laguna calma e radiosa.

Ella disse:

— Che luce! Come quella sera, quando mi chiamavo ancora Perdita, Stelio.

Ripeteva una nota ch'ella aveva già toccata in un preludio rimasto sospeso.

— L'ultima sera di settembre — soggiunse. — Vi ricordate?

In alto era il suo cuore, tanto che di tratto in tratto pareva che le mancasse e che la forza del suo sentimento non fosse in suo dominio ma che potesse da un attimo all'altro sfuggirle e lasciarla in balìa delle torbide furie al cui sùbito insorgere ella aveva già ceduto più d'una volta. Ella voleva che la sua voce non tremasse nel proferire il nome che di necessità doveva risonare in quel silenzio tra lei e il suo amico.

— Vi ricordate di quella nave da guerra ancorata dinanzi ai Giardini? Una salva salutò la bandiera che calava su la poppa. La gondola passò rasente la corazza.

Ella ebbe un attimo d'indugio. Il suo pallore s'animò d'una vita inimitabile.

— Allora, in quell'ombra, voi nominaste Donatella.

Fece un nuovo sforzo, come chi nuotando sia sommerso da un nuovo flutto e scuota il capo fuor della schiuma.

— Cominciò a esser vostra.

Ella si sentì rigida dal capo al piede, come per l'effetto d'una puntura venefica. Teneva gli occhi sbarrati verso le acque abbaglianti.

— Deve esser vostra — disse, con la durezza della necessità nella voce, come per respingere con un secondo urto le cose terribili che tentavano di sorgere dal fondo del suo ardore.

Serrato da un'angoscia violenta, incapace di parlare, di interrompere con una parola vana quelle apparizioni fulminee dell'anima tragica, Stelio Èffrena s'arrestò; pose la sua mano sul braccio della compagna perchè anch'ella s'arrestasse.

— Non è vero? — gli domandò ella con una dolcezza quasi tranquilla, come se la sua contrattura si fosse allentata di subito e la sua passione avesse accettato il giogo che la volontà le aveva imposto. — Parlate. Non ho paura di soffrire. Sediamoci qui. Sono un poco stanca.

Si appoggiarono a un murello, in vista delle acque. Così pura era la calma della laguna nel solstizio, che le forme delle nubi e dei lidi parevano assumervi per entro rispecchiate una qualità ideale come se le imitasse l'arte. Le cose vicine e le lontane, il rosso palagio dei Da Mula sul canale e laggiù il Forte di Tessara arborato, avevano nelle duplici imagini la stessa evidenza. Le barche nere, con le vele ripiegate, con le reti distese lungo le antenne, raccoglievano nelle loro carene il sentimento d'infinito riposo che veniva dagli orizzonti. Nessuna di quelle linee poteva esser mossa dalle parole del dolore umano, e tutte insegnavano il silenzio e promettevano la pace agli uomini nel tempo.

— Che vi dirò? — disse il giovine, con una voce soffocata, quasi parlasse piuttosto a sé medesimo che alla donna, non potendo superare l'angoscia che gli davano la certezza del suo presente amore e la conscienza del suo desiderio inesorabile come il destino. — Forse quel che voi avete imaginato è vero; forse non è se non un pensiero della vostra mente. So oggi una cosa certa: che vi amo e riconosco in voi tutte le nobiltà. So anche un'altra cosa: che ho un'opera da compiere e una vita da vivere secondo la Natura mi dispone. Ricordatevi, anche voi! In quella sera di settembre vi parlai lungamente della mia vita e del genio che la conduce ov'è destinata. Voi sapete che non posso rinunziare a nulla...

Egli tremava come se avesse nelle mani un'arme affilata e, dovendola muovere, non potesse evitare di offendere l'inerme.

— A nulla; e specialmente al vostro amore, che esalta la mia forza e la mia speranza ogni giorno. Ma non mi avete voi promesso più che l'amore? Non potete voi per me anche le cose che l'amore non può? Non volete voi essere un soffio costante per la mia vita e per la mia opera?

Ella ascoltava immobile, senza batter palpebra. Non altrimenti un'inferma, in cui sia sospesa l'azione del moto volontario, assiste a uno spettacolo di orrore come uno spirito in una statua.

— È vero — seguitò egli dopo una pausa ansiosa, riprendendo il suo coraggio, dominando la sua compassione, sentendo che dalla sua sincerità di quel minuto dipendevano le sorti della libera alleanza ond'egli voleva non esser diminuito ma accresciuto — è vero: quando quella sera vi vidi scendere per la scala, tra la folla, in compagnia di colei che aveva cantato, credetti che un pensiero segreto vi guidasse nel venirmi incontro non sola...

Ella sentì correre alla radice dei suoi capelli un gelo sottile, e i suoi occhi appannarsi benché rimanessero aridi. Le sue dita tremavano intorno allo stelo della coppa, e i colori del cielo e delle acque tingevano il vetro oscillante nella mano dolorosa.

— Credetti che voi medesima l'aveste eletta... Avevate l'aspetto di chi sa e prevede... Ne fui turbato.

Ella sentì, nell'atroce torsione, quanto le sarebbe stata dolce la menzogna. Desiderò ch'egli mentisse o tacesse. Misurò lo spazio che la divideva dal canale, dall'acqua che inghiotte e attutisce.

— V'era qualche cosa di ostile in lei, contro di me... Mi rimase oscura, impenetrabile... Vi ricordate in qual modo scomparve? L'imagine impallidì; rimase il desiderio del canto. Voi che la conduceste verso di me, più d'una volta anche la ravvivaste. Vedeste la sua ombra dove non era.

Ella vide la morte. Nessun'altra punta era penetrata tanto a dentro, l'aveva ferita più crudamente. “Io stessa, io stessa!” ella ripeteva. E riudiva il grido della sua perdizione: “T'aspetta!” E d'attimo in attimo le sue ginocchia stavano per distendersi, la sua carne affranta stava per obbedire alla volontà furente che la spingeva verso l'acqua. Ma rimaneva un punto lucido in lei, per considerare che non era quello il luogo né il tempo. Cominciavano per la laguna a nereggiare i banchi di sabbia, scoperti dalla bassa marea. A un tratto, il turbine interiore si disperdeva dietro a un'apparenza. Ella si credeva inesistente; si stupiva di vedere quel vetro splendere nella sua mano; smarriva il senso del suo corpo. Tutto quel che accadeva era imaginario. Ella si chiamava Perdita. L'Estate morta giaceva in fondo alla laguna. Le parole erano parole.

— Potrei amarla?

Un soffio ancora, e si faceva l'oscurità. Come la fiammella d'una candela s'inclina sotto il vento e sembra distaccarsi dal lucignolo ma tuttavia vi rimane aderente per un tenue lembo azzurrino, quasi per una favilla pallida che sùbito riarderà e si rialzerà se il vento cessi, così la ragione della misera stette per estinguersi. Passò su lei l'aura della manìa. Il terrore imbiancò e stravolse la sua faccia.

Egli non la guardava, ma fissava le pietre.

— Incontrandola ancóra, potrei desiderare di volgere verso di me il suo destino?

Egli rivedeva la persona giovenile, dalle reni falcate e possenti, sorgere fuor della selva sonora, tra il moto alterno degli archi che parevan trarre la nota dalla musica occulta ch'era in lei.

— Forse.

Egli rivedeva quel volto ermetico, quasi adamantino, occupato da un pensiero segretissimo, e il corrugar dei sopraccigli, che lo rendeva nemico.

— Ma che mai varrebbe questo? E che mai valgono tutte le vicende e tutte le necessità della vita contro la fede che ci lega? Potremmo noi somigliare i piccoli amanti che passano i giorni a sopraffarsi, a piangere e a maledire?

Ella serrò i denti. La soverchiò l'istinto selvaggio di difendersi e d'offendere come in una lotta disperata. Su le vacillazioni del suo pensiero scoppiarono i baleni d'una volontà micidiale.

“No, non l'avrai!” E la crudezza del suo padrone le sembrò mostruosa. Le sembrò di sanguinare sotto le percosse misurate e iterate, come quell'uomo su la via bianca in quella città di minatori. La scena orrenda le tornava alla memoria: l'uomo atterrato da un colpo di mazza, che si rialzava e tentava di gettarsi contro l'avversario, e la clava che lo colpiva di nuovo, i colpi vibrati l'uno dopo l'altro da una mano ferma e fredda, il lor rumore sordo su la testa umana, l'ostinato rialzarsi, la tenacità della vita, la carne del viso ridotta come una poltiglia rossa. Le imagini dell'atroce ricordo si confondevano con la realtà del suo strazio, nell'incoerenza mentale. Ella s'alzò di scatto, atterrita dalla forza ferina che invadeva le sue vene. Il vetro s'infranse nella sua mano convulsa, la ferì, cadde ai suoi piedi in frantumi.

Trasalì colui, che il silenzio immobile della donna aveva ingannato; e la guardò, e la vide; e vide novamente, come quella sera nella stanza ove ruggivano i tizzi, vide la figura della follia disegnarsi in quel viso scomposto. Balbettava dolendosi; ma l'impazienza bolliva in fondo al suo sgomento.

— Ah — disse la donna superando il tremito, con un'amarezza che le torse la bocca — come sono forte! Un'altra volta bisogna che il vostro taglio sia meno lento, giacché resisto così poco, amico mio.

S'accorse che il sangue stillava dalle sue dita. Le avvolse nel fazzoletto, che si macchiò di vermiglio. Guardò i frammenti del vetro, che brillavano a terra sparsi.

— Il calice è rotto! L'avete troppo lodato. Vogliamo alzargli un mausoleo, qui?

Ella era amarissima, quasi beffarda, contratta le labbra da un riso acerbo che non risonava. Egli taceva, deluso, gonfio di rancore, vedendo distrutta la bellezza di uno sforzo come quella tazza perfetta.

— Imitiamo Nerone, avendo già imitato Serse!

Più acutamente del suo amico ella sentiva lo stridore del suo sarcasmo, la falsità della sua voce, la malignità di quel suo riso che era come uno spasimo dei muscoli. Ma ella non riesciva a riafferrare la sua anima e la vedeva trascorrere lungi dalla sua volontà, senza riparo, come su la nave i marinai cui sia sfuggito di mano l'aspe restano inerti dinanzi all'argano che gira a ritroso spaventevolmente abbandonando il canapo o le catene. Provava un bisogno acre ed irresistibile di schernire, di disperdere, di calpestare, quasi invasata da un demone perfido. Ogni traccia di tenerezza e di bontà era scomparsa, e ogni speranza, e ogni illusione. L'odio sordo, che cova sotto l'amore delle femmine ardenti, si rivelava dominatore. Ella scopriva nello sguardo dell'uomo la stessa ombra che passava sul suo sguardo.

— Vi faccio ira? Volete tornare a Venezia solo? Volete lasciare dietro di voi l'Estate morta? L'acqua cala ma ve n'è sempre a bastanza per chi non ha intenzione di tornare a galla. Volete che provi? Potrei essere più docile?

Ella diceva queste cose insensate con una voce sibilante; ed era divenuta quasi livida, consumata a un tratto come se un veleno la corrodesse. E colui si ricordava di averle veduta sul volto quella stessa maschera in un giorno lontano di voluttà, di furore e di tristezza. Il cuore gli si strinse e poi gli si disciolse.

— Ah, se vi ho fatto male, perdonatemi! — disse tentando di prenderle una mano per quietarla con un atto dolce. — Ma non ci eravamo avviati insieme verso quel punto? Non mi veniva da voi...

Ella l'interruppe, insofferente di quella dolcezza, di quella medicina consueta.

— Male? E che importa? Non v'impietosite, non v'impietosite! Non piangete per i belli occhi della lepre stronca...

Ella camminava nella fondamenta, lungo il canale violaceo, dinanzi le porte ove ancora sedevano all'estremo lume le donne con su le ginocchia i canestri pieni di conterie. La parola le si spezzò tra i denti. La contrattura delle labbra le si mutò in una convulsione frenetica di risa che sonarono come singulti laceranti. Rabbrividì il compagno; e le parlava sotto voce, sbigottito, sotto gli occhi seguaci dei curiosi.

— Frénati! Frénati! Oh, Foscarina, ti prego! Non essere così! Ti prego! Fra poco si giunge alla riva, fra poco a casa... Ti dirò... Allora comprenderai... Siamo nella strada... M'ascolti?

Ella aveva scorto su una di quelle soglie una donna incinta, dal ventre enorme, gonfia come un otre, che ingombrava il vano tra i due stipiti e pareva trasognata mangiando un pezzo di pane.

— M'ascolti? Foscarina, ti prego! Fatti forza! Appòggiati a me.

Egli temeva di vederla stramazzare nella convulsione orribile, e si teneva pronto a sorreggerla. Ma ella affrettava il passo, non potendo rispondere, soffocando le risa con la mano fasciata dal fazzoletto, mentre credeva sentire nello spasimo la pelle del volto screpolarsi.

— Che hai? Che vedi?

Mai quell'uomo dimenticherà il mutamento di quegli occhi. Erano sbarrati, senza sguardo, d'una immobilità mortale nei sussulti implacabili, quasi fossero privi di palpebre; e nondimeno vedevano: vedevano qualche cosa che non era là, erano pieni d'una visione ignota, occupati da un'imagine mostruosa che generava forse quelle risa d'angoscia e di follia.

— Vuoi che ci fermiamo? Vuoi un sorso d'acqua?

Si ritrovavano su la Fondamenta dei Vetrai, ove le botteghe erano chiuse, ove i passi risonavano, ove gli schianti dell'atroce ilarità parevano prolungarsi in echeggi come sotto a un portico. Da quanto tempo eran passati lungo quel canale morto? Quanta parte di vita era trascorsa intanto? Quanta ombra lasciavano essi dietro di loro?

Discesa nella gondola, rannicchiata dentro il suo mantello, più livida che su la via del Dolo, la donna tentava di domare il suo spasimo costringendo le mascelle con ambedue le mani. Ma di tratto in tratto il maligno riso sfuggendo strideva nel silenzio torpido, rompendo il ritmo dei due remi. Ella si premeva più forte la bocca, come per soffocarsi. Tra il velo rialzato su i sopraccigli e il fazzoletto macchiato di sangue, i suoi occhi rimanevano aperti e fissi nell'immensità del crepuscolo.

La laguna e la caligine inghiottivano tutte le forme e tutti i colori. Soli interrompevano la grigia eguaglianza i gruppi dei pali, simili a una processione di monaci per un cammino di ceneri. Venezia in fondo fumigava come i resti di un vasto saccheggio.

Quando giunse il rombo delle campane, l'anima si risovvenne, le lagrime sgorgarono, l'orrore fu vinto.

