I Misteri Delle Soffitte : edizion ELTeC Invernizio, Carolina (1851-1916) Editor Ciotti, Fabio 89608 COST Action "Distant Reading for European Literary History" (CA16204) Zenodo.org Liber Liber I Misteri delle Soffitte Invernizio,Carolina editor Adriano,Salani Salani Firenze 1930 Torino, Gazzetta del Popolo, 1901

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Carolina Invernizio

I Misteri delle Soffitte.

Romanzo.

Firenze

Adriano Salani, Editore

Viale dei Mille

PARTE PRIMA Dramma.
I.

Era la notte del giovedì grasso. Nessuno si ricordava di un inverno mite come quello, e il carnevale aveva uno sfogo inusitato.

I ricchi se la spassavano nei palazzi; il popolo nelle osterie, sotto i portici, alla fiera, ai balli pubblici.

I veglioni erano affollati e, come il solito, più di tutti si mostrava animato quello dello Scribe.

Fra le maschere che avevano fatto il loro ingresso colà dopo la mezzanotte, vi era un domino femminile elegantissimo, troppo elegante, che stonava in quell'ambiente volgare.

Veniva forse in cerca di un'avventura galante? Aveva un appuntamento?

Una folla di studenti le fece cerchio.

- Cerchi me, bella principessa? - gridò uno di essi, un giovane allampanato, giallo come un limone. - Io sono disposto a darti tutto il mio cuore.

- Va' là, poeta da quattro soldi! La bella è in cerca di un Trovatore dei tempi antichi, che sappia difenderla dagli audaci, piegare il ginocchio dinanzi a lei, e forse gli mostrerà appena la punta del suo bel nasino. -

Il domino, che fissava i suoi occhi grigi su quel gruppo di giovani e pareva studiasse la fisionomia di ognuno, disse con voce armoniosa:

- Hai indovinato, mio caro, ed ecco su chi faccio cadere la mia scelta. -

E posò la mano inguantata sulla spalla di un bel giovane dal volto leale, con occhi nerissimi e capelli biondi.

Scoppiò un evviva assordante, e per qualche minuto attorno alla coppia venne eseguita una danza folle, sfrenata,

Poi ognuno si sbandò per proprio conto, gridando:

- Buona fortuna, Aldo! -

Ma il giovane non pareva soddisfatto di quell'inattesa avventura galante. Tuttavia, volgendosi alla sua compagna, le chiese con accento gentile, dandole del voi:

- Dove debbo condurvi, signora?

- Fatemi fare un giro per il teatro, - rispose la maschera - poi conducetemi a casa vostra. -

Lo studente sussultò.

- A casa mia? - ripetè, come se non prestasse fede ai suoi orecchi.

- Sì. Che ci trovate di strano? Non avete una casa, voi? Vivete forse in famiglia? -

Aldo si era già rimesso.

- No, - rispose - vivo solo. Ma sono povero, ed abito in una soffitta.

- Che m'importa? -

Aldo rivolse al domino uno sguardo, tra il diffidente ed il corrucciato.

Ma l'ammirazione che destava nel pubblico la sua elegante compagna, finì col lusingare il suo amor proprio.

Egli pensava:

- Costei dev'essere molto bella, e sarei un pazzo se me la lasciassi sfuggire. Forse è una gran signora, che in questa notte di carnevale vuol soddisfare un morboso capriccio. Contentiamola; io nulla ci perdo; anzi, ho tutto da guadagnare in quest'avventura! -

Prima di uscire dal teatro, Aldo passò nella guardaroba a prendere il suo soprabito.

Aldo abitava sul corso San Maurizio.

Egli e la sua compagna salirono le scale umide e sporche. Confusi rumori turbavano la sconosciuta. Erano pianti di bambini, bestemmie di uomini, grida soffocate di donne.

- Che casa è mai questa? - chiese ella.

- È una specie di alveare. - rispose Aldo - nè può garbare a voi, avvezza forse ad una palazzina quieta, senza inquilini. In questa casa abitano molte famiglie, quasi tutte composte di onesti operai, che lavorano dall'alba alla sera, e solo alle feste alzano un po' il gomito e fanno chiasso. Però vi è di buono che nessuno si occupa dei fatti altrui, ognuno vive a sè, ed io mi trovo benissimo. -

Avevano già salito cinque piani e si avviavano verso la stretta scala che conduceva alle soffitte.

Il corridoio a destra e a sinistra sembrava interminabile.

Aldo volse a sinistra, e dopo pochi passi sì trovò, a faccia a faccia con un uomo vestito da pierrot, col volto infarinato. Costui si trasse da un lato senza dire parola, e lo studente strinse il braccio della sua compagna, come per dirle che non aveva nulla da temere.

Erano giunti dinanzi all'uscio della soffitta di Aldo. Egli accese un cerino, aprì con una chiave inglese e fece passare il domino. Quando, entrato egli pure, si voltò per chiudere, vide il pierrot quasi vicino all'uscio; ma, Aldo non parlò, per non spaventare la compagna, e chiusa la porta, tirò il catenaccio.

Fatto ciò, accese un lume che era sul tavolino, indi si volse alla sconosciuta.

Costei si era seduta sopra un divano e si guardava intorno con sorpresa.

Tutto era modesto, di una pulitezza eccezionale. Le due finestre avevano cortine bianchissime, come la coperta del letto. Sul tavolino stavano i libri ben allineati; l'armadio aveva i battenti lucidi come specchi; un paravento cinese nascondeva il lavabo; la stufa di maiolica rendeva un delizioso tepore.

- Siete alloggiato come un principe! - disse la sconosciuta.

Aldo sorrise.

- Io stesso - rispose - tengo in ordine la mia roba, rifaccio il letto, spazzo, pulisco dappertutto ogni giorno per conservare bene questi quattro mobili che mia madre ha comperati con molti sacrifizi. Perchè io sono povero, signora, e non lo nascondo. Ma voi non siete venuta qui per sentire la mia storia. Perdonatemi. -

Sedette accanto a lei, e con voce sommessa:

- Perchè non vi levate la maschera? - disse.

Ella mormorò:

- Lasciatemi, signore, ve ne supplico! -

Poi si piegò, svenuta.

Aldo ne fu spaventato. Per farle riavere il respiro, le tolse la maschera dal viso, e mandò un grido d'ammirazione. Com'era bella!

A un tratto la sconosciuta aprì gli occhi, due occhi grigi ornati di lunghe ciglia nere, e disse con l'accento della più sincera disperazione:

- Mio Dio, che cosa ho fatto? Perchè sono venuta qui? -

Aldo, stupito, rispose:

- Ci siete venuta di vostra volontà, signora. Ma io credo di avervi usato tutto il rispetto che meritate.

- No, non lo merito; ma voi siete buono, signore, e lo sarete ancora. Ah! la mia scelta è caduta bene, altrimenti sarei stata perduta per sempre! -

Si passò una manina sulla fronte e con voce interrotta:

- Se sapeste!... - proseguì. - Stasera ero come pazza: ho scoperto un tradimento che spezza tutta la mia vita di amore, di devozione, di fedeltà, e volendo calpestare l'onore di colui che mi tradisce, mi sono recata al veglione dello Scribe. Era mia intenzione di darmi al primo uomo che mi fosse piaciuto, qualunque fosse, per poter gridare oggi all'altro:

«- Anch'io ho avuto un amante! -

«Ma all'uscire con voi dal teatro ero già esaurita dallo sforzo fatto; poi, nell'entrar qui, ho avuto vergogna di me ed ho perduto i sensi. -

La giovane scoppiò in lacrime, nascondendo il bel volto sul divano.

Aldo, commosso, le rivolse parole di conforto.

La sconosciuta si era a poco a poco calmata; ella rialzò la testa, stese le mani al giovane, che le strinse fra le sue con viva simpatia.

In quel momento un grido acuto, terribile, un grido di morte risvegliò tutti gli echi del casamento e fece balzare in piedi Aldo e la sua compagna.

Al tempo stesso si udì uno sbattere di uscì, voci che chiamavano aiuto, altre che gridavano:

- All'assassino! -

Aldo si slanciò fuori e la sconosciuta lo seguì con la lucerna accesa.

E fu bene. A quel chiarore, lo studente vide il pierrot che gli passava dinanzi come una freccia, dirigendosi verso il pianerottolo per raggiungere la scala.

E dietro a quegli una voce ansante gridava:

- Fermatelo, è lui l'assassino! -

Di un salto Aldo gli fu sopra, poi, aiutato da altri inquilini sopraggiunti, lo legò come un salame.

- Bisogna ricondurlo nella stanza della sua vittima finchè giungano le guardie, - disse un uomo.

- Chi ha assassinato? - chiese Aldo.

- Giulietta, la poverina, così buona e onesta!

- Ed è morta? - domandò la sconosciuta, che tutti guardavano con sorpresa, sembrando loro una strana apparizione,

- Essa non dà più segni di vita; - rispose una donna canuta - è crivellata di ferite. Mio figlio è corso a chiamare il medico.

- Andiamo a vederla; - soggiunse la sconosciuta - forse potremo soccorrerla. -

Quando la giovane apparve, seguita da Aldo, sul limitare della soffitta dove era successo l'assassinio, tutti fecero largo.

La soffitta era rischiarata dai molti lumi portati dagli inquilini, in un angolo gemeva l'assassino, steso a terra, tutto legato.

Intorno al letto, dove era distesa l'assassinata, molte donne si accalcavano ansiose, tentando invano con gli asciugamani di arrestare il sangue che sgorgava copioso dal petto della vittima.

L'assassinata era assai giovane, e nonostante il pallore cadaverico del volto, appariva sempre bellissima.

Si capiva che era stata colpita mentre dormiva e, svegliata all'improvviso, aveva sostenuto una fiera lotta con l'assassino.

Aveva ancora fra le mani contratte alcuni lembi dell'abito del pierrot.

Ma ciò che più di tutto straziava, è che presso al letto dell'assassinata, inconscia del dramma terribile ivi successo, dormiva in una culla una bambina di forse due anni, bionda come la madre, bella come un amore.

- Sarebbe bene toglierla di lì; - disse la sconosciuta ad Aldo - la porterò nella vostra stanza e veglierò su lei. -

Sollevò la bimba senza svegliarla e, tenendola stretta al suo petto, si mosse per uscire da quella stanza.

Ma in quell'istante entrò il medico. Dietro a lui venivano guardie, delegati, un ispettore, e una folla enorme che non si riusciva a tenere indietro. La signora non potè uscire dalla soffitta.

II.

La storia di Giulietta, detta la Bionda, era un romanzetto semplice, ma triste.

Figlia di un antico militare decorato, passò l'infanzia e l'adolescenza in convento, protetta da alcune pie dame alla morte della mamma. Tornata a casa a quindici anni, essendo il padre vecchio, acciaccato, ella divenne il suo conforto, la sua guida.

Siccome la meschina pensione del pover uomo non bastava a sopperire a tutte le spese, Giulietta si mise a ricamare per un negoziante, cui la madre superiora del convento l'aveva raccomandata.

Scorsero due anni d'una vita abbastanza tranquilla.

Giulietta ora buona quanto bella,

Ebbe proposte di matrimonio, ma essa rispose che non si sarebbe accasata finchè vivesse suo padre.

Un giorno, mentre lavorava, cantando allegramente, vennero ad avvertirla che il povero vecchio era stato colto da una sincope sulla via e l'avevano trasportato all'ospedale. Giulietta non doveva rivederlo che morto.

La povera fanciulla pianse molto, ma a poco a poco il suo dolore si calmò ed ella potè riflettere alla sua situazione,

La pensione del padre cessava. Giulietta doveva ormai vivere col suo lavoro.

Fin da quel momento la sua vita fu ancora più modesta e più laboriosa.

Usciva soltanto la domenica, recandosi al Valentino.

Per certo, non le mancavano i corteggiatori, ma la bella bionda passava indifferente in mezzo a tutte le seduzioni.

Tuttavia un giorno sì notò che Giulietta era stata accompagnata fino sulla porta di casa da un bel giovane sui venticinque anni, dall'aria seria e distinta.

D'allora in poi, quando essa usciva, il bel giovane era ad attenderla. A chi le domandò chi fosse costui, rispose:

- È il mio fidanzato, un bravissimo giovane impiegato in una banca. Ci sposeremo presto. -

Ai coniugi Pavin, suoi vicini più intimi, lo presentò perfino.

Scorsero tre mesi: era d'inverno.

Una sera, Lorenzo Pavin, tornando a casa, trovò la moglie Teresa molto inquieta.

- Che hai? - le chiese stupito.

- Sono due giorni che non vedo Giulietta, e ciò mi turba. Non è mai stata tanto senza venire da noi.

- Perchè non vai da lei?

- Ho bussato poco fa al suo uscio, non ha aperto. -

L'operaio si grattò la testa.

- Tu mi metti una pulce negli orecchi; vado io stesso a vedere. -

Uscì nel corridoio e si recò a bussare all'uscio della Bionda. Nessuno rispose.

L'operaio non pose tempo in mezzo.

Corse a prendere un ferro e con quello diè di leva all'uscio della soffitta di Giulietta. Si slanciò nella stanza, seguito da Teresa.

La giovane era stesa sul letto e gemeva: aveva ingoiato del laudano; voleva morire.

La moglie del falegname preparò subito un caffè carico, mentre il marito correva a chiamare un medico,

Due ore dopo, Giulietta ora fuori di pericolo e raccontava piangendo:

- Sono stata disgraziata o colpevole. Mi sono fidata di un uomo che mi ha ingannata. Lo amavo, e siccome mi giurava di sposarmi, mi lasciai trattare come se fossi già sua moglie. Ero felice, e non scorgevo l'abisso.

«Quattro giorni fa, egli non venne all'ora solita; lo attesi inutilmente tutta la sera.

«La mattina mi venne un pensiero: che fosse ammalato?

«Risolvetti di andare a chiedere sue notizie nella casa dove abitava.

«Non ero mai andata a casa sua, perchè mi diceva che stava in pensione da una vecchia signora, amica della sua famiglia, la quale si sarebbe scandalizzata se fossi andata a trovarlo.

«Ma sapevo il nome della via e il numero della casa.

«Vi giunsi in pochi minuti.

«Entrai dal portinaio e chiesi:

«- È in casa il signor Fabio Ribera?

«- Non lo conosco; - mi rispose - non abita qui. -

«Uscii di là con le gambe tremanti.

«Eppure non pensavo ancora ad un tradimento.

«Corsi subito in un piccolo quartiere che Fabio aveva affittato e ammobiliato per il nostro matrimonio.

«Salii difilato al secondo piano, sonai alla porta di quel quartiere.

«Comparve un giovinetto che io non conoscevo.

«- Il signor Fabio Ribera? - chiesi.

«- Vi siete sbagliata, bella ragazza: non abita qui.

«- Ma come? Fabio è il padrone di quest'appartamento. -

«Il giovinotto si mise a ridere.

«- Lo sarà stato la settimana passata! - esclamò. - Adesso il proprietario sono io.... e mi dispiace che ho una visita, altrimenti sarei lietissimo di farvelo visitare. Ma se voleste venire domani.... -

«Non volli sentir altro: fuggii col cuore stretto da un'orribile angoscia.

«Quando fui nel vestibolo entrai in portineria.

«Vi era una donna, e ciò mi diede coraggio.

«- Scusate, - le dissi con voce ancora un po' alterata - il quartierino al secondo piano, primo uscio a destra, non era stato preso ed ammobiliato dal signor Fabio Ribera?- -

«La portinaia mi guardava così fissamente, che sentii le guance avvamparmi.

«- Il signor Fabio Ribera non è il giovane che venne più volte in questa casa con voi? - domandò,

«Feci un cenno affermativo.

«- Ebbene, - soggiunse la portinaia - se vi ha detto che il quartierino era suo, vi ha ingannata. Quel quartierino lo tiene in affitto una certa Clorinda, che lo cede a giorni, a settimane, a mesi, per galanti ritrovi. -

«Se non caddi di piombo a terra fu un miracolo. Ero stordita. Nonostante volli tentare un ultimo colpo,

«Stamani, dopo altri due giorni d'inutile attesa, mi sono recata alla banca dove Fabio mi aveva detto di essere impiegato.

«Ma neppur là sanno chi sia Fabio Ribera.

«Perciò, oppressa, disperata, quasi pazza, volevo morire.

- Per fortuna, - esclamò Lorenzo - siamo stati in tempo a salvarvi!

- Quel birbante, - soggiunse Teresa - non merita davvero il sacrifizio della vostra vita! Dimenticatelo, è forse meglio per voi: costui non si farà più vedere. -

La moglie del falegname ebbe ragione.

Giulietta passò molti giorni di angoscia, poi sembrò rassegnata e riprese a lavorare in compagnia dei suoi buoni vicini.

Un giorno si accòrse di essere incinta.

Ella non si disperò.

- Invece di morire, - disse - vivrò per la mia creatura: se non ho potuto divenire una buona moglie, sarò una buona madre. -

Infatti, dato che ebbe alla luce la sua bimba, cui pose nome Gina, la giovane volle allattarla da sè, e da allora in poi si dedicò interamente a sua figlia.

Ed ora quella madre così giovane, bella, onesta, veniva barbaramente assassinata!

III.

Mentre il medico visitava Giulietta, le guardie rialzavano bruscamente l'assassino, che volgeva all'intorno sguardi spauriti e balbettava:

- Lasciatemi!... Non sono stato io!...

- È stato lui! L'ho veduto uscire da questa soffitta quando sono accorsa al primo grido della povera Giulietta! - urlò Teresa.

- Silenzio! - disse il medico.

Egli era chinato sul corpo straziato di ferite, e, dopo alcuni minuti, si rialzò dicendo:

- Non è ancora morta! Procurerò di richiamarla ai sensi. -

Frattanto la sconosciuta rimaneva presso la culla, tenendo appoggiata al seno la bimba, che continuava a dormire.

Il medico operò una prima e rapida fasciatura delle ferite, poi chiese dell'acqua con dell'aceto, e ne spruzzò il viso di Giulietta.

Ella si mosse, aprì gli occhi. Il medico non si era ingannato: viveva.

La sconosciuta non poteva più distogliere gli sguardi dall'assassinata.

A un tratto gli occhi di Giulietta si rianimarono, la bocca le tremò convulsamente e lasciò sfuggire un grido rauco.

- All'assassino!... Aiuto!... Prendetelo!... - disse con una voce che scosse tutti.

Ad un cenno dell'ispettore le guardie trassero presso il letto il pierrot, che invano volgeva il capo per non incontrare gli sguardi dell'assassinata.

- L'abbiamo arrestato, signorina! - disse l'ispettore. - Guardatelo: lo riconoscete? -

Giulietta stese un braccio con un gesto che parve una maledizione.

- Lo riconosco, è lui! - gridò. - Tenetelo, o mi colpirà ancora. Ed io.... non voglio morire.... -

E cacciando un urlo che sgomentò tutti:

- Mia figlia.... mia figlia.... la mia Gina....

- È qui, non temete; - rispose la sconosciuta con voce dolcissima - ne avrò cura io. -

Giulietta si volse al suono di quella voce, guardò la bella signora, poi si vide uno spettacolo singolare.

La ferita si era rialzata bruscamente sul letto afferrandosi alla sconosciuta con tutte le sue forze, guardandola avidamente e rantolando:

- Lei? Lei? Ma non sa...? -

Uno sbocco di sangue sgorgò dalle labbra di Giulietta, che ricadde sul letto irrigidita.

Questa volta il medico disse a voce alta;

- È morta! -

La sconosciuta vacillò, o sarebbe caduta con la bambina, se Aldo, che le era vicino, non l'avesse sorretta.

- Andiamo nella mia stanza: - disse - è inutile rimanere qui ancora. -

Ma l'ispettore osservava con sorpresa quella signora elegante e le disse:

- Mi permetta una domanda, signora: conosceva la giovane che hanno assassinata?

- No, - rispose la sconosciuta - l'ho veduta per la prima volta questa notte.

- Allora come spiega le parole della poveretta, rivoltasi a lei come a persona che non le fosse ignota?

- Non so spiegarle. -

Aldo fremeva a quelle domande.

L'ispettore proseguì:

- Per certo, signora, ella non deve far parte degli inquilini di queste soffitte. Perchè dunque si trova qui? -

Questa volta Aldo non si contenne.

Prima che la sconosciuta potesse rispondere, egli disse con voce sicura:

- La signora è mia sorella, venuta a passare gli ultimi giorni di carnevale a Torino. Essa era nella mia stanza, quando abbiamo udite le grida di questa disgraziata e ci siamo slanciati fuori. Io stesso ho fermato l'assassino.

- È vero, è vero! - dissero più voci.

- Se volete le mie generalità, - soggiunse lo studente - vi sarà facile averle, perchè in questa casa tutti mi conoscono. Mi chiamo Aldo Pomigliano, sono studente ingegnere, di San Giorgio Canavese: ho i genitori viventi e quest'unica sorella maritata a Ivrea. Ed ora, permettete che ci ritiriamo. -

La franchezza del giovane cancellò ogni diffidenza del funzionario di pubblica sicurezza, che disse:

- Potete andare; ma forse avremo poi bisogno di voi.

- Sarò sempre a disposizione dell'autorità.

- E la bambina di quella disgraziata la tiene in custodia la signora?

- Sì; - rispose la sconosciuta - non ho figli; le farò da madre. -

Le comari fecero sentire un lusinghiero mormorìo. Teresa si avvicinò alla sconosciuta.

- Gina è la mia figlioccia; - disse con le lacrime agli occhi - se la signora lo permette, posso aiutarla a custodirla.

- Ne parleremo domani! - disse con un mesto sorriso la sconosciuta. - Adesso; il meglio che si possa fare è di coricarla nel letto di mio fratello. -

Pochi minuti dopo, Gina, avvolta in una calda coperta nel letto di Aldo, continuava a dormire il sonno degli angeli.

L'assassino fu condotto via fra le imprecazioni di tutti.

La povera salma dell'infelice Giulietta rimase vegliata da due guardie.

La sconosciuta, coricata che ebbe la bambina, si rivolse verso lo studente esclamando:

- Siete stato molto generoso con me! Non lo dimenticherò mai, sebbene la vostra generosità non impedisca che io sia perduta: domani si saprà, che non sono vostra sorella.

- Tranquillatevi! Nessuno può smentirmi, perchè io ho veramente una sorella maritata a Ivrea, una sorella che mi adora, alla quale scriverò subito per narrarle l'accaduto; e potete star certa non ci tradirà. -

La giovane, tornata a sedere sul divano, chiese a Aldo:

- Voi pure avete creduto che io conoscessi l'assassinata?

- Sì, - rispose egli. - La sorpresa che ha mostrato nel vedervi, le sue sconnesse parole, mi avevano fatto credere che la povera Giulietta sapesse chi siete.

- Eppure, - disse la sconosciuta - vi giuro che io non vidi mai quella sventurata prima di questa notte. E voi, la conoscevate?

- Come si conoscono i vicini. L'incontravo qualche volta per le scale: ci salutavamo, ma non ci parlavamo. Sapevo che lavorava e che aveva fama di onestissima, sebbene quella bambina fosso il frutto d'una colpa. A proposito; volete davvero occuparvi di quell'orfanella?

- Sì, - rispose vivamente la sconosciuta, - Ma per riuscire, ho bisogno di voi.

- Sono interamente ai vostri ordini.

- Grazie! - mormorò commossa la giovane. - La poverina passerà dunque il resto di questa notte nel vostro letto: domattina la brava donna che si è offerta di custodirla avrà cura di lei; io sarò qui verso le nove, e combineremo insieme il modo di allevare quella creaturina, cui farò da madre.

- Ed io le farò da padre! - esclamò Aldo.

La sconosciuta si alzò, e avvicinatasi al letto, guardò a lungo la bella creaturina che dormiva, poi disse a Aldo:

- Datemi il mio domino, la maschera; bisogna che io vada via.

- Tornerete davvero alle nove? - chiese Aldo con voce tremante.

Essa gli stese la mano, e rispose con un accento che non ammetteva dubbio:

- Ve lo prometto.

- Grazie! Intanto ditemi il vostro nome, il solo vostro nome di battesimo.

- Speranza. -

E senza aggiungere altro, la signora, infilato il domino, uscì.

Aldo rimase immobile, col cuore in tumulto.

Speranza si era già impadronita di tutta la sua anima.

IV.

Nessuno, del casamento operaio, conosceva neppure di vista il pierrot, nessuno l'aveva mai veduto con la povera Giulietta.

Al primo e sommario interrogatorio, colui, non soltanto aveva respinto l'accusa di assassinio, ma non volle neppur dire il suo nome. Fu condotto in prigione, rivestito di altri abiti borghesi, lasciato solo, mentre si procedeva ad un'inchiesta sul conto dell'assassinata per scoprire la responsabilità dell'assassino.

Il giudice istruttore incaricato dell'inchiesta, benchè ancora giovane, passava per molto abile.

Era il cavaliere Umberto Trani, uomo simpatico e distinto, che aveva molto acume e molto tatto.

Egli si recò col cancelliere ed alcuni agenti in borghese alla soffitta, dove era stato commesso il delitto, e quando vide la vittima, fece un atto di stupore e pensò:

- Strano! Mi sembra di aver veduto costei e di averle parlato; ma non ricordo nè dove, nè quando. -

Il nome gli era ignoto.

Dopo aver osservato le ferite che denotavano come la sventurata avesse dovuto lottare con un feroce assassino, le guardò le mani.

Manine bianche, lunghe, affusolate; l'indice della mano sinistra portava le tracce del lavoro. Nella destra aveva una ferita leggiera, e, fra le unghie, pezzetti di stoffa bianca insanguinata.

Fatte rapidamente quelle osservazioni, il giudice istruttore ordinò una verifica nella stanza, Il primo oggetto che gli cadde sotto gli occhi fu la culla.

- Nel rapporto dell'ispettore ho letto infatti di una bambina. Dov'è? - chiese.

L'ispettore che si trovava nella soffitta ed era rimasto fino allora silenzioso, rispose:

- È affidata alle cure di una brava donna, che fu sua madrina. Peraltro il signor Aldo Pomigliano, studente ingegnere, colui che arrestò l'assassino, ha dichiarato che egli e sua sorella s'impegnano di allevare la figlia della morta,

- Ne riparleremo; - disse Umberto Trani - proseguiamo le nostre indagini. -

La soffitta aveva il puro necessario. Dentro un baule fu trovato biancheria, una scatola con oggetti d'oro di poco valore, una piccola somma e una scatola contenente un fascio di lettere.

Il magistrato s'impossessò subito di queste.

Poi diede ordine che il corpo fosse trasportato alla sala anatomica per l'autopsia, ed egli interrogò gli inquilini delle soffitte.

Il primo a presentarsi fu il falegname Lorenzo Pavin, cui il magistrato così si rivolse:

- Ditemi tutto quello che sapete.

- Io non so altro che Giulietta era una giovane onesta, buona....

- Onesta.... - interruppe il magistrato. - Mi sembra che una giovane divenuta madre senza avere un marito.....

- Fu sedotta da un furfante! - soggiunse indignato l'operaio. - Oh! so io le lacrime versate dalla povera Giulietta!

- Conoscevate costui?

- Lo vidi due volte sole: era un bel giovane, elegante, di modi distinti....

- Avete veduto l'assassino?

- Sì, signore.

- Non vi è sembrato che avesse qualche rassomiglianza col seduttore? -

Il falegname rimase per un istante a bocca aperta, poi scosse il capo:

- No, ecco, non mi pare, sebbene non potrei giurarlo; era così impiastricciato di biacca e di sangue!

- Ebbene, ve lo faremo vedere ripulito; ma prima ditemi: vedeste ieri la vittima?

- Sì, signore. Verso sera mia moglie ed lo venimmo qui per dare a Giulietta delle caramelle. La piccina era seduta su quel piccolo tappeto e si baloccava; la mamma lavorava.

- La vostra soffitta è attigua a questa?

- Sì, signore.

- Non sentiste più tardi qualche voce d'uomo o il rumore d'una lite?

- No, signore. Mia moglie ed io, dopo cena, ci coricammo e ci addormentammo subito, Fummo svegliati all'improvviso da un grido di aiuto.

«- È Giulietta! - disse mia moglie saltando dal letto e infilandosi una sottana, mentre io accendevo il lume, e si slanciò fuori dell'uscio per bussare a quello della nostra vicina.

«In quel momento ne uscì l'assassino vestito da pierrot.

«Teresa si mise a urlare, e allora il signor Aldo acciuffò il miserabile.

«Ecco tutto, signore. -

Gli altri vicini non aggiunsero nuovi particolari a quelli dati da Lorenzo.

Anche Aldo fu interrogato.

- Voi pure abitate nelle soffitte? - gli domandò il magistrato.

- Sì, signore, - egli rispose. - I miei mezzi non mi permettono di meglio. Mia madre e mia sorella fanno già abbastanza sacrifici per mantenermi qui agli studi.

- Da quanto tempo abitate in questa casa?

- Da quasi due anni.

- Conoscevate Giulietta?

- Conoscenza da vicini; ci salutavamo incontrandoci per le scale, e nulla più.

- Ieri la vedeste?

- No. Io passai quasi tutto il giorno fuori di casa, essendo giunta mia sorella che desiderava passare gli ultimi giorni di carnevale a Torino.

- È maritata, vostra sorella?

- Sì; a un benestante d'Ivrea: il signor Rivalta: - rispose con disinvoltura Aldo. - Ieri sera pranzai con lei all'albergo, poi siccome ella aveva desiderio di vedere un veglione, andammo a prendere un domino, ed io venni con lei a casa per cambiarmi d'abito,

«Avevo finito di abbigliarmi, mia sorella stava per mettersi la maschera, allorchè un grido giunse fino a noi. Mi slanciai per le scale e fu allora che arrestai l'assassino. -

Il magistrato aveva ascoltato con molto interesse.

- Dove si trova adesso vostra sorella? - domandò.

- All'albergo a riposare, in preda all'emozione sofferta questa notte.

- Mi hanno detto che essa vuole incaricarsi della bambina della vittima?

- Sì, signore, se non vi è nulla in contrario. Benchè non siamo ricchi, abbiamo preso a cuore la sorte di quella creaturina. Per adesso l'abbiamo affidata a Teresa, una brava donna, che l'ha tenuta a battesimo. Poi, appena mia sorella sarà tornata ad Ivrea ed avrà parlato con suo marito, la ritireranno con loro.

- Faranno davvero un'opera di carità, della quale tutte le persone di cuore non potranno che elogiarli. -

L'interrogatorio era finito. La soffitta fu chiusa coi suggelli, ed il giudice istruttore lasciò la casa, promettendo una ricompensa a chi gli recasse indizi sull'assassino.

Umberto Trani condusse seco Lorenzo il falegname, cui Giulietta aveva presentato un giorno il proprio fidanzato. Il magistrato sperava che l'operaio lo riconoscesse nell'assassino.

V.

- Contessa, ecco il conte: scende di carrozza.

- Bene, Celia; puoi ritirarti. -

La contessa Bianca Rossano rimase sola nel suo gabinetto da toelette. Accigliata, nervosa, sedette sul divano, rimanendo assorta.

Aveva il lungo accappatoio indossato nello scendere dal letto, e gli stupendi capelli neri sciolti sulle spalle.

Un lieve bussare all'uscio la fece trasalire.

- Avanti! - diss'ella.

Un uomo entrò, vestito da viaggio. Appariva pallido o commosso, ma nei suoi occhi era un raggio d'intensa felicità.

- Bianca! - esclamò stendendo le braccia. La contessa non fece gesto alcuno.

- Siete voi? - disse con acconto glaciale. - Non vi aspettavo così presto!

Egli rimase un istante come impietrito.

Il conte Rossano era un bell'uomo sui trentacinque anni, distintissimo. I suoi sguardi, pieni di dolcezza, lampeggiavano quasi sinistramente nella commozione.

Egli si slanciò verso la moglie, volle stringerla nelle sue braccia.

- Bianca, angelo mio, è così che mi accogli al mio ritorno? -

La giovane si svincolò.

- Finiamo questa ignobile commedia! - disse guardandolo con alterezza. - Ormai ho scoperto che siete un miserabile.

- Bianca! - gridò il conte, minaccioso.

- Un miserabile! - ripetè essa. - Ah! credevate di aver preso per moglie un'idiota da sfruttare a vostro talento!... Ebbene, vi siete ingannato: voi non mi conoscete ancora, ma io vi conosco: guardate. -

Si alzò, prese da una scatola di cristallo una lettera spiegazzata e la gettò con disprezzo sul viso di lui.

Il conte divenne livido: aveva compreso tutto.

Quella lettera, ricevuta una settimana prima, egli l'aveva ricercata invano, la credeva smarrita. Era la lettera di una donna e diceva:

«Livio mio, ti attendo con ansia. Già da un anno sospiro un tale istante! Ah! perchè non ero io ricca come quella sciocca che hai sposata e che non è la donna fatta per te? Tu continui a giurarmi che non solo non ami tua moglie, ma che è un vero tormento per te il fingere una tenerezza che non senti. Ebbene, presso di me ti consolerai di tanta noia! Ricordi le nostre follìe di un tempo? Mi lusingo che si rinnoveranno, che ti compenseranno delle nausee sofferte. Mi hai promesso un'intera settimana, una settimana di paradiso per entrambi. Mercoledì sera sarò alla stazione ad aspettarti e ritroverai il tuo nido come l'hai lasciato. Ti bacio lungamente con tutta l'anima. «Cinzia».

Il conte, raccolto il foglio, balbettò:

- Non so che cosa tu voglia dire!

- Ah! - esclamò Bianca con violenza. - Ve lo spiegherò io. Quella lettera ha rotto fra noi qualsiasi rapporto: se non chiedo una riparazione, non è per vostro riguardo, ma per mio padre: non voglio che il povero vecchio soffra, sapendomi infelice. -

Bianca tacque, vinta dall'emozione.

Il conte si gettò ai suoi piedi.

- Perdono, Bianca, perdono! Sì, sono stato colpevole, ma ti giuro che quella donna ha mentito, scrivendo così.

- Basta! - gridò la contessa ritraendosi. - Non voglio scuse. A me poco importa ciò che colei scrive di me. Il fatto ignobile che nulla può cancellare, è di avermi inflitta l'offesa di un tradimento quotidiano; la vigliaccheria maggiore è di avermi fatto credere che partivate per assistere una zia morente. Ed io piansi, la sera della vostra partenza, pensando alla povera donna, pensando al vostro dolore. Invece, un'amante vile al pari di voi vi attendeva alla stazione, e chi sa le risate da voi fatte per avermi così ingannata! -

Il conte si avvicinò a lei.

- No, Bianca, no, non lo credere; sono stato colpevole, lo ripeto, ma non infame! -

Cercò di stringerla fra le braccia, ma essa lo respinse con una forza di cui il marito non l'avrebbe creduta capace.

- Mi fate nausea! - diss'ella.

Il conte sussultò.

- Bene! - disse con accento tragico. - Avete ragione; siate sicura che non cercherò più di avvicinarvi. -

Ed uscì dal gabinetto.

Rimasta sola, Bianca lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: quell'uomo, ormai, le destava orrore. Seduta sulla poltrona, Bianca rivisse in un istante la vita passata.

Figlia unica di ricchissimi possidenti del Monferrato, era stata adorata dai suoi genitori.

Aveva un'istitutrice, una tedesca, anima eletta che si affezionò alla sua allieva e fu per lei quasi una madre.

Bianca possedeva una bellezza affascinante, un'intelligenza superiore, che l'istruzione sviluppò meravigliosamente. Sembrava assai timida, ma se un nobile pensiero la esaltava, diveniva audace, pronta a sfidare qualsiasi pericolo.

Fino ai quindici anni era vissuta felice.

La morte della madre fu il primo dolore della sua vita.

Erano scorsi due anni dalla morte della buona signora. Si era d'autunno, al tempo delle cacce. In una tenuta poco lontana da quella del padre di Bianca convennero gentiluomini torinesi, ospiti del marchese Passiflora, un gaudente, un prodigo, un gentiluomo tronfio di sè.

Costui aveva chiesto Bianca in moglie, ma la giovane lo aveva rifiutato perchè non le piaceva.

Mentre il marchese era a tavola cogli amici, cadde il discorso sul matrimonio, e ne furono dette di tutti i colori.

- Io fui una sola volta in procinto di prendere moglie, un anno fa, - disse il marchese Passiflora - ma fui bellamente respinto.

- La giovane era di difficile contentatura! - esclamò il conte Livio Rossano, arricciandosi i baffi.

- Mi fu detto che quella giovane sogna un eroe dei tempi antichi, un uomo che non abbia la più piccola macchia amorosa nel suo passato, che sia vissuto sempre nell'azzurro, che si dedichi a lei sola per tutta la vita. -

Il gaudente fu interrotto da uno scroscio di risa.

- Merita almeno, la bella, un tal cavaliere? - chiese ancora Rossano.

- Vi assicuro che un uomo si stimerebbe felice di divenire suo schiavo. Ha sedici anni o poco più, figura da ninfa, viso d'angelo, occhi brillanti come stelle, capelli neri e carnagione di latte e rosa. -

Vi fu un nuovo scoppio di risa.

- Passiflora, tu diventi poeta!

- Lo diventereste anche voialtri, se la conosceste, tanto più se aggiungo che quell'ammirabile creatura porta in dote al fortunato che saprà conquistarla la bagattella di due milioni, ed alla morte di suo padre ne avrà altrettanti. -

Vi fu un mormorìo d'ammirazione. Rossano trasalì.

- Dove si trova questa maraviglia? - chiese un barone sbarbato.

- È mia vicina, - rispose Passiflora - e se qualcuno desidera vederla, gli dirò che tutte le mattine si reca alla messa con l'istitutrice. -

La mattina seguente vi era una partita di caccia. Tutti si alzarono prima dell'alba. Quando si trovarono riuniti nella sala a terreno della villa Passiflora, il marchese notò che mancava il conte Rossano.

- Dov'è Livio? - chiese agli amici.

- Livio non verrà; - rispose il barone - questa notte si è sentito male, e mi prega di scusarlo presso te. -

Nessuno suppose che quella malattia fosse una finzione.

In quella stessa mattina, verso le sette, Bianca usciva con l'istitutrice, avviandosi per un sentiero campestre che in meno di un quarto d'ora conduceva al paese.

Essa respirava con delizia l'aria mattinale: mai la sua carnagione era apparsa più rosea e brillante.

Ad un tratto i suoi sguardi e quelli dell'istitutrice furono attirati da una curiosa scena; un bel giovane, in abito elegante da mattina, stava quasi accovacciato sull'erba, tentando di persuadere una bimba che balbettava fra i singhiozzi:

- La mamma mi batterà! -

La voce del giovane salì chiara e fresca fino a Bianca.

- No, carina, - diceva - la mamma non ti batterà, perchè io le dirò tutto. Via, alzati, torneremo insieme dallo speziale!

- No, sono troppo in ritardo!

- Più starai qui a piangere, più tarderai! -

Bianca si era avvicinata: ella conosceva la bambina.

- Mietta, che hai? - chiese.

Al suono di quella voce, il giovane fu in piedi e salutò con la disinvoltura di un gentiluomo.

- Essa piange - rispose - perchè ha rotto una boccetta di medicina che portava a casa.

- Hai qualcuno ammalato, Mietta? - chiese ancora Bianca, dopo aver ricambiato il saluto del giovane.

- Il vitello, - rispose la bambina - e la mamma mi aveva raccomandato di far presto. Io correvo con la boccetta in mano, quando sono caduta e si è rotta.

- Ed io le proponevo di tornare dallo speziale, che poi l'avrei accompagnata a casa, - soggiunse lo sconosciuto.

- Perchè non accetti? - domandò l'istitutrice.

- Perchè non ho più i soldi per comprare la medicina. -

Il giovane sorrise.

- I soldi te li avrei dati io.

- Non li voglio, perchè non lo conosco.

- E da me li prendi, Mietta?

- Oh! da lei, signorina Bianca, sì, e se dico alla mamma che l'ho incontrata, non mi sgriderà più! -

La giovinetta sorrise, e mentre estraeva il portamonete, lo sconosciuto disse:

- Ammiro la fierezza della piccina, come la sua fiducia in lei, signorina Bianca, angelo consolatore di queste terre! -

L'istitutrice intervenne, mentre le guance della giovane si facevano di fuoco.