La donna abbassò le mani, si piegò un poco verso la spalla del suo amico, ritrovò la sua voce per dirgli:

— Perdonami.

Ella si umiliò, ebbe vergogna di sé medesima. Da quel giorno in ogni suo atto silenziosamente implorò il perdono e l'oblio.

Una nuova grazia allora parve nascere in lei. Ella si fece più leggera, parlò sommessa, si mosse per la stanza con passi delicati, si vestì di stoffe calme, velò con l'ombra dei cigli i suoi belli occhi che non osavano guardare l'amico. Il timore di pesare su lui, d'increscergli, di tediarlo, le diede le ali della divinazione. La sua sensibilità sempre sveglia origliò e spiò alla porta inaccessa dei pensieri. Ella giunse a sentire in certe ore sotto il suo polso battere il ritmo di quell'altra vita.

La sua anima, intesa a creare un nuovo sentimento capace di vincere le violenze dell'istinto, rivelò nel suo volto con indizii stupendi la difficoltà del compito segreto. Mai la sua arte somma aveva trovato espressioni tanto singolari; né mai dall'ombra delle sue linee eran nate significazioni tanto oscure. Il suo amico un giorno guardandola, le parlò dell'infinita potenza che s'accoglie nell'ombra prodotta dal casco sul volto del Pensieroso.

— Michelangelo — egli disse — in una piccola cavità del suo marmo concentrò tutto lo sforzo della meditazione umana. Come il fiume riempie la palma che si fa cava, così l'eterno mistero da cui siamo circonfusi riempì quel poco spazio aperto dallo scalpello del Titano nella materia delle montagne; e vi rimase e vi s'addensò nei secoli. Non conosco se non l'ombra mobile del vostro viso, Fosca, che talora eguagli quella nell'intensità e anche la superi talora.

Ella si tendeva verso l'animatore, avida di poesia e di sapere. Ella fu per lui la figura ideale di colei che ascolta e comprende. La piega forte e selvaggia dei suoi capelli simulò l'impazienza dei vanni intorno alla sua fronte pura. Una parola bella trasse subitamente le lacrime ai suoi occhi, come la goccia che cade in un vaso colmo e lo fa traboccare.

Ella gli lesse le pagine dei sovrani poeti. La forma augusta del Libro parve magnificata dalle attitudini ch'ella ebbe nel tenerlo, dai gesti ch'ella fece nel volgere i fogli, dalla gravita religiosa dell'attenzione, dall'armonia delle labbra che mutavano in numeri vocali i segni impressi. Leggendo le cantiche di Dante, ella fu severa e nobile come le sibille che nelle volte della Sistina sostengono il peso dei sacri volumi con tutto l'eroismo dei loro corpi commossi dal soffio delle profezie. Le linee del suo atteggiamento e fin le minime pieghe della sua tunica, al pari delle modulazioni, dichiararono il testo divino.

Spirata l'ultima sillaba, ella vide il suo amico levarsi con impeto, tremare come nella febbre, vagare per la stanza agitato dal dio, anelare nell'ansietà che gli davano i tumulti confusi della sua forza creatrice. Ella lo vide talora venire a lei con occhi raggianti, trasfigurato da una sùbita beatitudine, illuminato da una fiamma interiore, come se a un tratto si fosse accesa in lui una sovrumana speranza o si fosse rivelata una verità immortale. Con un brivido che aboliva nel sangue il ricordo di ogni carezza, ella lo vide venire a lei e piegarlesi sopra le ginocchia abbattuto dallo scrollo terribile del mondo ch'egli portava in sé, dallo scotimento che accompagnava qualche metamorfosi celata. Ella soffrì e gioì, non sapendo s'egli soffrisse o gioisse; ebbe pietà paura e reverenza, sentendo quel corpo voluttuoso travagliato così profondamente dalla genesi dell'idea. Tacque; aspettò; adorò, in quel capo reclinato sopra le sue ginocchia, i pensieri ignoti.

Ma meglio comprese il grande affanno quando un giorno, dopo la lettura, egli le parlò dell'Esule.

— Imaginate, Fosca, se potete, senza sbigottirvi, l'empito e l'ardore della smisurata anima nel mescolarsi alle energie elementari per concepire questi suoi mondi! Imaginate l'Alighieri, pieno già della sua visione, su le vie dell'esilio, pellegrino implacabile, cacciato dalla sua passione e dalla sua miseria di terra in terra, di rifugio in rifugio, a traverso le campagne, a traverso le montagne, lungo i fiumi, lungo i mari, in ogni stagione, soffocato dalla dolcezza della primavera, percosso dall'asprezza dell'inverno, sempre vigile, attento, aperto gli occhi voraci, ansioso del travaglio interiore ond'era per formarsi l'opera gigantesca. Imaginate la plenitudine di quell'anima nel contrasto delle necessità comuni e delle infiammate apparizioni che gli si facevano incontro di repente allo svolto di un cammino, sopra un argine, nella cavità di una roccia, pel declivio di una collina, nel folto di una selva, in una prateria canora di allodole. Per i tramiti dei sensi la vita molteplice e multiforme gli si precipitava nello spirito trasfigurando in viventi imagini le idee astratte ond'esso era ingombro. Ovunque, sotto il passo doloroso, scaturivano sorgenti imprevedute di poesia. Le voci le parvenze e le essenze degli elementi entravano nell'occulto lavoro e lo aumentavano di suoni, di linee, di colori, di movimento, di misteri innumerabili. Il Fuoco l'Aria l'Acqua e la Terra collaboravano al poema sacro, pervadevano la somma della dottrina, la riscaldavano, l'attenuavano, la irrigavano, la coprivano di foglie e di fiori... Aprite questo libro cristiano e imaginate aperta a riscontro la statua di un dio greco. Non vedete erompere dall'uno e dall'altra la nube o la luce, i baleni o i venti del cielo?

Allora ella cominciò a sentire come la sua stessa vita derivasse nell'opera che tutto assorbiva, come a stilla a stilla la sua stessa anima entrasse nella persona del drama, e i suoi aspetti, le sue attitudini, i suoi gesti, i suoi accenti concorressero a formare la figura dell'eroina “vivente di là dalla vita”. Ella fu come una preda per quegli occhi voraci, che la fissavano talvolta con una violenza intollerabile. Ella conobbe così un altro modo d'esser posseduta. Le parve di dissolversi ne' suoi elementi al fuoco di quell'intelletto e poi di ricomporsi in perfezione per la necessità di un eroismo dominatore sul Destino. Il suo compito segreto concordando con la virtù della creatura ideale, ella era tratta a non discordare dall'imagine che doveva somigliarle. L'arte secondava l'apparizione del sentimento nuovo da lei preparata.

Tuttavia ella soffrì di quel simulacro che gittava la sua ombra su la realtà della rinunzia e del dolore. Una strana ambiguità nacque da quella similitudine tra la finzione e il suo essere. Talora le parve che il suo sforzo nascosto la preparasse alla riuscita del gioco scenico e non a una conquista della sua conscienza su l'istinto buio. Le parve talora di smarrire la sua sincerità umana e di ritrovarsi nello stato di concitazione fittizia in cui soleva porsi quando studiava il carattere della persona tragica ch'ella doveva incarnare. Ella conobbe così un altro tormento. Si chiuse e si contrasse, sotto lo sguardo dell'indagatore, come per impedirgli di penetrarla e di rapirle quella vita segreta. Ebbe terrore del veggente. “Egli leggerà nella mia anima le mute parole che porrà in bocca alla sua creatura, e io non potrò pronunziarle se non su la scena, di sotto alla maschera!” Sentì la sua spontaneità arrestarsi. Provò smarrimenti e scoramenti confusi, d'onde risorse talvolta con un bisogno impetuoso di rompere quel fascino, di farsi diversa, di disgiungersi da quell'imagine che doveva somigliarle, di rompere quelle linee di bellezza che la imprigionavano e la costringevano a un sacrificio determinato. — Non v'era anche nella tragedia una vergine sitibonda d'amore e avida di gioire, nella quale un alto spirito riconosceva l'apparizione vivente del suo sogno più leggero, la Vittoria invocata che doveva coronargli la vita? E non v'era anche una donna amante e non più giovine che aveva già il piede nell'ombra e che non doveva muovere se non un breve passo per scomparire? — Più d'una volta ella fu tentata di contraddir con un atto violento a quella rassegnazione.

Allora tremava dinanzi alla possibilità di ricadere nell'orrore, d'esser ripresa dall'orribile furia, d'essere riabbrancata dalla belva insidiosa che non era spenta ma che viveva tuttavia e spiava nell'oscurità aspettando il momento di scagliarsi. Simile alla penitente, moltiplicava contro il pericolo il suo fervore, induriva la sua disciplina, acuiva la sua vigilanza; ripeteva con una specie di ebrezza l'atto di suprema dedizione ch'era sorto dal fondo della sua miseria al conspetto del fuoco purificatore: “Bisogna che tu abbia tutto. Io sarò contenta di vederti vivere, di vederti gioire. E fa di me quel che tu vuoi!”.

Egli allora l'amò per le inattese visioni ch'ella faceva nascere in lui, per il senso misterioso degli eventi interiori, ch'ella gli comunicava con le vicende dei suoi sembianti. Si stupì che le linee d'un volto, le movenze d'un corpo umano potessero toccare e fecondare così fortemente l'intelletto. Egli rabbrividì e impallidì un giorno, vedendola entrare nella stanza col suo passo silenzioso, col volto composto in un dolore straordinariamente calmo, sicura come se venisse dalle profondità della Saggezza, di là dove tutte le agitazioni umane sembrano un gioco di vènti nella polvere d'un cammino senza termine.

— Ah, io t'ho creata, io t'ho creata! — le gridò illuso dall'intensità dell'allucinazione, credendo vedere la sua eroina stessa apparir su la soglia della remota stanza occupata dai tesori tolti ai sepolcri degli Atridi. — Fermati un momento! Non battere le palpebre! Tieni gli occhi immobili, come due pietre! Sei cieca. E vedi tutto quel che gli altri non vedono. E nessuno ti può nasconder nulla. E qui, in questa stanza, l'uomo che tu ami ha svelato il suo amore all'altra, che ancora ne trema. Ed essi sono qui; e le loro mani si sono separate da poco e il loro ardore è nell'aria. E la stanza è piena di tesori funebri; e su due tavole sono disposte le ricchezze che vestivano i cadaveri di Agamennone e di Cassandra; e là sono i cofani ricolmi di monili, e là sono i vasi ricolmi di ceneri. E il balcone è aperto e guarda la pianura di Argo e le montagne lontane. Ed è il tramonto, e tutto quest'oro terribile riluce nell'ombra. Comprendi? Tu sei là, su la soglia, condotta dalla nutrice. Sei cieca e nulla t'è ignoto. Férmati un momento!

Egli parlava nella febbre improvvisa dell'invenzione. La scena gli appariva e scompariva come sommersa da un torrente di poesia.

— Che farai tu? Che dirai tu?

L'attrice sentiva il gelo nelle radici dei suoi capelli. La sua anima vibrava ai limiti del suo corpo come una forza sonora. Ella diveniva cieca e indovina. Il nembo della tragedia scendeva e si arrestava sul suo capo.

— Che dirai tu? Tu li chiamerai; tu chiamerai l'uno e l'altra per nome, nel silenzio ove stanno le grandi spoglie regali.

L'attrice udiva nei suoi orecchi il fragore delle sue vene. La sua voce doveva risonare nel silenzio dei millennii, nella lontananza dei tempi; doveva risvegliare l'antica doglia degli uomini e degli eroi.

— Tu li prenderai per mano; e sentirai le due vite protendersi l'una verso l'altra con tutte le forze e guardarsi fissamente a traverso il tuo dolore immobile come a traverso un cristallo che sia per rompersi.

Ella ebbe nei suoi occhi la cecità delle statue immortali. Ella vide sé stessa scolpita nel gran silenzio; e sentì il fremito della folla muta, presa alle viscere dalla potenza sublime dell'attitudine.

— E poi? E poi?

L'animatore andò verso di lei con impeto come se volesse percuoterla per trarne scintille.

— Tu devi evocare Cassandra dal suo sonno, tu devi sentir rivivere le sue ceneri nelle tue mani, tu devi averla presente nella tua veggenza. Vuoi tu? Comprendi! Bisogna che la tua anima viva tocchi l'anima antica e si confonda con quella e faccia un'anima sola e una sola sventura, cosicché l'errore del tempo sembri distrutto e sia manifesta quella unità della vita a cui tende lo sforzo della mia arte. Cassandra è in te e tu sei in lei. Non l'hai amata, non l'ami anche tu la figlia di Priamo? Chi dimenticherà mai, se una volta ti udì, chi dimenticherà mai il suono della tua voce e la convulsione delle tue labbra al primo grido del furore fatidico: “Oh Terra! Oh Apollo!”. Ti rivedo muta e sorda sul tuo carro, con quel tuo aspetto di fiera presa di recente. Ah, ma fra tante grida terribili v'era qualche anelito infinitamente dolce e triste. I Vecchi ti paragonavano al “fulvo usignuolo”. Come dicevano, come dicevano le tue parole quando tu ti ricordavi del tuo bel fiume? e quando i Vecchi ti domandavano dell'amore del dio? Non le hai tu in mente?

La Tragica palpitava come se di nuovo il soffio del dio l'invadesse. Ella era divenuta una materia ardente e duttile, soggetta a tutte le animazioni del poeta.

— Non le hai tu in mente?

— O nozze, nozze di Paride funeste ai cari! O voi, acque paterne dello Scamandro! Allora, presso le vostre ripe, di voi si nutriva la mia adolescenza...

— Ah, divina, la tua melodia non fa rimpiangere le sillabe di Eschilo! Mi ricordo. L'anima della folla, stretta dal lamento “in discordi suoni”, si distese e fu beata di quel sospiro melodioso; e ciascuno di noi riebbe la visione dei suoi anni lontani e della sua felicità innocente. Tu puoi dire: “Io fui Cassandra”. Parlando di lei, ti ricorderai di una vita anteriore... La sua maschera d'oro sarà sotto le tue mani....

Egli le prese le mani; e, senza accorgersene, le tormentava. Ella non sentiva il dolore. Entrambi erano intenti alle scintille che si generavano dalle loro forze commiste. Una medesima vibrazione elettrica correva per i loro nervi meravigliosi.

— Tu sei là, presso la spoglia della principessa schiava; e tu palpi la maschera... Che dirai tu?

Parve che, nella pausa, aspettassero un lampo per vedere. Gli occhi dell'attrice ridivennero immobili: la cecità li rioccupava. Tutto il suo volto si fece di marmo. Istintivamente, l'animatore le lasciò libere le mani che fecero il gesto di tentare l'oro sepolcrale.

Ella disse, con una voce che creò la forma tangibile:

— Com'è grande la sua bocca!

Egli palpitò d'un'ansia quasi paurosa.

— La vedi, dunque?

Ella rimaneva con gli occhi intenti e senza sguardo.

— Anch'io la vedo. È grande. Il travaglio orribile della divinazione l'aveva dilatata. Ella gridava, imprecava, si lamentava senza tregua. Imagini tu la sua bocca nel silenzio?

Nella medesima attitudine, quasi estatica, ella disse lentamente:

— Che stupore, quando ella tace!

Pareva ch'ella ripetesse parole a lei suggerite da un genio misterioso; mentre pareva al poeta, nell'intenderle, ch'egli medesimo fosse per proferirle. Un tremito profondo lo agitava, come dinanzi a un prodigio.

— E i suoi occhi? — domandò tremando. — Di qual colore credi tu che fossero i suoi occhi?

Ella non rispose. Le linee marmoree del suo volto si mutarono come se vi passasse un'onda leggera di sofferenza. Un solco s'incavò tra i sopraccigli.

— Forse neri — piano egli soggiunse.

Ella parlò.

— Non erano neri, ma sembravano, perchè le pupille nell'ardore fatidico erano così dilatate che divoravano le iridi...

S'arrestò, come se il soffio a un tratto le mancasse. Un velo tenue di sudore le si spandeva su la fronte. Stelio la guardava ammutolito, pallidissimo; e l'intervallo era riempito dai grandi palpiti del suo cuore agitato.

— Nelle pause — continuò la rivelatrice con una lentezza penosa — quando ella asciugava la schiuma delle sue labbra livide, i suoi occhi erano dolci e tristi come due viole.

S'arrestò di nuovo, affannata, con l'aspetto di chi sogni e sognando soffra. La sua bocca pareva riarsa. Le sue tempie erano madide.

— Tali dovevano essere prima di chiudersi per sempre.

Allora egli fu interamente avvolto dal turbine lirico; non respirò se non nell'etere infiammato della sua poesia. Il sentimento musicale, generatore del drama, si determinò nelle forme del Preludio ch'egli componeva. La tragedia trovò su quel fulcro sonoro il suo equilibrio perfetto tra le due forze che dovevano animarla, tra la forza della scena e la forza dell'orchestra. Un motivo di straordinaria potenza segnò nel mare sinfonico l'apparizione dell'antico Destino.

— Tu rappresenterai sul nuovo Teatro l'Agamennone, l'Antigone e in fine La Vittoria dell'Uomo. La mia tragedia è un combattimento: essa celebra la rinnovazione del drama con la sconfitta della Volontà mostruosa che travolse le stirpi di Labdaco e di Atreo. Si apre col gemito di un'antica vittima e si chiude col “grido della luce”.

Risuscitata dalla melodia, la Moira rivisse per lui in forma visibile, quale dovette apparire agli occhi selvaggi delle Coefore presso il tumulo del re sgozzato.

— Ti ricordi — egli diceva all'attrice per significarle quella presenza violenta — ti ricordi del capo reciso di Marco Crasso nel racconto di Plutarco? Un giorno mi proposi di trame un episodio scenico. Sotto la tenda regale l'Armeno Artuasde festeggia in un gran convito il re dei Parti Irode; e i capitani seggono intorno e bevono; e lo spirito di Dioniso invade quei barbari non insensibili al potere del ritmo, poichè davanti alle mense un Tralliano rappresentator di tragedie chiamato Giasone canta i casi di Agave nelle Baccanti di Euripide. Non sono per anche levate le mense, quand'ecco entra Sillace portando la testa di Crasso e, adorato il Re, la gitta là in mezzo sanguinosa. I Parti levano un grande strepito d'allegrezza. Allora Giasone dà a uno del Coro le vestimenta di Penteo ed egli, abbrancata la testa di Crasso, tutto pieno del furore dionisiaco, canta quei versi:

Portiamo dai monti alle case un 'edera tagliata di recente, insigne preda...

E il Coro salta di gioia. E, come Agave dice d'aver preso senza rete quel leoncello, il Coro chiede chi l'abbia colpito prima. E Agave risponde:

Mio è il vanto...

Ma balza in piedi Pomassetre, che stava cenando tuttavia, e strappa di mano il teschio all'attore furioso e grida che a lui spetta più che a Giasone il dir quelle parole, egli essendo l'uccisore del Romano. Senti tu la bellezza portentosa della scena? Il volto feroce della Vita lampeggia a un tratto accanto alla Maschera di metallo e di cera; l'odore del sangue umano eccita la frenesia ritmica del Coro; un braccio datore di morte lacera i veli della finzione tragica. Questo inaudito esodio, con cui termina la spedizione di Crasso, mi dà l'entusiasmo. Ebbene, l'irruzione della Moira antica nella mia tragedia moderna somiglia l'arrivo improvviso di Sillace al convito dell'Armeno. In principio la vergine, su la loggia che guarda le mura ciclopiche e la Porta dei Leoni, tiene fra le mani il libro dei Tragici e legge la lamentazione di Antigone. La divinità fatale è chiusa in quel libro, dominatrice su le imagini del dolore e del delitto. Ma quelle imagini sono evocate dalle vive parole; e presso al puro peplo della martire tebana rosseggia l'insidiosa porpora distesa da Clitemnestra, e gli eroi dell' Orestiade sembrano ricominciare a vivere mentre un uomo esplora i loro sepolcri nell'Agorà. Sembrano agitarsi oscuramente al fondo della scena come Ombre, piegarsi ad ascoltare i dialoghi, attossicar l'aria con i loro soffii. S'odono d'improvviso le grida che annunziano il grande evento. Ecco l'uomo che ha scoperchiato i sepolcri e ha veduto il viso degli Atridi, eccolo tutto irradiato dalla meraviglia della morte e dell'oro! Egli è là, con l'aspetto di chi delira? Le anime sono tremanti. La favola risorge dal suolo per illudere gli uomini ancora? Le anime sono tremanti e vigili. A un tratto la potenza di maledizione e di mina si precipita e le afferra per trascinarle verso le colpe infami. Incomincia il combattimento disperato. La Tragedia non ha più la sua maschera immobile, ma mostra il suo viso nudo. E il libro, che leggeva la vergine inconsapevole, non può più essere riaperto senza brivido perchè le anime sentono che quell'orrore lontano s'è fatto presente e vivente e che esse vi respirano e vi delirano come in una realtà inevitabile. Il Passato è in atto. L'illusione del Tempo è caduta. La Vita è una.

La grandezza stessa della sua concezione lo sbigottiva. Talvolta egli cercava intorno a sé ansiosamente, scrutava gli orizzonti, interrogava le cose mute, come se invocasse un aiuto, come se sperasse un messaggio. Rimaneva a lungo in silenzio, supino, con gli occhi chiusi, aspettando.

— Bisogna, intendi?, che io sollevi dinanzi agli occhi della moltitudine questa massa enorme in un sol tratto. Ecco in che consiste la difficoltà del mio Preludio. Questo primo sforzo è il massimo che l'opera mi chieda. Io debbo nel tempo medesimo sollevare dal nulla il mio mondo e porre l'anima innumerevole nello stato musicale più atto a ricevere l'insolita rivelazione. L'orchestra deve produrre questo prodigio. “L'arte, come la magìa, è una metafisica pratica” dice Daniele Glàuro. Ed ha ragione.

Egli sopraggiungeva talvolta alla casa della sua amica, anelante e agitato come se lo perseguitasse una Erinni. Ella non l'interrogava, ma tutta la sua persona diveniva un lenimento per l'inquieto.

— Ho avuto paura, — le disse egli un giorno sorridendo — paura di rimaner soffocato... Tu mi credi un poco folle, è vero? Ti ricordi tu di quella sera in tempesta, quando tornai dal Lido? Come fosti dolce, Fosca! Poco prima, sul Ponte di Rialto, io avevo trovato un Motivo; avevo tradotto in note la parola dell'Elemento... Sai tu che cosa sia un Motivo? Una piccola sorgente da cui può nascere una greggia di fiumi, un piccolo seme da cui può nascere una corona di foreste, una piccola favilla da cui può nascere una catena d'incendii senza termine: un nucleo produttore d'infinita forza insomma. Non v'è nel mondo delle origini ideali un essere più potente, un organo di generazione più virtuoso. E non v'è per un cervello attivo gioia più alta di quella che gli posson dare gli sviluppi d'una tale energia... Gioia, sì, e anche spavento qualche volta, amica!

Egli rise del suo riso ingenuo. Nel modo con cui parlava di quelle cose era l'indizio della straordinaria facoltà che agguagliava il suo spirito a quello dei primitivi trasfiguratori della Natura. V'era un'analogia profonda tra la spontanea formazione dei miti e quel suo bisogno istintivo di animare tutto ciò che gli cadeva sotto i sensi.

— Dianzi m'ero messo a sviluppare il Motivo di quella sera tempestosa, che voglio chiamare l'Otre di Eolo. Eccolo. È questo.

Si accostò alla tastiera, e toccò alcuni tasti con una sola mano.

— Niente altro che questo! Ma tu non imagini la forza generatrice di queste poche note. Un turbine di musica è nato da loro e non sono riuscito a dominarlo... Sopraffatto, soffocato, costretto a fuggire!

Egli rise ancora; ma la sua anima fluttuava come un mare.

— L'otre del principe Eolo aperto dai compagni di Odisseo! Te ne ricordi? I vènti prigionieri erompono e risospingono la nave. Gli uomini tremano di spavento.

Ma la sua anima non aveva riposo, e nulla poteva liberarla dal travaglio. Ed egli baciò le mani della sua amica, e s'allontanò da lei; e andò vagando per la stanza, si soffermò davanti al cembalo che Donatella aveva toccato nel cantare la melodia di Claudio; irrequieto, si appressò alla finestra, vide il giardino spoglio, le belle nubi solitarie, le torri sacre. La sua aspirazione andava alla creatura musicale, a colei che doveva cantare gli inni su la sommità delle sinfonie tragiche.

La donna disse con una voce piana e limpida:

— Se Donatella fosse qui con noi!

Egli si volse, fece qualche passo verso di lei, e la guardò fissamente, senza parlare. Ella sorrise di quel suo tenue sorriso asconditore, vedendolo così da presso e pur così distante. Sentì che in quell'ora egli non amava nessuno: non lei, non Donatella: ma che le considerava entrambe come puri strumenti dell'arte, come forze da adoprare, “archi da tendere”. Egli ardeva nella sua poesia; ed ella era là col suo povero cuore piagato, col suo segreto supplizio, con la sua implorazione silenziosa, non intenta ad altro che a preparare il suo sacrificio, a trapassare di là dall'amore e dalla vita come l'eroina del drama futuro.

“Ah, che cosa mai potrebbe avvicinarti a me, gittarti sul mio cuore fedele, farti tremare d'un'altra angoscia?” pensava ella, vedendolo estraneo, perduto nel sogno. “Un gran dolore, forse: un colpo improvviso, una delusione cruda, un male irreparabile.”

Le ritornò nella memoria quel verso di Gaspara Stampa da lui lodato:

Vivere ardendo e non sentire il male!

E rivide il subitaneo pallore di lui quando s'era soffermata nel sentiere tra i due muri e aveva dichiarati i suoi primi titoli di nobiltà nella lotta per esistere.

“Ah, se un giorno tu potessi sentire veramente quanto valga una devozione come la mia, una servitù come questa che ti offro! Se veramente un giorno tu avessi bisogno di me e, sconfidato, tu riattingessi da me la fede e, affaticato, tu riprendessi in me la forza!”

Ella si riduceva a invocare il dolore in soccorso della sua speranza; e, mentre in sé stessa diceva “se un giorno...” il sentimento del tempo la rioccupava, il sentimento del tempo che fugge, della fiamma che si consuma, del corpo che appassisce, delle infinite cose che si corrompono e periscono. Ogni giorno ormai doveva scavarle un segno nel viso, scolorarle le labbra, diradarle i capelli; ogni giorno ormai era al servigio della vecchiezza, affrettava l'opera di distruzione su la carne miserabile. “Ebbene?”

Ella riconobbe anche una volta che sempre il desiderio, l'invitto desiderio, era il fabbro di tutte le illusioni e di tutte le speranze che sembravano aiutarla a compiere “quel che l'amore non può”. Ella riconobbe che ogni sforzo per estirparlo sarebbe stato vano; e, scoraggiata, vide in un attimo dissiparsi l'artificio a cui la sua volontà aveva constretta la sua anima. Con un'onta segreta, sentì come miseramente ella somigliasse in quel punto all'attrice che rientra dalla scena e depone la sua larva. Nel pronunziare quelle parole, che avevano interrotto il silenzio esprimendo con l'accento della sincerità un rammarico simulato, non era stata ella come chi reciti una parte? Ma aveva sofferto, ma aveva torto il suo cuore, ma aveva estratta dal più amaro suo sangue una tal dolcezza. “Ebbene?”

Ella riconobbe che la torturante constrizione di quei giorni non era valsa a creare in lei neppur l'indizio del sentimento nuovo in cui l'amore doveva sublimarsi. Ella era come quei giardinieri che con le cesoie danno una forma artificiale alle piante tenaci, le quali pur conservano il loro tronco gagliardo e tutte le loro radici intatte per soverchiare con una rapida espansione selvaggia il disegno se non sia assidua l'opera del ferro intorno ai rami. Il suo sforzo era dunque tanto doloroso quanto inutile; poichè non aveva se non una efficacia esteriore, lasciando immutato il fondo, anzi accrescendovi l'intensità del male col contenerlo. Il suo compito segreto si riduceva dunque a una costante dissimulazione! Valeva la pena di vivere per questo?

Ella non poteva e non voleva seguitare a vivere se non a patto di trovare finalmente la sua armonia. Ma nell'esperienza di quei giorni ella non era riuscita se non a rendere più grave il discordo tra la sua bontà e il suo desiderio, non era riuscita se non ad acuire la sua inquietudine e la sua tristezza o a perdersi interamente nell'empito dell'anima creatrice che l'attirava per fonderla come una sostanza plastica. E tanto era lontana dall'armonia cercata, che ella aveva sentito in un punto la sua spontaneità arrestarsi ed offuscarsi la sua sincerità e un sordo fermento di ribellione gonfiarle il cuore e ritornare l'aura della manìa temuta.

Là, su i cuscini del divano, nell'ombra, non era ella la medesima donna che una sera d'ottobre, nell'arsura del veleno, aveva detto al suo amico: “Bisogna che io muoia?” Non era la medesima donna che di là, aizzata, aveva dato un balzo verso di lui come per divorarlo?