- Il signore conosce la signorina?

- Chi non la conosce, nei dintorni? - rispose lo sconosciuto. - Io vengo spesso da queste parti, ospite del marchese Passiflora: sono il conte Livio Rossano. E adesso, prego di perdonare la mia audacia, della quale Mietta e la bontà sua, signorina, hanno colpa. -

E salutando di nuovo, s'allontanò.

Sapeva però che il colpo era fatto e che già si trovava più vicino alla giovane, che se l'avesse accompagnata.

Infatti il pensiero di Bianca era assorbito dall'immagine del conte Rossano, il cui volto le si era impresso nella mente in modo da non dimenticarlo più.

Il giorno stesso, mentre essa passeggiava soletta per l'ombroso viale che conduceva al cancello della sua villa, vide dietro a quello il conte Livio Rossano, immobile a contemplarla. Ma incontrando lo sguardo di lei, egli si limitò a salutare e disparve subito.

Fin da quel giorno Livio cercò tutti i mezzi per farsi vedere da lei, senza però osare di avvicinarla.

Quella rispettosa adorazione conquistò interamente Bianca, che ormai si cullava nell'incanto di quell'amore da tutti ignorato.

Erano cominciate le noiose piogge autunnali, che fecero fuggire dalla tenuta il marchese Passiflora ed i gentiluomini suoi amici. Ma il giorno della partenza di quegli scioperati, Mietta, venuta a portare un canestrino di mele a Bianca, introdotta nella stanza di questa, si tolse di sotto al grembiulino una lettera che aveva nascosta in tasca e gliela porse dicendo:

- Questa è per lei. Gliela manda quel forestiero che voleva darmi i soldi per la medicina. - Bianca ringraziò la fanciulla, e appena fu sola, lesse la lettera.

«Signorina, il mio ardire susciterà forse il vostro disprezzo, perchè avrei dovuto, prima che a voi, rivolgermi a vostro padre. Ma come affrontare un colloquio con lui prima di ottenerne il vostro permesso? «Perdonatemi, ma fin da quando vi ho veduta, sono pazzo d'amore per voi. «Voi avete risvegliato la mia anima addormentata, e vorrei rapirvi, trasportare in un mondo sconosciuto, dove nessuno potesse contendermi la felicità. «Ascoltatemi: la mia vita è stata finora triste, isolata: perdei mia madre troppo presto; mio padre non si è curato mai di me. Egli era uno dei viveurs dell'alta società torinese, e siccome ci somigliavamo perfettamente, giacchè mio padre, colle risorse sapienti dell'arte e di un abile cameriere sembrava sempre giovane, quasi mio fratello maggiore, così una gran parte delle sue follìe si attribuivano a me. «Io lo lasciai credere, tanto più, dopo la morte di mio padre, sembrandomi altrimenti di profanare la sua memoria, di mancargli di rispetto. «A voi sola confido questo segreto: a voi sola. Perchè se finora non mi sono mai curato del giudizio del mondo, se ho portato con rassegnazione la mia croce, adesso non è più così. Da che vi amo, sento che non potrei sopportare il vostro disprezzo. «Peraltro, se domani vostro padre chiedesse chi sia il conte Livio Rossano e gli rispondessero: «un uomo viziato, un libertino che ha consumato nel giuoco e nelle donne quasi tutto il suo patrimonio», io non potrei difendermi senza accusare il padre mio. «È orribile, credetelo, il soccombere sotto il peso delle calunnie. Vostro padre mi rifiuterebbe certo la vostra mano, e voi, Bianca, potreste, nel dubbio, respingermi. «Ecco perchè al momento di partire ho voluto farvi la mia confessione, ho voluto dirvi che, anche respinto, calpestato, vi offrirò in olocausto tutti i miei dolori, ed esausto morirò col vostro nome sulle labbra. «Ma se voi, tocca dai miei segreti dolori, acconsentiste ad amarmi, ad essere mia moglie, io vi dovrei più che la vita, vi dovrei l'onore, perchè, inalzandomi a voi così pura, nessuno crederebbe più allo calunnie lanciate su me; accettando il mio nome, si vedrà che non è indegno di voi. «Bianca, questa è l'ora della mia vittoria o della mia sconfitta. Se dopo tutto quanto vi ho detto mi scriverete «venite», io saprò convincere vostro padre, saprò lottare da forte, per ottenere il diritto di farvi mia moglie. «Se nulla riceverò alla fine della settimana, qui a Torino, nel mio vecchio palazzo del corso Palestro, io vi amerò tuttavia, vi amerò da morto come da vivo, e sarò vostro nell'eternità. «Livio Rossano».

Bianca non si accorse quanto vi fosse di artificioso in quella lettera. Nel candore della sua anima, credette a tutto quanto il conte aveva scritto. Come non amare quell'uomo che un'ingiustizia atroce rendeva responsabile delle follie del padre?

Che importava se era rovinato? Non era essa ricca per entrambi? Livio dovrebbe tutto a lei, e sarebbero entrambi felici come nessun'altra coppia al mondo.

Bianca non esitò: il giorno stesso scrisse la parola che il conte aspettava; «Venite».

Intanto si recò dal padre, cui confessò tutto.

Egli presentì un'insidia sotto quella lettera, e tremò.

Una voce interna gli gridava:

«Quell'uomo mente!»

Ma come convincere sua figlia? A tutte le ragioni la giovinetta crollava la testa, dicendo:

- Anche tu scagli la tua pietra contro lui, vittima innocente! Io l'amo, l'amo, e se tu rifiuti il tuo consenso al nostro matrimonio, non mi resta che morire! -

Il padre fu vinto.

Il conte Rossano non tardò a presentarsi. Egli ammaliò il padre come aveva fatto della figlia: la sua aria dignitosa, la sua melanconia dissiparono ogni sospetto.

Un anno dopo, Bianca era sua moglie.

Passarono i mesi d'inverno a Torino, il resto nella tenuta del padre di Bianca, che non volle muoversi dai suoi possessi per non rendersi fastidioso al genero e tenendo presso di sè l'istitutrice della figlia per la direzione della casa.

L'anno seguente, col pretesto di alcuni affari, Livio si assentò spesso da casa, recandosi più specialmente a Milano; ma ogni giorno scriveva alla sposa, e quando tornava a lei si mostrava così premuroso, appassionato, che Bianca non ebbe mai il minimo sospetto.

Quell'inverno le assenze del conte furono più frequenti. In ultimo trovò la scusa di una zia malaticcia, che non gli conveniva trascurare, perchè ricchissima, e della quale egli era il solo erede, almeno lo sperava.

Il mercoledì grasso di quel carnevale Livio tornò a casa alla sera assai pallido, inquieto,

- Che hai, amor mio? - chiese Bianca spaventata.

- Mia zia sta malissimo e bisogna che io parta. -

Il conte sembrava oltremodo turbato.

- E dire - soggiunse - che non posso condurti meco, perchè, lo sai.... la zia voleva darmi per moglie la figlia d'una sua amica d'infanzia, e non perdona il mio matrimonio con un'altra! Ora è perfettamente riconciliata con me, ma la tua presenza le recherebbe dispiacere.

- Oh! io non vorrei per tutto l'oro del mondo turbare una povera vecchia morente. Va'.... va' tu solo; io resterò qui a pregare per lei.

- Tu sei un angelo! - esclamò il conte baciandola.

Il giovedì mattina, mentre la cameriera spazzolava gli abiti del conte, vide un foglio cadere a terra e lo consegnò a Bianca, la quale, entrata nella sua camera, lesse la lettera ignobile che già conosciamo.

Ciò che provasse in quel momento sarebbe impossibile analizzarlo. Era la rovina di tutte le sue illusioni, di tutta la sua felicità!

Versò lacrime amare; ma era troppo intelligente per abbandonarsi alla disperazione; e colpita nell'anima, le venne l'idea di vendicarsi.

Voleva far soffrire quel miserabile, calpestare sotto i piedi l'onore di lui, gettargli in faccia queste parole: «Anch'io ho un'amante!»

Bianca sonò il campanello. Celia, devotissima a lei, accorse, ma rimase immota dallo stupore: il volto della contessa esprimeva la più energica determinazione: i suoi occhi scintillavano di arditezza.

- Celia, vai a comprarmi un domino nero, elegantissimo, e una maschera: stasera vado al veglione, sola.

- Mio Dio, se il conte lo sapesse...! -

Bianca proruppe in una convulsa risata.

- Mio marito si diverte senza me: è giusto che mi prenda la mia rivincita: leggi. -

E le porse la lettera di Cinzia.

Celia la percorse con un'indignazione impossibile ad esprimersi.

- Che infamia, eh? - disse la contessa. - Come ha saputo abbindolarmi bene! Ma d'ora innanzi vedrà di che sono capace! Io non rivelerò nulla a mio padre per non dargli troppo dolore o perchè potrebbe dirmi: «Tu l'hai voluto!» Non chiederò la separazione, ma fin da quest'istante ho un solo desiderio: ricambiare il tradimento. Vai, dunque, ad eseguire i miei ordini senza che altri lo sappia; mi fido di te. -

Celia obbedì. Ella avrebbe voluto accompagnare la padrona al veglione, ma Bianca rifiutò.

Quando la servitù fu coricata, la contessa indossò il domino e uscì.

La fidata cameriera sperava che Bianca, pentita del partito preso, ritornasse al palazzo prima di entrare al veglione. Per cui si mise ansiosa alla finestra, scrutando l'ombra del viale, intenta ad ogni rumore di carrozza.

Le ore passavano e Bianca non tornava.

Celia tremava.

Ma a un tratto sentì il rumore di una vettura che si avvicinava.

Si sporse dalla finestra e mormorò:

- È lei.... è lei.... -

Si precipitò ad aprire il portone, proprio al momento in cui Bianca pagava il vetturino.

Bianca le battè una mano sulla spalla, dicendole con accento carezzevole:

- Sono qui sana e salva, mia buona Celia. Andiamo su: ti raconterò tutto! -

La povera donna sentì allargarsi il cuore.

Quando Bianca si trovò nella propria camera, seduta presso il caminetto, raccontò alla sua fidata cameriera tutto quanto le era accaduto.

La povera donna non perdeva una parola: essa fremè al racconto dell'assassinio di Giulietta, ne1ascoltò trepidante i minimi particolari ed applaudì al buon cuore della sua padrona e dello studente, che volevano occuparsi dell'orfanella.

Un'ora dopo, la contessa dormiva tranquilla nel suo letto.

VI.

Erano appena suonate la nove quando la contessa, vestita semplicemente di panno nero, bussava alla soffitta dello studente.

Aldo le aprì e la riconobbe subito. Con un inchino rispettoso si ritrasse indietro per farla passare, ed appena l'uscio fu chiuso le prese le mani.

- Quanto vi ringrazio, signora, di essere venuta! -

Bianca si lasciò stringere le manine, ma fissando il giovane coi suoi occhi luminosi:

- Signora? - ripetè. - Dimenticate che sono vostra sorella? -

Aldo riprese tosto la sua disinvoltura.

- È vero, Speranza; ma non osavo ricordarvelo temendo di offendervi.

- Se pensassi che da voi potessi avere un'offesa, me ne andrei subito. Ho pienamente fiducia in.... mio fratello. -

Vi era una tal semplicità, un tal candore nell'insieme della giovane, in ogni sua parola, che Aldo ne fu affascinato.

- Grazie! - ripetè, portandosi questa volta le manine di lei alle labbra.

Bianca arrossì un poco ma sedutasi sul divano chiese:

- Ditemi che è successo dopo la mia partenza. -

Egli le disse che la bimba, svegliatasi, chiamava la mamma, non voleva che la mamma. Teresa l'aveva portata nella sua soffitta, per calmarla.

- Povera angioletta! - disse Bianca con le lacrime agli occhi. - Io desidero vivamente di abbracciarla.

- Stamani non ve lo permetto, - rispose Aldo. - C'è nel casamento il giudice istruttore: Umberto Trani. -

Bianca divenne pallidissima.

- Io lo conosco! - balbettò. - Le cose s'imbrogliano....-

Aldo la tranquillò:

- No, no, tutto andrà bene! Peraltro, sarà meglio che non torniate qui prima che sia finita ogni inchiesta sul feroce assassinio. Io dirò che siete partita per Ivrea onde ottenere il consenso di vostro marito per adottare la piccina: mia sorella è già avvertita di tutto e mi scriverà in conseguenza. Mostrerò la sua lettera al giudice istruttore ed a Teresa.

- Che penserà vostra sorella di me? - disse Bianca trepidante.

- Quello che ne penso io stesso: - rispose lo studente - che siete degna della massima stima, del massimo rispetto. -

Bianca era commossa.

- Ma voi non conoscete di me che il nome che vi ho dato!

- Mi è bastato vedervi per giudicarvi. Non vi chiedo i vostri segreti! per me siete Speranza, una cara sorella, e sono pronto a dare tutto il mio sangue per risparmiarvi una lacrima. State dunque tranquilla. Se non vi vedrò per qualche tempo, avrete mie lettere che vi terranno informata di tutto. Dove debbo scrivervi?

- Scrivete fermo in posta, al nome di Celia Lari. È il nome della mia cameriera, una donna fidatissima, che si farebbe ammazzare per me. Ora me ne vado: baciate per me la bambina. E il cadavere della sua sventurata madre è ancora là?

- No, l'hanno trasportato alla sala anatomica per l'autopsia. -

Bianca ebbe un fremito.

- Povera sventurata! E il suo assassino ha confessato?

- No, egli nega; non ha voluto dire il suo nome; nessuno l'ha riconosciuto.

- È strano! -

Rimase un istante pensierosa, quindi chiese:

- Non si potrebbe dare alla vittima onorevole sepoltura perchè la sua bambina possa un giorno pregare sulla tomba di lei?

- Ci abbiamo già pensato e sta girando nel casamento una sottoscrizione per l'acquisto di una fossa privata. Solo nelle soffitte, abitate da gente bisognosa, si sono raccolte sessanta lire.

- Nobili cuori! Troveremo più tardi il mezzo di soccorrerli segretamente.

- Quanto siete buona!

- Cerco d'imitare.... mio fratello. Ma parleremo di tutto ciò più tardi. Eccovi intanto il mio obolo per la sottoscrizione. -

Così dicendo si tolse di tasca un elegantissimo portafogli e ne levò due biglietti da cento lire. Aldo sussultò.

- Non posso accettarli, Speranza! Un povero studente come me non potrebbe fare una tale offerta, e neppure mia sorella. Qual nome dovrei dunque mettere sulla lista?

- Un incognito. -

Bianca lo guardava stendendogli la manina. Egli la strinse nella sua e si sorrisero. Ma vi era una profonda commozione in quel sorriso.

Poco dopo la contessa lasciava la soffitta,

Il giorno seguente essa ebbe una lettera di Aldo, che le dava ragguagli sull'interrogatorio del giudice istruttore, sulla bambina, l'esortava a star quieta, non essendovi bisogno della sua testimonianza. Poi Aldo aggiungeva:

«Quando sarà finito tutto questo, potrò rivedervi, Speranza? Nel dire il vostro nome, mi sento capace delle più nobili cose!

«Voi mi avete fatto molto bene, sorella mia! Chi avrebbe mai detto che in una notte di carnevale avrei trovato la mia felicità? Peraltro, questa felicità, nata da un dolore, mi fa quasi paura. Ma non voglio pensarci adesso. Se la felicità non esiste sulla terra, noi la creeremo a forza di doveri, di lotte, di sacrifizi.»

Bianca lesse più volte quella lettera, presa da un incanto nuovo, quasi una nuova luce sorgesse nella sua esistenza.

Aldo le scrisse tutti i giorni, e Bianca già obliava il marito in quella pura ebbrezza dello spirito, quando il conte Rossano, di ritorno, la svegliò dal suo sogno.

Ma allora tutta la sua anima si ribellò, il ricordo del tradimento risorse e la contessa ricevette il conte come abbiamo veduto.

Rimasta sola nello spogliatoio, essa riandava il passato, allorchè Celia entrò.

- Ho una lettera da consegnarle, - disse.

- Dammela subito, Ho bisogno di respirare qualche cosa di puro. -

Afferrò bramosa la lettera di Aldo, ma appena l'ebbe aperta, tornò pallidissima. Essa lesse ad alta voce:

«Speranza, tutto il nostro piano si sfascia.

«Ieri il giudice istruttore mi fece chiamare nel suo gabinetto e mi chiese, guardandomi fisso:

«- Vostra sorella non è più tornata a Torino?

«- No, signore, - risposi.

«- Ebbene, telegrafatele che urge la sua presenza. -

«Mi turbai, ma risposi:

«- Bene! Telegraferò. -

«Appena fui lungi dagli sguardi del giudice istruttore, ebbi un momento di disperazione.

«Che è successo perchè il giudice istruttore mi abbia fatto tale intimazione?

«Per certo, se telegrafassi a mia sorella, essa partirebbe subito; ma, una volta qui, la gente del casamento mi smentirebbe, perchè mia sorella non vi assomiglia affatto: è bionda come una spiga matura, piccola, grassa, tutto l'opposto di voi, insomma. C'è da diventare pazzi! Per me, non temo: sopporterei anche la prigionia, purchè foste salva; ma se avessero qualche indizio su voi, se il confessare che non vi conosco non bastasse a allontanare ogni pericolo? Se lo potete, venite senza indugio da me: io non mi muoverò di casa per attendervi. Voi non sapete in che stato mi trovo al pensiero di non aver potuto mantenere la mia promessa, salvarvi da una pubblicità. Non ragiono più, e se non vi vedessi, sento che commetterei qualche pazzia. Perdonatomi questa lettera insensata, ma voi avete il cuore troppo nobile per non comprendere lo stato d'animo del vostro sventuratissimo fratello.»

- Povero Aldo! - mormorò Bianca, che si era rimessa dal primo moto di terrore. - Egli sarebbe capace di tutto per impedire a me un dolore: tocca a me, ora, a consolarlo.

- Che intendete fare? - chiese Celia spaventata.

Bianca si alzò, tranquilla.

- Andrò dal giudice istruttore, - rispose. - Lo conosco, è un gentiluomo, non mi perderà, -

Indi aggiunse con un gesto vago:

- E poi, se mi perdesse, che m'importa, ora?

- Contessa, - disse Celia - pensi a suo padre! -

I bellissimi occhi di Bianca si velarono.

- Hai ragione! - mormorò.

E dopo un momento di silenzio:

- Dammi il mio abito da mattina, - disse con vivacità, - Hai sentito? Aldo mi aspetta. Sta' sicura, non mi accadrà nulla di male! -

Un quarto d'ora dopo, la contessa usciva.

VII.

L'assassino aveva subito un primo interrogatorio nel gabinetto del giudice istruttore, ma a tutte le domande di questi si rifiutò di rispondere, giurando che era innocente.

Nel camiciotto del pierrot, nelle tasche dei calzoni nulla si era trovato che potesse stabilirne la identità.

Ma il giudice istruttore, rileggendo i punti salienti dell'inchiesta, fu colpito da una osservazione che dapprima gli era sfuggita.

Era il rapporto dell'ispettore e di un agente, i quali avevano osservato l'effetto prodotto dalla vista della sorella di Aldo Pomigliano sulla povera Giulietta, la quale pronunziò parole strane a suo riguardo:

- Lei? Lei? Ma non sa....? -

Dunque, costei conosceva la giovane, e forse lo studente stesso era stato in intimi rapporti colla sventurata.

Assalito da questi sospetti, Umberto Trani fece chiamare l'ispettore, interrogandolo su questa circostanza.

- Io dubito, - rispose l'ispettore - che quella signora sia sorella dello studente. Il signor Aldo Pomigliano non è ricco, e a furia di sacrifici riesce a sbarcare il lunario. Ora quella signora portava orecchini di brillanti di una grossezza maravigliosa, aveva le dita cariche di anelli di valore, un abito ricchissimo. A me pare che una provinciale non vestirebbe in tal guisa per recarsi a trovare un fratello povero nelle soffitte.

- Avete ragione. Quello studente mi ha gabbato. Ma saprò fargli pagar cara la sua astuzia. Intanto vi ringrazio delle vostre informazioni. -

Dopo un paio di giorni, il Trani fece chiamare Aldo, cui disse semplicemente che telegrafasse alla sorella di venire a Torino, avendo necessità di parlare con lei.

Quando Aldo, sconvolto, era uscito dal gabinetto del giudice, vi entrò un agente per avvertirlo che Teresa, colei che teneva in custodia la bimba della vittima, veduto il ritratto che la questura aveva fatto fare all'assassino, l'aveva riconosciuto per il seduttore della povera Giulietta.

Il magistrato si fregò le mani dalla soddisfazione.

- Siamo in porto! - esclamò. - Le lettere della vittima ci danno il nome dell'assassino. -

Ne prese una dal pacchetto che aveva sopra lo scrittoio, ne guardò la firma e fece un gesto di trionfo.

- Fabio Ribera! Si vede che egli non supponeva che la sua vittima conservasse tutte le sue lettere. Ora sarà facile avere delle informazioni su lui; procuratemele. -

La sera dello stesso giorno ebbe un esteso rapporto sull'assassino.

Fabio Ribera era designato come un giovane onestissimo, commesso in un negozio di mode. Dieci giorni prima del fatto, aveva chiesto al principale di assentarsi per un mese, dovendo recarsi fuori di Torino per affari di famiglia. Per cui il principale lo credeva in viaggio.

Nessuno poteva prestar fede all'accusa contro lui, tanto il suo tenore di vita era quieto. E poi, si sapeva che amava una buona fanciulla, commessa nello stesso negozio, e che dovevano presto sposarsi. Anzi, la giovane era persuasa che il suo Fabio si trovasse lungi da Torino, appunto per ritirare carte relative al loro matrimonio. Il giudice istruttore era pensieroso.

- La matassa è più imbrogliata di quello che credevo! - diceva fra sè. - Se il rapporto dice il vero, quale sarebbe stato il movente dell'assassinio? Forse che Teresa, la moglie del falegname, si è ingannata credendo di riconoscerlo? Li metterò a confronto. -

Il domani, verso le dieci, il prigioniero fu condotto nel gabinetto del magistrato.

- Ebbene, persistete a negare di essere stato l'assassino di Giulietta, sebbene designato da lei stessa prima di morire? - gli domandò il magistrato.

- Sì, signore.

- Chiamate la teste! - disse il giudice al cancelliere. L'accusato si rivolse verso l'uscio di entrata e si trovò a faccia a faccia con Teresa.

Ma egli non fece alcun gesto di sorpresa, come se si fosse trovato dinanzi ad una persona sconosciuta.

Teresa, invece, dopo averlo guardato un momento, gridò con accento indignato:

- Sì, lo riconosco, è lui, il birbante! È il fidanzato di Giulietta, colui che vidi spesso con la poverina!

- V'ingannate! - rispose il giovane.

- Ah! m'inganno? La vedremo, assassino!... Sei proprio tu: ti riconosco dal neo che hai sulla guancia. -

Il giudice istruttore soggiunse:

- Ormai è inutile che neghiate, Fabio Ribera! -

Un tuffo di sangue salì al viso dell'accusato.

- Sapete il mio nome? - balbettò.

- Sappiamo tutto quanto vi riguarda, e le vostre lettere da voi firmate, scritte a quella povera infelice, sono qui ad attestare la vostra iniquità verso colei che, dopo essere stata vittima di un'infame seduzione, fu da voi assassinata! -

L'accusato ascoltava come se non capisse.

- Le mie lettere? Firmate da me?

- Sì, da voi, guardate: non riconoscete la vostra calligrafia, la vostra firma? -

Così dicendo, il giudice istruttore pose sotto gli occhi dell'accusato il foglio tolto poco prima dal pacchetto.

Il giovane lo guardò, e subito cadde svenuto.

Quello svenimento fu per il magistrato una prova luminosa della colpabilità del giovane.

Fabio non tardò a rinvenire.

Egli aveva cambiato interamente aspetto.

Vi era in lui qualche cosa di risoluto, come se compiesse un dovere penoso dinanzi al quale non si indietreggia.

- Sono pronto a rispondere a tutte le vostre interrogazioni! - disse.

Un lampo di trionfo passò negli occhi del magistrato, che riunite alcune carte e fatto un segno al cancelliere, disse all'accusato:

- Prima di tutto, il vostro nome e cognome?

- Lo sapete: Fabio Ribera.

- La vostra età?

- Ventitrè anni.

- Dove siete nato?

- A Torino.

- La vostra professione?

- Commesso in un negozio di mode.

- Confessate di aver colpito volontariamente, coll'intenzione di uccidere, l'operaia Giulietta Lovera, detta la Bionda?

- Lo confesso.

- Il vostro delitto è stato premeditato?

- No. Giulietta stessa mi ci spinse.

- In qual modo?

- Un tempo Giulietta fu mia amante. Ma poi la incontrai due volte al ballo pubblico con un individuo che non volle dirmi chi fosse; incontrai lo stesso individuo una sera sulle scale della sua abitazione e fin da quel momento ruppi ogni relazione con lei.

- Cioè, non vi faceste più vedere, senza spiegarle il motivo della rottura. Agiste da vile. Quando l'abbandonaste, sapevate di averla resa madre?

- No; seppi un mese fa che essa aveva una bambina, ma non sono sicuro della mia paternità.

- Calunniate la morta!

- Ho tutto il diritto di fare questa supposizione, dal momento che Giulietta mi nascose il suo stato. E confrontando la data della nascita della piccina, è facile desumere che la giovane era già madre prima della nostra separazione.

- Da quando la lasciaste, non la rivedeste più?

- La vidi un mese fa. Non pensavo più a lei, vivevo tranquillo, quando una mattina nell'uscire di casa m'imbattei con Giulietta. Essa mi disse:

«- Venivo a cercarvi.

«- Sono ai vostri ordini, - risposi.

«Capivo che era inevitabile una spiegazione.

«La condussi nel mio piccolo alloggio, le chiesi ciò che desiderava.

«Giulietta mi rimproverò la mia condotta, insultandomi. E fu allora che mi rivelò la sua maternità,

«Ma io a mia volta le risposi indignato che non la credevo, e allusi ad altri suoi sconosciuti amanti.

«Giulietta andò su tutte le furie. Poi mi intimò di abbandonare la fanciulla che da tre mesi è mia fidanzata e che dovevo sposare dopo Pasqua. Le chiesi con qual diritto mi imponeva questo, ed aggiunsi che mai avrei acconsentito al suo volere.

«Giulietta replicò:

«- Lo farete, altrimenti andrò io stessa da quella giovane, mostrandole la vostra creatura. -

«Ebbi paura. Io amo Ilda, e sono da lei riamato. Se Giulietta si fosse presentata davvero a lei, la giovinetta non avrebbe più voluto saperne di me.

«La scongiurai di desistere dalla sua idea, le offersi perfino di passarle una pensione per la bambina.

«Tutto fu inutile.

«- Se fra quindici giorni non ho prove sicure che l'avete abbandonata, - mi disse - penserò io ad allontanarvi da lei. -

«Se ne andò, senza che io avessi la forza di trattenerla. -

Il magistrato l'aveva ascoltato con aria severa.

- Allora, - disse - concepiste il disegno di assassinarla?

- No, - rispose Fabio. - Io provavo soltanto un rancore amaro contro Giulietta, cui scrissi supplicandola di risparmiarmi, soprattutto di risparmiare Ilda. Ma più io mi umiliavo, più Giulietta diveniva crudele.

«- Vi dò altri otto giorni di tempo, - rispose alle mie preghiere - spirati i quali sarò inesorabile! Se io non avrò il vostro anello di sposa, non l'avrà neppur l'altra; è giustizia. -

«Ero furente, ma non pensavo di ucciderla. Volli avere un ultimo colloquio con lei, deliberato a suicidarmi se ella fosse inflessibile.

«Scelsi, per recarmi da Giulietta, la sera di giovedì grasso, sicuro che una parte degli inquilini delle soffitte sarebbero assenti. Io tenevo ancora una chiave della stanza di Giulietta.

«Non sapendo quello che potesse accadermi, avevo chiesto un permesso al mio principale, dicendo di assentarmi da Torino per andare a ritirare delle carte concernenti il mio matrimonio.

«Passai parte della sera girovagando per le strade nel mio costume da pierrot.

«Era quasi la mezzanotte quando mi decisi di arrischiare tutto, pure di non perdere Ilda.

«Salii le scale, introdussi la chiave nella serratura e stavo per aprire, allorchè il rumore di gente che saliva le scale mi fece spengere il cerino e dirigere da quella parte.

«Mi trovai a faccia a faccia col giovane che poi mi arrestò e che mi pento non avere strangolato. Egli teneva stretta al braccio una signora elegantissima, in domino nero.

«La mia presenza li rese muti; forse ispirai loro paura. Il giovane si affrettò ad aprire il suo uscio, a introdurre la signora, e disparve con lei.

«Allora entrai a mia volta nella soffitta di Giulietta, e accesi una candela.

«La giovane dormiva.

«Io la svegliai, chiamandola per nome.

«Essa aprì gli occhi ed esclamò:

«- Tu! Che vieni a far qui, a quest'ora? Come sei entrato?

«- Colla chiave che mi desti un giorno tu stessa: domani scade il termine da te impostomi, e vengo per sapere se sei decisa a rovinarmi, a distogliere da me la fanciulla che amo.

«- Miserabile! - esclamò. - Non mi rovinasti, tu? No, non ti risparmierò!... Voglio che Ilda ti disprezzi, ti odi! -

«Perdetti la testa.

«- E se io ti facessi tacere per sempre? - le dissi.

- Tu?... Ma io chiamerò aiuto.... Assassino!... -

«Alzava la voce; io non fui più padrone di me, e colpii, eccitato dalle grida di lei, cieco di furore, di rabbia.

- E non pensaste all'innocente creatura che riposava tranquilla presso sua madre e che è vostra figlia? - disse il giudice istruttore.

- Respingo in modo assoluto tale paternità.

- Non vi pentite di aver uccisa la giovane che un giorno amaste?

- No; essa mi ha spinto al delitto minacciandomi di farmi perdere l'amore di Ilda.

- L'avete perduto lo stesso, macchiandovi le mani di sangue. Credete che, se quella giovinetta è onesta, possa amare un assassino? Voi le desterete orrore.

- Non lo dite, non lo dite, o impazzo! -

Ed il giovane, fino allora risoluto, quasi calmo, divenne tremante, agitato, i suoi occhi si empirono di lacrime, le sue mani si torcevano con violenza.

A stento potè firmare il suo interrogatorio, così che la calligrafia apparve ben diversa da quella delle lettere. Ma il magistrato non vi pose mente, e se anche l'avesse osservato, non ne avrebbe fatto caso tanto la mano del giovane tremava.

Fabio fu condotto via.

Mentre egli usciva dal gabinetto del giudice istruttore, una signora elegante, che aveva consegnato allora un biglietto per il magistrato ed attendeva di essere ricevuta, trasalì nel vedere l'imputato.

Eppure Bianca, giacchè era lei, non conosceva l'assassino di Giulietta! Ma quel giovane pallido, di aspetto quasi femmineo, le ricordò vagamente suo marito.

L'assassino, dal canto suo, sussultò alla vista di quella signora nella quale riconobbe il domino di quella notte funesta in cui aveva naufragato tutta la sua felicità.

Bianca entrò nel gabinetto del giudice istruttore. Egli le andò incontro coi segni del più profondo rispetto.

- Desiderate parlarmi? Posso esservi utile in qualche cosa, contessa Rossano?

- Non contessa Rossano; - rispose Bianca con voce debole, ma ferma - sibbene la sorella di Aldo, il domino misterioso che si trovò presente alla morte della povera Giulietta assassinata! -

VIII.

Il conte Livio Rossano era stato colpito come da una mazzata sul capo per la scenata della moglie.

Entrando nel proprio appartamento, stringeva ancora fra le dita convulse la lettera di Cinzia, Ah! se avesse avuto in quel momento l'amante nelle mani!

Era irritato anche con la cameriera, ben supponendo che costei avesse trovato il biglietto e lo avesse consegnato alla contessa.

- Quella pettegola mi ha sempre veduto di mal occhio! - pensava. - Le torcerei volentieri il collo.... Capisco che per Bianca quella lettera era crudele; ma credevo che tutto si sarebbe risolto con una crisi di lacrime; invece mi ha detto che le fo nausea! Basta, il meglio che io possa fare è di fingere un pentimento sincero, finchè lei stessa, commossa, mi stenda la mano. La sua collera non può durare, mi ama troppo! -

Questo pensiero lo calmò.

Non era la prima volta che il conte si trovava mischiato a drammi intimi, e sempre ne era uscito serenamente, grazie alla sua ipocrisia.

Un commediante non avrebbe saputo fingere meglio l'emozione, il dolore, la passione, mentre nel suo interno rimaneva impassibile.

Quando Livio Rossano aveva raccontato a Bianca la sua dolorosa storia, non aveva detto una sola parola vera. Egli assomigliava a sua madre morta, una donna bellissima, la quale ingannò il marito fino all'ultimo istante, senza che il disgraziato se ne accorgesse mai.

Il conte Sebastiano Rossano, padre di Livio, era stato un galantuomo in tutta l'estensione del termine, un galantuomo che la moglie e poi il figlio sfruttarono fino alla morte.

In passato la famiglia Rossano era stata potentissima, ricca; ma, come tante altre nobili famiglie piemontesi, aveva consumato quasi tutto il suo patrimonio per la redenzione della patria.

Onde, colla sostanza esigua rimasta, il conte Sebastiano non avrebbe potuto vivere; ma, impegnato il suo piccolo capitale negli affari, ebbe tale fortuna, che in pochi anni riuscì ad ammassare un discreto patrimonio, e, se il figlio fosse stato come lui laborioso, le ricchezze di un tempo sarebbero rientrate nella casa.

Ma Livio voleva godersi la vita, e, se pianse alla morte della madre, non versò una sola lacrima quando gli mancò il padre.

Libero di sè, si diede allo più pazze orge, alle più volgari avventure e ne uscì in completa rovina.

Fu in quel frattempo che, invitato dal marchese di Passiflora, sentì parlare della bellezza di Bianca e dei suoi milioni.

Questi soprattutto gli ispirarono il desiderio di conquistare la giovane. E vi riuscì.

Solamente il padre di Bianca, diffidando di Livio, stabilì nel contratto di matrimonio che la dote di Bianca fosse inalienabile, che il marito non potesse toccare la minima parte del capitale senza il consenso della moglie.

Livio non fece opposizione, perchè sicuro dell'amore di Bianca aveva la certezza di piegarla ad ogni suo volere. Ma dopo l'accaduto pensò che se per sua colpa avveniva una separazione, perderebbe tutti i beni dotali.

Livio provò un fremito di collera e di paura al tempo stesso a questo pensiero.

Egli ormai non avrebbe più potuto rinunciare alla vita splendida che conduceva.

Inoltre, se il conte non amava sua moglie, andava orgoglioso della bellezza di lei e ambiva a possederla.

All'ora della colazione Livio passò nella saletta dove egli e Bianca erano soliti prendere i pasti, quando si trovavano soli.

Era una saletta elegantissima, munita di tutto il confortabile, calda e profumata.

Ma al primo entrare, vide una sola posata sulla tavola apparecchiata.

Aggrottò le sopracciglia, ma vedendo entrar Celia, assunse un'espresione melanconica e domandò: - Mia moglie non viene a colazione?

- La signora contessa - rispose Celia - è uscita. Ora suonerò, perchè lei sia servito.

- Un momento, - soggiunse Livio. - Vorrei prima parlare con voi. Per colpa vostra mia moglie è in collera con me. Sono sicuro che voi stessa le consegnaste la lettera trovata nella mia tasca.

- Sapevo forse che cosa fosse scritto in quel foglio? - disse Celia. - Credevo si trattasse semplicemente di un conto. Quantunque io la sappia lunga sul conto suo, caro signore, e conosca molti suoi intrighi, non lo avrei mai denunziato alla signora, non per riguardo a lei, ma alla contessa. -

Livio trasalì. Tuttavia chiese:

- Che sapete? Sentiamo.

- Non ho bisogno di dirglielo; interroghi la sua coscienza.

- La mia coscienza di nulla mi rimprovera: io sono vittima di calunnie! -

Celia sbuffava.

- La lascio, perchè ne direi troppe e non ho tempo da perdere con lei. -

E suonando il campanello elettrico, disse al domestico accorso:

- Servite il signor conte: la contessa tornerà più tardi. -

Essa uscì dalla saletta lasciando Livio in preda ad una terribile agitazione.

- Che può sapere costei? - pensava, - Avrei paura, adesso, io, che non ho mai saputo che sia timore? Celia me la pagherà! Ma non bisogna commettere imprudenze. -

Dopo colazione, il conte indossò il soprabito, i guanti, prese il cappello ed uscì.

In istrada consultò l'orologio.

- Il tocco! - mormorò. - Se andassi da Fabio? A quest'ora deve trovarsi a casa! -

Si recò in via Garibaldi, entrò in un portone, e senza fermarsi in portineria, salì le scale fino al quarto piano. Bussò ad una porta, su cui era incollato un biglietto da visita col nome di Fabio Ribera.

Bussò due volte senza averne risposta. Livio fece un gesto di malumore.

- Sarà andato dalla sua bella! - pensò, ridiscendendo le scale, - È strano che non mi abbia fatto saper nulla, come eravamo intesi. Se mi recassi da Ilda? Ma no, è meglio che ci vada stasera; sarò più sicuro di trovarli insieme. -

Entrò in un caffè, dove chiese una bibita ed i giornali. Ne spiegò uno per passare il tempo e ad un tratto divenne pallido come un cadavere.

Leggeva le seguenti righe:

«Nulla ancora si è scoperto circa l'assassinio di Giulietta Lovera. L'uomo mascherato da pierrot, arrestato sul luogo la sera del giovedì grasso, il presunto assassino, si mantiene negativo ed ancora non si è potuto sapere il suo nome. Si dice che siano stati fatti altri arresti, ma per ora ci è duopo mantenere il silenzio onde non intralciare l'opera della giustizia.»

Il conte chiamò il cameriere, cui disse:

- Vorrei i numeri arretrati di questo giornale! - Un momento dopo il cameriere tornava con un fascio di giornali.

Il conte cercò fra essi il numero del venerdì grasso e vi trovò tutti i ragguagli dell'assassinio.

Il foglio tremava nelle sue mani.

- Ed io non ho saputo nulla! - mormorò. - Ma come potevo credere Fabio capace di tanto? E si è fatto arrestare? Adesso è finita.... non potrà negare a lungo.... si saprà il suo nome, e non se la caverà con poco. -

Sembrava che quest'ultimo pensiero lo sollevasse, gli rendesse la calma.

Quand'ebbe finito di leggere, chiese un altro caffè.

- Bisogna che stasera vada da Ilda; - disse - da lei saprò tutto. -

Tuttavia tornò al palazzo verso sera. La contessa era a casa, e quando si trovò a pranzo di fronte a lei gli parve di non averla mai veduta più bella.

Infatti, Bianca aveva il volto animato, gli occhi brillanti, un fascino nuovo in tutta la persona.

Anche Celia, che serviva a tavola, sembrava contenta.

Livio invece si sentiva turbato e socchiudeva gli occhi per meglio guardare sua moglie; notò che questa non si curava affatto di lui e mangiava con appetito.

Quando la tavola fu sparecchiata e Celia si ritirò, il conte, avvicinatosi a Bianca, con voce tenera le disse:

- Siete sempre in collera con me?

- Non dimentico! - rispose Bianca con fierezza. - Credevo che, dopo le vostre parole, non avreste più tentato un inutile avvicinamento. Ma giacchè mi sono ingannata, vi dirò come intendo di regolare d'ora innanzi la mia vita, a meno che preferiate una separazione....

- Separarmi da voi, Bianca? Non è possibile -

Ella rimase impassibile, ma gli occhi che si fissavano su Livio avevano un'espressione strana, che lo spaventarono.

«- Ciò avverrà, - dichiarò risoluta - se continuerete la parte ipocrita rappresentata fino ad ora. Alle corte, ecco ciò che ho deciso: voi sarete libero come se fossimo separati, pur continuando a godere le rendite che aveste finora, padronissimo di mantenere delle amanti qui od altrove, purchè rispettiate il tetto coniugale.