Se allora la torbida brama del giovine la faceva crudelmente patire, ora non pativa ella anche più crudelmente nell'accorgersi che quell'ardore s'era placato e che subentrava nel suo amico una specie di ritegno e talvolta quasi l'insofferenza pur delle più miti carezze? Ella aveva onta di rammaricarsene, vedendolo posseduto dall'idea e inteso a concentrare tutte le sue energie nel solo sforzo mentale. Ma un cupo rancore s'impadroniva di lei, certe sere, quando egli prendeva commiato; e i ciechi sospetti nelle notti facevano strazio della sua anima insonne.

Ella cedette al male notturno. Palpitante e febrile nell'oscurità del felse, vagò per i canali; titubò prima di dare al rematore il nome d'un rio lontano; volle tornare indietro; singhiozzò soffocatamente su la sua piaga; sentì il suo spasimo farsi insostenibile; s'inclinò verso il fascino letale dell'acqua; parlò con la morte; poi si abbandonò alla sua miseria. Spiò la casa del suo amico. Rimase lunghe ore in un'attesa paurosa e inutile.

Furono quelle le sue peggiori agonie, in quel tristissimo rio della Panada che ha al suo termine un ponte, di sotto al cui arco appare l'isola mortuaria di San Michele nella laguna aperta. Il vecchio palazzo gotico, all'angolo di San Canciano, era come una ruina sospesa che dovesse a un tratto precipitarle addosso e seppellirla. Le peate nere marcivano lungo i muri corrosi, discoperti dalla bassa marea, esalanti l'odore della dissoluzione. Ed ella udì una volta all'alba svegliarsi gli uccelletti nell'orto delle Clarisse.

“Partire!” La necessità dell'atto le fu sopra, con una urgenza subitanea. Ella aveva già detto al suo amico, in un giorno memorabile: “Ora mi sembra di non potere se non una sola cosa: andarmene, scomparire, lasciarti libero con la tua sorte. Questa cosa io posso, che l'amore non può!” E ormai non le era più consentito l'indugio. Bisognava ch'ella rompesse ogni esitanza, ch'ella escisse alfine da quella specie d'immobilità fatale degli eventi, in cui da tanto tempo si agitava tra la vita e la morte come s'ella fosse caduta in quell'acqua torpida e muta laggiù, presso l'isola funebre, e vi si dibattesse angosciosamente sentendo cedere sotto il piede il fondo molle, credendo sempre d'essere inghiottita e avendo sempre nella vista la distesa eguale della gran calma e non annegando mai.

Nulla infatti era accaduto, nulla accadeva. Da quell'alba d'ottobre la vita esteriore continuava senza mutamento. Nessuna parola era stata proferita, che stabilisse un termine, che accennasse a una interruzione. Quasi pareva che la dolce promessa del viaggio ai Colli Euganei fosse per essere mantenuta, avvicinandosi la fioritura dei peschi! E nondimeno ella sentiva in quel punto l'impossibilità assoluta di seguitare a vivere, così com'ella viveva, accanto all'amato. Era un sentimento definito e inoppugnabile, come quello di chi si ritrovi in una casa che bruci, o di chi nella montagna sia arrestato da un burrone, o di chi nel deserto abbia bevuto dal suo otre l'ultimo sorso. V'era in lei qualche cosa di compito, come nell'albero che ha dato tutto il suo frutto, come nel campo che è stato mietuto, come nella corrente che è giunta al mare. La sua necessità interiore era come la necessità dei fatti naturali, delle maree, delle stagioni, delle vicende celesti. Ella l'accettò, senza esaminarla.

E il suo coraggio risorse, la sua anima si rafforzò, la sua attività si risvegliò, le sue qualità virili di conduttrice si risollevarono. In breve ella stabilì il suo itinerario, radunò la sua gente, fissò la data della partenza. “Andrai a lavorare, laggiù, tra i Barbari, di là dall'Oceano” disse a sé stessa duramente. “Andrai ancora vagando di città in città, di albergo in albergo, di teatro in teatro; e ogni sera farai urlare la folla che ti paga. Guadagnerai molto denaro. Tornerai carica d'oro e di saggezza, se non t'accadrà di rimanere schiacciata per caso sotto una ruota in un crocicchio, un giorno di nebbia... ”

“Chi sa!” ella aggiunse. “Da chi hai tu ricevuto il comando di andartene? Da qualcuno che è in te, in fondo in fondo a te, e che vede quel che tu non vedi, come la cieca della tragedia. Chi sa che laggiù, sopra uno di quei grandi fiumi pacifici, la tua anima non trovi la sua armonia e le tue labbra non imparino quel sorriso che tante volte hanno tentato inutilmente! Forse tu scoprirai alla medesima ora nel tuo specchio un capello bianco e quel sorriso. Va in pace!”

Ella preparò il suo viatico.

Pareva che passasse a quando a quando nel cielo di febbraio il soffio della stagione precoce.

— Senti la primavera? — disse Stelio alla sua amica; e le sue narici palpitarono.

Ella si abbandonò indietro alquanto, sentendo il suo cuore struggersi; offerse la faccia al cielo che era tutto sparso di vapori come di piume volubili. L'urlo roco d'una sirena si prolungò nell'estuario pallido facendosi a poco a poco dolce come una nota di flauto. Sembrò alla donna che qualche cosa le sfuggisse dall'intimo del petto e si dileguasse con quel suono per la lontananza, come un dolore che si mutasse a poco a poco in un ricordo. Ella rispose:

— È arrivata ai Tre Porti.

Andavano anche una volta per le lagune alla ventura, su l'acqua familiare al loro sogno come il tessuto al tessitore.

— Hai detto “ai Tre Porti”? — esclamò il giovine vivacemente, come se uno spirito si svegliasse in lui. — Là, appunto, in prossimità della spiaggia bassa, al tramonto della luna, i marinai fanno prigioniero il Venticello e lo portano legato a Dardi Seguso... Ti racconterò un giorno la storia dell'Arciorgano.

Ella sorrise al modo misterioso con cui egli aveva accennato l'atto dei marinai.

— Quale storia? — chiese ella inclinandosi verso la seduzione. — E come c'entra il Seguso? È il maestro vetraio?

— Sì, ma un antico, che sapeva di greco e di latino, di musica e d'architettura, ammesso nell'Academia dei Pellegrini che aveva i suoi orti a Murano, e invitato spesso a cena dal Vecellio nella sua casa in contrada dei Biri, amico di Bernardo Cappello, di Jacopo Zane e d'altri patrizii petrarchisti... Appunto in casa di Caterino Zeno egli vide l'organo famoso che era stato costruito per Mattia Corvino re degli Ungari; ed ebbe la sua bella idea nel corso d'una disputa con quell'Agostino Amadi che era riuscito ad avere nella sua raccolta di strumenti una vera lira greca, un grande eptacordo lesbiaco, ricco d'avorio e d'oro... Ah, te l'imagini tu, la reliquia della scuola di Mitilene portata a Venezia da una galera che passando per le acque di Santa Maura trascinò nella sua scia fino a Malamocco il cadavere di Saffo come un fascio d'erbe aride? Ma questa è un'altra storia.

Anche una volta la donna nomade parve rinvenire la sua giovinezza per sorridere attonita come una fanciulla a cui si mostri un libro figurato. Quante storie meravigliose, quante deliziose invenzioni l'Imaginifico aveva trovato per lei su l'acqua nella lentezza dell'ora! Quanti incantamenti aveva egli saputo comporre per lei, al ritmo del remo, con la sua parola che tutto faceva visibile! Al fianco di lui, nel leggero naviglio, quante volte aveva ella assaporato quella specie di lucido sonno in cui s'interrompevano tutte le pene e sole ondeggiavano le visioni della poesia!

— Racconta — ella pregò; e voleva soggiungere: “Sarà l'ultima”, ma si trattenne perchè aveva celato al suo amico quel che da lei era stato risoluto.

Egli rise.

— Ah, tu sei avida di favole come Sofia.

A quel nome, come al nome della primavera, ella sentì il suo cuore struggersi, la crudeltà della sua sorte passarle l'anima, tutto il suo essere volgersi verso i beni perduti.

— Guarda — egli disse, indicando la taciturna pianura lagunare che qua e là si corrugava al passaggio dell'aura. — Queste infinite linee di silenzio non aspirano a divenir musica?

Pallido nell'albàsia pomeridiana l'estuario portava leggermente le sue isole come il cielo porta le sue nuvole più miti. Le lunghe bande sottili del Lido e della Terraferma avevano la vanità di quei tritumi nericci che galleggiano a zone su le onde abbonacciate. Torcello, Burano, Mazzorbo, San Francesco del Deserto da lungi non apparivano in aspetto di approdi ma di paesi sommersi le cui cime soverchiassero il pelo dell'acqua come le coffe dei vascelli andati a picco. Deboli erano le testimonianze degli uomini in quella solitudine piana, come le lettere corrose dal tempo nelle antichissime lapidi.

— Or dunque il maestro vetraio, udendo in casa Zeno celebrare il famoso organo di Mattia Corvino “Corpo de Baco!” gridò “I vedarà che organo che savarò far anca mi co' la mia cana, liquida musa canente! Vogio far el Dio de i organi! Dant sonitum glaucae per stagna loquacia cannae... Vogio che l'acqua de la laguna ghe daga el son e che i pali, le piere, i pessi, i canta anca lori! Multisonun silentium... I vedarà, corpo de Diana!”. Tutti risero i presenti, tranne Giulia da Ponte perchè aveva i denti foschi. E il Sansovino fece una dissertazione intorno agli organi idraulici. Ma il millantatore, prima di prender commiato, convitò la compagnia a udire la sua nova musica pel giorno della Sensa e promise che il Doge sul suo Bucintoro si sarebbe arrestato nel mezzo della laguna ad ascoltare. Quella sera corse voce a Venezia che Dardi Seguso avesse perduto il senno; e il Consiglio, che era tenerissimo dei suoi vetrai, inviò a Murano un messo per novelle. Il messo trovò l'artefice con la sua cortigiana Perdilanza del Mido che lo accarezzava inquieta e sbigottita perchè le pareva ch'egli farneticasse. Il maestro, dopo averlo guardato con occhi fiammeggianti, ruppe in un potentissimo riso che fece sicurtà del suo animo più che qualunque parola; e calmo gli ordinò di riferire al Consiglio che, per la Sensa, Venezia, con San Marco col Canalazzo e col Palazzo del Doge, avrebbe avuta un'altra meraviglia. E, il giorno di poi, fece istanza per ottenere una delle cinque isolette che erano intorno a Murano, come i satelliti di un pianeta, scomparse oggi o cangiate in velme. Fra Temòdia, Trencòre, Galbaia, Mortesina e la Fólega, avendo esplorate le acque, egli scelse Temòdia come si sceglie una sposa. E Perdilanza del Mido cominciò a entrare in afflizione... Guarda, Fosca! Passiamo su la memoria di Temòdia, forse. Le canne dell'organo stanno sepolte nel fango, ma non marciranno. Erano settemila. Passiamo su le rovine d'una selva di vetro canoro. Come le alghe sono delicate, qui!

Egli si chinava su le belle acque; ed ella anche, dall'altra banda. I nastri, le piume, il velluto, le altre materie tenui che componevano con un'arte sobria e sottile il cappello della Foscarina; gli occhi di lei e l'ombra glauca che li cerchiava; il sorriso stesso ond'ella faceva incantevole la grazia del suo sfiorire; il mazzo di giunchiglie che stava infisso a prua nel luogo del fanaletto; le imaginazioni peregrine dell'animatore; i nomi sognati delle isole scomparse; il cilestro che or sì or no si discopriva fra il vapor niveo; il gridìo fioco che or sì or no giungeva da uno stormo d'uccelli invisibili; tutte le più delicate cose erano vinte dai giochi di quelle parvenze fuggitive, dai colori di quelle chiome salmastre che vivevano nella vicenda delle maree volgendosi come sotto a una carezza alterna. Due miracoli commisti parevano colorarle. Verdi come il grano che nasce nel solco, fulve come la fronda che muore sul querciuole e verdi e fulve nelle innumerevoli variazioni delle piante che nascono e che muoiono, esse davano imagine d'una stagione ambigua che fosse propria della laguna nel suo letto. Il giorno rischiarandole a traverso la limpidità non diminuiva di forza ma s'accresceva di mistero, cosicché nella loro mollezza era un ricordo della loro obbedienza alle attrazioni lunari.

— Perché dunque Perdilanza si affliggeva? — domandò la donna, rimanendo reclinata su le belle acque.

— Perché nella bocca e nell'anima dell'amante il suo nome era vinto dal nome di Temòdia, ch'egli pronunziava appassionatamente, e perché l'isola era l'unico luogo dove non le fosse concesso di seguirlo. Là egli aveva costrutta la sua nuova officina e vi rimaneva gran parte del giorno e quasi tutta la notte assistito dai suoi artieri ch'egli aveva legati col giuramento del segreto innanzi all'altare. Il Consiglio, ordinando che il maestro fosse provveduto di quanto abbisognava pel terribile lavoro, gli decretò la decapitazione nel caso che l'opera si dimostrasse impari all'orgoglio. Dardi allora si mise un filo di scarlatto intorno al collo nudo.

La Foscarina si sollevò per riadagiarsi, trasognata. Tra le parvenze del fondo algoso e quelle della favola ella si smarriva come nel laberinto; e cominciava a provare la stessa ansietà, confondendo nel suo spirito la realtà coi fantasmi. Egli pareva parlar di sé stesso con quelle strane figure, come quando nell'ultimo vespro di settembre le aveva dichiarato il mito del melagrano; e il nome della donna imaginaria incominciava appunto con le prime due sillabe del nome ch'egli le dava allora! — Voleva egli significarle qualche cosa, sotto il velo di quel racconto? E che cosa mai? E perché, in vicinanza del luogo dov'ella era stata presa dall'orribile riso, piacevasi egli di quella fantasia che sembrava inspirata dal ricordo della tazza infranta? — L'incantesimo si ruppe, l'oblío si disciolse. Cercando di comprendere, ella medesima foggiò con quella materia di sogno un ordegno di tortura. Parve dimenticare che il suo amico era inconsapevole del prossimo addio. Lo guardò, gli riconobbe nel volto quella felicità intellettuale che soleva brillare in lui come qualcosa di adamantino e di acuto. Istintivamente gli disse, entro di sé: “Me ne vado. Non mi ferire!”

— Che è, Zorzi, quel bianco che galleggia, là, sotto il muro? — domandò egli al rematore di poppa.

Costeggiavano Murano. Apparivano le cinte degli orti, le vette dei lauri. Il fumo nero delle fornaci ondeggiava come gramaglie sospese nell'aria argentina.

Allora l'attrice, con un súbito orrore, ebbe la visione del porto lontano dove l'attendeva la nave enorme e pulsante; rivide la nuvola perpetua su la città brutale dai mille e mille camini, dai monti di carbone, dalle selve d'antenne, dalle mostruose armature; riudì il fragore dei magli, lo stridore degli argani, l'ansare delle macchine, l'immenso gemito del ferro nella caligine affocata.

El xe un can morto — disse il rematore.

Una carogna gonfia e giallastra galleggiava presso il rosso muro di mattone nelle cui fenditure tremolavano le erbe e i fiori, figli della mina e del vento.

— Voga! — gridò Stelio, preso dal ribrezzo.

La donna chiuse gli occhi. Sotto lo sforzo dei remi il legno guizzò, filò su l'acqua lattescente. Il cielo si faceva tutto candido. Uno splendore eguale diffuso regnava su l'estuario. Voci di marinai venivano da un burchio carico d'ortaggi. Da San Giacomo di Palude veniva un cigolìo di passere. Una sirena ululò nella lontananza.

— Dunque l'uomo dal filo di scarlatto... — chiese la Foscarina, ansiosa di udire il seguito poiché voleva comprendere.

— Si sentì più volte vacillare la testa sul collo — seguitò Stelio ridendo. — Gli bisognava soffiare tubi grossi come tronchi d'alberi, e con l'arte d'una bocca viva, non con la forza d'un mantice, e senza interruzioni ma con un sol fiato. Imagina! Non bastavano i polmoni d'un ciclope. Ah, racconterò un giorno l'ardore di quella vita, posta tra la scure del carnefice e la necessità del prodigio, in colloquio con gli elementi! Aveva il Fuoco l'Acqua e la Terra; gli mancava l'Aria, il moto dell'Aria. Intanto i Dieci gli mandavano ogni mattina un uomo rosso a dargli il buondì: sai?, quell'uomo rosso col cappuccio su gli occhi che sta abbracciato alla colonna, nell'Adorazione dei Magi, del secondo Bonifazio. Dopo infinite prove, Dardi ebbe un buon pensiero. Quel giorno s'intrattenne col Priscianese, sotto gli allori, della magione di Eolo e dei dodici figli e dell'approdo del Laerziade all'isola occidentale. Rilesse Omero, Vergilio e Ovidio ne' bei caratteri di Aldo. Poi andò a trovare un mago schiavone che aveva fama d'incantare i Vènti in favore delle lunghe navigazioni. “Mi gavaria bisogno de un ventesélo né tropo forte né tropo fiapo, docile, da podermelo manipolar come che vogio mi, un ventesélo che me serva per supiar certi veri che go in testa... Lenius aspirans aura secunda venit... M'astu capìo, vechio?”

Il favolatore scoppiò a ridere sonoramente, perché vedeva la scena con tutte le particolarita in una casa in calle de la Testa a San Zanepolo, dove lo Schiavone conviveva con la sua figliuola Cornelia Sciavonetta honorata cortegiana (piezo so pare, scudi 2).

Cossa galo? Savàrielo? — pensavano i due barcaiuoli, udendolo parlare nella loro lingua mescolata alle sillabe oscure.

La Foscarina tentava di secondare quella gaiezza, ma soffriva del giovenile riso come già negli avvolgimenti del laberinto.

— La storia è lunga — soggiunse egli. — Un giorno ne farò qualche cosa. Me la serbo per una stagione di ozii... Imagina! Lo Schiavone fa la malìa. Dardi manda ogni notte i marinai ai Tre Porti per tendere l'agguato al Venticello. Una notte finalmente, poco avanti l'alba, mentre la luna tramonta, essi lo sorprendono addormentato su un banco di sabbia in mezzo a uno stormo di rondini stanche condotto da lui... È là supino, che respira leggero come un fanciullo, nell'aroma del sale, quasi ricoperto dalle innumerevoli code forcute: la maretta gli concilia il sonno: le nerebianche viaggiatrici palpitano su lui affaticate dal lungo volo...

— Oh dolce! — esclamò la donna dinanzi alla fresca pittura. — Dove l'hai veduto?

— Qui comincia la grazia della favola. Essi lo prendono, lo legano con i vimini, lo portano a bordo e veleggiano verso Temòdia. La barca è invasa dalle rondini che non abbandonano il condottiere del volo...

Stelio s'arrestò, perchè le particolarità dell'avventura gli s'affollarono all'imaginazione in così gran numero ch'egli non seppe sceglierne alcuna. Ma tese l'orecchio a un canto aereo che veniva dalla parte di San Francesco del Deserto. Si scorgeva il campanile un poco obliquo di Burano e, dietro l'isola del refe, i campanili di Torcello nel solitario splendore.

— Dunque? — sollecitò la sua compagna.

— Non posso dir altro, Fosca. So troppe cose... Figurati che Dardi s'invaghisce del suo prigione!... Si chiama Ornitio, perchè è condottiere di uccelli migratori. Un continuo gridìo di rondini è intorno a Temòdia; i nidi pendono alle abetelle e alle assi delle impalcature che circondano l'opera; qualche ala s'abbruciacchia alle fiamme della fornace quando Ornitio soffia nel ferro creando una colonna luminosa e leggera dal bolo di pasta incandescente. Ah, ma prima di ammansarlo e di insegnargli l'arte, quante pene! Il maestro del fuoco incomincia a parlargli latino e a recitargli qualche verso di Vergilio, credendo d'esser compreso. Ma Ornitio chiomazzurro parla greco, naturalmente, con un accento un poco sibilante... Sa a memoria due odi di Saffo, sconosciute agli umanisti, ch'egli portò un giorno di primavera da Mitilene a Chio; e, soffiando le canne ineguali, si ricorda della siringa di Pan... Ti dirò, ti dirò un giorno tutte queste cose.

— E di che si nutriva?

— Di polline e di sale.

— E chi glie ne cercava?

— Nessuno. Gli bastava di respirare il polline e il sale ch'erano sparsi nell'aria.

— E non tentava di fuggire?

— Sempre. Ma Dardi usava infinite cautele, come un innamorato ch'egli era.

— E Ornitio lo riamò?

— Sì, cominciò a riamarlo, specialmente perchè gli piaceva quel filo di scarlatto che il maestro portava sempre intorno al collo nudo.

— E Perdilanza?

— Languiva di dolore, nell'abbandono. Ti dirò un giorno... Andrò un'estate su la spiaggia di Pellestrina per comporti questa bella favola nella sabbia d'oro.

— Ma come finisce?

— Il prodigio si compie. L'Arciorgano sorge in Temòdio, con le sue settemila canne vitree, simile a una di quelle foreste congelate che Ornitio — il quale inclinava a magnificare i suoi viaggi — diceva d'aver vedute nel paese degli Iperborei. È il giorno della Sensa. Il Serenissimo tra il Patriarca e l'Arcivescovo di Spalato si avanza dal bacino di San Marco sul Bucintoro. Ornitio crede che il Cronide torni in trionfo, tanta è la pompa. S'aprono intorno a Temòdia le cateratte; e, animato dal silenzio eternale della laguna, lo strumento gigantesco sotto le dita magiche del novo musurgo spande un'onda di armonie così vasta che giunge alla Terraferma e si propaga nell'Adriatico. Il Bucintoro s'arresta, perchè i suoi quaranta remi s'abbassano lungo i suoi fianchi come ali che si fiacchino, abbandonati su gli scalmi dalla ciurma sbigottita. Ma, d'improvviso, l'onda si frange, si riduce a pochi suoni discordi, s'affioca, si spegne. Dardi sente d'improvviso lo strumento assordirsi sotto le sue mani, come se l'anima gli venga meno, come se nelle sue profondità una forza estranea devasti il congegno prodigioso. Che è avvenuto? Egli non ode se non il gran clamore di scherno che passa a traverso le canne ammutolite, lo strepito delle artiglierie, lo schiamazzo della plebaglia. Un burchiello si spicca dal Bucintoro, portando l'uomo rosso col ceppo e con la scure. Il colpo ha per segno il filo scarlatto, ed è preciso. La testa cade; è scagliata su l'acqua ove galleggia come quella d'Orfeo...

— Che è avvenuto?

— Perdilanza s'è gittata nelle cateratte! L'acqua l'ha trascinata nelle profondità dell'organo. Il suo corpo con tutta la sua famosa capellatura è rimasto a traverso il congegno grande e delicato, ha fatto impedimento al cuore sonoro...

— Ma Ornitio?

— Ornitio raccoglie la testa sanguinante su l'acqua e s'invola verso il mare. Le rondini sentono la sua fuga e lo seguono. In pochi attimi si forma una nube nera e bianca di rondini dietro il fuggitivo. In Venezia e nelle isole tutti i nidi restano deserti, per la partenza intempestiva. L'Estate è senza voli. Settembre è senza i commiati che solevano farlo triste e lieto...

— E la testa di Dardi?

— Dove sia nessun lo sa! — concluse ridendo il favolatore. E tese di nuovo l'orecchio verso il canto aereo, in cui cominciava egli a distinguere un ritmo.

— Senti? — disse.

E fece ai vogatori cenno di arrestarsi. I remi rimasero alzati su le forcole. Così alto era il silenzio che, come s'udiva di lungi il canto, s'udiva da presso il gocciolìo delle pale.

Le xe le calandrine — avvertì Zorzi sommessamente — che, povarete, le canta anca lore le lode de San Francesco.

— Voga!

La gondola scivolò sul quieto latte.

— Vuoi, Fosca, che arriviamo fino a San Francesco? La donna stava a capo chino, pensierosa.

— V'è forse un senso nascosto nella tua invenzione — ella disse, dopo un intervallo. — Forse ho compreso.

— Ahimè, sì, v'è forse qualche somiglianzà tra la mia audacia e quella del Muranese. Credo che anch'io dovrei portare intorno al collo un filo di scarlatto, per ammonimento.

— Tu avrai la tua bella sorte. Non temo per te.

Egli cessò di ridere.

— Sì, amica mia, bisogna che io vinca. E tu mi aiuterai. Tutte le mattine ho anch'io una visita minacciosa: l'aspettazione di coloro che mi amano e di coloro che mi odiano, degli amici e dei nemici. All'aspettazione conviene l'abito del carnefice, perchè non v'è nulla di più spietato in terra.

— Ma è la misura della tua potenza.

Egli sentì il rostro del suo avvoltoio nel fegato. Istintivamente si sollevò, preso da un'impazienza cieca che lo fece soffrire pur della lentezza di quell'andare. — Perchè oziava egli? In ogni ora, in ogni attimo bisognava esperimentare, lottare, affermarsi, accrescersi, contro la distruzione la diminuzione la violazione il contagio. In ogni ora, in ogni attimo bisognava tener l'occhio fisso alla mira, convergere tutte le energie a quella, senza tregua, senza fallo. — Così il bisogno della gloria pareva sempre svegliare in fondo a lui un istinto belluino, un furore di lotta e di rappresaglia.

— Conosci tu questa parola del grande Eraclito? “L'arco ha per nome BIOS e per opera la morte.” Questa è una parola che, prima di comunicare agli spiriti il suo significato certo, li eccita. La udivo di continuo entro di me, quando ero seduto alla tua tavola, in quella notte d'autunno, nell'Epifania del Fuoco. Ebbi un'ora di vita veramente dionisiaca, un'ora di delirio chiuso ma terribile come se io contenessi la montagna incendiata dove urlano e si divincolano le Tìadi. Veramente mi pareva di udire, ora sì e ora no, clamori e canti e le grida di una strage lontana. E mi stupivo di rimanere immobile, e il senso della mia immobilità corporea aumentava la mia frenesia profonda. E non vedevo più nulla fuorché la tua figura che a un tratto era divenuta bellissima, e nella tua figura la forza di tutte le tue anime e, dietro, anche i paesi e le moltitudini. Ah, se potessi dirti come io ti vidi! Nel tumulto, mentre passavano imagini meravigliose accompagnate da nembi di musiche, ti parlavo come a traverso una battaglia, ti gittavo qualche richiamo che forse tu udivi, non per l'amore soltanto ma per la gloria, non per una sete sola ma per due seti; e non sapevo quale fosse la più ardente. E, come mi appariva la tua faccia, così allora m'appariva anche la faccia della mia opera. La vidi! Intendi? Con una incredibile celerità, nella parola nel canto nel gesto nella sinfonia la mia opera s'integrò e visse d'una tal vita che, se io riescissi a infonderne pur una parte nelle forme che voglio esprimere, veramente potrei infiammare di me il mondo.

Egli parlava contenendo la voce; e l'impeto soffocato delle sue parole aveva uno strano riflesso in quell'acqua calma, in quel bagliore bianco per ove si prolungava la cadenza dei due remi eguale.

— Esprimere! Ecco la necessità. La più alta visione non ha alcun valore se non è manifestata e condensata in forme viventi. E io ho tutto da creare. Io non verso la mia sostanza in impronte ereditate. La mia opera è d'invenzione totale. Io non debbo e non voglio obbedire se non al mio istinto e al genio della mia stirpe. E nondimeno, come Dardi vide in casa di Caterino Zeno il famoso organo, anch'io ho dinanzi al mio spirito un'altra opera, compiuta da un creatore formidabile, là, gigantesca, in mezzo agli uomini.

L'imagine del creatore barbarico gli riapparve: gli occhi cerulei brillarono sotto la fronte vasta, le labbra si serrarono sul robusto mento armate di sensualità, di superbia e di dispregio. Poi rivide i capelli bianchi, che il vento crudo agitava su quella nuca senile, sotto le larghe falde del feltro, e l'orecchio quasi livido dal lobo gonfio. Poi rivide il corpo immobile, abbandonato su le ginocchia della donna dal viso di neve e il lieve tremito che agitava uno dei piedi pendente. Ripensò quel suo brivido ineffabile di spavento e di gioia nel sentire all'improvviso sotto la sua mano ripalpitare il cuore sacro.

— Ah, non dinanzi ma intorno al mio spirito, dovevo dire. Talvolta è come un oceano in tempesta, che tenti di travolgermi e d'inghiottirmi. La mia Temòdia è una roccia di granito in alto mare, e io sono come un artefice che vi costruisca un puro tempio dorico tra la violenza dei flutti contro i quali egli debba difendere l'ordine delle sue colonne, teso il suo spirito incessantemente per non cessar mai di udire tra quel fragore l'intimo ritmo che solo regolerà gli intervalli delle sue linee e dei suoi spazii. Anche in questo senso la mia tragedia è un combattimento.

Egli rivide il palazzo patrizio quale eragli apparso nella prima alba d'ottobre, con le aquile con i corsieri con le anfore con le rose, chiuso e muto come un alto sepolcro mentre sul fastigio il cielo s'infiammava all'alito dell'aurora.