- Bianca! -

Ella proseguì:

- Dal canto mio non avrò più nulla di comune con voi; se ci troveremo all'ora dei pasti, li faremo insieme come due estranei che s'incontrano in un albergo, serviti da Celia, la sola che sia a parte di ciò che avviene fra noi. -

La fisionomia di Livio aveva assunto un'espressione tetra.

- Accetto - diss'egli - perchè spero col tempo di farvi ricredere sul conto mio e di riacquistare quell'amore che senza colpa ho perduto. -

Bianca non aggiunse altro e lasciò la stanza.

Livio impallidì dalla collera, ma non tardò a rimettersi.

- Al diavolo anche lei! - mormorò. - Alla fin fine che m'importa! Che io possa conquistare Ilda, e non rimpiangerò mia moglie! -

Ormai sicuro che le rendite non gli sarebbero sfuggite, riacquistò tutta la sua baldanza ed uscì per recarsi dalla fidanzata di Fabio.

Ilda abitava in un modesto appartamento a un quinto piano di via Santa Teresa. Era sola con sua madre, una vecchia infermiccia, che viveva di una piccola rendita lasciatale da una padrona presso la quale era stata a servizio per più di quarant'anni. Suo marito era stato cocchiere della stessa casa. Avevano avuto quell'unica figlia, che formava ormai tutto il tesoro della povera vecchia, la quale non aveva sperato, maritandosi a quarantadue anni, di diventare madre. Il padre di Ilda era morto quando la fanciulla compiva i sette anni, e la padrona consigliò la madre di mettere la figlia in un collegio di monache, finchè fosse in età di guadagnarsi la vita. La donna seguì il consiglio; ed Ilda rimase per oltre otto anni in collegio. Quando ne uscì, abile in tutti i lavori, trovò subito da occuparsi. Ma il guadagno era esiguo, per cui accettò un posto di commessa in un elegante magazzino di mode, e lavorò a casa la sera, accanto alla madre.

Ilda era una bellissima giovinetta.

Slanciata, elegante anche nel suo vestitino da pochi soldi, aveva una di quelle fisionomie che destano simpatia al primo vederle. Pallida, bruna, con gli occhi verde mare, aveva alcun che d'ardito e d'intelligente.

Ilda amò Fabio teneramente. Non era bello, ma aveva un fascino sulla buona fanciulla.

Fabio le aveva raccontato la sua semplice storia.

Non aveva conosciuto i genitori. Una nobile dama si prese cura di lui, lo fece allevare, e venuta a morte quando egli compiva i dieci anni, un figlio di lei l'aveva surrogata in quell'opera di carità. Quell'uomo generoso lo aveva fatto studiare, per metterlo in grado di guadagnarsi la vita. Fabio non aveva avuto fino allora altro affetto che quello del gentiluomo, il quale lo trattava come un fratello e per il quale avrebbe dato a goccia a goccia tutto il suo sangue.

Egli volle presentare ad Ilda il suo benefattore, che si mostrò con lei molto gentile, approvò la scelta di Fabio e promise di mobiliare a sue spese il quartiere per gli sposi.

Ilda, commossa, lo ringraziò, ma quando, sola col fidanzato, questi le chiese quale impressione avesse avuto del suo benefattore, la giovane rispose:

- Vuoi che te lo dica, Fabio? Se non sapessi che ha soltanto dodici anni più di te, lo direi tuo padre. Egli ti assomiglia molto. Avete eguale anche il colore degli occhi; ma il suo sguardo non è il tuo, non mi piace....

- Di' la verità: non ti è rimasto molto simpatico?

- No, ma devi perdonarmi. Vi sono persone che non piacciono a prima vista, e che, frequentandole, si finisce con l'amarle.

- Hai ragione, Ilda mia, e vedrai che, conoscendo meglio il conte, lo adorerai, perchè è un cuor d'oro, un'anima elevata.

- Ne sono persuasa. Ha moglie?

- Sì, - rispose Fabio - ma io non la conosco, perchè non mi sono mai recato a casa del conte. Egli si occupa di me, viene qualche volta a trovarmi, desidera che ricorra a lui in qualsiasi circostanza, ma vi è troppa distanza sociale fra noi, perchè io frequenti la sua casa. Anzi, ti prego di non parlare del conte a nessuno. A te ho voluto dir tutto, a te ho voluto presentare il conte perchè voglio che tu sia a parte di tutti i segreti della mia vita, che tu mi conosca interamente, come ormai credo di conoscere te, unico mio amore! -

Ilda era troppo felice per non approvare la delicatezza del fidanzato.

La loro felicità durava da qualche mese, il loro amore andava ognor crescendo.

Ma la loro felicità durò poco.

Fabio lasciò una sera Ilda dicendole che doveva partire per il paese natio a cagione di alcune carte relative al loro matrimonio.

Ilda si accòrse che nel lasciarla egli aveva le lacrime agli occhi e ne fu spaventata.

- Che hai?... Dimmi, che hai? Si direbbe che stia per accaderti sventura.

- No, Ilda; sono triste perchè anche un breve distacco da te mi addolora; ma quando tornerò tutto sarà finito e nessuno ci separerà più.

- Hai avvertito il conte della tua partenza? -

Fabio sussultò.

- Il conte è lontano da Torino con sua moglie. Dammi un bacio, Ilda, e addio.

- No, a rivederci presto. -

E soggiunse con un sorriso pieno di dolcezza:

- Forse che non vorresti tornare, abbandonarmi? -

Fabio la strinse fra le sue braccia.

- Abbandonarti? - esclamò con veemenza. - È più facile che tu....

- Io? - disse Ilda troncandogli la parola in bocca. - Ah! tu non mi conosci ancora. Ti ho giurato d'esser tua per sempre, e se qualche fatalità dovesse separarci, io manterrei lo stesso il mio giuramento. O tua, o di nessuno!

- Grazie, Ilda, grazie! Ora parto più contento! -

Ma i giorni scorsero ed Ilda più nulla sapeva di lui, nè poteva comprendere quell'inesplicabile silenzio.

Una sera, rincasando, trovò presso sua madre un delegato e due agenti che venivano a interrogarla sul fidanzato che si trovava in prigione accusato d'assassinio.

Ilda si ribellò.

- Fabio un assassino! - disse con veemenza. - Pazzo chi lo dice!

- Egli stesso ha confessato!

- È una menzogna! Perchè avrebbe assassinato? A quale scopo?

- Lo saprete, signorina, - disse il delegato - perchè verrete chiamata dal giudice istruttore. Intanto, abbiate pazienza, ma dobbiamo eseguire una perquisizione.

- Una perquisizione in casa mia? Forse per trovare le prove del delitto? Mamma, li senti? -

Ma la povera vecchia, fulminata da quella notizia e più ancora dalla presenza delle guardie, era svenuta. Allora Ilda non pensò più che a sua madre, e mentre gli agenti rovistavano inutilmente dappertutto, la fanciulla, inginocchiata presso la povera donna, la faceva rinvenire.

- Mamma, rassicurati, - le disse quando la vecchia tornò in sè - Fabio è innocente. Lascia che quegli uomini facciano il loro dovere; noi non abbiamo nulla da temere, nulla da rimproverarci. -

Il delegato guardò quel gruppo con rispetto.

Egli credette bene intervenire.

- La signorina ha ragione; - disse - lei deve stare tranquilla; ciò che noi abbiamo dovuto compiere è una semplice formalità. Del resto, è già finito, e ce ne andiamo. -

Fece un cenno alle guardie ed uscirono.

La vecchia mormorò:

- Dio, che colpo! Ma tu dici bene, cara: Fabio non può essere un assassino!

- Non lo è, credilo, c'è qualche sbaglio, e non tarderanno a saperlo. -

Proprio in quella sera, il conte Livio Rossano, il protettore di Fabio, si recava dalla fanciulla, persuaso che ella conoscesse maggiori particolari sul delitto, di quelli appresi dal giornale.

Quando la giovane, al suono del campanello, si recò ad aprire e si vide dinanzi il conte, lasciò sfuggire un grido di gioia.

- Lo manda Dio! - esclamò. - Venga, signor conte: ora non temo più nulla. -

Livio fece un gesto di stupore, assai bene simulato.

- Che succede? - chiese con dolcezza, mentre seguiva la giovane nella stanza in cui era la povera vecchia. - Sono stato a casa di Fabio, e non l'ho trovato.

- Fabio è stato arrestato, signor conte, - disse la madre di Ilda.

Il conte si volse con impeto alla fanciulla.

- Arrestato? - ripetè in tono interrogativo.

- Sì, signor conte; - rispose Ilda - lo accusano di essere un assassino. -

Livio si abbandonò su d'una sedia.

- Ma lei non lo crede, non è vero? - esclamò con slancio la fanciulla. - Lei lo difenderà. -

Invece di rispondere, il conte rimaneva pensieroso, turbato, e a un tratto, come parlasse a sè stesso:

- Disgraziato! - mormorò. - Che abbia posto in opera la sua minaccia? Ma no, non è possibile! -

Ilda era divenuta pallidissima.

- Quale minaccia? Che sa lei, signor conte? - disse con ansia. - Oh! parli, parli!

- Fanciulla, sedete qui vicina a me, - disse in tono quasi paterno - lasciate che prima io vi interroghi, perchè non ho più veduto Fabio da un mese, essendo assente da Torino.

- Fabio me lo aveva detto, - rispose Ilda. - E dopo la sua assenza, signor conte, egli era divenuto triste, ma non ne feci molto caso, perchè era sempre amoroso e tenero con me. Solo quando mi disse di doversi assentare da Torino per le carte relative al nostro matrimonio, mi sorprese che egli piangesse, come se avessimo dovuto dividerci per sempre. Fin da quel momento non ebbi più sue nuove, e soltanto oggi sono venuti qui un delegato e due guardie per fare una perquisizione. -

Il conte aveva appoggiato un gomito ad una tavola vicina e si sorreggeva la fronte fra le mani, ripetendo:

- Disgraziato, disgraziato!

- Ma dunque, anche lei lo crede colpevole? - disse la madre d'Ilda.

- Per quanto atroce sia la verità, - disse il conte - con accento soffocato - sento che è mio dovere non lasciarvela ignorare. -

E con voce tremante raccontò alle due donne press'a poco quanto abbiamo sentito raccontare dall'accusato circa i suoi amori con Giulietta, fino al giorno in cui l'antica amante l'aveva minacciato di mandare a monte il suo matrimonio se egli non rendeva la parola alla fanciulla amata.

- Io trovai Fabio in quel giorno, - aggiunse il conte - ed egli mi confidò tutto. «Creda,» mi disse ad un tratto «piuttosto che perdere la mia Ilda, mi uccido od uccido Giulietta!» A poco a poco giunsi a calmarlo. Fabio mi promise di non tentar nulla contro lei, di rivolgersi piuttosto all'autorità; poi io fui costretto a partire e non seppi più altro. Ma adesso tutto mi fa temere che Fabio abbia posto in opera la sua idea. -

La vecchia tremava di orrore.

Ilda era rimasta dapprima affranta, dubitando di colui al quale era legata coi vincoli dell'amore e della fede; ma a mano a mano che il conte parlava, i suoi dubbi svanivano, e quando Livio ebbe finito, essa disse, fremente:

- Fabio non può essere un infame! Egli si sarebbe ucciso prima di uccidere. Fabio avrebbe rinunziato piuttosto a me, che possedermi al prezzo di un delitto! -

Il conte aveva trasalito.

- L'amate molto, cara fanciulla! - disse. - Ma quest'amore renderà più vera l'accusa di essersi sbarazzato di quella donna per voi.... e finiranno col ritenervi sua complice.

- Che m'importa! - esclamò con fierezza la fanciulla. - Crede forse che io voglia rinnegarlo, perchè lo dicono colpevole?

- Ma se Fabio confessasse il suo delitto? - osservò Livio.

- Non lo crederei lo stesso; - interruppe la fanciulla - lo conosco troppo! Direi che si è sacrificato per qualcuno! -

Livio aveva lasciato cadere i guanti che teneva in una mano e si chinò per raccoglierli.

- Cara fanciulla, - disse poi - Fabio può andare con ragione orgoglioso del vostro amore, ed io vorrei che i giudici la pensassero come voi; ma essi, purtroppo, non ragionano col cuore.

- Ma lei, signor conte, potrebbe recarsi dal giudice istruttore, fargli comprendere che Fabio non può essere colpevole.

- Lo farei con tutto il cuore, ma la mia testimonianza aggraverebbe forse le cose, perchè in coscienza sarei costretto a rivelare quanto ho già detto a voi. Fabio stesso avrebbe dispiacere di vedermi immischiato in questa faccenda, e se io non sarò chiamato da lui, non muoverò un passo per non recargli danno. Anzi, se il giudice istruttore vi facesse chiamare, farete bene a non parlargli di me.

- Non dubiti; - rispose freddamente la fanciulla - so il mio dovere. Fabio mi ha pregata più volte di non far parola di lei con alcuno ed io l'obbedisco. Se mi recherò dal giudice, sarà solo per difendere il mio fidanzato. -

Il conte si alzò.

- Mi permettete, - disse - coraggiosa fanciulla, che torni da voi per sapere vostre nuove e dirvi ciò che io stesso cercherò di apprendere su Fabio? Adesso che egli vi manca, è mio dovere vegliare su voi e vostra madre. -

La fanciulla voleva rispondere: «Grazie, non s'incomodi!» ma la vecchia prese subito la parola.

- Sì, venga, venga, signor conte; siamo due povere donne sole, abbandonate, ed io mi sento vicina a morire di spavento. -

Ilda, chinando il capo, mormorò:

- Se la mamma vuol così venga pure! -

Ma quando Livio fu uscito, la fanciulla si gettò nelle braccia della vecchia singhiozzando.

- Egli lascerà perdere Fabio, lo sento! - balbettò. - Il conte non è sincero! Io diffido di lui. -

IX.

Quando il cavalier Umberto Trani udì la dichiarazione della contessa Bianca Rossano, trasalì ed esaminò la giovine con un rapido sguardo, come se avesse avuto dinanzi una colpevole.

Ma il bel volto di Bianca esprimeva tanto candore, che il magistrato le stese vivamente la mano e le disse;

- Mi spiegherete, contessa....

- Sono qui per dirvi tutto, perchè ho fiducia in voi e sono certa che col vostro aiuto potrò riuscire in tutto quello che desidero. -

Ella sedette e con voce ferma e dolce fece il racconto della sua vita dal momento in cui conobbe il conte Livio Rossano fino al giorno in cui scoperse il suo tradimento. Parlò poi dell'incontro di Aldo, il quale, invece di approfittare del suo passo insensato, la rispettò come una sorella. E narrò tutto, tutto nei minimi particolari.

Umberto Trani ascoltò la signora con attenzione. Quando essa ebbe finito, le disse:

- Vi ringrazio della fiducia che mi dimostrate. Dal canto mio, farò tutto il possibile perchè il vostro nome non venga pronunziato e si creda che il domino di quella notte era la sorella dello studente Aldo.

- Grazie! Io ben sapevo che non invano mi sarei a voi rivolta.

- Dovete però promettermi di non recarvi più in quella casa.

- Non vi nascondo, - disse Bianca - che vi sono stata altre due volte, per intendermi col signor Aldo circa la bambina della povera Giulietta.

- Badate che, recandovi a trovarla in quella casa, si finirebbe con lo scoprire che non siete la sorella di Aldo.

- Ascoltatemi ancora, signore, giacchè siete così buono. Stamani mi sono recata in quella casa perchè il signor Aldo, disperato, tremava per me, ed io volevo rassicurarlo, dirgli che sarei venuta io stessa da voi. Tuttavia, per precauzione, non salirò più quelle scale neppure per abbracciare la mia protetta; ed ecco ciò che ho combinato col signor Aldo. Sua sorella, che non ha figli ed alla quale il signor Pomigliano ha confidato tutto, è dispostissima a occuparsi della piccola orfana fino a tanto che io non potrò affidarla a mio padre ed alla mia istitutrice, oppure prenderla meco. Il cognato del signor Aldo verrà a Torino per prendere la bambina, dicendo che sua moglie non può muoversi perchè indisposta. Ma siccome Teresa, cui la bimba è affidata, potrebbe rifiutare, così voi ci aiuterete recandovi col signor Rivalta, il quale verrà prima qui per intendersi con voi, dalla moglie del falegname. -

Umberto Trani aveva un cuore generoso, che si commuoveva facilmente quando ora convinto dell'innocenza della persona che a lui si affidava.

Per cui, disse con un sorriso:

- Voi mi farete fare tutto ciò che vorrete, anche a rischio di compromettermi. Ebbene: vi do la mia parola di gentiluomo che voi non sarete disturbata e che la bambina sarà consegnata da me stesso al signor Rivalta. -

Gli occhi di Bianca rifulsero.

- Quanto siete buono! - esclamò con ingenua espansione. - Ora non temo più nulla, perchè ho trovato anche in voi un vero amico. -

Quando Bianca se ne fu andata, Umberto Trani rimase per alcuni secondi pensieroso.

- Il conte Rossano non meritava un simile tesoro, - mormorò. - Io lo conosco bene; la sua apparenza di gentiluomo nasconde un'anima ignobile. -

Ora, non rimaneva al magistrato che interrogare la fidanzata di Fabio.

Egli la fece chiamare il giorno seguente alla visita di Bianca, e quando la giovinetta comparve nel suo gabinetto, fu non soltanto sorpreso dalla bellezza da lei, ma dall'espressione energica e leale che si leggeva nei suoi occhi.

- Sapete perchè vi ho fatta chiamare, signorina? - le chiese il magistrato.

- Lo suppongo, - rispose Ilda. - Il mio fidanzato è accusato di assassinio. Ma la cosa è paradossale!

- Eppure, lui stesso ha confessato....

- Fabio ha mentito! - esclamò con slancio appassionato Ilda.

- Eppure il fatto è evidente, perchè, quand'anche il giovane non avesse confessato, vi sono prove schiaccianti contro lui. Egli mentì chiedendo un permesso al suo principale per recarsi a cercare delle carte concernenti il vostro matrimonio. Invece, non è stato un giorno assente da questa città. E poi, perchè si sarebbe trovato, nella notte del giovedì grasso, mascherato da pierrot, in quella casa, nella stanza dove avvenne l'assassinio? Come entrò in quella soffitta senza destare l'attenzione di alcuno? Perchè una vicina della vittima l'avrebbe riconosciuto come l'antico amante della sventurata? -

Ilda sussultò.

- Davvero? - esclamò.

- Sì, signorina. Infine, perchè egli avrebbe confessato? -

Ilda fremeva.

- La mia testa si perde, - mormorò-, - In questo delitto vi è un mistero che mi sfugge. Comunque, Fabio non può averlo commesso. Ah, se potessi parlare un istante con lui! -

Era quello che il magistrato sperava.

- Alla mia presenza? - chiese.

- Magari! - rispose con vivacità la giovane, - Sono certa che dinanzi a me saprà scolparsi dalla terribile accusa.

- Ebbene, aspettate un momento, signorina, e lo vedrete! -

Umberto Trani diede gli ordini necessari.

Poco dopo l'uscio sì schiuse e l'assassino entrò nel gabinetto, fra due guardie.

Fabio non ei aspettava di trovarvi la sua fidanzata.

Alla vista di lei diventò pallidissimo; il suo volto espresse alternativamente la passione, il dolore, la sorpresa, l'inquietudine, l'angoscia.

- Ilda! - balbettò l'infelice, stendendo le mani legate dalle manette.

La fanciulla rimase calma, severa.

- Prima di risponderti, - disse - voglio sapere se è vero che parlo con un assassino. -

L'imputato trasalì, distolse gli occhi dalla fidanzata e rispose con un filo di voce:

- Sì.... sono colpevole. -

Ilda ebbe uno scoppio di sdegno.

- Ma perchè, - gridò - perchè uccidere una sventurata che era stata tua amante, che era madre? -

L'agitazione di Fabio aumentava.

- Essa m'impediva di sposarti! - balbettò.

Ilda fece un gesto sdegnoso.

- Alza gli occhi, guardami bene in faccia: tu menti, tu menti! -

Un tremito convulso scoteva l'imputato.

- Ho detto la verità!

- Tu menti! - ripetè con accento vibrante Ilda. - Quella donna tu non la conoscevi nemmeno, ne sono sicura! Se tu sei un assassino, altri ti ha armata la mano, e ti ha spinto a commettere quel delitto per sbarazzarsi di colei che gli dava noia. -

Questa volta Fabio sollevò il capo: le sue guance si erano infiammate, i suoi occhi scintillavano.

- Non è vero, non la creda, signor giudice, - nessuno mi ha spinto a quel delitto, all'infuori della mia vittima. Io, io solo la uccisi....

- Ebbene, io non ti credo, - esclamò l'eroica fanciulla - e ti giuro che un momento o l'altro scoprirò il vero assassino!

- L'assassino sono io! - gridò il disgraziato, e cadde svenuto.

Fabio fu portato via dal gabinetto, e Ilda, esausta, si lasciò cadere su di una seggiola, piangendo.

- Mi sono mostrata crudele con lui; - mormorò - ma era necessario! -

Il magistrato la guardava con simpatia.

- Siete ancora persuasa ch'egli sia innocente?

- Sì, signore, - rispose Ilda asciugando le lacrime.

- Avete dunque indizi contro qualcuno?

- Nessuno, signore; soltanto sono convinta nell'anima che egli è innocente e l'unica speranza che mi sostiene è di fare io stessa un giorno conoscere la sua innocenza. -

Il magistrato scosse il capo senza rispondere, e quando la giovinetta si ritirò, Umberto Trani disse fra sè:

- Costei vale la contessa Bianca. Due nobili cuori, due caratteri forti. Se tutte le donne somigliassero ad esse, anche gli uomini diverrebbero migliori! -

X.

L'istruttoria si chiuse senza incidenti. L'assassino era confesso. Si aspettava il processo.

Nelle soffitte della casa dove abitò la povera Giulietta era un vero fermento. Quando si seppe che il cognato di Aldo era giunto da Ivrea per ritirare l'orfanella, molti inquilini corsero da Teresa per abbracciare ancora una volta la piccola Gina, e per vedere il marito di quella bellissima signora in domino, veduta nella tragica notte.

Il signor Rivalta giunse in compagnia del giudice istruttore e di Aldo.

Quando entrarono nella soffitta, Teresa teneva in braccio Gina, già pronta; presso a lei era il marito. Entrambi avevano gli occhi pieni di lacrime; la piccina invece sorrideva, guardando sorpresa tutta la gente che l'attorniava.

Per alcuni giorni Gina aveva pianto, chiamando la mamma; ma a quell'età presto si dimentica, e dopo una settimana la bimba si trastullava allegramente con altre piccine pel corridoio.

Il giudice istruttore sorrise a Teresa.

- Sapete già, a quello che vedo, il motivo per cui siamo qui! - disse.

- Sì, signore; - rispose Teresa - il signor Aldo ci avvertì ieri sera, e sebbene ci sentiamo spezzare il cuore nel separarci da questa creatura, pure comprendiamo ch'è pel suo bene.

- Voi ragionate da quella savia donna che siete, e, credetelo, io stesso non avrei dato il permesso di togliervela, se non sapevo che veniva affidata a buone mani. Spero che la piccina non avrà difficoltà ad andare col signor Rivalta.

- Vuoi venire con me? - chiese questi a Gina, mentre le porgeva una bambola, che aveva tolta dalla tasca del soprabito.

- Sì, - rispose Gina tendendo le manine per afferrare la bambola.

- Carina! - esclamò il signor Rivalta; e rivolto a Teresa soggiunse: - Mia moglie vi manda questa busta per ricompensarvi delle cure da voi avute in questo frattempo per la bambina. -

Così dicendo aveva tratto dal grosso portafogli una busta che porse a Teresa.

Ma questa rifiutò.

- Non accetto, signore, perchè io tenni la bimba per affetto e non per interesse. Ringrazi la sua signora a nome mio, e le dica piuttosto che mi farà un regalo dandomi qualche volta nuove di Gina e permettendomi di recarmi una volta o l'altra a trovarla.

- Vi vedremo con piacere, - rispose il signor Rivalta.

Poco dopo, Aldo col cognato e la bambina, salutato il giudice istruttore che si trattenne ancora avendo da parlare a Lorenzo ed a sua moglie, salirono in una carrozza per recarsi alla stazione.

Aldo guardò l'orologio.

- Non c'è tempo da perdere: - disse - mancano venticinque minuti alla partenza del treno e Speranza sarà là ad aspettarci.

- Sono ansioso di conoscere questa bella incognita, che non hai ancora saputo chi sia, - disse il signor Rivalta.

- Perchè non ho voluto saperlo; - rispose con calore il giovane - il mistero mi affascina. Ma Speranza è una gentildonna che merita ogni interesse. Al postutto, mi ha detto che oggi stesso ci rivelerà il suo nome e quanto la riguarda, perchè le parrebbe di mancare di fiducia in mia sorella, in te ed in me se continuasse a serbare il suo incognito. -

Giunsero alla stazione. Gina, cullata dal moto della vettura, si era addormentata colla testina appoggiata al petto di Guglielmo. Questi scese con lei fra le braccia e vide tosto che Aldo, aperto l'altro sportello, si precipitava incontro ad una signora vestita di un elegantissimo abito da viaggio, accompagnata da una donna che portava una valigia.

- Grazie, grazie di essere venuta! - disse Aldo.

Bianca, giacchè era lei, sorrise.

- E la bambina?

- Eccola con mio cognato; vieni, Guglielmo! -

Seguì una breve presentazione. Intanto la donna che portava la valigia, guardando la piccola addormentata, esclamava:

- Dio, come è bella!

- Te l'avevo detto, Celia! - esclamò Bianca. - Ma presto: consegna la valigia al signor Aldo, e tu vattene: non abbiamo tempo da perdere. Ricordati i miei ordini.

- Saranno eseguiti a puntino.

- Aldo, va' a prendere i biglietti, o perderemo il treno! - disse Guglielmo.

- I biglietti li ho già presi io, - esclamò Bianca - appunto per non perdere tempo! -

Lo studente ammirò la squisita gentilezza della signora, nè Guglielmo ebbe ragione di offendersi di quell'atto.

Un momento dopo si trovavano tutti e quattro in un vagone di prima classe. Erano soli.

Guglielmo depose sul divano la bambina, che continuava a dormire, Bianca sedette di faccia a lei e vicina a Aldo.

Di fronte aveva Guglielmo, il quale ammirava la incognita che, sollevato il fitto velo, mostrava il suo bel volto.

Avevano appena oltrepassata la stazione di Caluso, quando Gina si svegliò.

Dapprima si guardò attorno quasi spaurita, ma veduto Guglielmo gli sorrise e gli stese le manine. Egli la sollevò per baciarla, poi mostrandole Bianca:

- Conosci quella signora? - chiese.

Gina scosse il biondo capo.

- Chi è? - chiese.

- Sono la tua mammina; - esclamò Bianca - vuoi venire in braccio a me? -

Gina le si slanciò subito al collo, e la contessa la coprì di baci ripetendo:

- Io sono la mamma, sai, carina, e questo signore è il babbo! -

E le additava Aldo.

La bambina passò nelle braccia del giovinotto e gli porse subito le labbra.

Il viaggio fu lieto. Essi giunsero ad Ivrea quasi senza accorgersene.

Il signor Rivalta abitava un po' fuori della città, non lungi dalla stazione, in un modesto fabbricato composto di un solo piano e di un pianterreno, con un vasto giardino ed un orto.

Severina corse ad abbracciare Aldo, poi salutò la contessa Bianca, indi, sollevando Gina, esclamò:

- Ecco la mia angioletta, la mia nipotina! -

Un bel cane da caccia mandava latrati giulivi, festeggiando gli arrivati.

Entrarono in casa, una casetta semplice, ma linda e ridente.

La sorella di Aldo, Severina, non assomigliava al fratello che nel colore dei capelli e nel sorriso. Essa era piccola, piuttosto paffuta, coi colori di una mela-rosa. Ma da tutta la sua persona traspariva la bontà.

Severina condusse Bianca nella camera che le aveva preparata, perchè la contessa aveva promesso di trattenersi un paio di giorni presso la famiglia Rivalta.

Appena furono sole e Bianca si fu tolta il cappello, Severina l'abbracciò.

- Come siete bella! - disse con ingenuo entusiasmo, - Ah! comprendo come vi si possa adorare: io sento di volervi molto bene, e saremo amiche, non è vero?

- Più che amiche, sorelle! - esclamò Bianca ricambiando i suoi baci.

Quando scesero si tenevano a braccetto.

Severina lasciò Bianca con Aldo per vedere se tutto era in ordine per il pranzo. Guglielmo era andato a cambiarsi d'abito, e Gina si baloccava in giardino.

- Che giornata incantevole! - disse la contessa. - Come mi sento felice in quest'atmosfera sana e affettuosa!

Aldo la guardava con immensa tenerezza.

- Perchè non rimanete qui a lungo?

- Perchè non posso. -

Una leggiera nube di tristezza era apparsa sulla sua fronte, ma tosto disparve.

Il pranzo fu allegrissimo: Gina sorrideva a tutti, inviava baci sulla punta dei ditini a Bianca, ad Aldo chiamandoli babbo e mamma, e si sporgeva ogni tanto ad accarezzare Guglielmo e Severina, che le erano accanto e si occupavano continuamente di lei.

Quando fu portato il caffè, Gina fu lasciata libera di correre in giardino, la donna di servizio si era ritirata in cucina a sbrigare le sue faccende, e gli altri rimasero liberi di discorrere.

- Ecco il momento di dirvi tutto quanto mi concerne! - esclamò Bianca con un sospiro. - Vi prego di ascoltarmi. -

Tutti le porsero orecchio.

- Io sono la contessa Bianca Rossano....

- Rossano? - interruppe Guglielmo. - Io ho conosciuto un conte Sebastiano Rossano, morto una diecina di anni fa!

- Era il padre di mio marito, - disse Bianca.

La fronte di Guglielmo si oscurò.

- Ma allora, conosco anche vostro marito, il conte Livio.

- Precisamente: Livio è il suo nome. -

Guglielmo stava per riaprire la bocca, ma Severina glielo impedì.

- Lascia che parli lei, - disse - e poi ci dirai tu come conosci persone di cui non mi parlasti mai.

- Prima di continuare, - soggiunse Bianca - ditemi signor Rivalta: è vero che il padre di Livio fu un uomo dissoluto, perverso?

- No! - rispose Guglielmo. - Il conte Sebastiano Rossano era il fiore dei gentiluomini. Povero conte! Egli fu abbeverato di dispiaceri e morì di crepacuore....

- A cagione del figlio, non è vero? - proruppe Bianca, - Oh! ditemi tutto: sappiate che io sono una vittima del miserabile, cui mi trovo legata per sempre. -

Aldo si sentì torcere il cuore.

Spesso aveva pensato che quella nobile, pura creatura non doveva essere libera; ma l'idea che fosse unita ad un uomo ignobile, gli procurava un così acuto dolore, che gli pareva di morire.

Guglielmo aveva rivolto uno sguardo di profonda compassione alla contessa.

- Povera signora! - disse colla sua semplice franchezza. - M'immagino la vita che dovete condurre con lui. Egli è stato un figlio malvagio, non può essere un buon marito. Di lui io non so altro che, morti i suoi, condusse un'esistenza sfrenata, e in pochi anni divorò il patrimonio lasciatogli, la sostanza ammassata con sudori e lacrime dal padre. Sarei curioso di sapere in qual modo abbia trovato una moglie vostra pari.

- Coll'inganno più vile! - rispose Bianca.

E narrò tutta la sua vita, non nascondendo i recenti patti stabiliti col marito e come questi li avesse accettati, temendo di perdere le rendite di cui godeva. Assicurò inoltre che ormai si trovava libera di ogni sua volontà ed avrebbe potuto dedicarsi a Gina, recarsi sovente a trovarla. A questa punto Aldo le rivolse sguardi pieni d'amore e di riconoscenza.

Le ore trascorsero in quelle intime confidenze: poi tutti sì alzarono da tavola per fare una passeggiata in giardino.

Aldo doveva ripartire la stessa sera per Torino, ma prima di quell'ora potè trovarsi un istante da solo con Bianca. Essi erano assai commossi, guardandosi.

- Prima di partire, - disse il giovane - volevo chiedervi, contessa....

- Contessa? - interruppe vivamente Bianca. - Per voi, Aldo, sono e rimarrò sempre Speranza. -

Un raggio di gioia brillò sul volto dello studente, che presa la mano di Bianca se la portò alle labbra.

Bianca arrossì di gioia.

- Che volevate dunque chiedermi prima di partire? - domandò.

- I vostri ordini. -

Ella rise come una bambina, fissandolo con occhi luminosi.

- Eccoli. Prima di tutto dovete studiare, perchè non vorrei che per causa mia trascuraste le vostre lezioni.

- Da che vi conosco sento ancor più il desiderio di applicarmi, perchè voglio che non abbiate mai nulla da rimproverare a vostro fratello.

- Sono sicura che sarò sempre contenta di voi. Voi saprete inalzarvi nelle più eccelse sfere.

- Con voi per amica mi sento davvero capace di tanto! -

Un sorriso di Bianca fu la risposta.

La sera, sola nella graziosa camera che le avevano destinata, Bianca, invece di coricarsi, sedette su di una poltrona e si pose a fantasticare. Come era passato rapido quel giorno! Come si sentiva lieta, sollevata!

Ricordava l'ultimo saluto di Aldo, prima di recarsi alla stazione.

- A rivederci, mia Speranza! -

Sì, ella sarebbe la sua speranza, il suo raggio di sole, come egli lo era per lei.

Nella semplicità della sua anima, Bianca non credeva di commettere una colpa abbandonandosi a quell'affetto puro, profondo, che nulla aveva di volgare.

XI.

Il giorno del processo di Fabio Ribera era giunto.

L'udienza era fissata per le dieci, ma fino dal mattino la folla si pigiava alle porte dell'aula di giustizia.

Ed appena quelle porte si aprirono, tutto il recinto riservato al pubblico fu pieno in un attimo.

Nei posti riservati presero posto diverse signore e qualche titolato, fra cui il conte Livio Rossano. Più lungi, in compagnia di una signorina, sedeva la contessa Bianca.

Entrò la Corte.

Dopo le formalità preliminari, il presidente disse:

- Introducete l'imputato. -

Vi fu un mormorio di curiosità.

Fabio comparve, vestito di nero, pallidissimo ma calmo.

Egli volse uno sguardo tranquillo sulla folla curiosa, ma ad un tratto quello sguardo s'illuminò, un roseo colore gli si diffuse sulle guance.

Forse aveva veduto qualcuno che conosceva, ma nessuno avrebbe potuto dire chi fosse la persona che destava in lui quella rapida commozione.

Il silenzio nell'aula era perfetto.

Declinate, a richiesta del presidente, le sue generalità, Fabio sedette finchè il cancelliere non ebbe letto l'atto di accusa, che l'accusato ascoltò senza il minimo trasalimento, cogli occhi perduti come in un sogno, la fronte alta e fiera.

Cessata la lettura, la voce del presidente annunziò l'interrogatorio.

- Fabio Ribera, avete udito l'atto d'accusa? Che avete da rispondere?

- Che i fatti sono quali io stesso ho confessati: mi riconosco colpevole. Nego peraltro d'aver premeditato il delitto e ripeto che la vittima stessa mi spinse a commetterlo. -

Un mormorio di disapprovazione accolse queste parole.

L'accusato rimase calmo e con fermezza narrò l'accaduto, come l'aveva raccontato al giudice istruttore, non commovendosi che al momento in cui parlò della fidanzata, della sua Ilda, non nascondendo la sua intensa passione per lei, le angosce del suo cuore, le sue atroci angosce all'idea di dover rinunziare per sempre a farla sua moglie.

Il suo accento profondo scosse l'uditorio.

Un uomo si era accigliato: il conte Livio Rossano.

- Ora si comprende la causa del delitto! - diceva la gente. - Quell'Ilda gli ha fatto girare la testa, forse l'ha spinto ad uccidere quella sventurata. Lei sola dovrebbe trovarsi in quella gabbia! -

L'interrogatorio era finito: incominciava la sfilata dei testimoni.

Tutti furono concordi nell'affermare la rettitudine della povera Giulietta, tutti ebbero imprecazioni per l'assassino, parole di profondo compianto per la vittima.

Quando il presidente dette ordine di introdurre la fidanzata di Fabio, vi fu un vivo sentimento di curiosità nel pubblico.

Ma nessuna commozione poteva uguagliare quella dell'imputato e del conte Rossano.

Livio, divenuto pallidissimo, fu còlto da un brivido dal capo alle piante.

Fabio tremò convulsamente; i suoi occhi sbarrati, pieni di angoscia, seguirono la direzione degli occhi del pubblico.

Ilda entrò.

Il suo primo sguardo fu per l'imputato, sguardo d'amore, di pietà.

Il cuore di Fabio ne fu squarciato.

Poi ella girò gli occhi sul pubblico, impressionando anche i più indifferenti.

Ilda si spiegò senza enfasi, ma con fermezza, raccontando la sua semplice storia, il suo incontro con Fabio, il loro casto amore, fino al momento della partenza del giovane per recarsi a cercare le carte riguardanti il loro matrimonio.

Poi raccontò come avesse saputo del suo arresto e del delitto di cui l'accusavano.

A questo punto, ergendo la bella e pallida testa, esclamò con voce sonora:

- Il delitto è stato commesso: la mano del mio fidanzato l'ha compiuto, ma il vero colpevole non è lui. L'uomo che l'ha spinto a perdersi è forse in questa stessa aula ed assiste imperterrito alla condanna della vittima. Ebbene, colui che Fabio non vuole accusare, preferendo l'infamia, preferendo di rinunziare a me piuttosto che denunziarlo, colui che io non conosco, ma che intuisco chi sia, colui fu il vero amante della povera Giulietta, il suo seduttore. Teresa Pavin lo scambia col mio fidanzato, ma io lo ritroverò un giorno, lo giuro, e quel giorno il mio povero Fabio e la misera Giulietta saranno vendicati! -

Questa dichiarazione produsse un effetto immenso, inaspettato. Ilda aveva ad un tratto conquistato il pubblico, che si abbandonò ad alta voce a mille commenti. L'imputato si piegò sulla panca e svenne.

Lo trasportarono fuori dell'aula e l'udienza fu sospesa per alcuni momenti. Nessuno pose mente al conte Livio Rossano, che fino dalle prime parole della fanciulla era stato assalito da un tremito convulso ed i suoi denti mordevano rabbiosamente le labbra.

E appena Ilda tacque, il conte lasciò la sala.

L'udienza fu ripresa poco dopo.

Fabio era tornato al suo posto, abbattutissimo.

Gli fu chiesto quanto vi fosse di vero nelle parole della fidanzata, ed egli rispose debolmente:

- Ella cerca di difendermi, ma non lo merito: io solo sono colpevole. Ho detto la verità. -

Ilda ebbe un sorriso pieno di compassione.

- Povero Fabio! - disse. - Credi che il tuo sacrifizio sia apprezzato da colui che armò la tua mano? Scommetto che il vile trema nel timore che tu venga assolto, perchè la tua condanna sarà la sua vita. Ah! potessi avere una sola prova contro lui! Ma la troverò. In quanto a me, Fabio, giuro su quel crocifisso che, colpevole o no, non cesserò mai di amarti, e puoi contare ora e sempre sul mio affetto. -

Un singhiozzo strinse la gola dell'imputato, mentre i suoi occhi si empivano di lacrime.

Nella sala vi fu un tentativo d'applausi.

L'idea della fanciulla era stata accolta. Quanto ella aveva detto poteva esser vero.

Incominciò l'interrogatorio a favore dell'imputato. Il suo principale, i commessi, diversi clienti del negozio, tutti attestarono dell'onestà di Fabio, della vita modesta che conduceva, del suo sviscerato amore per Ilda. Nessuno gli aveva conosciuto altre amanti: era rispettosissimo colle commesse e preferito dalle clienti per il suo contegno riservato.

Fabio era commosso, agitato.