— In quell'alba, — egli soggiunse — dopo la notte di delirio, passando pel canale, lungo il muro di un orto, colsi certi fiori violetti negli interstizii del mattone e feci accostare la gondola al Palazzo Vendramin per gettarli dinanzi alla porta. L'offerta era troppo esigua, e io pensai agli allori ai mirti e ai cipressi. Ma in quel mio atto spontaneo si esprimeva la mia riconoscenza verso Colui che doveva imporre al mio spirito la necessità di essere eroico nel suo sforzo di liberazione e di creazione.

Acceso da un sùbito riso, egli si volse al rematore di poppa.

— Ti ricordi, Zorzi, di quella regata che corremmo una mattina per arrivare il bragozzo?

Altro che ricordarme! Che vogada! Go ancora i brazzi indolentrai! E quela sgnèsola de fame, paroncin, dove la metelo? Ogni volta che vedo el paron de la barca, el me domanda sempre de quel foresto che se ga slapà quel tantin de pagnota co' quel corbato de fighi e de ua... El dixe che no 'l se desmentegarà mai de quel zorno, perchè el ga fato la più bela pescada de la so vita. El ga tirà su dei sgombri come che no se ghe ne vede mai...

Il barcaiuolo non interruppe la sua ciarla se non quando s'accorse che il signore non l'ascoltava più e che conveniva tacere e anco trattenere il respiro.

— Odi il canto? — disse Stelio alla sua amica prendendole una mano dolcemente perchè si rammaricava di aver ravvivato quel ricordo che la faceva soffrire.

Ella disse, alzando il viso:

— Dov'è? È in cielo? È in terra?

Una melodia infinita si spandeva nella bianca pace. Ella disse:

— Come sale!

Ella sentì sussultare la mano del suo amico.

— Quando Alessandro giunge nella stanza luminosa dove la vergine ha letto la lamentazione di Antigone — disse egli, cogliendo nella sua conscienza un indizio del travaglio oscuro che si proseguiva in fondo al suo mistero — racconta d'aver cavalcato per la pianura d'Argo e d'aver attraversato l'Inaco, fiume di selci arse. Tutte le campagne sono coperte di piccoli fiori selvaggi che muoiono; e il canto delle allodole riempie tutto il cielo... Migliaia di allodole, una moltitudine senza numero... Egli racconta che una è caduta all'improvviso ai piedi del suo cavallo, pesante come una pietra, ed è rimasta là, muta, fulminata dalla sua ebrezza, per aver cantato con troppa gioia. Egli l'ha raccolta. “Eccola!” Tu allora tendi la mano verso di lui, la prendi, e mormori: “Oh, è tiepida ancora...” Mentre tu parli, la vergine trema. Tu la senti tremare...

La Tragica riebbe nelle radici dei capelli il gelo, come se di nuovo l'anima della cieca entrasse in lei.

— Alla fine del Preludio l'impeto delle progressioni cromatiche esprime questa gioia saliente, quest'ansietà d'allegrezza... Ascolta! Ascolta!... Ah, che meraviglia! Stamani, Fosca, stamani io lavoravo... La mia stessa melodia ora si sviluppa nel cielo... Non siamo nella grazia?

Uno spirito di vita correva per la solitudine, un'aspirazione veemente commoveva il silenzio. Sembrava che nelle linee immobili, negli orizzonti vani, nelle acque piane, nelle terre supine una volontà naturale di ascendere passasse come un risveglio o come l'annunzio di qualche gran ritorno. L'anima della donna vi si abbandonò tutta come una foglia a un turbine e fu rapita alle sommità dell'amore e della fede. Ma l'impazienza febrile dell'azione, la fretta di operare, il bisogno di sollecitare il compimento assalirono il giovine. La sua capacità di lavoro parve moltiplicarsi. Egli considerò la plenitudine delle sue ore a venire. Vide gli aspetti concreti della sua opera, la massa delle pagine, il volume delle partiture, la varietà della bisogna, la ricchezza delle materie atte a ricevere il ritmo. Vide nel modo medesimo il colle quirite, l'edifizio nascente, l'equilibrio delle pietre tagliate, gli operai intenti a murare, l'architetto vigilante e severo, la mole vaticana di contro al Teatro d'Apollo, la santa città sottoposta. Evocò sorridendo l'imagine del piccolo uomo che sosteneva l'impresa con una magnificenza papale; salutò la figura esangue e nasuta del principe romano che, non tralignando dal suo nome, con l'oro accumulato in secoli di rapina e di nepotismo inalzava un tempio armonioso alla rinascenza delle Arti che avevano illuminato di bellezza la vita forte dei suoi maggiori.

— Fra una settimana, Fosca, il mio Preludio sarà compiuto, se la grazia mi assiste. Vorrei sùbito provarlo nell'orchestra. Per questo andrò forse a Roma. Antimo della Bella è più impaziente di me. Ricevo una sua lettera quasi ogni mattina. Credo che la mia presenza a Roma per alcuni giorni sia necessaria anche a impedire qualche errore nella costruzione del Teatro. Antimo mi scrive che si discute su l'opportunità di abbattere la vecchia scalinata di pietra che dal giardino dei Corsini sale al Gianicolo! Non so se tu abbia nella memoria la faccia del luogo. La via che condurrà al Teatro, passando sotto l'Arco Settimiano, volge lungo il fianco del Palazzo Corsini, traversa il giardino e giunge a pie del colle. Il colle — l'hai nella memoria? — è tutto verde, coperto di piccoli prati, di canne, di cipressi, di platani, di lauri e di elci: ha un aspetto silvano e sacro, coronato di alti pini italici. V'è sul declivio una vera selva di elci, irrigata da correnti sotterranee. Tutto il colle è ricco d'acque vive. A sinistra torreggia la Fontana Paolina. Più sotto nereggia il Bosco Parrasio, l'antica sede degli Arcadi. Una scalinata di pietra, partita in due rami per una successione di larghe tazze traboccanti, ascende a un ripiano che mette a due viali di lauri veramente apollinei e degni di condurre gli uomini verso la Poesia. Chi potrebbe imaginare un ingresso più nobile? I secoli l'hanno ombrato di mistero. La pietra dei gradini, dei balaustri, delle tazze, delle statue gareggia d'asprezza con la scorza dei platani venerandi che per la vecchiaia si sono fatti cavi. Non s'ode se non canto di uccelli, scroscio di zampilli, mormorio di frondi. Ah, e io credo che i poeti e i semplici vi possano udire il palpito delle Amadriadi e il respiro di Pan...

Infaticabile il coro aereo saliva saliva, senza cedute, senza pause, empiendo di sé tutti gli spazii, pari all'immenso deserto, pari all'infinita luce. L'impetuosa melodia nel sonno delle lagune creava l'illusione di un'ansia concorde che si levasse dalle acque, dalle sabbie, dalle erbe, dai vapori, da tutte le cose naturali per seguir la salita. Tutte le cose, che eran parse inerti, ora avevano un respiro profondo, un'anima commossa, un desiderio di favellare.

— Ascolta! Ascolta!

E le imagini della Vita evocate dall'animatore, e gli antichi nomi delle energie immortali circolanti nell'Universo, e le aspirazioni degli uomini a trascendere il cerchio del loro supplizio cotidiano per placarsi nello splendore dell'Idea, e i voti e le speranze e gli ardimenti e gli sforzi, in quel luogo di oblio e di preghiera, al conspetto dell'isola umile dove lo Sposo della Povertà aveva lasciato le sue vestigia, furono immuni dall'ombra della Morte per la sola virtù di quella melodia.

— Non sembra l'allegrezza furente di un assalto?

Invano le ripe squallide, le pietre sgretolate, le radici putrefatte, le tracce delle opere distrutte, gli odori del dissolvimento, i cipressi funebri, le croci nere, invano ricordavano la parola medesima che lungo il fiume le statue avevano espressa con le loro labbra di pietra. Più forte di tutti i segni, solo quel canto di libertà e di vittoria toccava il cuore di colui che doveva creare con gioia. “Avanti! Avanti! In alto, sempre più in alto!”

E il cuore di Perdita, puro d'ogni viltà, disposto a ogni prova, secondando l'ascensione dell'inno si ripromise alla Vita. Come nella lontana ora del delirio notturno, la donna ripeteva: “Servire, servire! ”

Il naviglio entrava in un canale chiuso tra due ripe verdi, le quali giungevano alla linea dell'occhio così che vi si scorgevano gli innumerevoli calami dell'erba e vi si distinguevano i novelli dal tenero colore.

Laudato si, mi signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.

Dalla pienezza della sua anima la donna misurava l'amore del Poverello per le creature. Tanta era la sua abondanza ch'ella cercava per ovunque cose viventi da adorare; e il suo sguardo ridiveniva infantile, e tutte quelle cose vi si specchiavano come nella pace dell'acqua, e talune sembravano tornare dal suo più lontano passato per farsi riconoscere e le si presentavano in aspetto di apparizioni inattese.

Quando il legno toccò l'approdo, ella si meravigliò d'esser giunta.

— Vuoi discendere o vuoi che torniamo indietro? — le chiese Stelio riscotendosi.

Ella esitò da prima, perchè la sua mano era nella mano di lui e il distacco le incresceva come una diminuzione di dolcezza.

— Sì — rispose sorridendo — camminiamo un poco anche per quest'erba.

Sbarcarono nell'isola di San Francesco. Qualche cipressetto giovine li accolse timidamente. Nessun viso umano apparve. La miriade invisibile empiva della sua laude il deserto. Il vapore si lacerava, si agglomerava in nuvole, declinando il sole.

— Su quanta erba, è vero, Stelio?, abbiamo camminato!

Egli disse:

— Ma ora vien l'erta di macigno.

Ella disse:

— Venga l'erta, e sia dura.

Egli si meravigliò della letizia insolita ch'era in quell'accento. La guardò; vide nei belli occhi l'ebrezza.

— Perché — disse — ci sentiamo così lieti e liberi in quest'isola perduta?

— Lo sai tu?

— Questo è un pellegrinaggio triste, per gli altri. Chi viene qui, se ne torna col gusto della morte in bocca.

Ella disse:

— Noi siamo nella grazia.

Egli disse:

— Chi più spera, più vive.

Ed ella:

— Chi più ama, più spera.

Il ritmo del canto aereo non tralasciava di attrarre a sé le loro essenze ideali.

Egli disse.

— Come sei bella!

Un sùbito rossore inondò l'appassionato viso. Ella si soffermò, palpitando. Socchiuse le palpebre. Disse, con una voce soffocata:

— Passa una corrente calda. Non sentivi, su l'acqua, di tratto in tratto, un buffo di tepore?

Fiutò l'aria.

— C'è come un odore di fieno falciato. Lo senti?

— È l'odore dei banchi algosi che cominciano a scoprirsi.

— Guarda le belle campagne!

— Sono le Vignòle. E quello è il Lido. E quella è l'isola di Sant'Erasmo.

Il sole ora senza velo abbracciava l'estuario. L'umidità dei banchi emergenti simulava la vivezza dei fiori. L'ombre dei cipressetti si facevano più lunghe e più azzurre.

— Sono certa — ella disse — che in qualche luogo qui d'intorno fioriscono i mandorli. Andiamo su l'argine.

Ella scosse il capo indietro, con uno di quei suoi atti istintivi che parevano rompere un freno o liberarsi d'un ingombro.

— Aspetta!

E, traendo rapidamente i due lunghi spilli che fermavano il cappello, si scoprì il capo. Rifece i passi verso l'approdo, e gittò nella gondola la cosa scintillante. Tornò verso il suo amico, leggera, rialzando con le dita la massa delle sue ciocche ov'entrò l'aria e brillarono i raggi. Parve ch'ella godesse d'un gran sollievo, come se il suo respiro si fosse dilatato.

— Le ali soffrivano? — disse Stelio ridendo.

E guardò la piega rude, che non era fatta dal pettine ma dalla tempesta.

— Sì, anche un piccolo peso mi da fastidio. Se non temessi di parer singolare, andrei sempre a capo scoperto. Ma quando poi vedo gli alberi, non resisto più. I miei capelli si ricordano che son nati di specie selvatica e vogliono respirare a modo loro, nel deserto almeno...

Ella parlava franca e vivace, camminando su l'erba con una svelta ondulazione. E Stelio si ricordò di quel giorno che nel giardino Gradenigo ella eragli parsa rassomigliare al bel levriere fulvo.

— Oh, ecco un cappuccino!

Il frate guardiano veniva loro incontro salutando con affabilità. Egli s'offerse d'introdurre nel convento il visitatore, ma avvertì che la clausura impediva l'ingresso alla compagna.

— Entro? — disse Stelio guardando la sua amica che sorrideva.

— Sì, entra.

— E tu rimani sola?

— Rimango sola.

— Ti porterò una scheggia del pino santo.

Egli seguì il francescano sotto il piccolo portico dal soffitto di travi, dove pendevano i nidi vacui delle rondini. Prima di varcare la soglia, si volse a salutare l'amica. La porta si chiuse.

O BEATA SOLITVDO! O SOLA BEATITVDO!

Allora, come nell'organo un gioco istantaneo di registri muta i suoni, tutti i pensieri della donna a un tratto si trasfigurarono. L'orrore dell'assenza, il peggiore dei mali, apparve all'anima amante. Il suo amico non era più là: ella non udiva più la voce, non sentiva più il respiro, non toccava più la mano dolce e ferma. Ella non lo vedeva più vivere; non vedeva più l'aria la luce l'ombra, la vita del mondo, armonizzarsi con quella vita. “Se non tornasse più indietro, se quella porta non s'aprisse più!” Non poteva essere. Egli certo avrebbe rivarcata la soglia fra qualche minuto, ed ella lo avrebbe ricevuto nelle sue pupille e nel suo sangue. Ma così, ma così fra alcuni giorni egli doveva scomparire; e prima la pianura e poi la montagna e poi pianure e montagne e fiumi ancora e poi lo stretto e poi l'oceano, l'infinito spazio che non vincono le grida e i pianti, dovevano porsi tra lei e quella fronte quelle ciglia quelle labbra. L'imagine della città brutale, nera di carbone e irta di armature, occupò l'isola mite; il fragore dei magli, lo stridore degli argani, l'ansare delle macchine, l'immenso gemito del ferro, coprirono la melodia primaverile. E a ciascuna di quelle semplici cose, all'erba, alle sabbie, alle acque, alle alghe, a quella piuma soave che scendeva di lassù caduta forse da una piccola gola canora, si contrapposero le strade inondate dalle fiumane umane, le case dai mille occhi difformi piene di febbri nemiche del sonno, i teatri occupati dall'anelito o dallo stupore degli uomini che per un'ora allentavano le loro volontà protese ferocemente nella guerra dei lucri. Ed ella rivide la sua effigie e il suo nome su per le mura infette dalla lebbra degli affissi, su le tabelle portate in giro dai facchini inebetiti, su i ponti giganteschi delle fabbriche, su gli sportelli dei veicoli veloci, in alto, in basso, in ogni dove.

— Tieni! Guarda! Un ramo di mandorlo! Il mandorlo è fiorito nell'orto del convento, nel secondo chiostro, vicino alla grotta del pino santo. E tu lo sapevi!

Il suo amico accorreva, ilare come un fanciullo, seguito dal cappuccino sorridente che portava un mazzetto di timo.

— Tieni! Guarda che miracolo!

Ella prese il ramo tremando, e le lacrime le velarono la vista.

— Tu lo sapevi!

Egli scorse tra le ciglia il luccichio repentino, qualche cosa d'argenteo e di tenero, una umidità lucente e labile che assomigliò il bianco dell'orbe ai petali dei fiori. Di tutta la persona amante egli amò allora perdutamente i segni delicati che si partivano dall'angolo degli occhi verso le tempie, e le piccole vene oscure che rendevano le palpebre simili alle violette, e l'ondulazione delle gote, e il mento estenuato, e tutto quel che non poteva più rifiorire, tutta l'ombra su l'appassionato viso.

— Ah, padre, — disse ella con un'aria gaia contenendo la sua angoscia — non piangerà il Poverello di Cristo in paradiso per questo ramo schiantato?

Il padre sorrise con arguta indulgenza.

— Questo buon signore, — rispose — quando ha visto l'albero, non mi ha dato il tempo d'aprir bocca. Aveva già in mano il suo ramo, e io ho potuto dire soltanto Amen. Ma il mandorlo è ricco.

Era placido e affabile, con una corona di capelli ancor quasi tutti neri intorno alla tonsura, con un volto olivastro e fine, con due grandi occhi lionati che splendevano limpidi come topazii.

— Ecco il timo, che odora — soggiunse offrendo le erbucce. S'udiva un coro di voci giovenili che cantavano un Responsorio.

— Sono i novizii. Ne abbiamo quindici.

E accompagnò i visitatori al prato che si stendeva dietro il convento. Diritto su l'argine, a pie d'un cipresso fenduto dal fulmine, il francescano benigno mostrò col gesto le isole ubertose, magnifico la loro abondanza, numerò le specie dei frutti, lodò le più squisite nelle varie stagioni, additò le barche veleggianti verso Rialto con le verzure novelle.

Laudato sì, mi signore, per sora nostra matre terra! — disse la donna dal ramo fiorito.

Il francescano fu sensibile alla bellezza di quella voce feminile. Tacque.

Alti cipressi circondavano il prato pio; e quattro, i più vetusti, portavano il segno della folgore, dischiomati e senza midolle. Immobili erano le vette, sole forme salienti nella giacitura supina delle terre e delle acque che s'agguagliavano alla linea dell'orizzonte. Non la più lieve bava di vento corrugava l'infinito specchio. I fondi algosi trasparivano come chiari tesori; le canne palustri brillavano come verghe d'ambra; le sabbie emerse imitavano il cangiare della madreperla; il fango simulava la mollezza opalina delle meduse. Un incantamento profondo come un'estasi beava il deserto. La melodia delle creature alate continuava ancora nelle sedi invisibili, ma pareva che fosse per acquietarsi alfine nel silenzio santo.

— A quest'ora su i colli dell'Umbria — disse colui che aveva leso il mandorlo claustrale — ogni olivo ha al suo piede come una spoglia deposta il suo fascio di rami potati, e sembra più dolce perchè il fascio nasconde la fortezza delle radiche torte. San Francesco passa a mezz'aria e col suo dito calma il dolore nelle piaghe fatte dal ronchetto.

Il cappuccino si segnò, e prese commiato.

— Sia lodato Gesù Cristo!

Gli ospiti lo guardarono allontanarsi su le ombre gittate dai cipressi nel praticello.

— È in pace — disse la donna. — Non ti sembra, Stelio? Una gran pace era nel suo viso e nella sua voce. Guarda anche il suo passo.

Una banda di sole e una banda di ombra alternamente toccavano la tonsura e la tonaca.

— M'ha dato una scheggia del pino — disse Stelio. — La manderò a Sofia che è divota del Serafico. Eccola. Non ha più l'odore della resina. Senti.

Per Sofia ella baciò la reliquia. Le labbra della buona sorella si sarebbero posate là dove s'erano posate le sue.

— Mandala.

Camminarono per un tratto in silenzio, a capo chino, su le tracce dell'uomo pacificato, nell'ordine dei cipressi carichi di coccole, andando verso l'approdo.

— Non desideri di rivederla? — domandò con un tremito di timidezza la Foscarina al suo amico.

— Sì, molto.

— E tua madre...

— Sì; il cuore mi va a lei che m'aspetta ogni giorno.

— E non vorrai tornare?

— Sì, tornerò, forse.

— Quando?

— Non so ancóra. Ma desidero di rivedere mia madre e Sofia. Molto lo desidero, Foscarina.

— E perchè non vai? Che cosa ti trattiene?

Egli le prese la mano ch'ella teneva abbandonata lungo il fianco. Seguitarono così il loro cammino. Come il sole obliquo li illuminava su la destra gota, essi vedevano procedere a paro per l'erba le loro ombre congiunte.

— Quando ti figuravi dianzi i colli umbri, — disse la donna — forse pensavi ai colli del tuo paese. Quell'imagine degli olivi potati non era una cosa nuova per me. Mi ricordo che un giorno mi parlasti della potatura... In nessun'altra opera l'uomo della gleba ha più profondo il senso della vita muta che è nell'albero. Quando egli è là dinanzi al pero o al melo o al pesco col pennato o con la forbice che deve crescere le forze e può cagionare la morte, da tutta la sua saggezza, acquistata nei suoi colloquii con la terra e col cielo, sorge lo spirito geniale della divinazione. L'albero è nella sua ora più delicata, quando la sua sensibilità si risveglia affluendo nelle gemme che si gonfiano e sembrano vicine ad aprirsi. L'uomo col suo ferro crudo deve regolare l'equilibrio nel movimento misterioso della linfa! L'albero è là, ancora intatto, ignaro d'Esiodo e di Vergilio, in travaglio pel suo fiore e pel suo frutto; e ogni ramo nell'aria è vivo come l'arteria nel braccio del potatore. Su quale cadrà il taglio? La linfa guarirà la piaga?... Così tu mi parlavi un giorno del tuo frutteto. Mi ricordo. Tu mi dicesti che tutte le ferite dovevano esser volte a settentrione perchè non le vedesse il sole..

Ella parlava come in quella lontana sera di novembre quando il giovine le era giunto anelando a traverso il gran vento, dopo aver trasportato l'eroe.

Egli sorrise. E si lasciava trarre dalla cara mano. E sentiva l'odore del ramo fiorito, simile all'odore d'un latte amarognolo.

— È vero — disse. — E Láimo che preparava l'unguento di San Fiacre rimestando nella pila, e Sofia che gli portava la tela forte per fasciare le piaghe più larghe, dopo la medicatura...

Egli rivedeva il colono in ginocchio, che rimestava nella pila di pietra stereo bovino argilla e loppa d'orzo con le regole della sapienza antica.

— Ma fra dieci giorni — soggiunse — tutta la collina vista dal mare sarà come una nuvola fresca e rosata. Sofia m'ha scritto per ricordarmelo... Non t'è più riapparsa?

— Ora è con noi.

— Ora ella s'affaccia alla finestra e guarda il mare che s'imporpora, e la madre è con lei al davanzale, ed ella dice: “Chi sa che Stelio non sia in quel veliere che ora panneggia dinanzi alla foce aspettando il vento! M'ha promesso di tornare all'improvviso per la via del mare, sopra una goletta.” E il cuore le duole.

— Ah, perchè tu la deludi?

— Sì, è vero, Fosca. Posso vivere lontano per mesi e mesi e sentire che la mia vita è piena. Ma, ecco, giunge un'ora in cui nulla al mondo mi pare più dolce di quegli occhi; e v'è una parte di me che resta inconsolabile. Ho udito i marinai del Tirreno chiamare l'Adriatico il Golfo di Venezia. Questa sera penso che la mia casa è sul Golfo e mi sembra più vicina.

Erano all'approdo. Si volsero indietro a riguardare l'isola della preghiera che alzava i suoi cipressi imploranti.

— Laggiù è il canale dei Tre Porti, che va al mare libero! — disse il nostalgico che vedeva sé stesso sul ponte della goletta in vista delle sue tamerici e delle sue mortelle.

S'imbarcarono. Tacquero per un gran tratto. La melodia intanto discendeva su l'arcipelago lene. Come la luce del cielo impregnava di sé le acque, così il canto del cielo si posava su le terre. Ma Burano e Torcello apparivano incontro al fulgore occiduo come due galeoni arenati. Ma le nuvole si disponevano in falange, laggiù, verso le Dolomiti.

— Ora che il disegno dell'opera è compiuto, tu non hai bisogno se non di pace pel tuo lavoro — disse la donna continuando pianamente la persuasione, mentre le tremava l'anima nel petto. — Non hai sempre lavorato laggiù, nella tua casa? In nessun altro luogo tu potrai placare l'ansietà che ti soffoca. Io lo so.

Egli disse:

— È vero. Quando il furore della gloria ci prende, noi crediamo che la conquista dell'arte somigli all'assedio d'una città turrita e che gli squilli e i clamori accompagnino il coraggio nell'assalto; mentre non vale se non l'opera che cresce nel silenzio austero, non vale se non la pertinacia lenta e indomabile, non vale se non la solitudine dura e pura, non vale se non la dedizione intera dello spirito e della carne all'Idea che noi vogliamo far vivere in mezzo agli uomini per sempre come una forza dominatrice.

— Ah, tu lo sai!

Gli occhi della donna si empirono di lacrime, a quelle parole sorde in cui ella sentì la profondità della passione virile, il bisogno eroico della dominazione morale, il proposito fermo di sorpassar sé medesimo e di sforzare senza tregua il suo destino.

— Tu lo sai!

Ed ella ebbe il brivido che dànno gli spettacoli fieri; e, dinanzi a quella volontà animosa, tutto il resto le sembrò vano; e le altre lacrime, che le avevano velato la vista all'offerta dei fiori, le parvero feminee e vili al paragone di quelle che ora le salivano ai cigli e che sole erano degne d'esser bevute dal suo amico.

— Ebbene va al tuo mare, alla tua terra, alla tua casa! Riaccendi la tua lampada con l'olio dei tuoi olivi!

Egli aveva le labbra serrate e un solco tra ciglio e ciglio.

— La buona sorella verrà ancora a mettere un filo d'erba su la pagina difficile.

Ella chinò la fronte aggravata da un pensiero.

— Tu ti riposerai parlando con Sofia alla finestra, e vedrete forse ripassare le mandre in viaggio per la montagna dalla pianura.

Il sole stava per toccare la gigantesca acropoli delle Dolomiti. La falange delle nuvole si scompigliava come se combattesse, trapassata da innumerevoli dardi splendenti, e si copriva d'un sangue meraviglioso. Le acque allargavano l'immensa battaglia combattuta intorno alle torri inespugnabili. La melodia s'era disciolta nell'ombra delle isole già discoste. Tutto l'estuario s'ammantava d'una magnificenza cupa e guerriera come se una miriade di vessilli vi s'inclinasse. E il silenzio non attendeva se non un clamore di trombe imperiali.

Egli disse, piano, dopo una lunga pausa:

— E se ella m'interroga sul fato della vergine che legge la lamentazione di Antigone?

La donna trasalì.

— E se ella m'interroga su l'amore del fratello che fruga i sepolcri?

La donna ebbe paura del fantasma.

— E se la pagina ov'ella posa il filo d'erba è quella in cui l'anima tremante racconta la sua lotta disperata e nascosta contro l'orribile male?

La donna non trovò parole nel suo sgomento improvviso. Entrambi tacquero; e fissarono le punte aguzze della catena lontana che fiammeggiavano come se allora fossero uscite dal fuoco primordiale. Lo spettacolo di quella grandezza deserta ed eterna moveva nei due spiriti un sentimento di misteriose fatalità e quasi un terrore indistinto ch'essi non sapevano né vincere né scrutare. Venezia era oscurata da quella massa di porfidi roventi: giaceva su le acque tutt'avvolta in un velario violaceo ond'emergevano i suoi steli marmorei lavorati dagli uomini per custodirvi i bronzi che danno il segno delle preghiere consuete. Ma le opere e le preghiere consuete degli uomini, ma l'antica città stanca d'aver troppo vissuto, ma i marmi disgiunti e i bronzi consunti, ma tutte quelle cose oppresse dal peso delle memorie e periture s'umiliavano al paragone della tremenda Alpe affocata che lacerava il cielo con le sue mille punte inflessibili, città enorme e sola, forse in attesa d'un giovine popolo di Titani.

Dopo il lungo silenzio, Stelio Èffrena chiese alla donna subitamente:

— E tu?

Ella non rispose.

Le campane di San Marco diedero il segno della Salutazione angelica; e il rombo possente si dilatò in lunghe onde su la laguna ancor sanguigna ch'essi lasciavano in signoria dell'ombra e della morte. Da San Giorgio Maggiore, da San Giorgio dei Greci, da San Giorgio degli Schiavoni, da San Giovanni in Bragora, da San Moisé, dalla Salute, dal Redentore e via via, per tutto il dominio dell'Evangelista, dalle estreme torri della Madonna dell'Orto, di San Giobbe, di Sant'Andrea le voci di bronzo risposero, si confusero in un solo massimo coro, distesero sul muto adunamento delle pietre e delle acque una sola massima cupola d'invisibile metallo che parve comunicare nelle sue vibrazioni con lo scintillio delle prime stelle.

Rabbrividirono entrambi quando la gondola entrò nell'umidità del rio oscuro passando di sotto al ponte che guardava l'isola di San Michele, passando rasente le peate nere che marcivano lungo i muri corrosi. Dai campanili prossimi, da San Lazzaro, da San Canciano, da San Giovanni e Paolo, da Santa Maria dei Miracoli, da Santa Maria del Pianto altre voci risposero; e il rombo su le loro teste era così forte ch'essi credevano sentirlo nelle radici dei capelli come un brivido della carne loro.

— Daniele, sei tu?

Parve a Stelio di riconoscere presso la porta della sua casa, su la Fondamenta Sanudo, la figura di Daniele Glàuro.

— Ah, Stelio, t'aspettavo! — gli gridò nel turbine dei suoni la voce affannosa. — Riccardo Wagner è morto!

Il mondo parve diminuito di valore.

La donna nomade si riarmò del suo coraggio e preparò il suo viatico. Dall'eroe che giaceva su la bara veniva ai cuori nobili un alto incitamento. Ella seppe riceverlo e convertirlo in atti e in pensieri di vita.