Il suo principale lo salutò, dicendo ad alta voce:

- A rivederci, Fabio: io pure, come la tua fidanzata, non ti credo il vero colpevole, e quando uscirai di prigione, troverai sempre il tuo posto presso di me, ti stenderò sempre la mano da amico. -

Fabio si mise a piangere e balbettò a stento:

- Grazie, grazie! Che Dio la ricompensi della sua bontà, che io non merito! -

Continuò l'interrogatorio dei testimoni, ma non ebbero più importanza.

Nella seduta pomeridiana ebbe luogo una requisitoria schiacciante per l'imputato.

Ma la difesa, quantunque riconoscesse che tutte le prove erano contro l'accusato, volle difendere il giovane. Rivelò la dichiarazione della fidanzata, ed aggiunse abilmente che esistevano molti punti oscuri nella faccenda, e sperava che un giorno si facesse piena luce, benchè l'accusato si ostinasse a farsi credere il solo colpevole. Finì col dichiarare che Fabio Ribera poteva sostenere benissimo la sua colpa, i giurati condannarlo, ma che la sua convinzione e quella del pubblico sarebbe quella della coraggiosa Ilda: che l'imputato fosse una vittima.

L'uditorio accolse con simpatia quella difesa, perchè Fabio si era conquistato l'interesse di tutti, e quando i giurati si ritirarono per deliberare, molti fecero voti perchè la condanna fosse mite.

La deliberazione non fu lunga. Il verdetto era affermativo, ma ammetteva le circostanze attenuanti.

Fabio Ribera fu condannato a sei anni di reclusione.

- Non avete nulla da dire? - chiese il presidente all'imputato.

Questi si alzò, e con voce commossa rispose:

- Ringrazio il signor presidente ed i giurati della loro clemenza: sono colpevole, ho assassinato, meritavo anch'io la morte. Ma cercherò di espiare il mio delitto col pentimento. -

La commozione aveva invaso tutti, e mentre il pubblico usciva dall'aula, si abbandonava ancora a mille commenti.

L'imputato era uscito dalla gabbia, ma prima di essere ricondotto in prigione s'incontrò nel corridoio con Ilda, che una persona pietosa aveva fatta passare colà.

A quella vista, il povero giovane scoppiò in dirotto pianto, e mentre ella, con uno slancio spontaneo, gli gettava le braccia al collo, balbettò fra i singhiozzi:

- Grazie, Ilda, angelo mio, posso morire adesso, che non avrei pagata abbastanza cara la felicità di sentirmi così amato da te!

- Tu non devi morire, ma vivere per me, che ti aspetterò. Coraggio! Ne avrò anch'io! -

Furono subito separati, ma essi avevano in quel momento un paradiso nel cuore, e l'ultimo sguardo che si ricambiarono valeva più d'un giuramento.

In quell'istante stesso il conte usciva dalla Corte d'Assise, ed accendendo una sigaretta, mormorava fra sè:

- Sei anni? Sono pochi, ma in questo frattempo cercherò il mezzo di sbarazzarmene per sempre e di ridurre Ilda ad ogni mio volere. -

E salì in carrozza per tornare a casa.

XII.

La sera del verdetto il conte, che aveva pranzato con sua moglie, quando Bianca fu sul punto di alzarsi da tavola le disse con dolcezza:

- Ho bisogno di parlarvi.

- Allora andiamo nel salotto da fumo, - disse Bianca.

Il conte la seguì, e appena soli le disse:

- Questa vita non può durare.

- Vorreste cambiarla? - chiese essa lentamente.

- Sì, perchè questo genere di vita mi pesa. Ho tutti i doveri del marito, senza averne i diritti. Mi trovo di fronte ad una volontà inaudita. Ebbene, sono venuto ad una decisione, che voi stessa approverete.

- Sentiamo, - disse Bianca.

Livio si passò una mano sulla fronte, come per scacciarne un pensiero importuno, poi disse:

- Ecco ciò che avrei deciso. Io figurerò di vivere sotto il vostro tetto, continuerò a tenere qui il mio appartamento, ma non faremo più vita comune, cioè non pranzerò più in casa, non vi accompagnerò più in società, al teatro, non avrò più le noie dei bagni, della villeggiatura: sarò completamente libero delle mie azioni, come lo sarete voi.

- Accetto, - disse Bianca - perchè non vi nascondo che la vostra presenza mi è insoffribile. Avete altro da dirmi? - soggiunse.

- Abbiamo da regolare la questione degli interessi. -

Bianca ebbe un sorriso ironico.

- È vero; - rispose - l'avevo dimenticato. Fate benissimo a ricordarla. Quanto volete? -

- O cedermi subito metà della vostra dote, o passarmi quindicimila lire di reddito mensile. Per voi, le altre cinquemila basteranno.

- Certamente! - soggiunse Bianca col suo accento ironico. - Non vi credevo così generoso.... col mio denaro. Ma sia pure. Io non intaccherò il capitale, perchè se vi dessi metà della mia dote, alla fine del mese sareste a domandarmi l'altra. Vi passerò il reddito che chiedete, e vi consegnerò stasera stessa la prima mesata.

- Avrei bisogno di centomila lire, poi il patto è conchiuso. Vi basterà firmare questa carta. -

Ella vinse l'ira che sentiva e disse freddamente:

- Vediamo. -

La lesse da cima a fondo, temendo un tranello. Quella carta era l'autorizzazione di vendere una cartella a lei intestata di cinquemila lire di rendita.

- La firmerò, - disse - ma vi avverto che sarà l'ultima concessione. D'ora innanzi non avrete che il reddito fissato. Ma prima ch'io firmi, stabilite in iscritto i patti da voi fatti, e firmateli. E quella carta rimarrà presso di me.

- Devo scriverla adesso?

- Sì.

- E se rifiutassi?

- Io non firmerei questa. -

Livio capì che Bianca non avrebbe ceduto. Fremeva dalla rabbia, ma si contenne.

- Attendete un momento, ve la porterò subito.

Livio uscì dal salotto, e poco dopo rientrò con una carta in mano.

La contessa percorse rapidamente cogli occhi il foglio già firmato, poi disse:

- Va bene. -

Indi prese la penna e scrisse il suo nome sull'altra carta.

- Grazie! - disse il conte.

Bianca uscì dal salotto.

Pochi momenti dopo, il conte, salito in carrozza, si fece condurre alla casa dove Ilda abitava.

Livio aveva già fatto il suo piano e vi pensava salendo le scale che conducevano al modesto quartiere della fanciulla. Fu sorpreso di trovare l'uscio aperto, e inoltratosi alquanto, chiese:

- È permesso? -

Nessuno gli rispose, ma un rumore sommesso di voci e gemiti disperati lo fecero accorrere senza esitare nell'altra stanza.

Il quadro che si offrì ai suoi occhi lo turbò profondamente.

Distesa sopra il letto, immobile, irrigidita, era la madre di Ilda. Gettata quasi attraverso il corpo di lei, gemendo, chiamandola con accento disperato, era la giovinetta.

Due donne tentavano di strapparla da quel letto: altre due donne parlavano in un angolo, sottovoce.

Il conte si avvicinò a Ilda, e con accento commosso:

- Che vi accade, signorina, per disperarvi così? -

Il suono di quella voce fece scattare in piedi la giovinetta, che guardò il conte come smarrita, poi proruppe in pianto.

- La mamma è morta! - balbettò. - La mamma è morta! -

E di nuovo si gettò sul cadavere, dicendo con un accento straziante:

- Perdonami, mamma adorata, apri gli occhi un solo momento, uno solo. -

Il conte trasse le donne nella stanza vicina e disse con un accento che sembrava profondamente commosso:

- Lasciamola sfogare, non la turbiamo; quando si sarà calmata, le parlerò, procurerò di confortarla. Del resto, quella morte era da aspettarsi: la povera donna si trovava così distrutta....

- Davvero! Essa è morta di dolore, - disse una donna. - Povera Ilda! La madre morta, il fidanzato in prigione.... Merita proprio pietà!

- Ed ogni riguardo, - soggiunse, il conte. - Però vi consiglio di non turbarla, di non lasciarvi vedere per qualche ora. Io rimarrò qui per ogni evento, ed al bisogno vi chiamerò. -

Così, coi modi più gentili, Livio le mise fuori dell'uscio, che subito richiuse per tornare solo nella stanza della morta.

Egli sedette in disparte e lasciò che la fanciulla continuasse a piangere. Quando, esausta, vacillante, essa cadde su di una seggiola, il conte le si avvicinò.

- Signorina, coraggio: la disgrazia che vi colpisce è immensa, è la maggiore delle disgrazie. Perdere la mamma adorata, che è tanta parte di noi, è un dolore terribile. Io pure l'ho provato: quel giorno fu il più doloroso della mia esistenza. -

Lacrime vere, cocenti, colarono dagli occhi di Livio. La fanciulla, che aveva alzato il capo a guardarlo, trasalì. Si era dunque ingannata sul conto di quel gentiluomo? Fabio aveva ragione, quando le diceva che era un'anima eletta?

Livio proseguì:

- Il solo conforto lo trovai nel ricordo del suo amore, delle sue virtù, al pensiero che essa dal Cielo avrebbe sempre vegliato su me. Pensate lo stesso, Ilda, perchè vostra madre era una santa, e dalla sua memoria attingerete quella forza che ora vi manca.

- Il mio dolore è acuito dall'idea che anch'io contribuii alla sua morte, perchè, se non avessi conosciuto Fabio, se non l'avessi tanto amato....

- Anche vostra madre ed io lo amavamo, - interruppe grave il conte - e se io sopportai con maggior forza il dolore da lui datomi rendendosi assassino, vostra madre, già debole, malata di cuore, si è accasciata ed ha sofferto atrocemente, non tanto per sè, quanto per voi. Poteva una madre rimanere insensibile al vostro dolore? Forse il suo affanno proveniva anche dalla vostra nobile esaltazione nel sostenerlo innocente. -

Ilda parve richiamata bruscamente alla realtà.

- Ma io lo credo ancora, e lo crederò sempre, e sempre cercherò colui che l'ha trascinato alla rovina.

- Povera fanciulla, io non voglio distruggere la vostra illusione; ma se vi fosse un altro colpevole, Fabio non si sarebbe lasciato condannare, ben sapendo che la sua condanna gli farebbe perdere il vostro amore.

- Ma io ho giurato di attenderlo, di non amare altri che lui, e manterrò il mio giuramento! - proruppe la giovane.

Il conte Livio si morse le labbra, tuttavia rispose:

- Ciò vi fa onore, perchè infine egli è stato colpevole appunto per possedervi.

- Credete proprio che sia questo il motivo del suo delitto?

- Lo credo. Se fosse altrimenti, io avrei speso il mio intiero patrimonio per far risplendere la sua innocenza. -

La fanciulla rimase un momento perplessa, ma poi, sollevando il capo:

- No, no.... - disse con indignazione - Fabio non sarebbe stato capace di un delitto così abominevole, se qualcuno non ve lo avesse spinto.

- Sì, la sua vittima. -

Ilda avrebbe replicato, ma i suoi sguardi caddero sul cadavere della madre.

Allora gettò un grido e scattò in piedi.

- Sono una cattiva creatura! - esclamò. - Io non devo pensare in questo momento che a lei, a lei sola! -

E tornò ad abbracciarla.

Il conte passò la notte in quella camera. Egli stesso si occupò del funerale e di tutte quelle formalità che accompagnano sempre la morte.

E quando la povera vecchia venne portata al camposanto, Ilda la seguì in carrozza chiusa, sola col conte.

Le vicine di casa della giovinetta incominciarono a malignare sul suo conto.

Quel bel signore che non la lasciava più, aveva per lei mille premure, si incaricava di tutto, aveva per certo preso il posto di Fabio.

Ilda visse per alcuni giorni come in un triste sogno.

Ma quello stato non poteva durare a lungo.

Una mattina il conte, recandosi come il solito da lei, vide che essa aveva ricuperato il predominio di sè stessa e nei suoi occhi brillava l'energia di prima.

- Io non ho parole per ringraziarvi di tutto ciò che avete fatto per me e per la povera mamma, - diss'ella al conte con accento mesto e dignitoso - e spero di potere un giorno, col mio lavoro, rendervi il denaro sborsato in questa occasione.

- Non ne parlate, Ilda, o mi farete arrossire! - interruppe vivamente il conte. - Voi non avete alcun obbligo verso me: è mio dovere assistervi, confortarvi, ora che siete sola al mondo. -

Il bel volto di Ilda assunse un'espressione di scoramento.

- Voi siete buono, signore, e vi ringrazio con tutta l'anima; ma adesso che mi sento meglio, penso che devo bastare da sola a me stessa: la vostra assiduità presso una povera fanciulla come me sarebbe male interpretata....

- Che importa il mondo, quando abbiamo la coscienza tranquilla? - soggiunse il conte nobilmente, - Se vi fosse qui Fabio, egli stesso vi direbbe di accettare il mio appoggio: per mezzo del suo avvocato difensore mi rivolse la preghiera di non abbandonarvi, mi scongiurò di vegliare su voi.... e se sapesse che rifiutate di ricevermi come un amico sincero, sono certo che ne soffrirebbe. -

Ilda si sentì commossa.

- No, non rifiuto di ricevervi; ma voi, che siete un gentiluomo di senno e di cuore, dovete riflettere che una fanciulla sola, alla mia età, è sottoposta a calunnie, anche conducendo la vita più onesta, specialmente vedendo frequentare assiduamente la mia casa da un signore come voi....

- Potrei essere il vostro tutore!

- Siete troppo giovane.

- Non sono così giovane come vi sembro, e vi ripeto che Fabio stesso....

- Fabio - interruppe gravemente Ilda - crede che la mamma viva ancora, e certo, se lei ci fosse, vorrei che veniste tutti i giorni per parlare di quello sventurato.

- Possiamo farlo egualmente, fanciulla mia, - soggiunse con accento paterno Livio - se voi farete tacere i vostri scrupoli e mi permetterete di venire qui se non tutti i giorni, almeno un paio di volte alla settimana.

- Ebbene, accetto, - rispose Ilda - perchè mi parrebbe di essere un'ingrata se vi chiudessi addirittura l'uscio in faccia, dopo quanto faceste per me nel momento più doloroso della mia vita. -

Le lacrime cadevano in gran copia dai suoi occhi.

- Non vi alterate così, ve ne supplico! - esclamò Livio con un tono che sembrava profondamente commosso. - Finirete con l'ammalarvi!

- Avete ragione, - rispose la fanciulla asciugandosi gli occhi, - Io ho bisogno di essere sana per lavorare.

- Contate di tornare al solito magazzino?

- Non so ancora, rifletterò. Mi sembra che colà, dove troverò vuoto il posto occupato dal mio Fabio, mi aspetti una sofferenza insopportabile.

- Io vi consiglierei per vostro bene a rinunziare a quel posto. Perchè non mettete un piccolo negozio di mode per conto vostro, del quale sareste padrona?

- Perchè mi manca il denaro, - rispose Ilda brevemente.

- Ma io metto la mia borsa a vostra disposizione.

- Ma io rifiuto, perchè ho già un debito assai grosso con voi, che forse non giungerò mai a pagare.

- V'ingannate, perchè se il negozio andasse bene, potreste triplicare il capitale che vi offro in prestito. E intanto mi paghereste gl'interessi. -

Ilda scosse il capo.

- No, non accetto, - disse - anche perchè non desidero di mettermi in vista dopo l'accaduto e per un riguardo a Fabio, al quale sono legata da un giuramento, che manterrò. Lasciatemi riflettere qualche giorno, e poi vi dirò quello che farò.

- Come volete.

- Oggi è mercoledì; tornate sabato sera, non prima.

- Vi obbedirò. -

Il conte era internamente irritato, ma salutò con garbo la ragazza ed uscì.

Fremeva d'ira. Egli si era giurato di far sua quella giovane che, bella com'era, aveva scatenato in lui una passione sensuale. Alla moglie, non pensava più.

Aveva preso un alloggio da scapolo elegantissimo, e colà viveva a modo suo.

Egli fu nervoso, impaziente in quei tre giorni che non potè recarsi da Ilda. Gli sembrava di non averla mai tanto desiderata.

Il sabato sera si recò dalla giovane e salite in fretta le scale sonò timidamente il campanello.

Nessuno rispose. Sonò più forte: sempre silenzio. Un turbamento invincibile lo invase. Che era accaduto?

Il conte scese lesto lesto le scale, entrò come una bomba dal portinaio, e domandò:

- La signorina Ilda?

- La signorina Ilda lasciò il suo alloggio ieri mattina, - rispose il portinaio - senza darci il suo nuovo indirizzo. Soltanto mi disse: «Se venisse un signore a chiedervi mie notizie, gli direte che le troverà in una lettera ferma in posta.»

- Va bene, grazie! - disse il conte dando la mancia al portinaio e andandosene.

Si recò alla posta a ritirare la lettera a lui diretta.

L'aperse e lesse:

«Signor conte, mi perdoni se ricambio male le sue premure, ma una volontà più forte della mia ragione mi spinge ad allontanarmi dalla casa dove conobbi al tempo stesso la felicità e la sventura, nè desidero rivelare a lei o ad altri dove mi ritiro, perchè mi crederebbero pazza. Intanto le rimborso le 150 lire da lei spese per i funerali della mamma. La prego di perdonarmi se non accetto il suo appoggio, ma una fanciulla sola non deve avere per amico un signore ricco e giovane come lei. Non dimentico però i suoi benefizi e pregherò Dio che la ricambi con tanta felicità. «Mi creda sua devotissima e obbligatissima serva «Ilda.»

Il conte, nella sua rabbia, fece una pallottola della lettera, la stracciò coi denti.

Quella fanciulla si era presa giuoco di lui.

Dove si era recata?

- Stupida! - disse a denti stretti. - Credi forse che rinunzi a te? No, ti troverò, perchè ti amo e ti voglio! -

E, a passi concitati, si diresse al circolo.

PARTE SECONDA Virtù d'amore.
I.

Sonavano le nove di sera, pioveva a dirotto.

I commessi del magazzino dove era stato impiegato Fabio si erano già tutti ritirati, il facchino stava mettendo le bande alle vetrine del negozio, e il principale, dato uno sguardo ai conti della giornata, si accingeva a recarsi a cena, quando una giovane vestita a lutto, pallida, bellissima, entrò vivamente dirigendosi verso lui.

- Signor Berardo! - balbettò con voce commossa.

- Ilda, voi? Finalmente!... Siete guarita?

- Sì, signore, e desidererei parlarle. Mi perdoni se vengo a quest'ora, ma desideravo che fosse solo per non essere veduta.

- Aspettate un momento, entrate nel mio gabinetto; faccio terminare di chiudere, prendo le chiavi, mando via il facchino e sono da voi. -

Ilda obbedì, e poco dopo il signor Berardo la raggiunse chiedendole con bontà:

- Che avete da dirmi, Ilda? Che posso fare per voi?

- Lei può farmi molto bene, signore; e poi, è l'unico cui possa confidarmi, senza timore che le mie parole vengano ripetute. -

Il signor Berardo sorrise.

- Vedo che mi conoscete bene. Orsù, dunque, coraggio!

- Oh! ne ho, signore, nonostante la doppia sventura che mi ha colpita. Le scrissi, tempo fa, dicendole che poteva disporre del mio posto, perchè io non mi sarei sentita la forza di rimanere nel luogo dove tutto mi ricordava Fabio. Aggiunsi inoltre che la morte improvvisa di mia madre aveva finito con l'abbattermi e che ero malata....

- Sì, lo ricordo, ho la vostra lettera. Ebbene, ora volete tornare con noi? -

Ilda scosse il capo.

- No, signore: i motivi che mi impediscono di rimanere qui, sussistono sempre. E poi, io ho bisogno di molte ore di libertà per giungere allo scopo che mi sono prefissa: ritrovare colui che spinse Fabio ad un così esecrando delitto. -

Il signor Berardo la guardò, commosso.

- Vi auguro di riuscire. Intanto, che posso fare per voi?

- Ascolti ancora un momento, abbia pazienza, non voglio nasconderle cosa alcuna. Dopo la morte di mia madre, io lasciai la casa dove dimoravo e mi recai ad abitare nella soffitta stessa dell'assassinata, senza dire chi fossi. Per non essere riconosciuta dagl'inquilini che assistettero al processo, porto di solito una parrucca bionda, mi tingo le guance col minio, metto sotto il corsetto un'imbottitura che mi ingrossa, e con lo stesso artificio ingrosso i miei fianchi.

- Perchè stasera non siete truccata così?

- Perchè non volevo farle brutta impressione. Ma d'ora innanzi ella mi rivedrà trasformata. Nella nuova casa ho assunto il nome di Laura Favre, che è quello d'una mia bisnonna, nata e morta ad Aosta. Ora io sono a pregarla di procurarmi del lavoro in casa, per guadagnarmi da vivere.

- Il guadagno non sarà lauto.

- Io non sono esigente: pochi soldi bastano a mantenermi.

- Ma incontrerete delle spese per lo scopo che vi proponete.

- Ho venduto una parte dei mobili della mia povera mamma e diversi oggetti d'oro, e ne ho ricavato trecento lire, metà dello quali restituii a persona che me le aveva prestate per i funerali della mamma.

- Perchè non vi siete rivolta a me?

- Ero così stordita dai colpi ricevuti, da perdere la percezione delle cose. Quella persona mi offrì allora i suoi servigi, che non ricusai. Ma volli tosto sdebitarmene, perchè non ho fiducia in costui, benchè sia un gentiluomo. Così mi rimangono centocinquanta lire: un piccolo tesoro! -

Il signor Berardo appariva commosso.

- Un tesoro che finirà presto, - disse - benchè sappiate regolarvi. Però, ove foste in bisogno, ricordatevi di me. Intanto state certa che il vostro segreto sarà custodito; ora io scriverò il vostro nome, Laura Favre, fra le lavoranti in casa, e stasera stessa vi consegnerò una pezza di stoffa per farne camicette. Vi unirò gli ultimi figurini. Le misure per tali camicette già le conoscete. Invece di pagarvele un tanto l'una, come faccio di solito, vi passerò in complesso quattro lire al giorno, ed ogni sabato sera, quando saranno uscite le lavoranti, verrete a ritirare il vostro onorario. Non vi disturbate a venire a prendere e riportare il lavoro: vi manderò una piccolanuova, che non vi conosce. -

Ilda l'ascoltava con le lacrime agli occhi.

- Come è buono! In qual modo potrò dimostrarle la mia riconoscenza?

- Col rimanere onesta, come siete stata fino ad ora. Inoltre, badate di non commettere imprudenze nel ricercare il colpevole.

- Non dubiti! -

Il colloquio durò ancora pochi minuti, poi Ilda si accomiatò dal generoso negoziante e, preso il suo lavoro, si diresse verso casa.

Giunta nella soffitta, accese una lampada a petrolio, si svestì e indossò un vestitino semplice da casa, imbottito alle anche ed al corsetto, che ingrossò subito la sua svelta figura; sulle strette trecce nere pose una capigliatura, bionda, così bene accomodata che pareva vera, e che le cinse il capo come un diadema.

Quella capigliatura dette un fascino nuovo alla sua bellezza.

Si passò poi sul volto uno strato di veloutine e sulle guance un po' di minio.

Quand'ebbe finito, sentì bussare all'uscio.

- Signorina Laura! -

Essa aprì: era Teresa, la moglie del falegname.

- Uscite, signorina?

- Sono tornata a casa adesso, perchè mi sono recata a prendere del lavoro, - rispose Ilda. - Piove forte.

- Lo so, e siccome devo scendere per la cena prima che torni il mio uomo, vi pregherei di prestarmi l'ombrello.

- Volentieri. -

Uscita Teresa, Ilda si preparò anch'essa la cena.

La giovane aveva tenuti i suoi mobili migliori, e nulla le mancava del necessario.

Quando prese a pigione la soffitta, la portinaia non mancò di avvertirla che ivi era stato commesso un delitto, ma essa le disse:

- Per me, non ho alcun timore: l'ombra di quella povera morta, che non ho conosciuta, non verrà a turbarmi, nè, spero, mi accadrà ciò che accadde a lei. Io non ho amanti....

- Neppure Giulietta ne aveva: era una ragazza onestissima, di buona famiglia. Ebbe dapprima la sfortuna d'imbattersi in un farabutto che, dopo averla resa madre, l'assassinò, per sposarne un'altra.

- L'avete conosciuto, costui?

- A dirle il vero, no: questo casamento è troppo grande per tener d'occhio tutti.

- Si deve stare poco sicuri nelle stanze.

- Oh! per questo le devo dire che in dieci anni che io sono qui, non è mai accaduto un furto.

- Ho almeno dei buoni vicini?

- Ottimi, e saranno felici di esserle utili. -

Ilda pagò subito l'affitto di due mesi, ed il giorno dopo prendeva possesso della soffitta di Giulietta sotto il nome di Laura Favre.

Non era trascorsa una settimana, che aveva già fatto amicizia colle vicine, cui disse che era orfana e lavorava per conto di un importante magazzino.

- Un'altra Giulietta; - fu detto - ed ancora più bella!

- Auguriamoci che non faccia la sua fine!

Questi furono i discorsi delle comari; poi, nessuno si curò di lei più di quanto si usa fra vicini.

Ilda aveva il suo piano ed a poco a poco l'avrebbe messo in esecuzione.

Intanto si sentiva molto più libera in quella soffitta che nel quartierino dove la sua povera mamma era morta.

Ilda aveva terminato la sua modesta cena, quando bussarono di nuovo all'uscio.

- Sono io, sono Teresa, - disse una voce al di fuori.

La giovane aprì subito.

- Vi restituisco l'ombrello e vi ringrazio, - disse Teresa, - Ma perchè, invece di star qui sola sola, non venite a passare il resto della sera da noi? Faremo una partita a tombola; ci sarà anche un'altra giovane della vostra età, per scambiare quattro chiacchiere. Accettate?

- Con tutto il cuore! - rispose Ilda, che voleva accaparrarsi la simpatia delle vicine.

- Allora vi aspettiamo, - soggiunse Teresa. - Vado ad avvertire anche Vigia. -

Ilda la seguì poco dopo.

Alla tavola coperta di un tappeto rosso sedevano il falegname, un giovane in abito da operaio ed una giovane sui vent'anni, dal volto sfrontatello ma seducente, con una bocca incantevole e bellissimi denti.

All'entrare di Ilda, tutti si alzarono, e dopo uno scambio di complimenti, le due ragazze sedettero vicino.

Vigia assunse tosto un tono familiare.

- Ho proprio piacere di conoscerti, - disse - perchè mi sei molto simpatica.

- Ti ringrazio, - rispose Ilda con un sorriso. - Io pure sono lieta di trovare tante amabili persone. Alla mia età l'isolamento pesa molto.

- Non avete parenti, in Torino? - chiese Teresa.

- No; - rispose Ilda - mio padre e mia madre erano d'Aosta.

- Che mestiere fai? - chiese Vigia.

- Lavoro in casa per un magazzino di mode.

- Anch'io sono sarta, ma stenterei parecchio se non avessi i miei genitori. Guadagnano poco anche loro, ma tutti insieme, si va avanti, E quando Nando mi avrà sposata.... -

Così dicendo si rivolse al giovane, che sedeva alla sua destra, e battendogli una mano sulla spalla:

- Via, di' anche tu qualche cosa, invece di guardarci a bocca aperta. -

E ridendo soggiunse:

- Vedi, Ilda, egli è più timido di me; ma in compenso è un buon ragazzo, guadagna una buona giornata, e sarò felice con lui.

- Lo spero, - si affrettò a dire il giovane - benchè non sappia mostrarti abbastanza il mio amore. -

Vigia continuava a ridere.

- Tanto lo sai, non mi piacciono le sdolcinature. Quando per la strada incontro qualcuno di quei giovani inamidati, che rivolgono alle ragazze complimenti al latte e miele, mi sentirei la voglia di schiaffeggiarli, perchè so bene che ogni loro parola è una menzogna.

- Avete ragione! - esclamò Teresa.

- Se la povera Giulietta, - soggiunse Vigia - l'avesse pensata come me, invece di attaccarsi a quel tipo che poi l'assassinò, avrebbe sposato un onesto operaio e sarebbe ancora viva e felice.

- Giulietta è la giovane che fu assassinata nella soffitta dove io abito? - chiese Ilda con accento di curiosità.

- Precisamente, - rispose Vigia - ed hai avuto davvero un bel coraggio. Io non starei in quella stanza per tutto l'oro del mondo! Mi parrebbe di vedere tutte le notti quell'ombra sanguinosa, oppure che mi comparisse dinanzi l'assassino.

- Era bella, quella ragazza? - domandò Ilda.

- Un angelo! - esclamò il falegname.

- E buona, onestissima! - soggiunse la moglie.

Vigia alzò le spalle.

- Io non voglio contestare i suoi meriti, ma dovete però convenire che, con tutte le sue buone qualità, era molto superba. Essa rifiutò ottimi partiti, perchè essendo bravi operai avevano le mani callose! E si attaccò a quel figuro, perchè lo credette un signore.

- E non lo è? - chiese Ilda.

- Ma che signore! È un semplice commesso di magazzino, se è proprio lui che l'ha sedotta.

- Come, ne dubiteresti? - proruppe Teresa con impeto. - E lo dici a me, che ho veduto quell'intrigante, quell'assassino?

- Non vi riscaldate! - soggiunse Vigia. - Io non voglio smentire la vostra asserzione, ma voi potreste giurare che l'assassino è veramente colui che Giulietta diceva suo fidanzato?

- Ma sì, sì! - replicò Teresa con un turbamento che si sforzava di nascondere. - L'ho riconosciuto anche dal neo sulla guancia sinistra. -

Ilda palpitava.

Teresa proseguì:

- Era biondo, di media statura. Infine, se non fosse stato lui, perchè avrebbe confessato il suo delitto?

- Sì.... sì; so benissimo che la mia è una idea stramba. Non se ne parli più. Giuochiamo a tombola! -

La veglia si protrasse fin verso le dieci. E quando Vigia si separò da Ilda, questa le chiese in tono calmo:

- Dove vai a lavorare?

- Sono stata fino a pochi giorni fa da una sarta qui vicino, ma ora che non c'è lavoro, ne profitto per completare il mio magro corredo.

- Allora, vieni a lavorare con me: ci terremo compagnia e il tempo passerà meglio.

- Accetto con tutta l'anima. -

Le due giovani si baciarono cordialmente.

Quella notte Ilda non dormì. Ella pensava:

- Era biondo, e aveva un neo sulla guancia sinistra. Anche il conte Livio ha lo stesso neo! Ma no, ciò ch'io penso è insensato! Per quanto Fabio amasse il suo benefattore, non sarebbe giunto al punto di commettere per lui un assassinio. Eppure, per chi altri Fabio nutriva tanta devozione o tanto attaccamento? -

E l'atroce dubbio diventava quasi certezza. In tali ansie, Ilda soffrì tutta la notte, e alzatasi all'alba si mise al lavoro.

Alle otto Vigia bussò all'uscio.

- Ti disturbo? È troppo presto?

- No, no, vieni pure. -

Per un poco parlarono di futilità. Vigia rideva sempre, mostrando i bianchi denti, ammirando i mobili della soffitta.

- Tu sei arredata come una principessa; - disse infine - la tua stanza può stare a confronto con quella del signor Aldo.

- Chi è?

- Uno studente che abita qui vicino; un bel giovinotto, sebbene troppo serio....

- Non l'ho ancora veduto; per ora non conosco che te, il tuo fidanzato e i coniugi Pavin. A proposito: ieri sera ti rimbeccavi con Teresa per il delitto commesso in questa stanza. Tu non credi dunque che l'assassino sia colui che è stato condannato? -

Vigia si sfogò volentieri.

- Io non nego che colui sia stato l'assassino; e sarebbe assurdo pensare altrimenti, dopo che egli stesso ha confessato. Dico soltanto che in quel delitto vi è un mistero; e se ti racconto in qual modo avvennero i fatti, sono certa che mi darai ragione. Ascolta: Giulietta era figlia di un militare in ritiro, aveva avuta una buona istruzione ed è forse per questo che sdegnava accasarsi con un operaio, Dopo la morte del padre dovette pensare a mantenersi. Lavorava per conto di un negoziante. Molti giovinotti del casamento le fecero la corte; ma erano operai e Giulietta li respinse. Voleva un signore ed un signore l'ha avuto.

- Conoscevi il suo innamorato? - chiese Ilda.

- Lo vidi una sola volta con lei, mentre l'accompagnava a casa. Io ero dietro alle loro spalle e rallentai il passo per non farmi scorgere. Ebbene, ti assicuro che non poteva essere un commesso; un giovane di negozio, specialmente nei giorni feriali, non veste con tanta eleganza, non porta guanti e bastoncino, come aveva il compagno di Giulietta.

- Lo riconosceresti, vedendolo?

- Sì, se lo vedessi per di dietro, con una donna: aveva un portamento signorile e chinava la testa verso Giulietta in un modo che non s'usa fra gli innamorati del nostro ceto. Ma per certo costui, quando ebbe ottenuto dalla ragazza ciò che volle, prese il volo. Nel casamento dicono che quel signore fosse il primo e il solo amante di Giulietta. Ma io credo invece che dopo costui, essa conoscesse il commesso, il quale le fece forse promesse che poi non voleva mantenere. Giulietta, scottata una volta, per non essere scottata la seconda l'avrà minacciato, e lui, per sbarazzarsene, la uccise. -

Ilda, che si era rianimata al principio del discorso, cominciava a perdere ogni speranza.

- Ah! tu credi che quel signore non entri nel delitto commesso?

- No; dopo tre anni di abbandono, perchè ucciderla? Lo avrebbe fatto prima. E che l'assassino non sia il padre della bambina lo ha detto egli stesso in piena udienza, sebbene molti non lo abbiano creduto. Ma le circostanze del delitto hanno del romanzo e del mistero, - soggiunse Vigia. - Quella sera io ero a letto, quando mi svegliai udendo passi e grida nel corridoio. Mi alzai, m'infilai una sottana, e via, con la mamma a vedere che cosa accadeva.

«Entrata in questa stanza, scorsi Giulietta distesa sul letto crivellata di ferite. L'assassino era tenuto da alcuni uomini. Ma ciò che mi stupì fu di vedere presso il letto di Giulietta, colla bambina della misera fra le braccia, una signora bellissima, adorna di gioielli, elegante, tanto da far restare a bocca aperta. Il signor Aldo disse che era sua sorella; ma io non lo credo: una signora con tutti quei brillanti non lascia il fratello in una soffitta. Dunque: primo mistero. -

Ilda sorrise.

- Sentiamo il secondo, perchè questo non mi sembra riguardi la morta, sibbene il signor Aldo. Quella signora sarà stata sua amante....

- È ciò che ho pensato anch'io. Ma viene lo strano. Giulietta, colle cure del medico, si riebbe un momento, e veduta la signora, gettò un grido di terrore e disse:

«- Lei? Lei? Ma non sa...? -

«E ricadde morta. Dunque: secondo mistero.

- Sì, ciò è strano. Ma quelle parole saranno state raccolte, la signora avrà dovuto comparire nel processo, e tu saprai adesso chi sia.

- Niente affatto, ed ecco il terzo mistero. La signora non fu citata fra i testimoni, e nessuno l'ha più riveduta. Il signor Aldo disse che era partita per Ivrea e si trovava indisposta; inoltre, essendo venuto un pezzo grosso della magistratura a prendere la bambina con un signore che si qualificò come il cognato dello studente, tutti prestarono fede a quella storiella, all'infuori di me.

- Che ne concludi?

- Concludo che fra Giulietta e quella signora doveva esservi qualche segreto, e penso talvolta che l'assassino sia stato un mandatario della sconosciuta, che ora si è impadronita della bambina volendo forse sopprimerla come la madre. E mi confermo sempre più nella mia idea, perchè il signor Aldo, dopo aver promesso a Teresa Pavin di condurla ad Ivrea per vedere la bambina, ha detto che la sorella ed il cognato sono partiti per la Spagna a cagione di un'eredità conducendo seco Gina, che ormai considerano come loro figlia. -

Ilda corrugò la fronte.

- Il signor Aldo sarebbe dunque un complice?

- Ne ho il sospetto, e ti confesso che mi era venuta la tentazione di spiarlo per sapere dove si reca quando si assenta per due o tre giorni.

- Si assenta spesso?

- Ogni quindici giorni; l'ho saputo da Teresa, alla quale ha dato ad intendere che egli fa dei piccoli viaggi per i suoi studi d'ingegneria.... Ma io credo che abbia altro scopo. Alla perfine ho pensato: che deve importare a me dei suoi intrighi? Perchè immischiarmi nei suoi affari? Giulietta non era mia amica e non tocca a me vendicare la sua morte. Così lascio correre l'acqua per la sua china. Ed ora sarà meglio che discorriamo d'altro. -

II.

Lucia, colei che fu l'istitutrice di Bianca, stava leggendo il giornale favorito dal signor Moreno, padre della contessa Rossano, inchiodato da una settimana su di una poltrona dai dolori reumatici, quando una carrozza entrò nel vasto cortile della tenuta.

Poco dopo Bianca abbracciava Lucia e il genitore.

- Babbo, la tua lettera mi ha spaventata; che hai?

- Dolori reumatici, come ti ho scritto nella speranza che tu venissi a abbracciarmi. Gli anni scorsi al principio di maggio eri già qui, e quest'anno lasciavi trascorrere quasi l'estate senza venire a vedermi! -

Bianca aveva chinato il viso sul petto del padre per nascondere il suo rossore.

- Che vuoi! Non è colpa mia. Livio non è mai libero.

- Non è venuto con te?

- Verrà fra qualche settimana. È molto occupato....

- Ma che fa?... Orsù, me lo dirai più tardi, quando ti sarai riposata.

- Non sono stanca, e appena avrò rinfrescato il viso tornerò da te. -

E presa a braccetto l'istitutrice, si avviò con lei nella sua camera da fanciulla.

Celia vi si trovava già e disfaceva le valigie.

Bianca indossò un semplice abito da casa, poi tornò presso il padre. Appoggiò la bella testa alla spalla del vecchio, che era molto commosso.

- Cara bambina, - diss'egli - perchè non posso averti sempre con me? Io non ho che te al mondo e ti amo tanto! Ma ho torto di lamentarmi, mentre tu sei così felice! -

Bianca sussultò, e alzando il capo:

- Sì, sono felice! - disse con semplicità.

- Livio è sempre buono con te? -

Ella non seppe mentire.

- Io non pensavo a lui in questo momento, - disse.

- A chi dunque? - chiese il padre con un sorriso.

Bianca chinò gli splendidi occhi.

- A te, a te solo!

- Hai forse da lamentarti di tuo marito?

- No, no.

- Bianca, tu mi nascondi qualche cosa, lo sento!

- L'amore immenso che mi porti, babbino, ti fa travedere. Io nulla ti nascondo, e ti accerto che sono felice. -

Quest'ultima frase tranquillò il vecchio.

Una mattina, mentre il signor Moreno dormiva ancora, Bianca, vestita di un semplice abito di campagna, uscì dalla tenuta e si mise per una strada ombrosa, che, serpeggiando, andava fino ad una chiesuola.

La campagna era piena di profumi. Bianca passava per quella strada come una bianca apparizione.

Essa aveva il cuore pieno di gioia.

Aldo le scriveva ogni giorno, e le lettere di lui erano il punto luminoso della sua vita.

Egli le parlava dei suoi studi, delle sue speranze di essere in quell'anno laureato, delle sue scappate ad Ivrea per vedere la loro bambina, le dava un minuto ragguaglio sulle famiglie che per mezzo di lei beneficava. E ad ogni frase scaturiva l'animo generoso del giovane, la sua fede ardente in lei, il suo immenso amore.

Bianca sedette sopra una panchina, pensosa al suo amore. A un tratto una voce dietro di lei la fece volgere vivamente.

- Contessa.... -

Era il marchese di Passiflora che la salutava, colui che ella aveva un giorno respinto per marito e che era stato compagno d'orge di Livio col quale era ancora, in apparenza, amico.

Bianca rese il saluto freddamente.

Passiflora le sedette accanto.

- Non speravo un così bell'incontro, - disse il marchese - tanto più che ieri vidi Livio a Torino.