Ora accadde che il suo amico sopraggiungesse mentre ella raccoglieva i libri familiari, le piccole cose dilette da cui non voleva mai separarsi, le imagini che avevano per lei un potere di sogno o di consolazione.

— Che fai? — le domandò egli.

— Mi preparo a partire.

Ella vide il volto di lui alterarsi, ma non vacillò.

— Dove vai?

— Lontano. Traverso l'Atlantico.

Egli si fece un poco pallido. Ma subito dubitò; pensò ch'ella non dicesse il vero, ch'ella volesse soltanto provarlo, o che quella risoluzione non fosse ferma e ch'ella aspettasse d'esser trattenuta. L'inattesa delusione su la riva di Murano gli aveva lasciata nel cuore la sua traccia.

— Ti sei risoluta, così, all'improvviso? Ella fu semplice, sicura e pronta.

— Non all'improvviso — rispose. — Il mio ozio dura da troppo tempo, e ho sopra di me il peso di tutta la mia gente. Aspettando che il Teatro d'Apollo sia aperto e che La Vittoria dell'Uomo sia compiuta, vado a prendere commiato dai Barbari. Lavorerò per la bella impresa. A rifare i tesori di Micene, ci vorrà molto oro! E bisogna che tutto abbia un aspetto insolito di magnificenza intorno alla tua opera. Voglio che la maschera di Cassandra non sia di materia vile... E voglio, specialmente, avere il modo di appagare il tuo desiderio: che per i primi tre giorni il popolo abbia libero ingresso nel Teatro e l'abbia poi costantemente per un giorno in ogni settimana. Questa fede mi aiuta ad allontanarmi da te. Il tempo vola. È necessario che ciascuno si trovi pronto al suo posto, e con tutte le forze, venuta l'ora. Io non mancherò. Spero che tu sarai contento della tua amica. Vado a lavorare; e, certo, questo è un poco più difficile che le altre volte, per me. Ma tu, ma tu, povero figliuolo mio, che peso porti! Che sforzo ti domandiamo noi! Che grande cosa aspettiamo da te! Ah, tu lo sai...

Ella aveva cominciato animosamente, con un tono che talvolta pareva quasi lieto, cercando di apparire quel che sopra tutto ella doveva essere: un buono e fedele istrumento al servigio di una potenza geniale, una compagna virile e volenterosa. Ma qualche onda della commozione repressa, sfuggendo, le saliva alla gola e passava nella voce. Le sue pause divenivano più lunghe, e incerte le sue mani che vagavano tra i libri e le reliquie.

— Che tutto, sempre, sia propizio al tuo lavoro! Questo solo importa; e il resto è nulla. In alto i cuori!

Ella scosse indietro la fronte con le due ali selvagge, e tese al suo amico ambo le mani. Egli le strinse, pallido e grave. Nei cari occhi di lei, che furono come un'acqua pullulante, vide passare quello stesso baleno di bellezza che lo aveva abbagliato una sera nella stanza dove ruggivano i tizzi e si svolgevano le due grandi melodie.

— Ti amo e credo in te — disse. — Io non ti mancherò e tu non mi mancherai. Nasce da noi qualche cosa che sarà più forte della vita.

Ella disse:

— Una malinconia.

Dinanzi a lei, su la tavola, erano i libri familiari con le pagine dal lembo piegato, dal margine segnato, con qualche foglia, con qualche fiore, con qualche filo d'erba tra l'una e l'altra, con le riconoscenze del dolore che aveva chiesto ed ottenuto conforti di lume o di oblio. Dinanzi a lei erano le piccole cose dilette, strane, diverse, quasi tutte prive di pregio: il piede d'una bambola, un cuore d'argento ex-voto, una bussoletta d'avorio, un orologio senza quadrante, un lanternino di ferro, un orecchino scompagnato, una pietra focaia, una chiave, un suggello, altre minuzie: ma tutte consacrate da una memoria pia, animate da una credenza superstiziosa, toccate dal dito dell'amore o della morte, reliquie che parlavano a un'anima sola e le parlavano di tenerezza e di crudeltà, di guerra e di tregua, di speranza e di abbattimento. Dinanzi a lei erano le imagini che incitavano il pensiero e disponevano alla meditazione, figure a cui gli artefici avevano affidata una confessione segreta, intrichi di segni in cui essi avevano chiuso un enigma, linee semplici che davano pace come la vista di un orizzonte, allegorie arcane ond'era velata qualche verità che come il sole non potevano fissare gli occhi mortali.

— Guarda — ella disse al suo amico, additandogli un'antica stampa. — La conosci bene.

La conoscevano bene entrambi; ma si chinarono insieme a riguardarla, e pareva nuova come una musica che a chi l'interroghi risponde sempre una cosa diversa. Era di mano d'Alberto Duro.

Il grande Angelo terrestre dalle ali d'aquila, lo Spirito senza sonno, coronato di pazienza, stava seduto su la pietra nuda, con il cubito poggiato al ginocchio, con la gota sorretta dal pugno, tenendo su l'altra coscia un libro e le seste nell'altra mano. Ai suoi piedi giaceva, raccolto in giro come un serpente, il levriere fedele, il cane che primo nell'alba dei tempi cacciò in compagnia dell'uomo. Al suo fianco, quasi appollaiato sul taglio di una macina come un uccello, dormiva il fanciullo già triste tenendo lo stilo e la tavoletta in cui doveva scrivere la prima parola della sua scienza. E intorno erano sparsi gli strumenti delle opere umane; e sul capo vigile, presso l'apice di un'ala, scorreva nella duplice ampolla la sabbia silenziosa del Tempo; e scorgevasi in fondo il Mare con i suoi golfi con i suoi porti con i suoi fari calmo e indomabile, su cui, tramontando il Sole nella gloria dell'arcobaleno, volava il vipistrello vespertino recando inscritta nelle sue membrane la parola rivelatrice. E quei porti e quei fari e quelle città, li aveva costrutti lo Spirito senza sonno, coronato di pazienza. Egli aveva tagliato la pietra per le torri, abbattuto il pino per i navigli, temprato il ferro per ogni lotta. Egli stesso aveva imposto al Tempo il congegno che lo misura. Assiso, non per riposarsi ma per meditare un altro lavoro, egli fissava la Vita con i suoi occhi forti ove splendeva l'anima libera. Da tutte le forme intorno a lui saliva il silenzio, tranne da una. Sola s'udiva la voce del fuoco ruggente, nel fornello, sotto il crogiuolo ove dalla materia sublimata doveva generarsi qualche virtù nuova per vincere un male o per conoscere una legge. E il grande Angelo terrestre dalle ali d'aquila, al cui fianco fasciato d'acciaio pendevano le chiavi che aprono e chiudono, così rispondeva a coloro che l'interrogavano: “Il sole tramonta. La luce, che nasce dal cielo, muore nel cielo; e un giorno ignora la luce di un altro giorno. Ma la notte è una; e la sua ombra sta su tutti i volti e la sua cecità su tutti gli occhi, tranne sul volto e su gli occhi di colui che tiene acceso il suo fuoco per illuminare la sua forza. Io so che il vivo è come il morto, il desto è come il dormiente, il giovine è come il vecchio, poichè la mutazione dell'uno dà l'altro; e ogni mutazione ha il dolore e la gioia per compagni eguali. Io so che l'armonia dell'Universo è fatta di discordie, come nella lira e nell'arco. So che io sono e non sono; e che uno stesso è il cammino, in basso e in alto. So gli odori della putredine e le infezioni innumerevoli che sono congiunte alla natura umana. Tuttavia, di là dal mio sapere, séguito a compiere la mie opere palesi o segrete. Ne veggo talune perire mentre io ancora duro; ne veggo altre che sembrano dover durare eternamente belle e immuni da ogni miseria, non più mie, se bene nate dai miei mali più profondi. Veggo dinanzi al fuoco mutarsi tutte le cose, come i beni dinanzi all'oro. Una sola è costante: il mio coraggio. Non m'assido se non per rialzarmi. ”

Il giovine mise il suo braccio intorno alla cintura della sua amica. E andarono così verso la finestra, senza parlare.

Videro i cieli lontanissimi, gli alberi, le cupole, le torri, la laguna estrema su cui s'inclinava la faccia del crepuscolo, i Colli Euganei ceruli e quieti come le ali ripiegate della terra nel riposo della sera.

Si volsero, l'uno verso l'altra; e si guardarono nella profondità degli occhi.

Poi si baciarono, come per suggellare un patto silenzioso.

Il mondo pareva diminuito di valore.

Stelio Èffrena domandò alla vedova di Riccardo Wagner che ai due giovani Italiani i quali avevano trasportato una sera di novembre dal battello alla riva l'eroe svenuto, e a quattro loro compagni, fosse concesso l'onore di trasportare il feretro dalla stanza mortuaria alla barca e dalla barca al carro. Tanto fu concesso.

Era il 16 febbraio: era un'ora dopo il mezzogiorno. Stelio Èffrena, Daniele Glàuro, Francesco de Lizo, Baldassare Stampa, Fabio Molza e Antimo della Bella attendevano nell'atrio del palazzo. L'ultimo era giunto da Roma avendo ottenuto di condurre seco due artieri, addetti all'opera del Teatro d'Apollo, perchè portassero al funerale i fasci dei lauri còlti sul Gianicolo.

Attendevano senza parlare e senza guardarsi, ciascuno essendo vinto dal palpito del suo proprio cuore. Non s'udiva se non uno sciacquìo fievole su i gradini di quella grande porta che nelle candelabre degli stipiti recava scolpite le due parole: DOMUS PACIS.

L'uomo del remo, che era stato caro all'eroe, discese a chiamarli. Egli aveva gli occhi bruciati dalle lacrime sul viso maschio e fedele.

Stelio Èffrena andò innanzi; i compagni lo seguirono. Salita la scala, entrarono in una stanza bassa e poco illuminata ov'era un odore triste di balsami e di fiori. Attesero alcuni istanti. L'altra porta s'aprì. Entrarono a uno a uno nella stanza attigua. Tutti divennero pallidi, a uno a uno.

Il cadavere era là, chiuso nella cassa di cristallo; e accanto, in piedi, era la donna dal viso di neve. La seconda cassa, di metallo forbito, brillava sul pavimento aperta.

I sei portatori si disposero innanzi alla salma, aspettando un cenno. Altissimo era il silenzio, ed essi non battevano palpebra; ma un dolore impetuoso investiva le loro anime come una raffica e le squassava fin nelle radici profonde.

Tutti erano fissi all'eletto della Vita e della Morte. Un infinito sorriso illuminava la faccia dell'eroe prosteso: infinito e distante come l'iride dei ghiacciai, come il bagliore dei mari, come l'alone degli astri. Gli occhi non potevano sostenerlo; ma i cuori, con una meraviglia e con uno spavento che li faceva religiosi, credettero di ricevere la rivelazione di un segreto divino.

La donna dal viso di neve tentò un lieve gesto, rimanendo rigida nella sua attitudine come un simulacro.

Allora i sei compagni si mossero verso la salma; tesero le braccia, raccolsero il vigore. Stelio Èffrena ebbe il suo posto a capo e Daniele Glàuro l'ebbe a piede, come quel giorno. Sollevarono il peso concordi, a una voce sommessa del conduttore. Tutti ebbero negli occhi un barbaglio, come se a un tratto una zona di sole traversasse il cristallo. Baldassare Stampa ruppe in singhiozzi. Uno stesso nodo serrò tutte le gole. La cassa ondeggiò; poi calò; entrò nell'involucro di metallo come in un'armatura.

I sei compagni rimasero prostrati intorno. Esitarono, prima d'abbassare il coperchio, affascinati dall'infinito sorriso. Udendo un fruscio leggero, Stelio Èffrena alzò gli occhi: vide la faccia di neve inclinata sul cadavere, apparizione sovrumana dell'amore e del dolore. L'attimo fu eguale all'eternità. La donna scomparve.

Abbassato il coperchio, essi risollevarono il peso cresciuto. Lo trasportarono fuori della stanza, poi giù per la scala, con lentezza. Rapiti da un'angoscia sublime, nel metallo del feretro vedevano riflettersi i loro volti fraterni.

La barca funebre attendeva dinanzi alla porta. Su la cassa fu distesa la coltre. I sei compagni attesero a capo scoperto che la famiglia discendesse. Discese, insieme stretta. La vedova passò velata; ma lo splendore della sua sembianza era nella memoria dei testimoni per sempre.

Il corteo fu breve. La barca mortuaria andava innanzi; seguiva la vedova con i cari; poi seguiva il drappello giovenile. Il cielo era ingombro su la grande via d'acqua e di pietra. L'alto silenzio era degno di Colui che aveva trasformato in infinito canto per la religione degli uomini le forze dell'Universo.

Una torma di colombe, partendosi dai marmi degli Scalzi con un fremito balenante, volò sopra la bara a traverso il canale e inghirlandò la cupola verde di San Simeone.

All'approdo uno stuolo taciturno di devoti attendeva. Le larghe corone odoravano nell'aria cineree. S'udiva l'acqua sbattere sotto le prue ricurve.

I sei compagni tolsero il feretro dalla barca e lo portarono a spalla nel carro che era pronto su la via ferrata. I devoti appressandosi deposero le loro corone su la coltre. Nessuno parlava.

Allora s'avanzarono i due artieri con i loro fasci di lauri colti sul Gianicolo.

Membruti e possenti, eletti tra i più forti e tra i più belli, parevano foggiati nell'antica impronta della stirpe romana. Erano gravi e tranquilli, con la libertà selvaggia dell'Agro nei loro occhi venati di sangue. I loro lineamenti risentiti, la fronte bassa, la chioma corta e crespa, le mascelle salde, il collo taurino, ricordavano i profili consolari. La loro attitudine scevra d'ogni ossequio servile li faceva degni del carico.

I sei compagni a gara, divenuti eguali nel fervore, prendendo i rami dai fasci li sparsero sul feretro dell'eroe.

Nobilissimi erano quei lauri latini, recisi nella selva del colle dove in tempi remoti scendevano le aquile a portare i presagi, dove in tempi recenti e pur favolosi tanto fiume di sangue versarono per la bellezza d'Italia i legionarii del Liberatore. Avevano i rami diritti robusti bruni, le foglie dure, fortemente innervate, con i margini aspri, verdi come il bronzo delle fontane, ricche d'un aroma trionfale.

E viaggiarono verso la collina bàvara ancóra sopita nel gelo; mentre i tronchi insigni mettevano già i nuovi germogli nella luce di Roma, al romorìo delle sorgenti nascoste.

* Settignano di Desiderio:

li XIII di febbraio MDCCCC.

II. LA VITTORIA DELL'UOMO. III. TRIONFO DELLA VITA.