- Infatti mio marito è rimasto là, - rispose freddamente Bianca.

- Fate male a lasciarlo solo! Egli vi sarà infedele! -

Bianca alzò con alterezza il capo.

- Voi offendete il vostro amico!

- Lo pago colle medesime armi, - rispose il marchese. - Un malaugurato giorno Livio venne con altri compagni alle mie cacce. Alla fine di un pranzo, il discorso cadde sul matrimonio, ed io confessai che una sola volta fui in procinto di prendere moglie, ma che la fanciulla la quale aveva destato in me un amore infinito, mi aveva respinto perchè aspirava a un uomo che non avesse la più piccola macchia amorosa sul suo passato. Io, invece, ero stato un gaudente, un libertino. Voi sapete chi fosse quella fanciulla e come allora avesse ragione di credere che io non potevo essere un buon marito per lei. -

Quest'ultima frase ora stata pronunziata con un accento di vera malinconia, che fece provare un senso di inquietudine a Bianca. Ma essa si dominò, e cercando di sorridere:

- Voi forse esageravate i vostri difetti, - disse - ed io ero troppo bambina per giudicare gli uomini.

- È giusto! E come succede sempre alle fanciulle inesperte, finiste col cadere in un abisso.

- Marchese! - esclamò Bianca, facendo l'atto di alzarsi.

Ma il gentiluomo frenò quello slancio, e con voce umile, commossa:

- Perdonatemi, perdonatemi, - supplicò - e lasciatemi almeno finire! I miei amici vollero sapere chi era la fanciulla che amai, ed io dissi il vostro nome, facendo di voi un ritratto sublime, e aggiungendo che oltre alla bellezza, avreste portato in dote due milioni. -

Bianca impallidì.

- Quanto male mi faceste! - esclamò a suo malgrado, con accento di amarezza.

- È vero, - soggiunse con aria mesta il marchese - lo compresi quando non ero più in tempo a porvi riparo. Livio, crivellato di debiti, scòrse in voi una tavola di salvezza, e abilissimo conquistatore, seppe affascinarvi. Io soffersi più di quello che possiate immaginare il giorno in cui vi vidi dinanzi all'altare con un uomo, che dopo essersi impossessato del vostro cuore vi avrebbe preso la vostra ricchezza nè si sarebbe curato della vostra felicità. Io giudicavo freddamente Livio, perchè conoscevo quanto valeva. Eppure, vi giuro che se egli, pentito dei suoi trascorsi, fosse divenuto un buon marito sarei stato il primo a goderne. Ma non è così.... e voi sapete che dico il vero. -

Bianca, fremente, si guardò intorno.

- Tacete! Se qualcuno vi ascoltasse....

- Non abbiate timore, nessuno può spiarci, qui. Ed io adesso voglio dirvi tutto. -

Bianca lo guardò intensamente.

- Livio è vostro amico! - mormorò.

- Fu, un giorno, mio compagno di dissolutezze; - rispose il marchese - ma non ebbi mai amicizia per lui, ed ora lo disprezzo in modo assoluto, perchè capisco che corre alla rovina senza badare se voi stessa sarete travolta in quel turbine. Egli passa le notti alla tavola da giuoco, ed ha per amante una certa Cinzia, venuta da Milano, un'ex-ballerina, che egli conobbe per l'addietro. -

Bianca fremeva. Il nome di Cinzia evocava il ricordo della lettera caduta dalle tasche dell'abito di Livio, della lettera che distrusse tutte le sue illusioni.

- Tempo fa, - soggiunse Passiflora - lo rimproverai aspramente per la sua condotta, ma egli si mise a ridere, mi disse di curarmi dei fatti miei. Volevo dunque avvertire vostro padre di quanto succedeva.... -

Bianca mandò un gridò di spavento, stese supplichevole le mani al gentiluomo.

- Per pietà, - disse - risparmiate mio padre, che nulla sospetta, che mi crede sempre felice con Livio! -

Passiflora la guardò commosso.

- E voi sapevate...?

- Sapevo già tutto quanto mi avete detto, - interruppe con voce soffocata. - Da lungo tempo la benda mi è caduta dagli occhi, e se non ho fatto uno scandalo, è stato per mio padre, che ne morrebbe di dolore.

- Come potete sopportare l'oltraggio che Livio vi fa subire e che non tarderà ad essere noto a tutti? Costui, dopo avervi oltraggiata, vi rovinerà.

- Livio non può toccar nulla della mia dote.

- Egli farà dei debiti e finirà col minacciarvi, se non acconsentite a pagarli. Date retta a me, avvertite vostro padre finchè siete in tempo.

- No, no! Conosco mio padre: egli ucciderebbe quel miserabile! Dopo tutto, io non soffro. Livio per me non esiste più; anche se lo vedessi nelle braccia di un'altra, mi tornerebbe indifferente. Non l'amo più, non lo stimo: lo disprezzo. Egli vive a suo modo, io mi occupo dei miei poveri, sono libera di andare e venire come mi pare, senza rendergli conto dei fatti miei e sono contentissima.

- Contessa, il mondo è maligno; qualcuno potrebbe scusare la condotta di vostro marito vedendovi godere tanta libertà.... -

Bianca l'interruppe con un moto altero.

- Che importa a me il giudizio del mondo? - esclamò. - La mia coscienza nulla mi rimprovera....

- Potrete sempre dire così, giovane e bella come siete? Contessa, ascoltate un amico sincero, che vi vuol bene: cercate di riunirvi a vostro marito.

- Mai!

- Accettate allora l'appoggio di un gentiluomo onesto che si dedicherà tutto a voi. Affidatevi completamente a me, Bianca, che tutto sacrificherei per assicurare la vostra felicità. -

Passiflora si era chinato verso la giovane, ed ella sentì il suo alito ardente bruciarle le guance.

Scattò in piedi con impeto, e fatto un passo indietro disse con voce glaciale:

- Vi ringrazio, marchese, non accetto. Se dovessi chiedere l'appoggio di un uomo, sarebbe quello di mio padre; ma per ora basto a me stessa. Se siete un gentiluomo, non cercherete più di avvicinarmi e terrete segreto il nostro colloquio. -

Passiflora, livido, si alzò a sua volta.

- E se io andassi a raccontare ogni cosa a vostro padre?

- Agireste da vile e vi crederei il degno compagno di Livio. -

Bianca salutò Passiflora, rimasto come inchiodato al suo posto, e si allontanò di passo sicuro.

III.

Era una domenica mattina, una giornata splendida. Aldo, nella sua soffitta, stava preparando la valigia e canterellava. Aveva ragione di essere allegro. Il giorno prima, un biglietto di Bianca l'avvertiva che si recava a passare due giorni ad Ivrea.

Aldo era ormai sicuro di avere conquistato il cuore di Bianca, che egli amava come poche anime elette sanno amare. Non sperava nulla, non desiderava nulla; mai una parola d'amore sarebbe sfuggita dalle sue labbra; ma sentiva che la sua anima era tutta di quella donna.

Aldo chiuse la valigia, poi guardò l'orologio, mormorando:

- Ho tempo di andare alla stazione a piedi. -

Mentre usciva, non vide nel corridoio una donna velata che lo seguì.

Alla stazione, messasi al finestrino accanto a lui, quella donna, che era Ilda, sentì che prendeva il biglietto per Ivrea e ne chiese uno per la stessa destinazione.

Dopo i suoi colloqui con Vigia, Ilda non ebbe più altro pensiero che seguire i passi dello studente. Forse in tal modo scoprirebbe qualche mistero.

Quando il treno giunse ad Ivrea, Ilda vide lo studente accolto da un gruppo di persone venute alla stazione ad attenderlo. Vi erano due signore, una bruna e una bionda, una bambina con lunghi riccioli biondi ed un bell'uomo, alto, sorridente, piacevole.

Ilda osservò che Aldo baciò tutti, all'infuori della signora bruna, alla quale si era limitato a stringere la mano. Ma la bimba aveva afferrato il giovane per una falda dell'abito, dicendo con voce squillante:

- Non baci anche la mammina?- -

Lo studente si avvicinò tutto rosso alla signora bruna, che gli porse la fronte.

Poi il gruppo si avviò all'uscita.

Ilda rimase sconcertata. Tutta quella gente non aveva nulla di misterioso. Per certo costoro nulla avevano a che fare coll'assassinio di Giulietta, nè Fabio poteva conoscerli. Ma la bimba della vittima dov'era? Quell'angioletta bionda, che chiacchierava con un cinguettìo d'uccello, camminando per mano allo studente, chiamò mammina la signora bruna; dunque non poteva essere la figlia di Giulietta! Che ne era stato di quella piccina? Era veramente in Ispagna con una sorella di Aldo?

Ilda era uscita dalla stazione dietro al gruppo senza che nessuno le badasse. Li vide entrare in una casa poco distante, e quando furono spariti chiese a sè stessa:

- Che fare? Tornare addietro? Nessun treno riparte adesso per Torino. Fingerò di essere una forestiera venuta a visitare questi dintorni per trovarvi una villetta da prendere in affitto, e intanto prenderò informazioni su Aldo. -

Si avviò per una strada di campagna, e vide una contadina camminare per la stessa via. Le si avvicinò.

- Scusate, - disse - vorrei farvi una domanda: c'è qualche famiglia nei dintorni che dia stanze in affitto e pensione per un mese o due?

- Sì, signora; posso accompagnarla io stessa ad una trattoria di campagna, qui vicina, dove danno anche alloggio: un luogo pulito, frequentato da persone oneste.

- Vi ringrazio. -

Strada facendo continuarono a discorrere.

- La signora non è mai stata da queste parti? - chiese la contadina.

- Ci venni una volta, da bambina. La mia povera mamma conosceva molte persone di questi luoghi, fra cui la famiglia Pomigliano.

- Ma non è d'Ivrea, è di San Giorgio Canavese: lo so, perchè mio marito aveva un fratello, in quel paese, manovale presso la famiglia Pomigliano.

- Forse non sarà la stessa! - osservò Ilda.

- Nella famiglia di cui parlo io, - proseguì la contadina - vi era una bella ragazza bionda, la signorina Severina, che si è maritata appunto qui in Ivrea, ed un ragazzo, il signor Aldo, ora studente a Torino.

- Sì, sì! - esclamò Ilda. - Sono proprio i nomi che sentivo dire da mia madre. Essa mi diceva che erano buona gente.

- Dica che è difficile trovarne migliore. I vecchi Pomigliano, marito e moglie, hanno lavorato e lavorano, si può dire, notte e giorno per mantenere il figlio agli studi, e coi loro risparmi hanno dato una buona dote alla Severina, che è un angelo di donna, sposata a un vero galantuomo. L'unico loro dispiacere era di non aver figli; ma ora una parente, rimasta vedova, ha affidato loro una bambina, che è un amore. Il signor Aldo, che adora la sorella, viene di quando in quando a trovarla. Se la signora vuol andare a trovarli, abitano in una bella casetta prossima alla stazione. -

Erano giunte alla trattoria, una casetta modesta che aveva al primo piano una terrazza coperta di spesso fogliame, sotto cui non potevano filtrare i raggi del sole.

Quivi erano preparate diverse tavole, come nel giardino sottostante, dove già si trovavano alcuni avventori. Ilda disse che pranzerebbe sulla terrazza.

La contadina salutò Ilda, che le regalò due lire per il suo incomodo.

- La giornata d'oggi mi costerà una bella somma, - pensava la giovane - e forse senza alcuna riuscita; ma non importa: non voglio trascurar nulla, per non aver rimorsi. -

La padrona della trattoria, una donna cinquantenne, gioviale e simpatica, la condusse in una cameretta pulita, dalla cui finestra aperta si godeva una vista incantevole.

- Le faremo subito il letto, signora, - disse - se vuol coricarsi.

- No; mi sdraierò un poco sul divano, - rispose Ilda, che intanto si era tolto il cappello e mostrava il suo bel viso circondato da un'aureola bionda.

La padrona del ristorante non potè rattenere un movimento d'ammirazione.

- La signora viene per la prima volta da queste parti? - chiese.

- No; vi fui da bambina, - disse Ilda - ed allora ero più felice di adesso, che mi trovo sola al mondo, vedova....

- Così giovane e già vedova?

- Sì, da pochi mesi.

- Oh! povera signora!

- Viaggio per svagarmi, e vorrei venire a villeggiare da queste parti.

- Farebbe benissimo, perchè quest'anno si sta a maraviglia: abbiamo molti forestieri. Da ieri, alloggio il conte Rossano con la signora. -

Ilda fece uno sforzo per non dimostrare la sua commozione.

- Ah! sì? - disse semplicemente. - Di dove vengono?

- Da Torino; la contessa ha voluto fermarsi al mio albergo, dove dice che passò i primi giorni della sua luna di miele. Anch'essi pranzano sulla terrazza. -

La padrona dell'albergo lasciò Ilda dopo averle chiesto il nome che doveva segnare sul registro.

- Vedova Laura Favre, - disse la giovane.

E rimasta sola pensò:

- Il conte Rossano qui? E con sua moglie? Conoscerò dunque quella contessa, che Fabio non ha mal veduta: sono stata ispirata bene venendo in questo luogo! Forse saprò cose utili per lo mie ricerche. -

All'ora del pranzo ella si recò sulla terrazza, dove il conte Rossano era già colla sua compagna, una donna che attirava gli sguardi. Bruna, pallida, flessuosa, dagli occhi pieni di languore, aveva della silfide e della baccante ad un tempo. Ella parlava al conte ridendo, con un atteggiamento pieno di grazia voluttuosa. Ilda non poteva vedere il viso di Livio, perchè le volgeva le spalle. Però, ad alcune parole pronunziate sommessamente dalla compagna, egli si volse, ma non potè vedere di Ilda che l'opulenta chioma dorata: ella si era messa a sedere alla tavola apparecchiata per lei, dallo stesso lato, ma nell'ombra, e volgeva ad entrambi le spalle.

Il conte non si curò più di quell'incognita e diè i suoi ordini ad un cameriere.

Ilda cominciò a mangiare.

Ad un tratto una frase in francese pronunziata dalla contessa attrasse l'attenzione della giovane. Ilda conosceva benissimo la lingua francese.

- Insomma, non vi è più cosa alcuna che ti diverta? Rimpiangi forse tua moglie?

- Chiudi la bocca su questo soggetto, - disse con tono brusco il conte - sai che mi irrita. Se non fosse per cagion tua, la contessa non avrebbe mai sospettato nulla. Ma io non penso a lei. -

Ilda stupì. Dunque, quella non era la moglie del conte, sebbene egli la facesse passare per tale? Che dramma intimo era avvenuto in casa di Livio a cagione della donna che l'accompagnava?

Un momento dopo la bella bruna riprendeva:

- A chi pensi dunque? Se sei innamorato di qualche donna, parla: ormai con te sono avvezza a tutto! Già tu sei cambiato da quando passammo insieme gli ultimi giorni di carnevale; ti ricordi quella notte del giovedì grasso? Eri proprio insoffribile. E pensare che tua moglie a Torino piangeva di rabbia e di gelosia. Ah! ti avrei rimandato volentieri a lei! -

Ilda ascoltava anelante. Dunque, il giovedì grasso di quell'anno il conte non si trovava a Torino. Ma perchè Fabio le aveva detto che il gentiluomo era partito colla moglie? Un turbine di pensieri la sconvolgeva.

- Taci, Cinzia! - brontolò Livio.

- No, voglio sfogarmi un poco, tanto qui nessuno per certo capisce il francese. Tu sei insoffribile, e non so perchè stia qui con te, invece di essere a Montecarlo a divertirmi. Sono una bestia, ma vi è in te qualche cosa che mi attira; forse i tuoi vizi. Non riderò.... sì, tu sei l'uomo più vizioso che io abbia conosciuto; non hai cuore, non hai che i sensi, e scommetto che tu sogni già qualche nuovo intrigo con una seconda Giulietta....

- Taci! - esclamò il conte con un accento così minaccioso, che Cinzia ammutolì.

Vi fu silenzio. Al nome pronunziato da quella donna, Ilda divenne livida.

Dunque, i suoi sospetti non erano infondati? Il conte aveva conosciuto Giulietta, e la sua mano armò quella di Fabio? Ma come averne le prove? Il conte, come pentito di aver trattato bruscamente la sua compagna, disse con voce tenera:

- Cinzia, perchè rivangare vecchie storie? Se amassi un'altra, perchè ti avrei scritto di raggiungermi? Non sei tu forse per me più che un'amante, una camerata, cui posso intieramente confidarmi? Se oltre tutti i crucci che ho, tu pure mi tormenti, finisco col commettere qualche follìa. Sai bene che fin dal giorno in cui la tua lettera cadde nelle mani di mia moglie, la pace di casa se ne andò.

- La contessa è una sciocca!

- Lo credevo, mia cara; - interruppe il conte - invece è più furba di me e di te. Ella ha saputo mostrarsi inesorabile ed ha dettato i suoi patti. Mi ha bandito dal suo appartamento, mi ha lasciato libero di agire come voglio, assegnandomi quindicimila lire di rendita mensili, che mi verrebbero tolte se tentassi una riconciliazione.

- Che vorresti di più?

- Ho bisogno di denaro, - rispose con voce cupa il conte. - Ho perduto al giuoco duecentomila lire in poche sere, ho già impegnato la rendita di sei mesi....

- Perchè commetti simili pazzie?

- Ne è causa una ragazza....

- Oh! oh! Sapevo bene che gatta ci covava! Mi ricordo l'entusiasmo dimostrato al mio arrivo, le tue espansioni, le lacrime versate stringendomi fra le tue braccia, la gioia con cui accogliesti la proposta di lasciare per qualche tempo Torino. Pensai: «Livio ha qualche cosa da dimenticare.» E si tratta d'una ragazza?

- Sì. Bella da fare impazzire. Essa mi è sfuggita quando credevo averla nelle mani.

- È innamorata d'un altro?

- D'un uomo che è in galera. -

Ilda mordeva il tovagliuolo per non gridare.

- Non hai un indizio dove costei sia nascosta?

- No.

- Che mestiere esercita?

- È commessa in un negozio di mode.

- Onesta?

- Sì.

- Bada, Livio, che a furia di sedurre fanciulle oneste tu finirai col lasciarci la pelle!

- Questo potrebbe avvenire se m'innamorassi di una giovane che avesse un padre, un fratello, un amante. Ma io scelgo i miei tipi fra le orfane senza difesa.

- Vi sono fanciulle che sanno difendersi da sè stesse, e lo prova colei che tu desideri, se ha saputo sfuggire alle tue grinfe.

- Colei non ha mai sospettato il mio amore. Si è allontanata da me, perchè credeva che volessi intralciare il suo progetto, che è quello di far rifulgere l'innocenza dell'amante, che essa crede vittima di un errore giudiziario.

- Sciocco, perchè non la secondavi?

- Sì, ho fatto male; ma se la ritrovo, voglio cambiar tattica. Intanto, prima di ricercarla, mi occorre del denaro. Scriverò a mia moglie, che è ora presso suo padre, e la pregherò di tornare in città avendo bisogno di parlarle. Guai a lei se respingesse la mia richiesta!

- Tu mi spaventi quando minacci, perchè so che non minacci invano! -

Il colloquio prese poi una piega sentimentale.

Ilda, incapace di resistere più a lungo, si recò nella propria camera.

I suoi occhi brillavano di un'energia sovrumana.

- Non ho perduto la mia giornata! - esclamò. - Dunque, non m'ingannavo: il conte conosceva Giulietta. Ma come provare che ha spinto Fabio a un assassinio? Ebbene, voglio riuscirvi e ci riuscirò! Se intanto avvertissi sua moglie del pericolo che corre?... Sì, ormai sono decisa; voglio mettermi in lotta con lui! -

Assorbita da quest'idea, Ilda un quarto d'ora dopo si allontanava dall'albergo onde ripartire per Torino, non avendo ormai più interesse di rimanere ad Ivrea.

IV.

Nei primi momenti, Aldo e Bianca, felici di trovarsi insieme, dimenticarono tutti i guai.

Dopo pranzo, Aldo chiese alla contessa:

- Volete fare un giro in giardino?

- Volentieri. -

Uscirono in giardino: una brezzolina profumata, che soffiava attraverso gli alberi, accarezzò il viso di Bianca, che esclamò:

- Come si sta bene qui! -

In quel piccolo spazio soleggiato pareva loro di essere isolati dal mondo. Camminarono un poco in silenzio, attraversarono una spianata erbosa, entrarono in un chiosco coperto di foglie, sedettero sopra una panca e parlarono.

- Caro Aldo, - disse Bianca - ho lasciato mio padre dicendogli che andavo a passare un paio di giorni con mio marito; ma in verità l'ho fatto perchè ho bisogno di voi, e nel presentimento che qualche cosa di grave mi debba accadere, qualche cosa che forse ci costringerà a non vederci per lungo tempo. -

E Bianca raccontò il colloquio avuto col marchese Passiflora, aggiungendo:

- Egli non mi perdona di averlo un giorno respinto, come non mi perdona di non volerlo accettare adesso come amico. Per certo avvertirà mio padre della condotta di Livio, oppure tenterà qualche altra cosa contro me. - Speranza, vi difenderò io!

- So bene che siete buono, audace, generoso, e se non avessi mio padre, disprezzerei qualsiasi convenienza, andrei orgogliosa di presentarvi come mio amico e difensore. Ma bisogna ad ogni costo risparmiare quel povero vecchio, che mi crede felice, che di nulla dubita, nulla sospetta. -

Bianca aveva le lacrime agli occhi.

- Non vi turbate così; - disse lo studente - io veglierò senza dar ombra ad alcuno e impedirò al marchese Passiflora di fare qualsiasi passo contro voi. -

Rimasero seduti l'uno accanto all'altra, Aldo circondandole la vita col braccio, Bianca colla testa appoggiata alla spalla di lui.

- Speranza, io t'amo, tu l'hai compreso, - sussurrò il giovane - nè ti offendano le mie parole! Il mio affetto è puro! Mi rimproveri di amarti?

- Perchè dovrei rimproverarti? - disse la contessa. - Io pure ti amo e vado orgogliosa di amarti. Nulla ormai può disgiungere le nostre anime. Amandoci, porteremo la nostra croce sorridendo, glorificando lo spirito nella esultanza d'amore. -

Gli occhi di Aldo splendevano soavemente.

- Cara, cara! - esclamò, e la baciò sui capelli.

La voce squillante di Gina li riscosse.

- Mammina, babbo, dove siete? -

Un istante dopo il biondo folletto era nelle loro braccia.

Nei due giorni in cui Aldo e Bianca rimasero presso i Rivalta, non uscirono mai di casa, trovando ogni gioia in quel giardinetto, in compagnia delle persone teneramente amate.

Lo studente partì per il primo. Bianca fu accompagnata alla stazione da Guglielmo, Severina e la bimba.

Già da tre giorni Bianca si trovava di nuovo presso il padre, quando una mattina Celia le disse, un po' turbata:

- Signora contessa, potrebbe venire nella sala verde? Una signora desidera parlarle.- -

L'impaccio della cameriera non sfuggì al signor Moreno, che era presente e che, subodorando qualche mistero in quella visita, quando Bianca fu uscita dal salotto, si avviò egli pure verso la sala verde.

Il signor Moreno non titubò: egli si appiattò dietro la porta e sentì distintamente che all'entrare di sua figlia una voce di donna diceva con stupore:

- Lei? Lei è la contessa Rossano?

- Sì, io! - rispose Bianca, con tranquilla alterezza. - Perchè questa sorpresa?

- Perchè se lei è la contessa Rossano, - disse lentamente Ilda, perchè era lei - è la stessa persona che cinque giorni fa si trovava ad Ivrea, presso i Rivalta. - Bianca rispose senza turbarsi:

- Non lo nego. Ma a voi che importa? - chiese poi alteramente.

Il volto di Ilda si era fatto cupo e minaccioso.

- Allora è lei, - proruppe con impeto - che la notte del giovedì grasso si trovava nella casa dove assassinarono Giulietta Levera, è lei che il signor Aldo Pomigliano fece credere sua sorella, è lei che portò via la bambina, forse per sopprimerla un giorno come la madre! -

Bianca era impallidita; ma pensando ad Aldo, riprese il suo contegno altero, e rispose con voce ferma:

- Io dovrei respingere le vostre accuse, dirvi che mentite, almeno in parte; ma prima di abbassarmi a discolpe, vi chiederò a mia volta: «Con qual diritto siete venuta in casa mia ad insultarmi?» -

Gli occhi di Ilda espressero una terribile esaltazione.

- Vuole saperlo? - disse in tono violento. - Glielo dirò. Un uomo è stato condannato per avere ucciso quella povera giovane, un uomo che fino all'ultimo si è protestato il solo colpevole di quel delitto. Invece costui non è stato che il mandatario di un altro, o di un'altra, che aveva interesse a sbarazzarsi di quell'infelice.... e in tal modo ha sacrificato anche me, che amava, che doveva sposare in quei giorni. -

La contessa ebbe una scossa: la sua voce quasi si raddolcì, chiedendo:

- Voi siete dunque la fidanzata dell'assassino?

- Non lo chiami così: egli è colpevole perchè l'hanno spinto su quella via.

- E sospettate di me?

- Sì; e giacchè ho cominciato, voglio dirle tutto, Lei ha conosciuto il mio fidanzato.

- Io?... No. -

Ilda la guardò cogli occhi in fiamme.

- Possibile? - disse. - Suo marito non le ha mai presentato Fabio Ribera?

- Mio marito? - esclamò vivamente Bianca, con un accento che fece trasalire Ilda. - Come poteva conoscere il vostro fidanzato?

- Vuol dunque farmi credere che il conte non le abbia mai detto come Fabio Ribera, un orfano fatto educare dalla defunta contessa Rossano, fu poi da lui continuamente assistito, tanto che Fabio nulla avrebbe fatto, senza averne prima il suo consenso?

- Vi giuro che mio marito non mi ha mai fatto parola di costui, nè credo che lo abbia spinto al delitto. -

Ilda scoteva il capo.

- Allora, se il conte non ha spinto Fabio a uccidere Giulietta, in qual modo lei si trovava quella notte nella soffitta dell'assassinata e perchè, quando costei la vide, la riconobbe ed esclamò: «Lei? Lei? Ma non sa?»

- Io pure - rispose la contessa - spesso mi sono chiesta come mai quella sventurata avesse pronunziato quella frase. Ora vi dirò per quale concatenazione di cose io mi trovassi la notte del giovedì grasso in quella casa fatale. Sarò sincera con voi, perchè mi destate un senso arcano di fiducia. Mio marito era partito il giorno prima per Milano dicendomi che andava a trovare una parente moribonda. Invece la mattina del giovedì un biglietto dimenticato dal conte mi convinse che egli m'ingannava. Era andato a Milano per trovare un'amante.

- Cinzia! - interruppe Ilda.

Bianca sussultò.

- Come lo sapete?

- Glielo dirò poi: continui.

- Voi, che avete amato ed amate, potete comprendere come rimanessi alla certezza del tradimento di mio marito. Allora, come pazza, commisi una follìa, della quale però non mi pento. -

Qui la contessa raccontò come al veglione avesse avuto la fortuna d'imbattersi in Aldo; si diffuse a parlare della delicatezza, della generosità del giovane, poi descrisse in qual modo si era trovata nella soffitta della povera Giulietta e tutto ciò che era dopo avvenuto.

- Se non mi sono divisa legalmente da mio marito, - concluse - è perchè ho un padre che mi adora e che morrebbe di dolore se venisse a conoscere tutto ciò. Ma col conte non ho più nulla di comune. Se mi reco ad Ivrea, è per vedere quella bambina, che amo come se fosse mia. Eccovi tutta la verità. Spero che adesso mi crederete.

- Sì, - disse Ilda con umiltà - e le domando perdono di averla sospettata. Ella è una vittima del conte, come lo è stato il mio povero Fabio. Ed ora sono convinta più che mai che il conte, dopo aver sedotto Giulietta, spinse il suo protetto ad ucciderla, a sacrificarsi per lui....

- Sarebbe orribile! - esclamò Bianca. - Come vi nacque questo sospetto?

- Glielo dirò, signora contessa. Quando Fabio si assentò dicendomi che andava a prendere alcune carte per il nostro matrimonio, mi disse che il conte era partito con lui e che starebbero assenti qualche tempo. Perchè questa doppia menzogna, mentre il povero giovane non aveva mai mentito? Perchè, dopo il delitto, il conte non si presentò a far testimonianza del buon carattere del suo protetto? Perchè Fabio non richiese mai di lui, non alluse alla sua relazione col conte? Il sospetto si insinuava nella mia anima. -

Ilda narrò allora la morte di sua madre, le visite del conte, che ella sfuggì recandosi ad abitare nella soffitta dell'assassinata, cambiando nome, trasformando la propria persona per non essere riconosciuta, onde raggiungere lo scopo che si era prefissa: scoprire il vero colpevole.

- Così, - soggiunse - seppi della incognita che si ora trovata in quella notte nella soffitta della povera Giulietta. Chi era costei? Dissi a me stessa che lo studente doveva essere in relazione con quella donna, e mi proposi di seguirlo quando si assentava da Torino.

«Per questo mi recai ad Ivrea, senza che lo studente sospettasse di essere seguito da me.

«Io lo vidi alla stazione con tutti loro, e seguii il gruppo fino all'uscio di casa; chiesi poi informazioni su lui e sui coniugi Rivalta e me ne fecero mille elogi.

«Non sapevo più che pensare, mi pareva di aver fatto quel viaggio inutilmente, quando, essendomi recata in un albergo per passarvi alcune ore, seppi che era ivi alloggiato il conte Rossano colla signora. -

Bianca gettò un lieve grido,

- Mio marito ad Ivrea, - esclamò - con una donna che fa passare per me?

- Sì, quella Cinzia presso la quale egli si nascose a Milano, mentre a Torino veniva assassinata la povera Giulietta, - rispose Ilda.

E con parole concitate ripetè il colloquio di Livio coll'amante.

- Udite queste infami cose, - proseguì Ilda - deliberai di venire ad avvertire lei del pericolo che corre, ansiosa al tempo stesso di conoscerla. A Torino seppi dove si trovava e partii. Ora può immaginarsi la brusca sorpresa provata riconoscendo in lei la signora che si trovava ad Ivrea in compagnia del signor Aldo e degli altri. Il sospetto mi assalse di nuovo.

- Vi comprendo, - esclamò Bianca con slancio - e non solo vi perdono di tutto cuore, ma vi ringrazio di esser venuta, perchè adesso mi unirò a voi per smascherare il colpevole, quand'anche il colpevole fosse mio marito! -

Ilda apparve commossa.

- No, signora contessa, - disse - non lo permetto. Lasci fare a me, che non ho alcun timore di lui, che disprezzo le sue minacce come il suo amore, che non ho, come lei, un padre che mi ami, che possa soffrire per cagion mia.

- Questo padre ritroverà tutta la sua forza per difendere la figlia e vendicare le vittime di quel furfante, - disse la voce sonora del signor Moreno, comparso all'improvviso nella sala.

Bianca si alzò gettando un grido di angoscia.

Ma suo padre le stendeva le braccia, ed ella vi si gettò piangendo.

Ilda, in piedi, pallidissima, non osava pronunziare parola.

- Tu hai sentito tutto, padre mio? - domandò la contessa.

- Tutto, perchè ebbi il presentimento che la visita della signorina mi rivelasse qualche mistero che ti riguardava. Bianca, tu facesti male a non aver fiducia in me; e voi, signorina, mi avete addolorato coi vostri sospetti sulla mia innocente creatura; ma adesso che so tutto, vi scuso e vi stendo la mano da amico. -

Ilda aveva le lacrime agli occhi.

- Io vi ringrazio, - esclamò - e vi giuro che d'ora innanzi non farò un passo senza consultarvi!

- Ed io non ti nasconderò più nulla, - soggiunse Bianca - ed appoggiata a te, mi sentirò sicura. -

Il signor Moreno la baciò sulla fronte, mentre stringeva la manina di Ilda.

V.

Il conte Livio era tornato a Torino di cattivissimo umore: ormai Cinzia l'annoiava, eppure non voleva sbarazzarsi di lei, forse perchè la giovane era la sola che avesse penetrati molti dei suoi segreti.

Egli aveva ceduto all'amante il suo elegante quartierino da scapolo, non potendo per il momento sobbarcarsi troppe spese. Una settimana dopo il suo ritorno scrisse un biglietto alla contessa, per avvertirla che aveva necessità di parlarle.

Livio era sicuro che sua moglie non gli avrebbe dato un rifiuto, onde la sera stessa disse allegramente a Cinzia:

- Vedrai che fra qualche giorno potrò offrirti un appartamento migliore di questo, con mobili di palissandro, e comprarti quel fermaglio di brillanti che tanto desideri.

- Sei sicuro che la contessa cederà alle tue minacce? - disse Cinzia.

Livio si arricciò i baffi con aria spavalda.

- Sicurissimo, - rispose - perchè Bianca ha troppa paura dello scandalo, a cagione di suo padre. Firmerà e tacerà! -

Due giorni dopo, verso mezzogiorno, Livio, sempre in attesa della moglie, stava per mettersi a tavola nella sala da pranzo del proprio palazzo, allorchè un cameriere annunziò:

- Il signor Moreno! -

Se un fulmine fosse caduto ai piedi di Livio, non l'avrebbe maggiormente stordito.

In un attimo pensò che Bianca avesse confidato tutto al padre, e fremette.

Il suocero entrò, sorridente, disinvolto, esclamando:

- Se ti trovo a pranzo, vuol dire che non c'è nulla di grave. Bianca ha avuto torto a spaventarsi! -

Livio riacquistò subito la baldanza.

Il signor Moreno nulla sapeva. Bianca non aveva parlato.

Per cui si slanciò incontro al suocero, stendendogli le mani e dicendo con voce commossa:

- Mi aspettavo così poco la tua venuta, che ne sono ancora stordito. Bianca non si sentirà male, spero?

- No, no, rassicurati; è soltanto infreddata, ed io ho trovato imprudente che si mettesse in viaggio, tanto più che io stesso avevo bisogno di venire a Torino. -

Mentre parlava, il conte gli teneva fissi gli occhi addosso, con aria di maraviglia.

Il signor Moreno sembrava ringiovanito. La sua persona, per il solito un po' cascante, si raddrizzava come quella di un giovinotto.

- Hai un aspetto magnifico, - disse il conte - e mi congratulo di vederti così bene. I tuoi dolori reumatici ti hanno lasciato?

- Interamente. Ma giacchè sono giunto in buon punto, non faccio complimenti, mi metto a tavola con te. -

Livio diè l'ordine di mettere un'altra posata.

Il signor Moreno sedette fregandosi le mani con aria soddisfatta e disse a Livio:

- Scommetto che la tua lettera è stata semplicemente un tranello per far venire Bianca, sembrandoti abbastanza lungo il tempo senza lei. -

Livio soffocò la rabbia che internamente lo divorava.

- È vero; - rispose - a te non lo posso nascondere.

- Io l'avevo indovinato; - soggiunse il signor Moreno - ma quella benedetta figliuola è così impressionabile, che ha subito creduto ti fosse accaduto qualche sventura. Basta, oggi stesso le scriverò per tranquillarla, perchè io debbo trattenermi a Torino. -

Durante il pranzo, parlarono di cose futili, ma quando furono passati nel salottino da fumo, il signor Moreno, col sigaro fra le labbra, disse sorridendo:

- Tu non immagini certo ciò che ho deliberato di fare. -

Livio provò una vaga inquietudine.

- Sentiamo, - disse con simulata allegria.

- Vengo a stabilirmi presso di voi. Sono stanco di vivere lontano da mia figlia e di condurre una vita da orso. Io non vi darò noia, perchè ho la mia servitù, e se mangeremo tutti insieme, pagherò la mia pensione. Del resto, piena libertà da ambe le parti. Come capirai, Bianca è contenta della mia decisione. E tu?

- Io pure, padre mio, - disse Livio con dolcezza.

Poi, cambiando tono e fisionomia, avvicinatosi al suocero, disse con accento turbato:

- Posso confidarti una cosa?

- Per certo. Dove potresti trovare un confidente migliore di me?

- Hai ragione. Ah! perchè prima di sobbarcarmi in false speculazioni non mi sono rivolto a te? -

Il volto del signor Moreno non esprimeva alcuna diffidenza.

- È vero! Bianca mi ha parlato alto alto di certi affari da te intrapresi. Ti sono forse andati male?

- Purtroppo! - mormorò Livio con aria compunta. - Sono stato raggirato da un birbante che ha fatto rilucere dinanzi ai miei occhi una vera miniera d'oro, mentre portava via il mio.

- Sei stato troppo ingenuo; non dovevi arrischiare del denaro in speculazioni sconosciute. Che bisogno ne avevi?

- Arrossivo di dover tutto a mia moglie, e sognavo di diventar ricco, di elevare Bianca sopra una montagna d'oro. -

La sua voce si era fatta convulsa.

Il signor Moreno non perdeva la sua espressione bonaria.

- Il tuo pensiero era lodevole; - disse - ma Bianca è ricca abbastanza per due. Quando io più non sarò, la montagna d'oro per lei si troverà inalzata. Intanto spero che la lezione ti avrà servito e non intraprenderai altri affari senza consultarmi. Quando Bianca, la settimana scorsa, venne a trovarti, a passare due giorni con te, le facesti parte della tua sconfitta?

- No, non ne ebbi il coraggio, - disse il conte, che trasalì sentendo che Bianca si era allontanata dalla tenuta col pretesto di raggiungerlo.

Dove si era recata?

Il signor Moreno sorrise.

- Capisco! Tu non hai pensato che al piacere di abbracciarla, - esclamò - e di rinnovare una breve luna di miele! So che conducesti Bianca ad Ivrea.

- Chi te l'ha detto? - balbettò il conte, livido.

- Bianca stessa, - rispose con bonomia il signor Moreno. - Le avevi proibito di farmene parte?

- No, no. -

Egli era spaventato di quanto sentiva, e chinava gli occhi dinanzi agli sguardi del signor Moreno, che rimaneva quieto, sorridente.

- Basta! - disse questi con dolce accento. - Hai fatto bene a non turbare Bianca col racconto della tua sconfitta, alla quale rimedierò io stesso. A quanto ammonta la tua perdita? -

Era il momento decisivo.

Il conte mandò un sospiro, esitò un istante, poi rispose con voce debole:

- A quattrocentomila lire! -

Il signor Moreno non battè palpebra.

- Dammi un calamaio ed una penna, - disse.

Livio si affrettò ad obbedirlo.

Il signor Moreno si tolse di tasca un libretto, ne staccò un foglio, vi scrisse alcune parole e porgendolo al genero:

- Oggi stesso - disse - potrai presentarti dal mio banchiere a ritirare la somma che, m'immagino, non hai pagata.

- No, padre mio.... mi ero reso garante.... firmai delle cambiali....

- Bene, bene: non voglio saper nulla della trappola che ti avevano preparata; paga il tuo debito e non se ne parli più.

- Come ringraziarti? -

E l'ipocrita ruppe in pianto.

Il signor Moreno si alzò, nervoso.

- Se fai così, ti lascio! - disse. - Non occorrono queste scene fra noi! Se ti hanno giuocato un brutto tiro, il tuo onore è salvo, dal momento che io posso pagare. Via, asciuga quelle lacrime, vai a riscuotere il tuo chèque, mentre io mi ritiro a riposare nel mio appartamento. -

Il conte volle accompagnarlo fino alla sua camera e diede ordine al suo domestico di mettersi a disposizione del suocero.

Poi lasciò il palazzo, sollevato.

L'arrivo del suocero l'aveva sconcertato, ma ormai aveva il cuore tranquillo. Peraltro non capiva come Bianca avesse potuto dire a suo padre di essere stata ad Ivrea. Che qualcuno l'avesse avvertita che egli viaggiava in compagnia di Cinzia facendola passare per moglie?

Non volle più stare a riflettere, dal momento che sua moglie stessa lo sosteneva per non dispiacere al padre.

Infatti, se il signor Moreno avesse avuto qualche dubbio sulle infedeltà di lui, non gli avrebbe dato quel denaro!

Riscosso lo chèque, pagato un debito di giuoco, si trovò ancora in possesso di centocinquantamila lire.

Allora si recò a comprare il fermaglio per Cinzia e, andato da lei, glielo presentò con aria trionfante.

- Hai dunque vinto? - chiese ella ridendo.

- Completamente; ma la partita è stata col suocero.

- Come? Come? -

E narrò l'arrivo del signor Moreno, il colloquio avuto con lui. -

Cinzia aggrottava le ciglia.

- Non rallegrarti troppo! - disse infine. - Io non ci vedo chiaro nella generosità del vecchio e nella sua determinazione di stabilirsi a Torino. Gatta ci cova: quell'allusione alla gita di sua figlia con te ad Ivrea mi sa di mistero. -

Quando il conte tornò al palazzo trovò il suocero già alzato e di eccellente umore.

- Che cosa c'è di spettacoli divertenti? - chiese al genero.

Livio lo guardò stupito, tuttavia rispose:

- Una compagnia di operette all'Alfieri.

- Ebbene, andremo ad ammirarla. -

Il conte cadeva dalle nuvole.

Il suocero, così austero, tanto avverso alla società, cambiava ad un tratto di abitudini?

Il signor Moreno pranzò con appetito, mostrandosi molto allegro, incitando il genero ad imitarlo.

Quando giunsero all'Alfieri, il primo atto dell'operetta era quasi al termine.

I due uomini presero posto nella seconda fila delle poltrone e dovettero passare innanzi ad una bellissima bruna, elegante, con un largo cappello alla moschettiera e grossi brillanti agli orecchi.

Era Cinzia che, vedendo il suo amante con quel signore, trasalì, perchè comprese che era il suocero del conte.

Livio non potè trattenere una smorfia vedendo la giovane, e la fissò con uno sguardo corrucciato, che ella ricambiò sdegnosamente.

Il signor Moreno vide quello occhiate, e quando fu seduto, disse al genero:

- Hai veduto quella bruna, nella nostra fila?

- No, - rispose il conte con noncuranza.

- E una bella donna; ma io conosco di meglio: un bocconcino da re: sedici anni o poco più, capelli neri, alta, ben fatta, occhi da far impazzire.

- E dove hai trovata questa fenice?

- Non te lo dirò: è il mio segreto; soltanto non ti nascondo che devo a quell'ammaliatrice la risoluzione di venire a Torino.

- Tanto meglio! - pensò il conte. - Se egli commette delle follìe, saprà scusare le mie! -

L'atto era finito, quando un giovane elegantissimo, dall'aria di buontempone, si avvicinò al conte, stendendogli la mano.

- Buona sera, Livio: vieni stanotte al circolo?

- No, - rispose bruscamente il conte, toccando appena la mano del giovane.

Ma questi non si sgomentò, e senza badare che l'amico era in compagnia di un altro:

- Dimmi, è vero che hai lasciato Cinzia? - chiese.

Il conte, stizzito, chiese:

- Chi è Cinzia? Non la conosco.

- Ah! ah! si vede che sei in collera con lei. Ma scommetto che stasera rifarete la pace: non per niente l'hai seguita al teatro; guardala, com'è bella, con quel cappellone alla moschettiera!

- Ti dico che sei pazzo! Non so di chi tu voglia parlare! -

L'altro divenne subito serio, e togliendosi il cappello, con un'aria fra comica e sprezzante:

- Scusate! - disse.

E andò a sedere vicino a Cinzia.

Livio, livido di rabbia, si volse al suocero:

- È un imbecille, quel giovanotto!

- Perchè? - rispose calmo il signor Moreno. - Ti ha fatto delle domande naturalissime, e tu non dovevi prenderti soggezione di me e rispondere la verità. Io compatisco le debolezze altrui.

- Ti assicuro che colui si è ingannato: io non conosco quella donna.

- Meglio così! -

E siccome l'orchestra aveva sonate le prime battute del secondo atto e il telone si era alzato, il signor Moreno si occupò a guardare la scena.

Il conte e il suocero tornarono al palazzo insieme.

Il signor Moreno si ritirò nel suo appartamento.

Il conte, invece di coricarsi, era uscito novamente per recarsi ad un circolo, dove si giuocava tutta la notte.

Ma non era il giuoco che ve lo attirava: voleva trovare l'amico che aveva osato parlargli di Cinzia in faccia al suocero.

La sua presenza al circolo fu accolta da esclamazioni di gioia, ed il primo che il conte si vide dinanzi fu appunto il giovane che cercava.

Allora, squadrandolo da capo a piedi:

- Chi ti ha dato il diritto - disse - di farmi stasera quelle stupide domande al teatro?

- Il diritto me lo sono arrogato io, - rispose l'altro - perchè credevo di rivolgermi al compagno che si era compiaciuto altra volta di raccontarmi le sue avventure amorose e non mi aveva nascosta la sua relazione con Cinzia, relazione che tutti conoscono, me ne appello a questi signori.

- Ma questi signori ti diranno pure che bisogna essere imbecilli per venire a interrogarmi su tale relazione mentre mi trovavo in compagnia di mio suocero. -

Un sonoro scoppio di risa risonò da tutte le parti. Il giovane rimase scombussolato, e con l'accento del più sincero cordoglio:

- Scusami, amico; - disse - ti assicuro che se avessi potuto immaginare che quel signore era in tua compagnia, non ti avrei rivolte quelle domande stupide, come ben dici. Ma io ti credevo solo, e supponevo che per semplice dispetto tu non fossi vicino a Cinzia. -

Livio parve esitare un istante, poi sorrise, e stendendo la mano al giovane:

- Accetto le scuse, - esclamò - e non ne parliamo più! -

Quella notte giocò, e la fortuna gli fu favorevole.

Quando abbandonò il suo posto per tornare a casa, aveva trentamila lire di più.

La mattina seguente, alzatosi verso le nove, seppe che il suocero era già uscito. Il vecchio tornò a mezzogiorno. Sembrava molto contento.

Il conte fu proprio persuaso che il signor Moreno ignorasse totalmente la sua condotta verso la moglie, e nella sua fatuità credette che Bianca avesse spinto il padre a recarsi a Torino per potere, col suo mezzo, riconciliarsi con lui.

Per cui, quando il suocero gli chiese se voleva accompagnarlo alla tenuta, accettò con entusiasmo.

Si sentiva quasi felice all'idea di riavvicinarsi alla moglie.

Avvertì con un biglietto Cinzia della sua assenza di qualche giorno e partì col signor Moreno.

Quando arrivarono al castello, Bianca abbracciò il padre, quindi porse la mano al conte. Ma quella mano era così fredda, che gli fece capire come egli avesse sperato invano nell'indulgenza di lei.

Tuttavia, trovandosi più tardi solo con Bianca, assunse un'aria compunta, piena di dolore e mormorò:

- Signora, la visita improvvisa di vostro padre aveva aperto il mio cuore alla più dolce delle speranze: speravo che per lui, se non per me, avreste dimenticato e perdonato. -

Ella lo fissò con uno sguardo pieno di disprezzo.

- Dimenticare, perdonare? - ripetè. - Si può farlo per un uomo onesto che un istante di traviamento ha fatto deviare dalla retta via; ma per voi che avete mentito sempre, per voi che, calpestando ogni riserbo, aveste perfino la temerità di presentare come vostra moglie una sgualdrina non può esservi nel mio cuore che odio e repulsione. Evitate dunque di avvicinarmi se non volete che io mi ribelli e vi schiacci! -

E voltategli le spalle, lasciò il conte quasi fuori di sè dalla rabbia.

- Me la pagherà! - pensò, stringendo i pugni.

E uscito dalla tenuta per non incontrarsi in quel momento col signor Moreno, diresse i suoi passi verso la villa del marchese Passiflora. Immerso nei suoi pensieri, il conte camminava con la testa china, quando una voce ironica lo fece trasalire. Era il marchese Passiflora.

- Sempre pensieroso, sempre innamorato! - diceva.

E stendendo la mano a Livio:

- Ti sei dunque deciso a venire un po' in campagna? - soggiunse ridendo.

Il conte si era rasserenato.

- Sono venuto a riprendere la contessa, - rispose. - Ma ti assicuro che, sebbene giunto da poche ore, sono già annoiato. -

Il marchese Passiflora lo prese a braccetto.

- Capisco, birbante, rimpiangi Cinzia! Ma, bada, è pericoloso lasciar per lungo tempo sola una moglie come la tua. Essa potrebbe fare qualche scappatella, che suo padre non si curerebbe di tenerle dietro.

- Per parlare così, tu devi sapere qualche cosa; ma bada, io ho troppa fiducia in mia moglie per nutrire il minimo sospetto contro lei, tanto più se fatto nascere da un uomo che non può dimenticare di essere stato respinto come marito. -

Passiflora aveva tolto il suo braccio da quello del conte, e fermatosi su due piedi lo guardò fisso, seriamente.

- È vero; - rispose - non posso dimenticare il rifiuto di quella giovinetta che mi avrebbe reso felice, come ho l'orgoglio di credere che sarei stato per lei il migliore dei mariti, e fremo pensando che quella felicità è toccata a te, che eri meno degno di ottenerla.

- Marchese!

- Non ti alterare, è la verità! Non credo di offenderti, perchè so quanto vali. Però il tuo trionfo non è durato a lungo. -

Il conte impallidì.

- Che ne sai tu?

- Più di quello che credi, perchè tu e Bianca, da quel tempo, mi siete sempre stati a cuore. Essa non ha tardato a scoprire che il suo prescelto non valeva il rifiutato; e per consolarsi di veder distrutta la sua cara illusione, è andata in cerca di un altro. -

Il conte gettò un grido di furore.

- Marchese, voi insultate mia moglie e me ne renderete conto!

- Quando vorrete, mio caro! - rispose senza scomporsi il marchese. - La contessa almeno mi sarà grata di averla sbarazzata di voi.

- Non so che mi tenga dallo schiaffeggiarvi! -

Passiflora si mise a ridere.

- Ve lo dirò io, conte: la paura. Perchè voi siete audace soltanto con le donne, di cui sapete benissimo sbarazzarvi quando ne siete stanco. -

Queste ultime parole, dette a caso, ebbero un effetto fulminante sul conte. Egli indietreggiò livido, barcollante.

Passiflora rideva sempre.

- Vedete, caro conte, - soggiunse - che ho còlto nel segno. Ma rinfrancatevi, io non ho alcuna volontà di battermi con voi: lo farei soltanto se vostra moglie chiedesse il mio appoggio. Sfortunatamente Bianca mi odia, perchè mi crede vostro amico, mi giudica forse alla stessa stregua, e va in cerca di un puro ideale. -

Il conte, furente, si riavvicinò al marchese.

- Voi vorreste farmi credere che mia moglie ha un amante; - disse con voce alterata - ma non ci riuscirete.

- Ne sono persuaso, - rispose il marchese con oltraggiosa disinvoltura. - Da questo lato vi torna più comodo fare il sordo. -

Gli voltò le spalle e si allontanò.

Livio ristette immobile, finchè non lo vide sparire fra un gruppo di alberi. Tuttavia mai il suo orgoglio aveva tanto sanguinato. Era stato insultato dal marchese, che forse narrerebbe la scena gettando il ridicolo su lui!

Sua moglie aveva un amante?

- Lo saprò, - disse con la gola stretta.

VI.

Mentre si svolgevano queste scene, Fabio scontava il suo delitto in prigione, rassegnato al suo destino. Egli lavorava nell'amministrazione delle carceri, dove sono ammessi i detenuti di ottima condotta, e così le sue giornate, sebbene monotone, trascorrevano abbastanza presto.

Le notti erano terribili: nel silenzio della cella, Fabio si abbandonava a spaventevoli scoppi di dolore, di collera, di disperazione. Rivedeva la sua vittima, ricostruiva l'orribile scena di quella notte, si contorceva sotto accessi di convulsioni, fino a che cadeva inerte sul giaciglio ed un sonno pesante scendeva a lenire i suoi rimorsi, i suoi dolori.

Poi, a poco a poco, anche quegli accessi si calmarono e le sue notti furono meno agitate.

Quando pensava a Ilda, gli sembrava che tutto il sangue gli affluisse al cuore con violenza, trovava in sè un tesoro di energia sublime che gli faceva dimenticare il luogo dove si trovava, quanto era accaduto.

Ah! se avesse potuto dire almeno a lei...!

Ma no, egli avrebbe taciuto sempre: era necessario, lo doveva: una morta gliel'aveva imposto.

Fabio parlava pochissimo coi suoi compagni di carcere, ma si mostrava così buono con tutti, che nessuno nutriva astio contro lui.

I giorni, i mesi scorrevano.

Per Natale quasi tutti i prigionieri ricevono qualche regalo.

A Fabio pervennero diversi doni della fidanzata, del suo principale, e alcuni doni anonimi, ma che egli doveva ben sapere da chi gli pervenivano.

Libri, oggetti, dolci, erano stati prima minutamente visitati, ma i pochi biglietti che li accompagnavano potevano essere consegnati al prigioniero.

Quello di Ilda diceva:

«Coraggio e speranza in Dio: lavoro per te, non ti dimentico, ti sono sempre vicina col cuore.»

Il suo principale gli scrisse, inviandogli una scatola di dolci squisiti:

«Perchè tu veda che non sei dimenticato. Buon Natale!»

E «Buon Natale!» stampato, ripeteva l'invio dei doni anonimi.

Fabio pianse di gioia; distribuì i dolci fra i suoi compagni; per sè tenne soltanto un libro rilegato, Le mie prigioni di Silvio Pellico. Si mise sul cuore il biglietto di Ilda.

Quella notte egli si addormentò col sorriso sulle labbra.

Il giorno dopo, all'ora della ricreazione, incominciò la lettura delle Mie prigioni.

Aveva già percorse alcune pagine, quando sussultò.

Nelle interlinee di un foglio vi erano scritte delle parole in un carattere minutissimo.

Lo scritto diceva:

«Tu hai presunto troppo della fedeltà di Ilda: essa ha un amante che le ha regalato una palazzina, carrozza e cavalli ed è diventata una delle mantenute più in voga.

«Ilda ha sprezzato l'appoggio del sincero amico che tu le lasciasti, ha riso di lui, l'ha perfino minacciato, sperando di farlo tacere. Ma ho voluto avvertirti, a costo di tutto, perchè mi si strazia il cuore nel vederti così ingannato. Io continuerò a vegliare su lei, e qualunque cosa succeda ti avvertirò. Intanto, se puoi, dimenticala: essa è indegna di te.

«Tu hai avuto troppa fiducia in lei.»

Fabio rimase come stupidito.

Chiuse il libro e dopo poco tornò al lavoro, che disimpegnò macchinalmente.

Quella sera, gettatosi bocconi sul pagliericcio, scoppiò in singhiozzi.

Tradito, tradito da lei, che il giorno prima gli aveva scritto quel biglietto che teneva sul cuore.

Eppure l'uomo che aveva vergate quelle parole, il conte Livio, il suo protettore, non poteva ingannarlo!

Ma perchè Ilda gli scriveva: «Coraggio e speranza in Dio: lavoro per te, non ti dimentico, ti sono sempre vicina col cuore»?

Per alcuni giorni Fabio ebbe nuovamente accessi di disperazione che sembrava dovessero renderlo pazzo; poi, un senso di stanchezza lo colse, ed egli continuò ad eseguire macchinalmente il suo lavoro; ma era pallido, accasciato.

Per certo se il conte lo avesse veduto in quei giorni, avrebbe pensato che Fabio non uscirebbe più da quel carcere che cadavere.

Ma anche Livio non si trovava sopra un letto di rose!

Dopo la scena avvenuta col marchese Passiflora, il conte nascose il suo avvilimento e ingoiò tutto l'amaro versatogli dal marchese, col pensiero di vendicarsi un momento o l'altro di lui.

Intanto il signor Moreno tutto disponeva per la propria partenza.

- Ora sono tranquilla! - disse la buona Celia alla sua cara padrona. - Lei non ha più nulla da temere. Con suo padre vicino, il conte si guarderà bene dal recarle un dispiacere.

- È vero; - rispose Bianca - ma d'ora innanzi non mi sarà più concesso di vedere Aldo ed abbracciare quella bambina: l'ho promesso a mio padre, e manterrò la mia promessa fino a quando il conte non verrà smascherato e tutto sarà finito fra noi.

- Ma lei può scrivere al giovane ed avere notizie della bambina.

- Questo sì; se il babbo me l'avesse proibito, ne sarei morta. -

Il conte conservava la sua perfetta disinvoltura dinanzi al suocero e sembrava il migliore dei mariti.

Al loro arrivo a Torino, il signor Moreno si stabilì nel suo appartamento, perfettamente libero, dove poteva tenere presso di sè Lucia ed il suo fidato cameriere. Egli fece fare una porticina segreta che metteva in comunicazione le sue stanze con quelle della figlia.

Al conte Livio fu nascosta l'esistenza di quella porticina.

Incominciava il dicembre.

Verso le quattro, i portici erano affollati.

Un giorno Livio, con alcuni amici, si era diretto verso Baratti.... Camminavano chiacchierando, ridendo, ammirando le belle che passavano loro vicino.

Dinanzi alla confetteria Baratti si fermarono in gruppo. In quel momento uno dei compagni di Livio disse ad alta voce: - Ecco la Cleo. Fortunato il mortale che la possiede! -

Livio si volse e rimase trasecolato. La giovane che il suo compagno aveva chiamata Cleo era Ilda, la fidanzata di Fabio, la fanciulla che avrebbe voluto far sua a costo di un delitto.

Ella appariva di una bellezza maravigliosa, vestita con eleganza suprema. Sotto il largo cappello a piume, i capelli nerissimi, divisi sulla fronte, le scendevano fino agli orecchi, ai quali scintillavano due brillanti di una grossezza straordinaria. Nulla di più voluttuoso del pallore del suo volto, dei suoi occhi bistrati, color verde-mare. Le labbra provocanti, di un rosso acceso, mettevano in mostra, nel sorriso, denti di una bianchezza lattea.

Passò altera dinanzi al gruppo dei giovani, entrò da Baratti e non tardò ad uscirne, tenendo fra le dita inguantate un pacco di caramelle. Sali in un superbo coupè a due cavalli, che attendeva fuori dei portici.

Tutto ciò era avvenuto in così breve tempo, che il conte credette di essere vittima di un'allucinazione, nè si scosse che quando Ilda si fu allontanata.

Allora si volse vivamente al compagno chiedendogli:

- Chi è quella Cleo? Che fa? Come la conosci?

- Ih! ih! quante domande! - rispose l'altro ridendo. - Ti ha dunque subito stregato, la bella ammaliatrice? Essa è mantenuta da un milionario incognito. Già da un mese frequenta i ritrovi eleganti, e so che molti vanno pazzi per lei, ma inutilmente. Il suo Creso, che qualcuno dice sia un russo, ha acquistato per lei una palazzina stupenda. La giovane ha preso il nome di Cleo, perchè per l'addietro fu protagonista di un dramma da Corte d'Assise. -

Il conte aveva il cervello in fiamme; i suoi occhi lanciavano foschi lampi.

Ilda si era presa giuoco di lui!

Ilda era l'amante di un altro, mentre egli, per averla, avrebbe dato la vita!

E Fabio ignorava tutto, passava i suoi giorni fiducioso nella fedeltà della fanciulla che l'aveva difeso con tanta passione!

Ma egli l'avrebbe avvertito, anche per dargli così un colpo terribile, forse mortale. Sbarazzarsi di quell'uomo, il cui pensiero lo tormentava ogni notte, impadronirsi di Ilda, era in quell'istante il suo desiderio unico.

Come fare?

Dopo avere a lungo pensato, si recò quella stessa sera a casa di Cinzia.

L'ex ballerina ed il conte si erano nuovamente divisi con tacito accordo: Cinzia, ripresa la propria libertà, si era stabilita a Torino, ed un negoziante di cereali aveva preso il posto di Livio. Però fra il conte e Cinzia rimaneva un'apparenza di amicizia: avevano stabilito che entrambi, all'occasione, si sarebbero scambievolmente aiutati.

Livio trovò la giovane a casa e sola.

Ella stava cenando, e veduta alla luce del gas, appariva seducentissima nell'abito rosa.

- Che buon vento ti guida? - chiese stendendo la mano al conte.

- Vorrei sapere se conosci una certa Cleo. -

Cinzia fece un brusco movimento, guardò il conte con occhi fiammeggianti.

- Se la conosco? - proruppe con accento d'odio. - È una mia rivale! Quando m'incontra mi guarda con aria di sfida, sorride con disprezzo.... Ah! se potessi schiacciarla! -

Livio era ritornato calmo.

- Te ne darò i mezzi io, - disse.

- Se tu farai questo, - esclamò Cinzia con voce carezzevole - io ti obbedirò come una schiava! -

Il conte, fissando i suoi occhi in quelli di lei, disse con voce bassa e fremente:

- Ebbene, ascoltami.... -

VII.

Quando Ilda tornò a Torino, dopo essersi trattenuta due giorni alla tenuta di Bianca, non sembrava più la stessa di quando era partita.

Un raggio di gioia brillava nei suoi occhi e dimostrava il suo contento. Dopo tante angosce, Ilda sentiva nel suo cuore alitare le più soavi speranze.

Ella aveva trovato due buone creature che si sarebbero unite a lei per smascherare il conte, punirlo se era il vero colpevole, dischiudere, se possibile, le porte del carcere all'infelice che si sacrificava.

Ilda aveva discusso molto col signor Moreno circa gli strani rapporti fra il conte e Fabio. Per certo fra loro esisteva un misterioso legame, che aveva reso l'uno lo schiavo sommesso dell'altro. Ma come scoprire tale mistero, che sarebbe la chiave di tutto?

La giovane sperava di riuscirvi.

Con Bianca ed il signor Moreno avevano ideato un piano per conseguire l'intento desiderato.

Ilda, col fine discernimento della donna, aveva indovinato il puro amore di Bianca per lo studente Aldo, e pensava che quei due erano degni l'uno dell'altra.

- Se non ci fosse il conte! - diceva fra sè e sè.

Quella sera Ilda, a tarda ora, si recò a bussare alla soffitta di Aldo.

Il giovane stava studiando.

Tuttavia aprì. La vista di quella giovane, che egli aveva appena intraveduta due volte nel corridoio, lo sorprese.

- Che desidera, signorina?

- Ho una lettera da consegnarle. -

L'aveva tratta dal corsetto e gliela porse.

Il giovane riconobbe subito la calligrafia di Bianca.

- Entri; si accomodi, la prego! - disse con premura.

Aldo si assorbì nella sua lettura. La contessa gli faceva parte di tutto quanto era accaduto in quei giorni: della comparsa di Ilda, del colloquio con lei, dell'apparizione improvvisa del signor Moreno, del perdono di lui, e di tutto quanto avevano combinato insieme con la fidanzata di Fabio.

«Noi saremo separati per lungo tempo, mio caro Aldo,» terminava la lettera «ma le nostre anime non si divideranno mai. L'avvenire sarà forse migliore del passato. Mettiti ad intera disposizione di Ilda: essa ti dirà qual parte dovrai assumere in ciò che abbiamo ideato; accettala, te ne prego. Ilda stessa ti presenterà a mio padre: ubbidiscilo in tutto e ti troverai contento.»

Lo studente, terminata la lettura, alzò gli occhi su Ilda con tenerezza, e con accento familiare:

- Siete voi, - disse - la fidanzata dell'uomo che assassinò la povera Giulietta? -

Ilda rispose, grave:

- Sono io; ma per certo non mi avreste riconosciuta sotto questo travestimento. È stato necessario per venir ad abitare nella camera dell'assassinata.

- Avete avuto tanto coraggio?

- Il mio amore per Fabio mi ha dato la forza e l'energia di tentar tutto per scoprire la verità.

- Sospettate il conte Rossano?

- Sì.

- Ma l'assassinio fu veramente compiuto dal vostro fidanzato.

- Il conte fu senza dubbio l'istigatore. -

Aldo era pensieroso.

- Perchè non faceste il nome di lui all'udienza?

- Fabio me l'aveva proibito.

Lo studente trasalì.

- Come? -

La giovane raccontò dei rapporti del suo fidanzato col conte, come questi passasse per un benefattore, e si diffuse sulla riconoscenza di Fabio verso quell'uomo.

Parlò quindi dell'offerte fattele dal conte quando il giovane fu condannato, della fuga di lei, della sua scoperta il giorno in cui si era recata ad Ivrea, di tutto ciò che aveva raccontato a Bianca.

- Continuerete ad abitare la soffitta della povera Giulietta? - chiese Aldo, quando essa ebbe finito di parlare.

- Sì, ma vi farò le mie apparizioni di quando in quando, dovendo d'ora innanzi vivere altrove. -

I due s'intrattennero ancora a lungo.

Quella sera Ilda rientrata nella sua soffitta dopo la mezzanotte, prima di coricarsi pregò fervorosamente, chiedendo a Dio di sostenerla nella lotta che stava per intraprendere.

Quindici giorni dopo, sotto il nome di Cleo, essa prendeva possesso di una elegantissima palazzina, acquistata a suo nome dal signor Moreno.

Tutti parlavano della eleganza, del lusso della nuova stella.

Ogni sera la giovane scriveva un minuto ragguaglio di tutti gli avvenimenti della giornata, una specie di diario che veniva segretamente inviato a Bianca.

Il giorno del suo incontro col conte Livio davanti alla pasticceria Baratti, Ilda tornò a casa agitata.

Finalmente la lotta comincerebbe ed ella vi si apprestava con energia.

La sera stessa il signor Moreno si recò da lei ed ebbero un lungo colloquio insieme.

Ilda, fino dai primi giorni della sua nuova esistenza, si era incontrata con Cinzia, e la fissò con uno sguardo pieno di disprezzo o di sfida.

Due giorni dopo l'incontro di Livio, Ilda se ne stava nel suo salotto, allorchè una cameriera le consegnò il biglietto di un visitatore.

Ilda lesse: «Conte Livio Rossano.»

- Introducilo subito nel salotto rosa, - disse alla cameriera.

Ilda indossava un abito da casa che le stava a meraviglia. Aveva i capelli negligentemente annodati e trattenuti da un pettine di brillanti.

Ella passò nel salotto, dove, in attesa di lei, il conte, pallido come un cadavere, esaminava lo splendore di quella stanza, un gioiello di buon gusto.

Sentendo aprire un uscio, si volse e rattenne a stento un grido di ammirazione.

Ilda appariva calma, sorridente.

- Quale sorpresa, caro conte! - esclamò.

- Che volete! Ho desiderato di accertarmi co' miei occhi se la Cleo che fa tanto parlare di sè a Torino eravate proprio voi, Ilda. Non volevo crederci.... mi pareva impossibile. Ma, disgraziata fanciulla, avete dunque dimenticato il povero Fabio, che per voi ha commesso un delitto? -

Ilda si sdraiò su di una poltrona con atto civettuolo.

Rideva, mostrando i denti bianchissimi.

- Conte, smettete le prediche: le detesto. E poi, come potete farvi il difensore della virtù dopo le confidenze da voi fatte alla sedicente contessa che era in vostra compagnia in un albergo di Ivrea? -

Il conte rimase a bocca aperta dallo stupore.

- Orsù, giuochiamo a carte scoperte! - proseguì Ilda. - Non è lo scrupolo per il condannato che vi ha condotto da me, sibbene il dispetto di perdere la preda che agognavate. -

Livio era in preda ad una grande confusione.

La giovane continuava a ridere.

- Osereste negare? - domandò.

- Ebbene, no, non lo nego! - rispose risoluto il conte. - E, se avete udite le mie confidenze, saprete fino a qual punto vi ami.

- Al punto di commettere voi pure un delitto.... Ah! ah!

- Non ridete così; se sapeste che male mi fate! Potevo io mai pensare che voi, così onesta, che respingevate ogni mia proposta, che fuggiste da me....

- Non ne indovinaste la cagione? - interruppe Ilda.

- No; ditela, ditela, ve ne prego! -

Ella inclinò vezzosamente la testa, ed i suoi occhi presero un'espressione di languore.

- Io avevo indovinato il vostro amore; - esclamò - capivo che la condanna di Fabio aveva fatto nascere nel vostro cuore un'insensata speranza....

- Perchè insensata?

- Perchè mai mi sarei data al protettore del mio fidanzato! Voi siete l'unico uomo che non avrebbe mai potuto trionfare di me.

- E me lo dite con tanta franchezza?

- Perchè mentire? Veramente io avevo risoluto di restar fedele a Fabio, ma dopo alcuni mesi di lotta con la miseria, vedendomi disprezzata dalla società che mi riteneva forse complice del condannato, convinta infine che Fabio era veramente colpevole, decisi di prendermi una rivincita su quelli stessi che mi disprezzavano, e siccome trovai, viaggiando, un'ottima occasione, non me la lasciai sfuggire. Come vedete, il mio protettore ha fatto le cose in grande. -

Una collera tremenda contraeva il volto di Livio.

- E se io ne avvertissi Fabio? -

Ilda alzò con disprezzo le spalle.

- Che m'importa? Io mi godrò la vita tuttavia!

- Ilda, io non dirò nulla, ve lo prometto, Fabio ignorerà tutto, ma voi non sarete crudele con me. -

Volle prenderle una mano, ma la giovane la ritrasse vivamente.

- Giù le zampe, caro mio; se volete che continui a ricevervi e che la mia accoglienza sia amichevole, dovete stare al vostro posto, altrimenti, se verrete un'altra volta, troverete l'uscio chiuso.

- Io non metterò più piede nella casa di un altro.

- Questa è casa mia, sapete! - disse con alterezza Ilda. - Il mio protettore me l'ha regalata: potete mettervi a suo pari?

- Sì, che lo posso! - gridò il conte. - Datemi una sola speranza, ed io metto ai vostri piedi tutte le mie ricchezze. -

Ilda l'interruppe con uno scroscio di risa.

- Le vostre ricchezze? - soggiunse. - Dimenticate, conte, di aver detto alla vostra sedicente contessa che vi trovavate al verde, che avevate bisogno di denaro per aver perduto duecentomila lire al giuoco ed impegnata la rendita di sei mesi? E minacciavate la vera contessa, che fortunatamente non poteva sentirvi, se non acconsentiva a pagare i vostri debiti! -

Il conte era livido.

- Ma dove eravate, voi, per sapere tutto questo?

- Accanto alla vostra tavola, dove voi pranzavate in compagnia della sedicente contessa. Oh! voi credevate che nessuno, lì, capisse il francese; ma c'ero io, e udii tutto. -

Il conte fremeva, ma Ilda era così adorabile, così provocante, che egli perdeva la testa.

- Ilda, abbiate pietà di me! - balbettò.

- Se vi sentisse Cinzia.... -

E divenendo seria:

- È inutile, - disse. - Forse, se non foste stato il protettore di Fabio, avrei potuto amarvi.

- Io rinnego il mio protetto dal momento che si è reso indegno di me, - diss'egli con voce ansante.

Ilda conservò il suo sorriso.

- Che m'importa, adesso? - esclamò. - Io non sono libera, e, quand'anche lo fossi, vi fuggirei egualmente. -

E stesa la mano ad un bottone del campanello, lo premè nervosamente.

Prima che il conte avesse il tempo di rispondere, una cameriera apparve.

Ilda era già in piedi, e con la massima disinvoltura:

- Accompagna il signor conte, - disse. - Ah! dimenticavo avvertirvi che il giovedì sera ricevo gli amici; si fa un po' di musica, poi si cena. Sarete il benvenuto. -

Il conte era stordito.

- Non mancherò, - rispose macchinalmente.

E seguì la cameriera, tutto fremente d'ira.

Appena in istrada si disse:

- Ilda si prende giuoco di me e di Fabio, che aveva piena fiducia in lei! Ma io l'avvertirò. -

Poi soggiunse con accento più cupo:

- Voglio conoscere il nababbo che la mantiene, ed agirò contro di lui per avere Ilda nelle mie mani. -

VIII.

Il marchese Passiflora non era ancora soddisfatto della lezione data a Livio: egli avrebbe voluto torturarlo, come egli era stato torturato, respinto da Bianca per la seconda volta.

Il marchese era quasi sicuro che la contessa avesse qualche intrigo. Ma come scoprirlo?

Passiflora aveva un cameriere intelligente, fedele, del quale poteva fidarsi.

Pensò di servirsene per il suo intento.

- Pietro, - gli disse - voglio darti una missione di fiducia.

- Mi comandi, signor marchese.

- Devi mettere a prova tutta la tua sagacia per scoprire il segreto di una signora.

- Mi dica di chi si tratta, e stia tranquillo che fra pochi giorni saprò dirle tutto quanto riguarda quella signora.

- Quella signora si chiama la contessa Bianca Rossano, ed abita verso il corso Palestro.

- Conosco il palazzo.

- Meglio così. Quando ti metterai all'opera?

- Oggi stesso. -

Passò una settimana, senza risultato.

Finalmente una sera Pietro disse al padrone:

- Signor marchese, sono quasi riuscito; ma vi è una piccola difficoltà.

- Quale? Sentiamo.

- Ho contratto relazione con una cameriera della contessa, una bella ragazza diciottenne, che mi crede innamorato di lei. Mi sono fatto credere un piccolo possidente, venuto a passare l'inverno a Torino, ed essa è felice. L'ho fatta chiacchierare, ed ho saputo che la contessa ha l'appartamento separato da quello del marito. In casa abita anche il padre della signora. La contessa si fa unicamente servire dalla cameriera Celia, e nessun'altra che questa l'avvicina. La mia ragazza, che odia Celia e la spia per coglierla in fallo, ha scoperto che due volte alla settimana essa va alla posta a ritirare delle lettere al suo indirizzo, ed ha veduto consegnare quelle lettere alla contessa. -

Un lampo scaturì dagli occhi di Passiflora.

- Bisognerebbe impadronirsi di una di quelle lettere! - esclamò.

- Ci ho pensato anch'io, ma la ragazza non vuole arrischiarsi a ritirarla dalla posta, perchè ormai l'impiegato deve conoscere Celia. -

Passiflora si era messo a camminare nervosamente per la stanza.

- Eppure, è necessario avere una di quelle lettere! - disse ad un tratto soffermandosi dinanzi a Pietro. - Cerca, inventa qualche cosa, pur che riesca. Se ti fa duopo spendere del denaro, prendi. -

Trasse dal portafogli due biglietti da mille e li porse a Pietro, che s'inchinò rispondendo:

- Farò l'impossibile per servirla. -

Una settimana dopo Pietro apparve con aria trionfante.

- Ecco la lettera, signor marchese, ed ancora chiusa. -

Passiflora l'aprì con diabolica soddisfazione e lesse:

«Mia Speranza, «Più i giorni passano, più mi riesce doloroso il vivere separato da te; ma è necessario, per la lotta che si prepara e sarà grave. Abbiamo tutto combinato con Ilda; ma il mio compito non sarà facile come credevo, e il dibattito che ho sostenuto dentro me stesso è stato lungo, doloroso. Pensare che quell'uomo ignobile è tuo marito, è cosa orribile! Credi che ho dovuto lottare non poco per non lasciarmi vincere dallo spirito del male e non commettere un delitto! «Al contrario tuo padre ed Ilda stessa mi destano un tal rispetto, quasi uguale a quello che sento per te. Cari e nobili cuori tutti! «Bianca, quando ritorneranno quei brevi e rapidi istanti passati insieme con la nostra bambina? Dal giorno che tu sei partita, ella si è fatta triste triste, chiama sempre la sua mammina. E ieri l'altro, appena mi vide, mi corse incontro gridando: «Babbo, perchè non hai condotta con te la mamma «Avrei da dirti tante cose, amor mio, ma attendo di scrivertele domani, per poterti anche spiegare meglio la parte che mi sono assunta e che spero di eseguire a maraviglia. Un bacio sulla tua pura fronte, perchè si rassereni e speri. «Aldo.»

Se un fulmine fosse caduto ai piedi di Passiflora, non gli avrebbe prodotto la terribile commozione che l'agitava dopo quella lettura.

Ecco perchè Bianca aveva respinto il suo aiuto, la sua protezione! Come si era presa giuoco di lui!

Ma ormai aveva un'arme nelle mani che poteva servirgli ad attirare Bianca, a piegarla ad ogni sua volontà. Se ella resisteva ancora, se ricusava di venire a patti con lui, egli informerebbe Livio di tutto.

Così pensando, il marchese si mise a un tavolino e vergò queste righe:

«Contessa, «Un grave pericolo minaccia voi e due persone che vi sono care! Aldo e la bambina. Questo pericolo io solo posso scongiurarlo. Vi prego di recarvi senza indugio da me, che per due giorni non mi muoverò da casa per attendervi. Spero che non ricuserete, altrimenti tutto sarebbe perduto. «Passiflora.»

Aggiunse in un angolo del biglietto il proprio indirizzo colla data, poi lo chiuse in una busta, sulla quale scrisse: «Signora Celia Lari, fermo in posta» come era scritto sulla busta che conteneva la lettera dello studente.

Ed uscì per impostarla egli stesso.

Il domani egli disse al suo cameriere che poteva restarsene fuori tutta la giornata, e attese, solo, in casa, che la contessa vi si recasse.

Fremeva di speranza e d'impazienza.

A un tratto il suono del campanello lo scosse.

Corse ad aprire, e subito svanì ogni sua speranza: gli stava dinanzi il signor Moreno.

- Voi aspettavate mia figlia, - disse - e sono venuto io. Posso entrare?

- Entrate, - rispose Passiflora con un gesto altero.

E sollevata egli stesso una portiera, lo fece passare nel salotto, gli offrì una poltrona.

- Grazie, posso parlare anche in piedi; avremo poco da dirci, - soggiunse in tono risoluto il signor Moreno.

E guardando bene in faccia il marchese, soggiunse:

- Che tranello volevate tendere a Bianca col vostro biglietto? -

Passiflora si fece rosso ed una fiamma cupa brillò nei suoi occhi.

- Un tranello? - ripetè senza chinare lo sguardo dinanzi a quello del signor Moreno. - Essa ha creduto così? O piuttosto ha voluto far credere a voi, mandandovi al suo posto, di non conoscere le persone che io le nominavo nel mio biglietto? -

Il signor Moreno rimase calmo.

- Mia figlia non ha bisogno di usare alcun sotterfugio con suo padre, signor marchese. Io conosco benissimo quelle persone. A voi domando piuttosto come le abbiate conosciute, e soprattutto desidererei sapere perchè la lettera diretta alla contessa era indirizzata ferma in posta alla cameriera Celia. -

Passiflora fu imprudente.

Togliendo dal suo portafogli la lettera di Aldo, disse con un sorriso freddo ed ironico:

- L'ho imparato dall'amante di vostra figlia! -

Uno schiaffo sonoro piombò sulle guance di Passiflora, seguito da queste parole:

- Voi siete un miserabile, signor marchese, ed avete compiuto un'azione degna della galera! -

Passiflora fece l'atto di slanciarsi sul signor Moreno, ma la riflessione lo trattenne.

- Mi renderete ragione dell'insulto fattomi in casa mia e delle parole pronunziate! - disse con voce fremente.

- Voi renderete ragione al tribunale di aver trafugato una lettera, facendola ritirare da chi è pronto a testimoniarlo! - ribattè il signor Moreno. - Un uomo d'onore non può battersi con un vile! -

Passiflora fremeva.

- Andate pure a denunziarmi; - disse con un sorriso atroce - ma domani tutta Torino saprà che se il conte Rossano è un libertino, sua moglie e suo suocero lo valgono. -

Con atto violento il signor Moreno l'afferrò per il petto.

- Datemi quella lettera, o vi schiaccio!

- Non ve la darò, e siccome voi venite ad aggredirmi in casa mia, io schiaccerò voi! -

E lottando rabbiosamente cercò di rovesciarlo.

Allora ebbe luogo fra quei due una lotta feroce. Passiflora, reso forsennato dalla rabbia, cercava invano di abbattere il suo avversario, che, più calmo, tenace, respingeva il suo assalto.

Ad un tratto un pugno dato da mano maestra piombò come una mazzata sul capo del marchese, lo stese supino a terra.

Calmo, il signor Moreno tolse al gentiluomo, che sembrava morto, la lettera innocente eppure accusatrice; si riaggiustò gli abiti, si rimise il cappello caduto e se ne andò chiudendosi l'uscio alle spalle.

A poco a poco il marchese si riebbe e allora un urlo gli sfuggì dalle labbra;

- Mi vendicherò, mi vendicherò! -

Mentre Passiflora imprecava come un forsennato, la porta si schiuse e rientrò il cameriere, chiedendo:

- Sono tornato troppo presto? -

Passiflora, a quelle parole, a quella vista, non si contenne più. Si slanciò sul disgraziato e lo sbattè contro il muro.

- Anche tu mi hai giuocato, infame! - esclamò con gli occhi stralunati dal furore.

Il cameriere tremava come una foglia.

- Ma io.... signor marchese....

- Taci, o ti chiudo la bocca per sempre! Sì, tu mi hai rubato il denaro per darlo ad una sgualdrina, che dopo averti consegnato la lettera, è andata a raccontar tutto al suo padrone.

- Io non so nulla.... sono innocente....

- Taci! - urlò di nuovo il marchese. - Se tu non le avessi detto il mio nome, io non sarei stato compromesso per causa tua. Via, via.... che non ti veda mai più! -

Il cameriere si avviò per uscire.

Ma Passiflora, già ritornato in sè, comprese che nessuno più di quel domestico poteva in quel momento servirlo.

E con voce cambiata:

- Fermati! - disse.

- Oh! signor marchese, adesso la riconosco.... Non potevo credere che lei mi scacciasse così, dopo averla servita sempre fedelmente. Le giuro che io non ho colpa in quanto mi dice, le giuro che io non ho pronunziato il suo nome, e non so come abbiano potuto scoprirlo, ma lo saprò.

- Tu non farai alcun passo senza mio ordine, e mi obbedirai ciecamente se vuoi rientrare nelle mie grazie. -

Il cameriere si lasciò cadere sulle ginocchia.

- Mi comandi, farò tutto quello che lei vorrà, anche se mi comandasse un delitto.

- Va bene, alzati; domani ti dirò quello che mi aspetto da te: adesso lasciami, vai a prepararmi una tazza di caffè! -

IX.

Era la sera di ricevimento in casa di Cleo, o piuttosto di Ilda. Luce e fiori a rifascio.

Gli invitati dovevano giungere alle dieci.

Erano le otto pomeridiane, e nello spogliatoio Ilda stava discorrendo con Aldo, che in abito da società aveva l'aspetto di un principe.

Anche Ilda era affascinante nell'abito impero, adorna di perle e di brillanti.

- Siete sicura che egli venga? - chiese il giovane gravemente.

- Lo vedrete. Quell'uomo non abbandona la preda che agogna. Ma ricordate bene la vostra parte.

- Credo che il pensiero della contessa basterà a rendermi superiore a me stesso. -

Ilda guardò l'orologio e mormorò:

- Il cavaliere Trani dovrebbe già essere qui. -

In quel momento una cameriera apparve, portando sopra un vassoio d'argento un biglietto da visita.

- È lui! - esclamò con vivacità Ilda. - Che entri, che entri subito! -

Il cavaliere Umberto Trani apparve.

Il magistrato, sorridente, stese la mano alla giovane, dicendo:

- Vedo con piacere che mi trovo fra conoscenti. Veramente il vostro biglietto firmato Cleo non mi avrebbe fatto sospettare che si trattava di voi. Bravissima! Mi rallegro che non abbiate più quelle idee singolari che conquistarono il pubblico a vostro favore.

- V'ingannate, signor Trani; - rispose Ilda - quelle idee sussistono sempre, ed è per ciò che mi vedete trasformata nella cortigiana Cleo e che trovate il signor Aldo in mia compagnia. -

I due uomini si erano stretti scambievolmente la mano, ma alle parole di Ilda il cavalier Trani guardò i due giovani con serietà e stupore.

- Mi spiegherete...? - disse.

- Vi ho pregato di venire da me un'ora prima che giungano gli altri invitati appunto per parlarvi liberamente, - rispose Ilda. - Favorite sedere e vi spiegheremo subito tutto. -

Il magistrato obbedì.

- Parlerò io, signor Aldo, - soggiunse la giovane volgendosi allo studente, che fece un cenno affermativo. - Voi sapete, signor Trani, come io stia cercando colui che spinse il mio fidanzato a commettere un delitto?

- E l'avete trovato?

- Non ancora, ma ho degli indizi. Il signor Aldo, divenuto mio amico, come aiutò in quella notte funesta ad arrestare l'assassino, così mi aiuterà a scoprire colui che armò la mano del disgraziato. Per giungere a tale scopo io, povera commessa, sono divenuta la ricchissima cortigiana Cleo; Aldo, il nobile e povero studente, passerà per l'uomo che mi mantiene. -

Lo sguardo del magistrato si fissava intensamente su Ilda.

- Ed i mezzi, chi ve li procura?

- Il signor Moreno, a nome della contessa Bianca Rossano sua figlia. Essa vuole ad ogni costo scoprire il mistero di quell'assassinio o piuttosto il segreto delle parole pronunziate dell'assassinata appena l'ebbe veduta. -

Umberto Trani era divenuto pensieroso.

- Ascoltatemi: - disse - io dovrei distogliervi da tali idee, tanto più che, se riusciste a scoprire più di quello che ho scoperto io, passerei per un magistrato da poco. Ma io ho cuore e coscienza, ed apprezzo il vostro nobile intento; per cui mi unisco a voi, pronto ad aiutarvi in tutto, pronto ad attestare di essermi ingannato, ma ancora in tempo a prendermi una rivincita.

- Grazie, grazie! - dissero ad un tempo Aldo ed Ilda. - La contessa e noi non dubitammo un istante del vostro appoggio. -

Umberto sorrise, orgoglioso di quello slancio sincero.

- Ditemi dunque qual parte mi avete preparata e su chi cadono i vostri sospetti.

- Su persona che voi conoscete e che vi sembrerà impossibile abbia avuto rapporti coll'assassino: il conte Rossano, - disse Ilda.

Il magistrato trasalì.

- Il conte non conosceva Fabio.

- Fabio stesso lo presentò a me. -

Umberto Trani divenne agitatissimo.

- E voi me lo nascondeste?

- Feci male, ma Fabio me l'aveva imposto; e se ora manco al giuramento fatto al mio fidanzato, è perchè mi sono persuasa che il conte non merita alcun riguardo. E dire che Fabio mi aveva raccomandata a lui. Ah! povero disgraziato! -

La giovane raccontò al Trani quanto noi già sappiamo e concluse:

- Del resto, sarà difficile smascherarlo. -

Essa parlò ancora a lungo, senza che il magistrato la interrompesse.

Una cameriera venne ad avvertire che i convitati cominciavano a giungere.

- Bisogna che io prenda il mio posto di padrona di casa, - disse Ilda, volgendosi ai due uomini. - Voi rimanete pure ancora qui. Aldo conosce la casa e saprà indicarvi da quale parte passare quando vorrete fare la vostra comparsa nel salone. A rivederci. -

Impossibile immaginare casa più ricca ed artistica di quella della bellissima cortigiana: una fila di stanze, splendidamente addobbate, fantasticamente illuminate, nel cui centro un salone circolare, adorno di arazzi. Lì stava la fata del luogo.

I primi arrivati erano giovani dell'alta società, che accompagnavano due orizzontali assai note.

Ilda le accolse con un gentile sorriso, e mentre esse si mostravano entusiaste di ciò che vedevano e la coprivano di elogi e di complimenti, la giovane indicò loro di sedere e mosse incontro ad altri venuti.

Le sale non tardarono ad affollarsi: uomini distinti, alcuni appartenenti alla nobiltà, altri alla finanza, al commercio; non mancavano gli ufficiali, gli artisti, i letterati. Le donne erano in minor numero e sapevano contenersi bene. Ilda nel suo invito prometteva un po' di musica e il ballo; in ultimo la cena chiuderebbe il ricevimento.

Ilda era la Regina della festa. Sorrideva a tutti, ma guardava impaziente l'entrata del salone, spiando l'arrivo del conte.

Umberto Trani, che si aggirava pei salotti, si sentì dire a un tratto:

- Anche voi, severo magistrato, in questo tempio della ricchezza e dell'amore? -

Si voltò: era il marchese Passiflora, colà condotto da un amico.

Il magistrato sorrise.

- Tutti i luoghi sono buoni per me, per studiare i tipi....

- .... dei delinquenti? - interruppe con uno scroscio di risa il marchese.

- Perchè no? Chi vi dice che qui non vi sia qualcuno che finisca i suoi giorni in prigione? Anche la padrona di casa fu mia cliente e corse il rischio di essere rinchiusa.

- Come?

- Ma sì; la bella Cleo non è altri che Ilda, l'eroina del processo di Fabio Ribera, l'assassino di Giulietta Lovera!

- Chi la mantiene in questo lusso?

- Quel giovinetto che ora le sta vicino e le parla: Aldo Pomigliano. -

Passiflora sussultò.

- Vi saluto, marchese, - disse il magistrato, che avendo veduto entrare il conte Rossano, subito si diresse verso Ilda.

La giovane si era seduta al fianco di Aldo e lo guardava con amore.

Parlavano sommesso e ridevano, non curandosi del pianista che molti ascoltavano in estasi.

Ilda aveva veduto entrare il conte, che le si avvicinò per salutarla.

- Vi ringrazio di esser venuto! - diss'ella.

- Vi ringrazio io di ricevermi, signorina Ilda, - replicò il conte.

- Chiamatemi Cleo: è adesso il mio nome, quantunque qui conoscano tutti o quasi tutti la mia storia. -

Aldo, che frattanto fissava la giovane colle sopracciglia aggrottate, chiamò in tono imperioso:

- Cleo! -

Ella si voltò languidamente verso lui, chiedendogli:

- Che volete, amico mio? -

Aldo sussurrò alcune parole, che fecero scoppiare dalle risa la giovane.

- Sentite, conte, sentite: - esclamò rivolgendosi a Livio, pallido, convulso per la gelosia - il signor Aldo Pomigliano, che vi presento, credeva nientemeno che voi foste il mio ex fidanzato, colui che è in galera! -

Il conte rivolse uno sguardo feroce allo studente.

- Signore! - disse in tono di minaccia.

- Scusate; - interruppe Aldo, che appariva più sorpreso che confuso - ma voi avete col signor Ribera una rassomiglianza straordinaria; me ne appello al cavalier Trani -

Il magistrato, che era poco distante, si volse vivamente chiedendo:

- Che c'è? -

E veduto il conte Rossano gli andò incontro stendendogli la mano.

- Anche voi qui? - disse.

- Sì; - rispose Ilda, che subito narrò il piccolo incidente, mentre Aldo ripeteva:

- Me ne appello a voi: lo trovate somigliante al Ribera? -

Umberto Trani guardò il conte e disse giovialmente:

- Toh, è vero! Non lo avevo osservato. Avete perfino lo stesso neo sulla guancia sinistra! -

In quel momento uno scroscio di applausi rimbombò nel salone, diretti al pianista.

Ilda prese a braccetto Aldo e si allontanò.

Umberto Trani ed il conte andarono a fumare nella galleria, che metteva in comunicazione le sale con le stanze di Ilda.

- Chi avrebbe mai detto, - esclamò il Trani mentre accendeva un'avana - che quella modesta commessa sarebbe divenuta la bella Cleo, la mantenuta di colui che ne arrestò il fidanzato! -

Livio sussultò.

- Come? Il signor Aldo è colui del quale parlavano i giornali al tempo del processo? Ma, se non m'inganno, si diceva che era povero.

- È vero; ma si dice che abbia avuto un'eredità. -

I due uomini furono interrotti dall'entrata di una terza persona nella galleria.

Era il marchese di Passiflora. Questi, riandando nella mente il contenuto della lettera che il signor Moreno era giunto a carpirgli, fu persuaso che Aldo, il protettore della bella Cleo, fosse l'amante della contessa Rossano e gli parve di aver trovato il modo di vendicarsi.

Passiflora aveva veduto il conte Livio, e come se non ricordasse più l'affronto fattogli alla tenuta, gli andò incontro col sorriso sulle labbra.

- Tu pure in casa della bella Cleo? - esclamò giovialmente. - Discolo! Queste scappate dovreste lasciarle fare agli scapoli, non è vero, cavaliere? -

Così dicendo si rivolse ad Umberto Trani che conosceva.

- Ho moglie anch'io; - rispose il magistrato - ma non credo di commettere adulterio passando un'ora in amabile compagnia, tanto più quando non si ha altro scopo che divertirsi.

- Ciascuno ha il diritto di pensare come vuole. Livio, - soggiunse rivolto al conte - puoi star meco cinque minuti? Ho bisogno di parlarti. -

Umberto Trani s'inchinò, allontanandosi.

Allorchè il magistrato fu scomparso, il volto di Passiflora non espresse che una dolce melanconia, e prendendo a braccetto l'amico, gli disse:

- Memore della nostra passata amicizia, io provo per te in questo momento tanta e sì profonda compassione, che ti domando perdono se un giorno fui quasi brutale con te. -

Livio lo guardò con sorpresa.

Passiflora si prendeva giuoco di lui?

- Non ti comprendo! - esclamò. - Perchè ti faccio compassione?

- Possibile che tu non soffra? Possibile che non ti stia a cuore, se non l'affetto, almeno il denaro di tua moglie?

- Che c'entrano adesso i denari della contessa con un supposto inganno? - domandò Livio a denti stretti.

Un sorriso ironico increspò le labbra del marchese.

- Povero illuso, bisognerà proprio che ti spieghi tutto! Mentre tu folleggi, altri prende il tuo posto. -

Livio divenne livido.

- Parla chiaro! - esclamò con voce rauca. - Queste tue reticenze mi uccidono. Che sai? -

Il marchese lo trasse dietro un gruppo di fogliami, che li nascose intieramente.

- Hai tu osservato bene il protettore della bella Cleo? - disse con voce che parve un sibilo.

Agitato da una strana commozione, Livio rispose:

- Sì; ebbene?

- Sai di dove provengano quelle ricchezze, che gli servono a mantenere il lusso sfrontato che ci circonda?

- No.

- Il denaro che qui si spende è denaro di tua moglie, per conseguenza, tuo.

- Tu menti! - gridò il conte.

- Sapevo bene che non mi avresti creduto; - disse amaramente il marchese - eppure è la verità. Tu mi dirai perchè io cerchi di schiacciare in tal modo la contessa; ma sai che l'ho amata prima di te, ed ho avuto la debolezza di continuare ad amarla, sperando che il giorno in cui avesse aperti gli occhi sul conto tuo, sarebbe stata mia. Ebbene, il giorno venne in cui essa ti disprezzò; ma quando le offrii il mio appoggio mi respinse di nuovo. Allora, nella stessa guisa che avrei commesso un delitto per possederla, così avrei dato il mio sangue per vendicarmi del suo disprezzo. La feci spiare, ed ho scoperto che essa ha un amante, e che è madre di una creatura di lui. -

Il conte cacciò un urlo, afferrando il braccio del marchese.

- Non è vero; è una menzogna orribile la tua, e me ne renderai conto!

- Quando vorrai; - disse con calma Passiflora - ma quand'anche tu mi uccidessi, non potrai distruggere quello che è! -

Il conte passò a un tratto dal furore alla calma; i suoi lineamenti si distesero, e con accento cambiato:

- Hai ragione! - disse al marchese. - Un duello fra noi non avrebbe alcuna utilità. Io voglio vendicarmi del mio odiato rivale, e tu mi aiuterai.

- Ti ho avvertito e basta: ora tocca a te! -

Un momento dopo i due uomini rientravano nel salone, disinvolti come se nulla fosse stato.

X.

Quando la contessa Bianca Rossano, aperta la busta che credeva contenesse la lettera di Aldo, trasse invece il biglietto del marchese Passiflora e lo lesse provò un'angoscia spaventevole ed ebbe appena la forza di suonare il campanello per chiamare la cameriera.

Celia accorse, e vedendo la signora così abbattuta, chiese con sgomento:

- Mio Dio, che è successo?

- Sono stata tradita.

- Per carità, si spieghi! Chi l'ha tradita?

- Non lo so, ma tu forse potrai scoprirlo.

- Mi dica che cosa devo fare: io sono pronta a tutto per lei.

- Hai mai rivelato ad altri che le lettere a te indirizzate ferme in posta erano per me?

- Giammai! - proruppe Celia in preda a un febbrile orgasmo, ma con l'accento della verità

- Eppure, qualcuno l'ha saputo, ha fatto ritirare una di quelle lettere.

- Impossibile! - gridò Celia. - L'impiegato postale non può consegnarle che a me....

- La lettera che oggi hai ritirata e conteneva questo biglietto ti proverà il contrario: leggi. -

Celia obbedì, lasciando sfuggire un'esclamazione di terrore.

- Ma io non comprendo.... - balbettò. - Qui si parla di un pericolo del signor Aldo, della bambina... -

Con un gesto la contessa l'interruppe.

- Questo biglietto è un tranello; il marchese Passiflora nulla sa di quello che mi riguarda, e se ha indirizzata la lettera a te, per certo ne ebbe un'altra di Aldo tra le mani. -

Celia crollava il capo.

- Non posso crederci, contessa. Se me lo permette, vado subito alla posta, non potendo rimanere in questa incertezza.

- Vai. -

E Bianca attese che la sua cameriera le recasse la conferma di quanto credeva.

Celia non stette assente più di mezz'ora. Quando tornò, il suo viso aveva un atteggiamento così addolorato, che Bianca ne fu commossa.

- Ebbene, avevo ragione? - chiese la contessa sollevandosi sulla poltrona.

- Sì; una miserabile si è presentata all'impiegato della posta con un mio biglietto, in cui pregavo di consegnare la lettera a me diretta, trovandomi ammalata.

- Chi può essere colei?

- Dai connotati ho capito che si tratta di Peretta, la sotto-cameriera. -

Bianca fece un atto di sorpresa.

- Ma essa sarà stata spinta da altri. Va' a dirle che ho bisogno di parlarle; ma, te ne prego, fa' che non sospetti di che si tratta.

- L'obbedirò, benchè mi senta il desiderio di torcerle il collo. -

Peretta comparì in compagnia di Celia.

Era una bella ragazza, dall'aria un po' sfrontata.

- La signora contessa ha bisogno di me? - chiese.

- Sì; lasciaci, Celia. -

Questa obbedì.

- Ora dimmi: - domandò Bianca a Peretta - quanto ti hanno dato per ritirare dalla posta una lettera diretta a Celia?

- Io non capisco.... - balbettò la ragazza.

- È inutile che tu finga; so tutto, e se ricusi di parlare, questa sera stessa dormirai in prigione. -

Peretta si abbandonò sopra una sedia.

- Sono rovinata! - esclamò.

- Se tu dirai la verità, nessuno ti farà del male e continuerò a tenerti al mio servizio.

- Ebbene, tanto peggio per coloro che mi hanno messa nell'imbroglio. È verissimo: io ho ritirato dalla posta una lettera diretta a Celia, per istigazione e dietro il biglietto di un uomo che mi fa la corte.

- Sai il suo nome?

- No; da che gli consegnai la lettera non l'ho più veduto.

- Ti ha parlato di me?

- No, mai, lo giuro! Mi disse soltanto che voleva sapere gli intrighi di Celia, perchè io ebbi l'imprudenza di confidargli che l'avevo vista recarsi alla posta a ritirare delle lettere.

- Va bene, puoi andartene; ma se vuoi rimanere al mio servizio, non agire più con una leggerezza che avrebbe potuto aprirti le porte d'una prigione, ove Celia fosse stata così cattiva da denunziarti.

- Per carità, signora contessa, mi perdoni e preghi Celia di perdonarmi! -

Ormai certa che si trattava di un tranello del marchese Passiflora, Bianca si confidò al padre.

Sappiamo già quello che fece il signor Moreno in casa del marchese Passiflora.

Bianca aspettava il padre in preda a mille tristi presentimenti. Quando egli fu di ritorno, le disse:

- Tu avevi indovinato: il marchese ha commesso una vile azione; ma io sono giunto a strappargli questa lettera che, resa pubblica, sarebbe stata il tuo disonore e la mia morte. -

Un'onda di sangue imporporò la fronte di Bianca, mentre i suoi occhi si velavano di lacrime.

- Padre mio!

- Hai avuto torto a permettere ad Aldo un linguaggio familiare, che potrebbe far credere ad una relazione colpevole. Basterebbero queste frasi per perderti! «Quando ritorneranno quei brevi e rapidi istanti passati insieme con la nostra bambina? Dal giorno che tu sei partita, ella si è fatta triste, triste, e chiama sempre la sua mammina. E ieri l'altro, appena mi vide, mi corse incontro, gridando: «Babbo, perchè non hai condotto teco la mamma?» Ora dimmi se questa lettera non sarebbe la tua condanna, il tuo disonore. Tuo marito avrebbe potuto con essa intentarti un processo d'adulterio, ed il colpevole sarebbe passato per vittima, avrebbe trionfato! -

Bianca chinò il capo sul petto: sentiva che suo padre aveva ragione.

- Per fortuna, - continuò il signor Moreno - il pericolo adesso è scomparso; ma il marchese Passiflora non è uomo da sopportare in pace l'umiliazione che gli ho fatta subire: bisogna guardarsi da lui. Intanto tu non devi più scrivere, nè ricevere lettere dal signor Pomigliano: l'avvertirò io. -

Bianca non replicò, ma uscito il padre diede in un pianto dirotto. Così le era tolta la gioia di intrattenersi per lettera con Aldo, di sapere le nuove di Gina, perchè essa era legata da una catena infrangibile.

Celia, trovata la sua padrona piangente, fece sforzi straordinari per consolarla.

- Non si disperi così; - le disse quando ne seppe la cagione - se non può più scrivere, andrò io a trovare il signor Aldo e le porterò sue nuove. -

Bianca scosse il capo.

- No, - rispose - sarebbe lo stesso che disobbedire a mio padre; ed egli soffre già troppo per cagion mia. -

Il suo accesso di debolezza era passato ed ella si ripromise di attendere gli avvenimenti.

Quella sera, prima di coricarsi, la contessa, inginocchiata, pregava:

- Mio Dio, fate che Aldo non mi dimentichi, e se il pensare a lui è una colpa, fate tacere il mio cuore e non mi punite maggiormente, Signore! -

* * *

Il conte Rossano, quando gl'invitati della bella Cleo si misero a cena, scomparve, senza salutare alcuno, dalla palazzina. Attraversato un salotto, aprì un uscio, e si trovò in un elegantissimo gabinetto, tappezzato di stoffa ricamata d'oro, dai mobili preziosi, paraventi, stuoie, giardiniere, e dal quale si accedeva nella camera da letto di Ilda.

Il conte voleva avere quella sera stessa un colloquio da solo a solo con la giovane.

La camera ed il gabinetto erano illuminati da lampade col globo velato, che proiettavano all'intorno una luce debolissima.

Il conte cercò a suo agio il luogo per nascondersi e lo trovò in un vano comodissimo, nascosto da un drappeggio di velluto che scendeva fino sul tappeto. Dietro quel vano potè mettere una seggiola, onde starvi più comodo.

Egli riandava gli avvenimenti di quella sera, e delle vampe di calore gli salivano al capo.

Non gli pareva naturale l'osservazione di Aldo sulla sua somiglianza con Fabio Ribera.

Ilda doveva aver detto della relazione che esisteva fra lui e l'assassino.... Fors'anche aveva supposto e confidato agli altri che l'istigatore di quel delitto doveva essere lui.

E mormorava:

- Insensata, tu non scoprirai nulla, nè gli altri saranno più fortunati di te. L'assassino è Fabio; nessun mezzo, per quanto abile, varrà a strappargli di bocca la verità. Egli mi è troppo devoto! -

Un sorriso diabolico sfiorava le sue labbra.

PARTE TERZA Il passato.
I.

Quarant'anni prima degli avvenimenti narrati, in una brutta sera d'autunno, nella camera da letto dell'avvocato Zeno Mestre, una delle figure più spiccate della magistratura torinese, si svolgeva una scena pietosa.

L'avvocato, ancora in giovane età, agonizzava.

Affranta dal dolore, lo assisteva la compagna adorata della sua vita, la signora Valeria, una gentildonna tutta cuore, ma di una debolezza di carattere eccessiva e di una timidità estrema, sebbene toccasse la quarantina.

Quantunque il medico l'avesse avvertita che la malattia non lasciava speranza, ella sperava ancora.

Che avrebbe ella fatto senza il marito, che era il solo appoggio alla sua debolezza, il solo che la incoraggiasse? Egli soprattutto era l'unico che avesse potere su Stefana, una giovinetta quindicenne, loro figlia, che, sotto un'apparenza d'angelo, nascondeva il più feroce egoismo e dominava la madre, che non aveva la forza d'opporsi alle sue volontà.

Stefana ebbe le convulsioni quando seppe del pericolo del padre, e, come sua madre, vegliò tre notti, senza allontanarsi mai; sembrava che uno strappo spaventoso si fosse prodotto nel suo cuore al pensiero di quella perdita, ma in realtà i suoi occhi erano rimasti aridi, nè aveva avuto un battito di più.

Pensava che la morte del padre la privava di un despota contro il quale mai potè ribellarsi.

Egli solo la teneva in soggezione.

Sua madre, intanto, con la testa appoggiata al guanciale del morente, piangeva da far pietà. Dall'altra parte del letto stavano una suora ed una cameriera.

Nella stanza non si udiva che il bisbiglìo della suora, il penoso respiro del morente, e di quando in quando un singhiozzo della signora Mestre.

- Chi piange? - chiese ad un tratto il moribondo, volgendo penosamente la testa sul guanciale. - Valeria.... -

Ella si asciugò in fretta gli occhi, si chinò a baciarlo.

- Zeno.... Zeno mio!...

- Povera cara, non voglio che tu pianga così. Sei qui sola?

- No, Zeno; vi sono Stefana, suor Orsola e Concetta.

- Di' loro che escano dalla camera, voglio rimanere solo con te. -

Fu obbedito.

Allora il moribondo, presa una mano della moglie:

- Valeria, ascoltami: - disse - io muoio.... -

Valeria balbettò:

- No, no, non voglio che tu muoia, Zeno!

- Bisogna rassegnarsi. Non disperarti così, te ne scongiuro, se vuoi vedermi chiudere gli occhi tranquillo! Valeria, se io rimpiango in quest'istante la vita, è per te, povera cara, perchè ti lascio con una figlia, dalla quale non sai farti obbedire e rispettare, e che ti procurerà molti dolori. -

La madre ebbe uno slancio generoso.

- Stefana ha buon cuore, - esclamò - l'ho compreso in questi giorni, in cui ha diviso i miei tormenti!

- Non illuderti, Valeria: io ho letto nell'animo suo: nulla la commuove; mentre versa lacrime, rimane insensibile. Ho cercato di modificare il suo carattere, ma purtroppo non sono riuscito. Ricordalo, Valeria: frena quella fanciulla con mano di ferro, o tu verserai lacrime di sangue per cagion sua!

- Zeno, Zeno, che farò senza te?

- Devi vincere ad ogni costo la tua debolezza, che sarebbe la perdita di tua figlia e la tua: promettilo, Valeria, prometti di non piegarti più ai suoi capricci, di sorvegliare ogni suo atto, di soffocare ogni sua ribellione, e magari rinchiudila. Io ti lascio ricca, lo sai, e questa ricchezza può essere la rovina di tua figlia; per cui tu devi nascondergliela. Io ho scritto il testamento in modo che ella creda di avere appena una rendita bastante per vivere, come l'ha creduto finora. Una parte del nostro patrimonio l'ho affidata al notaro Vannucci, il mio unico amico, che sarà tutore di Stefana e ti aiuterà nel compito che ti lascio. Tu gli obbedirai come a me: egli ha ricevuto tutte le mie istruzioni, saprà guidarti, sostenerti.

- Cessa, per pietà, cessa, o il mio povero cuore si spezza! -

Egli posò la mano sul bruno capo che si curvava sul petto di lui.

- Povero e caro angelo, noi ci rivedremo un giorno in Cielo. Intanto prometti di esaudire i miei voleri.

- Sì, Zeno, sì, te lo giuro!

- Grazie; ora sono contento. Puoi chiamare nostra figlia, intanto che manderai per il mio amico. -

La sua respirazione si era fatta più ansante.

Valeria si affrettò ad obbedirlo. Stefana apparve, col volto serafico, atteggiato al più profondo dolore.

- Eccomi, babbo; - disse - che vuoi?

- Voglio che in questo supremo momento tu mi giuri di rispettare tua madre, di obbedirla in tutto, di considerarla quale è veramente, la più santa delle madri, la più degna di essere amata. -

Stefana gettò le braccia al collo di Valeria con un affetto che parve sincero.

- Babbo, te lo giuro: se tu dovessi mancarmi, io non vivrò che per mia madre. -

Valeria singhiozzava stringendo al petto la figlia.

Il moribondo alzò la mano con un gesto solenne.

- Dio ti ascolta, Stefana! Guai se tu mancassi al giuramento fatto al letto di morte di tuo padre! Saresti disgraziata per tutta la vita. Ma non voglio pensarci, e benedico Dio che mi ha colpito, se la mia morte può servire a cambiare il tuo cuore, i tuoi sentimenti. Come ho detto a tua madre, non lascio ricchezze. -

Stefana sussultò, ma il suo volto non cambiò l'addolorata espressione.

Il moribondo proseguì:

- Ti lascio però un nome stimato, degli esempi di lavoro, di abnegazione, che non devi dimenticare. Stefana, ricordati di me: se qualche cattivo pensiero ti turbasse, confidati mentalmente a me, che cercherò di consolarti. Guardati dalle cattive azioni; al momento di commetterle, pensa che l'anima di tuo padre ti è vicina, ti guarda.... e tu non vorrai farlo soffrire nell'eternità. Ed ora dammi un bacio, Stefana, e tu pure, Valeria, e che Dio vi protegga, vi benedica entrambe! -

La scena che ne seguì distrasse le ultime forze del moribondo.

Un'ora dopo era morto, assistito anche dal suo vecchio amico, il notaro Vannucci, giunto in tempo per raccogliere le sue ultime raccomandazioni, il suo ultimo sospiro.

Per alcune settimane si credette che la signora Mestre seguisse il marito; ma a poco a poco quella disperazione violenta, si cambiò in una tristezza raccolta, e Valeria comprese che il suo dovere era di vivere per la propria creatura.

In questo frattempo Stefana, con la sua ipocrisia, era riuscita ad affascinare il tutore.

Il notaro Vannucci aveva finito col pensare che il suo defunto amico si era ingannato sul conto della figlia. Quella ragazza sedicenne aveva una grande intelligenza ed una penetrazione che lo stupivano. In poche parole, Stefana, senza neppure che il vecchio notaro potesse sospettarlo, seppe in breve come suo padre l'avesse ingannata e come il patrimonio che possedeva fosse cento volte maggiore di quello che aveva creduto.

Questa scoperta superò le sue speranze, ma non ne parlò con alcuno.

L'anno del lutto passò tranquillo, sebbene per Stefana avesse la durata di un secolo.

Il suo tutore era divenuto per lei un amico devoto, uno schiavo sommesso ad ogni suo desiderio. E siccome la signora Mestre era persuasa di adempiere alla volontà del marito affidandola a lui, lasciava che egli venisse a prenderla per condurla seco al passeggio, a pranzo in casa sua, al teatro.

Egli abitava solo con una vecchia fantesca che voleva bene a Stefana perchè la fanciulla l'accarezzava e scherzava con lei.

Una sera in cui il notaro aveva bevuto più del solito, eccitato dall'allegria di Stefana, dal suo calcolato cicaleccio, le rivelò il segreto del suo amico.

La fanciulla aveva già un tale potere su sè stessa, che non dimostrò alcuna sorpresa. Soltanto disse:

- Il babbo ha fatto benissimo ad affidare a voi la più gran parte del suo patrimonio, perchè la mamma non avrebbe saputo amministrarlo. Ma se per caso domani doveste mancare, questo patrimonio passerà ai vostri eredi? -

Il notaro abbracciò la fanciulla ridendo.

- Come sei bambina! - esclamò. - Credi che le cose non siano state fatte in regola? Tua madre nella sua cassaforte tiene la ricevuta del deposito, ed io nel mio testamento lascio a te, col patrimonio di tuo padre, anche il mio, non avendo eredi diretti. -

Stefana gli gettò con impeto le braccia al collo.

- Grazie! Ma Dio voglia che campiate cent'anni! -

Invece, una settimana dopo il vecchio, che aveva cenato in casa Mestre, si sentì preso da brividi, e, coricatosi, non si svegliò più: la fantesca lo trovò morto la mattina dopo. Il medico, chiamato in fretta, disse trattarsi di una sincope fulminante.

Stefana finse di disperarsi per quella morte, e la gente ammirò il suo cuore sensibile.

Nessuno stupì che il notaro avesse lasciato tutta la sua sostanza a Stefana.

Egli non aveva parenti.

Da allora in poi, la signora Mestre divenne uno strumento docile a tutti i voleri della figliuola, pur senza accorgersi che Stefana comandava ed ella obbediva, tanta era la furberia della ragazza.

Alcuni mesi dopo la morte del tutore, la vedova mise un piede di casa principesco, convinta che in tal modo troverebbe uno splendido partito per la figlia.

Sogni ambiziosi, fatti nascere da Stefana, ottenebravano ormai la sua mente. La signora Mestre nulla vedeva di più bello, di più perfetto che sua figlia.

Veramente, Stefana a diciotto anni era maravigliosa: non si poteva guardarla senza rimanerne affascinati. Ma se lo sguardo altrui fosse penetrato nel suo cuore, si sarebbe arretrato inorridito.

Stefana pensava che il piacere fosse l'unico scopo della donna e il fare delle vittime l'unica sua ambizione.

Frattanto non trovava marito, quantunque avesse all'intorno una vera folla di corteggiatori.

Ma la bellezza stessa della fanciulla, la vita dispendiosa che conduceva, i sorrisi d'incoraggiamento con cui accoglieva tutte le dichiarazioni, spaventavano anche coloro che avrebbero voluto chiedere la sua mano. Si diceva che sarebbe stata una deliziosa amante, ma come moglie era troppo pericolosa.

In questo frattempo le venne presentato il conte Sebastiano Rossano. Il gentiluomo non era più sul fiore dell'età ed aveva condotto fino allora una vita austera: centinaia di donne gli erano passate vicino senza destargli ombra d'amore; il lavoro e il dovere erano stati la sola sua occupazione, tanto che, coll'esiguo patrimonio lasciatogli dal padre, riuscì ad arricchirsi, grazie al suo assiduo lavoro.

Egli era stato presentato da un amico a Stefana. Gli bastò vederla per amarla. Ma siccome il suo amore era tanto puro e profondo quanto entusiastico, prima ancora di rivelarlo a lei, la chiese in moglie alla madre.

Stefana fu lusingata da quella domanda: il titolo di contessa le garbava.

- Accetto; - disse alla madre - però desidero far prima i miei patti. -

La sera stessa il conte si presentava alle due signore.

- La mamma - gli disse Stefana con una voce armoniosa che risonò agli orecchi di Sebastiano come una melodia di paradiso - mi ha comunicato la vostra domanda, che mi ha fatto molto piacere. -

Egli tremava come un fanciullo.

- Posso dunque sperare? - chiese con voce alterata.

- Sperate, - rispose Stefana con un incantevole sorriso - se pur vi adatterete a certe condizioni che io credo indispensabili. -

Il conte non pensava che alla felicità di possedere quella divina creatura.

- Qualunque sieno, - esclamò con slancio - io le accetto!

- Siete molto buono, conte, e sento che vi amerò per tutta la vita. Ma ora lasciate che io vi dica quello che desidero. Quando sarò maritata, non voglio più abitar qui, ma avere una palazzina mia propria.

- Ne ho appunto acquistata una, assai elegante; - rispose il conte - ma se non vi piace, la cambierò.

- Vedremo. Voi siete molto ricco, signor conte?

- Ho un reddito di centomila lire.

- Altrettanto ha la mia figliuola, - disse la signora Mestre.

Stefana battè le mani come una bambina.

- Oh! allora vedrete come ci divertiremo. Avrò un palco al Regio, mi farò venire gli abiti da Londra; alla mattina andremo alla passeggiata a cavallo; nel pomeriggio, in carrozza. Riceverò, darò delle feste!

- Farete tutto quello che vorrete.

- Come siete amabile, quanto vi amo! Mi condurrete anche ai bagni, in campagna?

- Sì, sì, Stefana! Io farò sempre la vostra volontà!

- Allora non ho più altro da chiedervi, se non che affrettiate il nostro matrimonio. -

Il matrimonio della giovane col conte Sebastiano Rossano fece rumore. Tutti i giornali ne parlarono ed i commenti nel mondo elegante furono infiniti. Alcuni non sapevano spiegarsi come Stefana, bella, ricchissima, vivace avesse acconsentito a sposare un uomo non più giovane e si mostrasse così raggiante di gioia.

- Stefana è molto più saggia di quello che credete, - dicevano le mamme alle loro figlie. - Ella sarà felice. -

II.

Benchè Stefana fosse divenuta una di quelle celebrate signore il cui nome si vede spesso comparire nelle cronache dei giornali mondani, benchè fosse circondata di adoratori, tutti erano concordi nel dire che essa era onestissima, che adorava il marito e che niuno avrebbe preso nel suo cuore il posto occupato da lui.

Il conte Sebastiano Rossano si felicitava ogni giorno della sua scelta.

Nella immensità della sua ebbrezza, il conte non vedeva lo sperpero del denaro che si faceva in casa. Tutte le condizioni imposte da Stefana erano da lui scrupolosamente rispettate: qualunque desiderio della moglie era un ordine.

La contessa divenne madre di un bel fanciullo, che fu chiamato Livio.

Stefana amò suo figlio con una passione quasi selvaggia, e fu l'unico, vero amore della sua vita.

Essa volle allattarlo, e così ebbe un appartamento per sè e per il bimbo: il conte riprese possesso del suo appartamento da scapolo, situato al lato opposto della palazzina.

La contessa aveva fatto spese straordinarie per Livio. Il corredo era bello come quello d'un principe.

La culla era costata diecimila lire.

Oltre la cameriera della contessa, maritata al cocchiere, due persone, che già avevano servito Stefana quando era ragazza e si sarebbero fatte squartare per lei, due altre cameriere dovevano servire esclusivamente per il bambino.

Un giorno il conte si accòrse che, andando di quel passo, in pochi anni il patrimonio suo e quello di Stefana sarebbe divorato. In tre anni aveva già dovuto alienare una parte del capitale perchè la rendita non bastava a far fronte a tutte le spese.

Tuttavia il gentiluomo si guardò bene dal farne parola alla moglie.

- Posso io pagare abbastanza la felicità che la mia adorata Stefana mi procura? - pensava. - Posso privarla di qualche cosa? No, no! Mi rimetterò a lavorare e procurerò che ella non sappia mai che spende troppo denaro e quale sacrificio io farò per lei allontanandomi spesso dal suo fianco. -

Un giorno che il conte aveva tardato più del solito all'ora del pranzo, tornato a casa trovò Stefana triste, inquieta, che gli gettò piangendo le braccia al collo.

- Perchè quest'assenza? Dove sei stato? Non mi ami dunque più? -

Il conte la coprì di baci.

- Stefana, come puoi pensare così? Guardami, guardami bene: ho la faccia di un colpevole? -

Stefana fissò i suoi splendidi occhi ammaliatori in quelli di lui.

- No; - rispose - ma tu mi nascondi qualche cosa.

- Sì, e faccio male, perchè non devo avere segreti per te. Le mie assenze hanno un giusto motivo: lavoro per te e per nostro figlio.

- Come?

- Non comprendi? Noi siamo ricchi, è vero, ma voglio che Livio lo sia ancora più; per cui mi sono rimesso agli affari.

Stefana si strinse a lui con un grido di gioia.

- Come sei buono! Quanto, quanto ti amo! -

E l'inebriò di sorrisi, di carezze.

Fin da quel momento, Stefana non si curò più delle assenze del marito, anzi, le desiderava.

Era la stagione dei bagni, ed ella vi si recò col bambino e la madre, in una bella villa di Pegli, presa in affitto dal conte, che rimase a Torino, facendo ogni tanto una scappata colà per abbracciare la moglie e il figlio.

Stefana aveva trovato a Pegli molti conoscenti. Alla sera ella riceveva amici e conoscenti, e vegliava fino a tarda ora.

Una notte tutto taceva nella villa, quando la signora Mestre, che soffriva di cuore, essendosi messa alla finestra per respirare, sentì un rumore di passi in giardino ed al chiarore della luna vide sua figlia al braccio di un uomo. Si dirigevano verso un piccolo padiglione.

Quantunque il turbamento le togliesse quasi il respiro, la signora Mestre lasciò la finestra, scese con precauzione in giardino e si avvicinò al padiglione, illuminato.

Da una delle vetrate guardò nell'interno.

Ciò che vide la povera donna dovette essere orribile, perchè indietreggiò con un grido di spavento e cadde distesa al suolo.

La porta del padiglione non tardò a spalancarsi e Stefana si precipitò fuori, seguìta da un giovane quasi imberbe, che mostrava sul volto i segni dello spavento.

- Che c'è? - chiese con voce soffocata.

La contessa, veduto il corpo di sua madre, comprese tutto.

Allora, calmissima, rivoltasi al giovane:

- Vattene subito; - disse - tu non hai nulla da temere! -

Egli disparve tosto, mentre Stefana si chinava sul corpo della madre, appoggiava il suo orecchio al cuore di lei.

Quando comprese che era solo svenuta, sollevatala per le spalle la trascinò nel padiglione, la stese sull'agrippina.

La signora Mestre non tardò a rinvenire, e veduta sua figlia gridò con disperato accento:

- Sciagurata!... Sciagurata!... Hai dunque l'anima impastata di fango? Tradire il più onesto dogli uomini, tu, madre della sua creatura!...

- Basta! - interruppe con impeto Stefana. - Non tediarmi. Perchè venire a spiare i miei passi come una suocera?

- Ed è così che rispondi a tua madre? Non provi rossore al pensiero dell'azione commessa? Non pensi che, invece di me, poteva esser qui tuo marito? -

Stefana alzò con aria di disprezzo le spalle.

- Credi che sia venuta ai bagni per far la balia al bambino? L'adoro, il bimbo, ma egli non deve essermi d'inciampo. Tu sei una mamma dalle idee antidiluviane! Io, invece, sono una donna moderna: voglio avere degli amanti, schiavi sommessi, pronti a versare tutto il loro sangue per me, e li avrò! Voglio essere ammirata, e in pari tempo creduta da tutti la donna più onesta del mondo! -

La signora Mestre ascoltava terrorizzata quelle massime vergognose: tremava a verga a verga, anelante.

- Disgraziata figliuola! - balbettò. - Dove hai imparato un simile modo di pensare e di parlare? Io ti ho dato solo esempi di virtù; tuo padre era l'uomo più onesto che esistesse, la tua istitutrice era una santa donna. E tu...? -

L'infelice si mise a singhiozzare.

- Oh! dimmi che vaneggi, che hai avuto un istante di follìa, - soggiunse con accento supplichevole - ma che ti penti, che il tuo cuore non è così traviato come vuoi farmi credere! Vieni meco a pregar Dio che ti perdoni: d'ora innanzi io non ti lascerò un solo istante! -

Lo sguardo di Stefana divenne quasi feroce.

- Credi che la tua presenza m'impedirebbe di fare il comodo mio? - interruppe con cinismo. - Ma non voglio infliggerti un tal supplizio, e scriverò a mio marito che l'aria di mare ti è nociva, che tornerai con lui a Torino, così non avrai più ragione di scandalizzarti. -

Un singhiozzo sfuggì dalle labbra della sventurata; ella sentiva che se rimaneva lì ancora un istante non avrebbe più la forza di ritornare nella propria camera; onde fuggì barcollando, dopo aver gridato a sua figlia:

- Che Dio ti perdoni! -

L'infelice passò la notte in ginocchioni, chiamando in aiuto Dio e suo marito.

La mattina dopo la cameriera, entrando in camera, trovò la signora stesa al suolo, immobile, morta.

III.

Stefana ebbe violente crisi di simulato dolore.

Il conte Rossano, avvertito da un telegramma, accorse subito e circondò la moglie di delicate premure.

La colonia dei bagnanti andò a iscriversi nel registro posto in una sala della villa, ma Stefana non ricevette alcuno.

Il trasporto della defunta dalla villa alla stazione fu veramente commovente. Stefana, col figlio fra le braccia ed il conte accanto a lei, seguiva in vettura il carro funebre, coperto di corone, e prese posto nel vagone riservato, dove era stato messo il feretro. Al cimitero, ella volle assistere al seppellimento della salma.

Per un anno, la contessa visse ritirata, non occupandosi che del suo Livio, inebriandosi al cicaleccio di lui, che non lasciava quasi mai la mammina.

Poi Stefana ricominciò a frequentare la società, riprese la sua esistenza di piaceri.

Livio, crescendo, le assomigliava non soltanto nel fisico, ma soprattutto nel morale: nulla aveva di suo padre, nulla! Il conte avrebbe voluto educarlo con una certa severità; ma come resistere alla moglie?

- Abbiamo quest'unico figlio; - diceva Stefana - vuoi che ci muoia per il troppo studio? Lascialo sviluppare: per ora gli daremo una buona istitutrice, più tardi un ottimo precettore, che sceglierò io stessa. -

Se Livio studiava poco, aveva in compenso una malizia innata e la profonda ipocrisia della madre. Era capacissimo di tormentare una bestia per il solo gusto di vederla soffrire, salvo poi, se compariva qualcuno, di piangere e disperarsi.

Il conte lavorava da mane a sera; la moglie faceva sperpero di denaro.

Un giorno la contessa s'intratteneva nel suo salotto con un ufficiale di cavalleria, che da lungo tempo le faceva la corte ed al quale essa aveva concesso un particolare colloquio.

Mentre l'ufficiale, inginocchiato ai piedi di Stefana, le chiedeva pietà del suo soffrire, un uscio si spalancò con impeto e Livio, il quale allora aveva sette anni, si precipitò dentro, gridando:

- Mamma, c'è il babbo! -

La malizia di quel fanciullo gli fece comprendere che quel colloquio, sorpreso dal padre, poteva cagionare un grave dolore alla madre.

E quando il conte entrò nel salotto, la contessa stava tranquillamente disegnando presso un tavolino: l'ufficiale era uscito da un altro uscio, guidato da Livio.

Da questo si può comprendere l'educazione del fanciullo e come madre e figlio dovessero adorarsi e andare pienamente d'accordo.

Un giorno il conte si recò all'estero a cagione del fallimento di una Casa commerciale, colla quale egli era cointeressato. La sua assenza doveva essere di pochi mesi, invece si prolungò oltre un anno.

In questo frattempo la contessa Stefana parve rinunciare alla vita elegante, scapigliata. Non riceveva più, si mostrava di rado in carrozza al passeggio, e la sua salute sembrava alterata.

Livio la sorprese sovente sdraiata su di una lunga poltrona, pallida, affranta, piangente.

- Che hai, mamma, che hai? - le diceva coprendola di baci. - Il babbo ti ha dato qualche dispiacere?

- No, angelo mio, no! Sono triste, senza sapere il perchè! - rispondeva la contessa.

Ma Livio non era persuaso. Egli aveva allora dodici anni e sembrava un ragazzo educatissimo: sapeva stare in società, aveva tutta la grazia e il sorriso affascinante della mamma. Ma in fondo era vizioso, indolente, e non si approfondiva in cosa alcuna.

Aveva i sensi precocemente sviluppati e l'aspetto di un arcangelo.

Una mattina, quando stava per alzarsi, il cameriere gli consegnò una lettera della contessa.

Livio ebbe un moto di sorpresa.

- Dov'è la mamma? - domandò.

- È partita! -

Il fanciullo strappò febbrilmente la busta, e lesse:

«Amor mio!

«Ho bisogno di assentarmi dal palazzo, almeno per una settimana: lascio te, che sei un ometto, a guidare la casa. Se arrivasse tuo padre e altri chiedesse il motivo della mia assenza, rispondi che un dovere di gratitudine mi ha condotta presso la madre, ammalatissima, della mia cameriera, la quale parte con me. Conduco meco anche il cocchiere, suo marito. Mostrami in questa circostanza l'amore che mi porti, non facendo scene per la mia lontananza e scusando cogli altri la mia partenza. Ti adoro e ti bacio.»

Livio rimase impassibile.

E nelle due settimane che la contessa rimase assente, egli seppe tenere un contegno da vero ometto.

Quando il conte arrivò, la contessa era già tornata. Egli trovò sua moglie assai pallida, come se uscisse da una malattia, e abbracciandola si scusò della sua lunga assenza.

- D'ora innanzi, non starai tanto tempo lontano, non è vero? - gli disse Stefana stretta al collo di lui. - Quanto mi ha fatto soffrire questa separazione, benchè avessi meco mio figlio! -

Il conte non si saziava di baciarla: era commosso della fedeltà di quella donna adorata.

- In questo frattempo ho avuto anche un altro dispiacere: la mamma della mia cameriera, colei che mi ha portata in braccio piccina, è morta. Essa volle rivedermi prima di chiudere gli occhi per sempre.

- Povera donna!

- Mi recai da lei con la cameriera e il cocchiere, cui essa ha lasciato una casetta di campagna con alcune vigne, ed ho dovuto, con mio dispiacere, rinunziare a quei due fidi servitori, che ormai vogliono accudire ai loro beni. -

Il conte non ebbe il minimo sospetto che tutta quella storia fosse una menzogna.

Ma Livio, sebbene fanciullo, non credette alle parole della madre, cui disse:

- Tu menti: hai un segreto per me, e non vuoi rivelarmelo.

- Lo saprai più tardi; adesso sarebbe inutile, - rispose Stefana - ti prego di non insistere. -

Gli anni scorsero.

Stefana, come divorata da un pensiero tormentoso, si diede nuovamente alla pazza gioia.

Il conte continuava la sua via di sacrificio, persuaso che la donna adorata meritava tutto il suo grande amore, tutta la sua devozione.

Una notte la contessa si sentì colta da brividi ed ebbe ad un tratto il presentimento della sua prossima fine.

Sentì agghiacciarsi di terrore: non voleva morire, senza fare una importante rivelazione a suo figlio.

Con quella forza di volontà che aveva sempre distinto Stefana in tutte le pericolose circostanze della sua vita, scese dal letto, indossò una vestaglia, e barcollando si diresse nella camera del figlio.

Questi, vedendola, si spaventò e chiese:

- Mamma, che hai? Tu soffri?

- Sì, caro; - rispose ella - sento in me qualche cosa che si spezza, ed ho paura di morire. -

Egli la guardava convulso.

- Perchè ti sei alzata? Vuoi che ti riconduca a letto, che mandi per un medico?

- No, più tardi; prima voglio rivelarti un segreto che da dieci anni mi pesa sul cuore. Ascoltami. -

Ella sedette accanto al letto del figlio e prese a dire:

- Ti ricordi come, dieci anni fa, mentre tuo padre si trovava in viaggio, io mi assentassi da casa?

- Lo ricordo perfettamente, mamma; ho sempre impresso le raccomandazioni fattemi nella tua lettera, e sebbene bambino, non prestai fede quando dicesti che eri partita per riabbracciare una morente.

- Avevi indovinato, Livio: io non mi allontanai da Torino; mi nascosi coi miei fidati servi in un piccolo appartamento già preso in affitto sotto il loro nome, ed in quell'appartamento diedi alla luce un bambino, che non porterà mai il nome tuo, nè godrà del tuo patrimonio. Tuo fratello fu legalmente riconosciuto come figlio dei coniugi Ribera, che per me avrebbero fatto qualsiasi sacrifizio. Ora ti spiegherò i motivi che mi indussero a lasciar vivere quel fanciullo.

«Se tuo padre fosse stato in quel tempo a Torino, non avrei potuto nascondergli il mio stato ed egli sarebbe stato felice d'avere un altro figlio, un altro erede.

«Ma io non volevo: avrei odiato quel secondo fanciullo se prendeva posto in questa casa perchè tu solo regni nel mio cuore, nell'anima mia, tu solo fai parte di me. Se volli dare un nome a tuo fratello, lo feci perchè tu avessi più tardi un uomo da far agire a tuo talento, un uomo che ad un tuo cenno diverrà tuo schiavo e sul quale avrai un potere di vita e di morte. -

Livio guardava sua madre credendo vaneggiasse. Ella comprese quello sguardo.

- Tu pensi - soggiunse - che la febbre mi abbia dato al cervello, che io deliri: no, rassicurati, Livio, ho tutto il mio senno e te lo provo.

«Fabio Ribera, tale è il nome di tuo fratello, fu dato a balia ad una donna che, come tutti, lo credette veramente figlio della mia cameriera.

«L'anno seguente, i due coniugi lo presero in casa, e per quattro anni Fabio visse con loro, che lo facevano pregare ogni sera per me, dinanzi al mio ritratto, dicendogli che ero la sua benefattrice.

«Volle disgrazia che quando Fabio compiva i cinque anni, la cameriera e suo marito fossero portati al camposanto. Ma la donna lasciava a suo figlio una lettera, che io stessa le dettai e che, unita ad un'altra scritta da me, consegnerai tu stesso a Fabio, quando avrà vent'anni.

«Tu leggerai quelle lettere, che non sono suggellate, prima di consegnarle a Fabio.

«Egli è ora in un collegio modesto il cui rettore mi assicura che non vi è allievo migliore di lui.

- Vuol dire che non mi rassomiglia! - interruppe ridendo Livio.

- Oh! tu per me hai tutte le perfezioni, e Fabio non avrebbe mai preso nel mio cuore il tuo posto. Peraltro, tu compirai l'opera mia verso lui, ne farai un buon operaio, e gli dirai che deve tutto a te, acciocchè sia pronto a qualsiasi sacrificio per amor tuo. Ora, caro, accompagnami nella mia camera; voglio consegnarti quelle lettere. -

Livio, vestitosi in fretta, seguì la madre, che ebbe ancora la forza di aprire il serracarte e consegnare al figlio una piccola cassetta d'ebano, scongiurandolo di andare subito a nasconderla.

Quando Livio ritornò, la contessa gli cadde fra le braccia, balbettando:

- Chiama aiuto, mi sento morire! -

Livio la trasportò sul letto, poi attraversò le stanze urlando, chiamando i domestici, destando tutti.

- Presto, un medico! - gridava. - La mamma muore! -

Il conte si precipitò nella camera della moglie.

- Stefana, Stefana, che hai? - gridava, spaventato.

La contessa non rispose. Aveva gli occhi fissi, immobili.

A un tratto balbettò:

- Aria.... aria.... soffoco.... Dio, Dio!... -

Venne spalancata la finestra, mentre padre e figlio sostenevano Stefana per le spalle.

Il medico giunse e recò alla contessa un sollievo momentaneo con iniezioni d'etere e con l'ossigeno; ma dichiarò il caso disperato: si trattava di una pericardite acuta.

Poco dopo Stefana chiamò:

- Sebastiano! -

Il conte fu in un attimo vicino a lei, che l'attirò al suo petto per mormorare:

- Muoio.... ama molto Livio.... per me.... -

Il conte rispose con un lacerante singhiozzo.

Troppo lungo sarebbe descrivere la scena dolorosa che ne seguì.

Ma il medico aveva ragione: Stefana entrò in agonia, indi il suo cuore cessò di battere.

Se il conte Sebastiano, colpito da quella morte improvvisa, sembrò impazzire, la disperazione di Livio non ebbe limiti. Nessuno riusciva a staccarlo dal cadavere della madre, che copriva di baci appassionati.

Di fronte a quell'immenso dolore, il padre fece tacere il suo.

Egli ricordava le ultime parole di Stefana e, avvicinatosi al figlio, lo sollevò, lo strinse fra le sue braccia, balbettando:

- Piangi con me, Livio, piangi col tuo povero babbo, che ha pure il cuore spezzato! -

Per la prima volta il giovane ebbe uno slancio sincero di riconoscenza, per la prima volta si tenne stretto al padre, confondendo le lacrime con quelle di lui.

Per molte settimane padre e figlio vagarono per la palazzina come in attesa che la contessa Stefana comparisse.

Essi passavano lunghe ore nella camera di lei, dove un ritratto ad olio di Stefana la riproduceva in tutto lo splendore della sua bellezza.

Un giorno il conte, stringendo la mano al figlio, gli disse:

- Io mi rimetterò agli affari: tu pure cerca un'occupazione: così potremo far tacere il nostro dolore. -

Il giovane non rispose.

Quel giorno stesso egli si chiuse nella sua camera ed aprì per la prima volta la cassetta d'ebano, consegnatagli dalla madre.

Conteneva due lettere, in una busta non suggellata.

La soprascritta di una di esse diceva: «A mio figlio.»

Era vergata da una mano a lui sconosciuta e diceva:

«Caro figlio, «Questa lettera che io ti scrivo in punto di morte non ti verrà consegnata che quando avrai compiuti vent'anni. Sarà dunque allora la voce di una morta che parlerà al tuo cuore, e tu devi ascoltarla. «Guai se tu non obbedissi a quella voce! Io non avrei più riposo nella tomba e tu saresti maledetto per tutta l'eternità! «Ascoltami, dunque. Dal momento che tu sarai un uomo, dedicherai tutta la tua esistenza alla contessa Stefana Rossano, tua benefattrice. «A lei tu devi tutto, ricordalo, e qualunque cosa ti imponesse, l'eseguirai: io stessa, tua madre, te lo comando. Sii colla tua benefattrice umile, devoto, rispettoso; pensa che a lei sola devi la tua istruzione, che essa sola ha sopperito a tutte le spese per allevarti, per fare di te un uomo onesto. La tua vita stessa non basterebbe a pagare il debito di riconoscenza che hai con lei. «Addio, figlio mio, addio! Ti bacio e ti benedico. Tua madre «Flavì Ribera.»

L'altra lettera era scritta da Stefana. Livio lesse:

«Mio buon Fabio, «Speravo di poter compiere il voto espressomi dalla tua povera mamma prima di morire: consegnarti una sua lettera, quando tu fossi un uomo. Ma io pure cedo innanzi tempo a quella legge fatale della natura, che non dovrebbe colpire le madri, finchè sono necessarie alle loro creature. Ho il presentimento che la mia fine si avvicini, e non voglio morire senza aggiungere alla lettera di tua madre la mia ultima raccomandazione. Le due lettere ti saranno consegnate da mio figlio. «Tu sai quanto io sia stata affezionata alla tua povera mamma, e come abbia adempiuto la promessa a lei fatta di vegliare su te. Ti ho voluto bene come se tu fossi mio figlio: ebbene, su mio figlio tu riverserai tutta la riconoscenza che nutri per me, tu obbedirai ad ogni sua volontà, farai ciò che egli ti ordinerà di fare: questo io desidero. «Appena avrò chiusi gli occhi, mio figlio, il conte Livio Rossano, diverrà il tuo benefattore. «Amalo molto in cambio di tutto quanto farà per te e di ciò che io feci alla tua povera mamma; cerca di provargli, fosse anche a costo della tua vita, la tua gratitudine; contribuisci, per quanto puoi, alla sua felicità. «Tu sei un ragazzo assennato, e quando avrai questa mia sarai un uomo capace di dare a due povere morte la maggiore soddisfazione che possono avere da te. E quando verrai a pregare sulla mia tomba, su quella di tua madre, noi riconosceremo il suono della tua voce, e se ci dirai di averci obbedite, riposeremo tranquille, benedicendoti. Se invece tu ci disobbedissi, tua madre ed io non troveremmo più pace nella tomba e tu saresti maledetto. «Ma tu sei buono, onesto, hai cuore, e ci ascolterai. Ti mando un bacio con tutta l'anima e ti benedico. La tua benefattrice «Contessa Stefana Rossano.»

Livio stette per alcuni minuti con quella lettera fra le mani.

- Cara mamma! - mormorò. - Essa ha pensato a me solo fino all'ultimo istante! Ebbene, per amor suo mi occuperò di Fabio, quando anche egli non mi giovasse a niente e dovesse procurarmi noie e spese. -

Presa questa risoluzione, suggellò le due lettere, le mise nella cassettina, ed il giorno seguente, vestito a lutto, col volto atteggiato ad una grande mestizia, si presentava al collegio dove Fabio veniva educato.

Appena diede il suo nome, venne introdotto nel gabinetto del direttore.

Questi, un vecchio di modesto aspetto, dal volto spirante la più grande bontà, gli andò incontro premuroso e, con voce commossa:

- Vi ringrazio, signor conte, - disse - dell'onore che mi fate colla vostra visita. Conosco la disgrazia che vi ha colpito, e ne soffro, come ne soffre il protetto dalla compianta signora contessa.

- Io sono venuto espressamente per vederlo e parlargli, - rispose Livio. - La mia santa mamma ha amato quel ragazzo come un figlio, ed io crederei di mancare al mio dovere, se non prendessi il suo posto in quest'opera di carità.

- Voi siete degno figlio della povera signora! - soggiunse il direttore. - Sono lieto di potervi dire che il ragazzo merita davvero tutta la vostra premura: è il migliore degli allievi nostri, e vi assicuro che i vostri benefizi non andranno perduti.

- Meglio così! -

Il direttore diede ordine perchè Fabio fosse chiamato.

Il ragazzo non tardò a comparire nella sua uniforme del collegio. Era davvero un bel fanciullo, biondo, roseo, e Livio notò subito che gli assomigliava.

Fabio, entrando, guardò prima con sorpresa Livio, poi grosse lacrime gli caddero dagli occhi, e congiungendo le mani con espressione commovente:

- Non m'inganno: - balbettò - lei è il figlio della contessa, della mia benefattrice: le somiglia tanto! -

E, prima che il conte potesse prevederlo, Fabio gli cadde ai piedi svenuto.

- Vedete come è sensibile! - disse il direttore, mentre aiutava Livio a sollevare il ragazzo, a distenderlo sul divano. - Dal giorno in cui seppe della morte della contessa, non è stato più bene. -

Egli fece portare dell'acqua e dell'aceto, ne inzuppò un fazzoletto, che pose sulla fronte del fanciullo.

Fabio aprì gli occhi ed il suo primo sguardo fu per Livio.

Allora si mise novamente a piangere.

Il giovane conte lo sollevò, lo strinse al suo petto.

- Piangi.... piangi! - gli disse. - Non verserai mai abbastanza lacrime per quella santa che ci ha lasciati. Io pure ho il cuore spezzato, io che ho perduto in lei la migliore delle madri. Sappi che ella non si dimenticò di te: mi raccomandò di non abbandonarti mai, e puoi star certo che il suo voto sarà esaudito.

- Oh! signor conte, io non so esprimermi, ma se potesse leggere nel mio cuore, vedrebbe quanta devozione racchiude! La mia benefattrice mi parlava sempre di lei, ed io l'amavo senza conoscerlo; ora sento che sarei pronto a versare per lei tutto il mio sangue.

- Grazie, Fabio; non dimenticherò mai le tue parole. -

Calmata la piena degli affetti, Livio, con un accento quasi paterno domandò a Fabio dei suoi studi, delle sue aspirazioni.

- Le mie aspirazioni non sono molto alte: - rispose mestamente il ragazzo - io vorrei compiere il corso commerciale per entrare come contabile in qualche magazzino, dove potessi guadagnarmi da vivere. L'unica mia ambizione è di rimanere a Torino per poter vedere di quando in quando lei. -

Amare ed essere amato da Livio, serbare un culto profondo alla sua benefattrice, ecco ormai dove Fabio compendiava tutta la sua vita.

- Tu sei proprio un bravo ragazzo! - disse Livio baciandolo sulla fronte. - Io vado orgoglioso di proteggerti, e puoi star certo che verrò spesso a trovarti. -

Infatti non passava settimana senza che il contino si recasse al collegio, e se egli ne usciva commosso dai colloqui avuti con Fabio, il povero ragazzo contava quelle ore come le più felici della sua esistenza, che radicavano in lui profondamente il desiderio di dedicarsi al suo benefattore.

IV.

Passato l'anno del lutto, Livio menò vita scapigliata e dispendiosa.

Il conte Sebastiano seppe presto dei disordini di suo figlio.

Un giorno, durante il pranzo, egli osservò che Livio era molto turbato, per cui nell'alzarsi da tavola gli disse:

- Ho da parlarti: andiamo nel salotto da fumo. -

Il giovane divenne livido, ma rispose con abbastanza disinvoltura:

- Sono ai tuoi ordini, babbo! -

Seduti l'uno di faccia all'altro, il conte, guardando il figlio con espressione d'immenso amore, gli disse con accento pieno di paterna tenerezza:

- Perchè non hai fiducia in me, figlio mio? Io so che hai perduto al giuoco cinquantamila lire in una notte, e per pagarle ti sei messo in mano agli strozzini. -

Il giovane stava per negare, ma comprese che avrebbe commesso una pazzia. Allora pensò bene di cadere alle ginocchia del padre, e mentre grosse e bugiarde lacrime comparivano nei suoi occhi:

- È vero! - balbettò. - Perdono, padre mio, perdono: ti prometto di non toccare mai più una carta. Mai!

- Va bene; alzati e siedi; non ti ho detto ancor tutto. -

Il giovane sembrò attendere umilmente.

- Mi hanno poi detto che mantieni una ballerina, una minorenne, cui hai regalato gioielli, carrozze e cavalli, come se tu fossi un milionario.... È vero? -

Livio mostrò una certa audacia.

- Sì, non lo nego! - rispose. - Ma suppongo che la povera mamma mi abbia lasciato un vistoso patrimonio. -

Quell'allusione afflisse il conte Sebastiano. Per quanto grande fosse la sua adorazione per la defunta, non voleva che suo figlio si facesse delle illusioni.

- La tua povera mamma non ha lasciato nulla, - rispose con tono grave - ed ho dovuto pagare molti suoi debiti perchè non venisse profanata la sua memoria. Non faccio un rimprovero a quella santa; essa non conosceva il valore del denaro. -

Livio era alquanto scombussolato.

- La mamma mi disse più volte che ti aveva portato in dote centomila lire di reddito.

- È verissimo; ma stante la sua prodigalità, in pochi anni finì la sua dote e più della metà di ciò che io stesso possedevo. Col mio lavoro potei salvare il resto ed aumentare a poco a poco il patrimonio, riuscendo in tal modo a non turbare la tua povera mamma, a lasciarle continuare la sua esistenza di lusso. Ed è morta, ignorando tutti i sacrifizi da me fatti per lei. -

Livio rimaneva a capo chino.

Il conte proseguì:

- Sarei però un cattivo padre se lasciassi percorrere a te la stessa china fatale, mentre ormai sei un uomo e puoi comprendere come l'esistenza non sia fatta di soli piaceri. Io ho sempre lavorato, e d'ora innanzi lavorerai anche tu. Pagherò tutti i debiti da te fatti, purchè tu mi prometta di nuovo di non più frequentare case da giuoco e di lasciare quella ballerina.

- Te lo prometto; - disse Livio - d'ora innanzi mi lascerò guidare da te. -

Livio mentiva come sempre. Tuttavia per qualche tempo sembrò tornasse savio. Pagati i debiti, lasciata l'amante, si mise al lavoro. Suo padre gli affidò la contabilità.

Un giorno il conte affidò al figlio ventimila lire per fare un pagamento. Appena Livio ebbe quel denaro nelle mani, fece un viaggetto di piacere con una canzonettista, ed appena a Milano, telegrafò al padre:

«Non ho resistito alla tentazione. Fai tu il pagamento. Tornerò presto.»

E tornò infatti dopo una settimana, completamente al verde.

Questa volta il conte Sebastiano ebbe per lui parole roventi di rimprovero. Suo figlio aveva abusato della sua fiducia; era doppiamente colpevole.

Livio, invece di chiedergli perdono, si ribellò, mostrandosi quale veramente era: cinico, audace, vizioso. Voleva imporre al padre, ma non ci riuscì: il conte tenne duro, gli lesinò il denaro, gli disse che non avrebbe più riconosciuto alcun debito fatto da lui.

Frattanto lo sventurato padre si sentiva morire di cordoglio.

Una mattina il conte Sebastiano, còlto da grave malore, spirò in meno di un'ora.

Livio era libero! Libero di divertirsi, di spendere, di godersi la vita, senza che alcuno controllasse le sue azioni.

V.

Fabio continuava con ardore gli studi, per rendersi sempre più degno del suo benefattore.

Tutta l'adorazione che il fanciullo aveva provata per la contessa, si riversò su Livio. Per Fabio non vi era nulla al mondo di più bello, di più perfetto del giovane conte, il quale se ne compiaceva.

Fabio era sui diciotto anni, allorchè un giorno Livio si recò ad avvertirlo che gli aveva trovato un buon posto di contabile in un grande magazzino di mode, dove avrebbe percepito per i primi mesi sessanta lire, che sarebbero andate crescendo fino a raggiungere la cifra di centocinquanta lire mensili.

Fabio ne fu felice.

Livio aveva preso, a nome di Fabio Ribera, due stanzette al quarto piano di un vasto casamento in via della Rocca, pagandone il primo semestre anticipato e le aveva fatte ammobiliare con una certa proprietà.

Quando vi condusse Fabio, questi, versando lacrime di riconoscenza, cadde ai piedi di Livio e gli baciò affettuosamente le mani.

Fabio Ribera si presentò al magazzino indicatogli da Livio e vi fu ben accolto.

Il conte Rossano regolò la vita del giovane in modo che nessuno dubitasse dei rapporti esistenti fra loro. Egli, sapendo che in quel magazzino cercavano un contabile, offrì Fabio, dicendo che gli era stato raccomandato da un gentiluomo che ne aveva fatto i più grandi elogi. Così, fu accettato.

Quando Livio capitava a fare qualche compra in quel magazzino, Fabio lo salutava con rispetto, ma nessuno avrebbe mai creduto che egli fosse in relazione col conte.

Non passava però settimana senza che il conte dedicasse una sera al suo protetto.

In questo frattempo Livio conobbe Giulietta Lovera.

Una mattina che il conte bighellonava per le strade, giunto al corso San Maurizio si fermò a guardare una giovane vestita con semplicità ma di una bellezza più unica che rara.

Il conte, affascinato, le si avvicinò, e con voce soave:

- Perdonatemi, signorina, - disse - ma l'involto che portate è senza dubbio troppo pesante per voi. Permettete che io ve lo porti. -

Giulietta guardò alla sfuggita quel giovane tanto gentile, e fattasi di fiamma rispose:

- Ci sono avvezza, signore; e poi, non ho da fare che pochi passi; abito qui vicino; grazie! -

E si allontanò in fretta.

Livio le tenne dietro e la vide fermarsi presso la porta di un vasto casamento, dare una moneta ad un mendicante che le si era avvicinato, quindi sparire dentro il vestibolo.

Livio si avvicinò a sua volta all'accattone, che subito gli si rivolse implorando:

- Un po' di carità, per amor di Dio!

- Vuoi guadagnarti dieci lire? - gli disse il conte.

Il mendicante lo guardò con aria inebetita.

- Dieci lire? - ripetè, credendo di sognare.

- Sì, per rispondere ad una mia domanda.

- Per dieci lire rispondo a cento! - esclamò l'altro aprendo la bocca ad un triviale sorriso.

Livio trasse dal portafogli un biglietto da dieci, che fece vedere al mendicante; ma prima di darglielo domandò:

- Chi era quella ragazza bionda che ti ha dato una moneta?

- È una lavorante che abita nelle soffitte del casamento.

- Ha famiglia?

- No, signore, è sola; suo padre era un vecchio militare.

- Di che vive, costei?

- Lavora di bianco per un magazzino.

- Avrà un amante, m'immagino!

- No. Essa ha avuto delle proposte coi fiocchi, ma le ha rifiutate tutte. Qualche operaio l'ha chiesta in moglie, ma ha fatto fiasco: essa dice che vuole sposare un impiegato o un commesso, di cui le riesca innamorarsi. -

Livio diè il biglietto da dieci e si allontanò.

Ormai ne sapeva abbastanza sul conto di Giulietta e formò subito il suo piano.

Egli cambiò i suoi abiti eleganti in abiti più modesti; acquistò un portafogli grande, di quelli che usano comunemente i giovani d'ufficio; prese in affitto una camera in via Montebello, qualificandosi per Fabio Ribera, impiegato di banca, e pose tutto il suo studio nello spiare l'uscita della giovane.

Quattro giorni dopo il suo primo incontro con lei, verso sera, la vide uscire dal casamento sola, anche questa volta con un fagotto. Egli le si avvicinò, e Giulietta lo fissò con uno sguardo crucciato.

- Signorina, ve ne prego, ascoltatemi; - diss'egli con voce commossa - io non ho più pace da che vi ho veduta, e desidero tanto di parlare con voi perchè somigliate moltissimo a una mia povera sorella, morta a sedici anni e che io ho tanto adorata. -

L'impostore aveva le lacrime agli occhi.

Giulietta si commosse; non aveva più ragione di offendersi, e con voce debole:

- Mi dispiace di avervi, senza mia colpa, rinnovato un dolore! - balbettò.

- Oh! signorina, voi invece mi avete procurata la felicità più grande che io potessi sognare. Non vi pare che sia un conforto ritrovare in una persona le sembianze adorate di un essere che è morto?

- Avete ragione, signore! - rispose vivamente Giulietta. - Vedete, nel magazzino per il quale lavoro, un vecchio contabile mi ricorda il mio povero babbo; ebbene, quando lo vedo, provo una gioia sconosciuta, che egli neppure si immagina, e parlo sempre volentieri con lui.

- Vedete dunque che io sono da compatire. Ma scusate se vi trattengo, mentre forse voi dovete recarvi al magazzino.

- È vero.

- Io non vi chiedo il permesso di accompagnarvi, perchè forse non me lo permettereste; però avrete tutta la mia riconoscenza se, incontrandovi qualche volta, non sdegnerete di scambiare una parola con me.... Se volete prendere informazioni sul conto mio, potete farlo: abito in una cameretta al terzo piano di quella casa che vedete là; il mio nome è Fabio Ribera, oriundo di un piccolo paese del Piemonte; sono solo al mondo ed impiegato in una banca. -

Giulietta rispose con dolcezza:

- Anch'io sono sola al mondo, signor Fabio. Mi chiamo Giulietta Lovera, vivo del mio lavoro, e nella mia povertà sto contenta.

- Ebbene, giacchè la nostra sorte si somiglia, noi saremo amici, non è vero? -

Egli aveva un sembiante così onesto e sincero, che Giulietta gli stese la mano.

- Oh! sì, - esclamò - con tutto il cuore! -

Si separarono sorridendosi.

Ormai Giulietta non pensava più che a quel falso Fabio, e il conte desiderava follemente Giulietta.

- Ella sarà mia; - si diceva - cadrà a poco a poco, senza accorgersene. Che deliziosa amante avrò, allora! Come è bella! -

Ciò non impediva al conte di tenere al tempo stesso relazione con Cinzia la ballerina, con la quale più volte si era bisticciato ma con la quale sempre si riconciliava, perchè i loro caratteri, i loro sentimenti erano presso a poco uguali.

Cinzia non si peritava di tradirlo allegramente con altri: Livio le era spesso infedele; poi si raccontavano reciprocamente le loro avventure, ridendo alle spalle di chi avevano loro creduto.

Questa volta però per Livio l'avventura era più seria. Quella bellissima fanciulla dai capelli d'oro gli stava a cuore più di quello che credesse; non si trattava del capriccio di un'ora, ma di un intrigo che doveva essere ben ponderato e condotto, perchè capiva che la più piccola imprudenza sarebbe bastata per far fuggire la preda.

Il conte però non seppe tacere con Cinzia, e le si confidò.

- Il tuo romanzetto m'interessa; - disse la bella ridendo - ma bada di non metterti in qualche impiccio. Le fanciulle oneste sono terribili dinanzi ad un tradimento: sta' in guardia! -

Due giorni dopo, nel pomeriggio, Livio incontrò Giulietta, cui si avvicinò con le mani stese.

- Vi recate al magazzino, signorina? - le domandò.

- No, torno a casa.

- Così presto? Con un pomeriggio tanto splendido? Se sapeste quanto fa bene camminare dopo essere stati seduti a lavorare per molte ore del giorno! Acconsentite che vi accompagni a fare una passeggiata sul viale? Andremo verso Po. -

Giulietta non ebbe il coraggio di rifiutare.

In quei due giorni non aveva fatto che pensare a lui, provando un vero benessere al pensiero che essa occupava il cuore del giovane col ricordo della sorella morta.

Come diffidare di un uomo così gentile, rispettoso, che serbava tanto culto ad una morta?

Gli occhi del giovane la fissavano con una tenerezza malinconica.

Camminarono alquanto senza parlare. Poi Livio cominciò ad abbandonarsi a false confidenze. Compose un romanzetto della sua vita, dicendosi figlio di un uomo che aveva consumato tutto il patrimonio in bagordi, descrivendo le torture sofferte da sua madre, una santa, per allevare i suoi due figli, un maschio ed una femmina, buoni, onesti, amanti del lavoro.

Giulietta, a sua volta, gli fece il semplice racconto della sua esistenza; gli disse come anch'essa vivesse di lavoro e ricordi, cercando di mantenersi sempre sulla via dell'onestà, che i suoi cari le avevano inculcata nell'anima.

La sera era deliziosa. Nell'aria vi era una freschezza soave; non una nube velava il sereno orizzonte.

I due giovani si erano seduti sopra una breve sporgenza, quasi in riva al Po. Non si dicevano più nulla, ma provavano un incanto nuovo, delizioso, e lasciarono scendere la notte senza quasi accorgersene.

Fu la prima Giulietta a risvegliarsi da quel sogno.

- Mio Dio, come si è fatto tardi! - esclamò scattando in piedi. - Che diranno i miei vicini non vedendomi ancora rientrare?...

- Se vi faranno qualche osservazione, - mormorò con somma dolcezza Livio, prendendole una mano - direte che avete fatto una passeggiata col vostro fidanzato. -

Giulietta impallidì e chinò gli occhi confusa.

- Signor Fabio! -

Egli le cinse con un braccio la vita, l'attirò dolcemente a sè.

- Perchè non unire i nostri destini? - le chiese con accento carezzevole all'orecchio. - Voi sarete l'angelo custode del mio modesto focolare, ed io benedirò ancora alla vita.... Dite, Giulietta: volete essere mia moglie?

- Io sono povera, lo sapete, - balbettò.

- Che importa? Neppur io sono ricco, ma ho qualche risparmio che mi permetterà di ammobiliare un piccolo nido. Alla banca guadagno centocinquanta lire al mese, e con una moglie come voi, la nostra casa diverrà un paradiso. Oh! non mi respingete: se rifiutate, io muoio, perchè vi amo tanto! -

Commossa, Giulietta lo guardò.

- Anch'io vi amo, - disse con quella franchezza che era il fondo del suo carattere - ed accetto con tutta l'anima! -

Quella sera, tornata a casa, Giulietta pregò a lungo, ringraziando Dio della felicità che le concedeva e ripetendo mille volte con tenerezza il nome di Fabio.

VI.

Mentre succedevano queste scene, il vero Fabio Ribera disimpegnava con zelo il suo modesto ufficio, acquistandosi ogni giorno più la stima del principale.

Fabio era sempre il primo al lavoro, l'ultimo ad uscire dal magazzino.

Non chiedeva mai permessi, non andava mai al teatro.

- Ma come passate le sere? - chiedevano gli altri commessi.

- Studio, - rispondeva - perchè ho ancora molto da imparare.

- Avete idea di cambiare posizione?

- No, ma l'istruirsi giova sempre. -

Fabio non aveva mai fatto allusione al conte: teneva per sè il suo dolce segreto. Le commesse, e non erano poche, gli rivolgevano occhiate incendiarie. Ma egli fingeva di non accorgersene. Solo una bimba pallida, dall'aspetto un po' sofferente, sebbene bellissima, aveva acquistata la sua simpatia.

Era Ilda, che si trovava da poco tempo nel magazzino e che nonostante il fondo ardito del suo carattere rimaneva come impaurita dal contegno spesso insolente delle altre commesse. Era ancora così giovane! Aveva appena quindici anni, ed era stata educata in convento!

Il tempo scorreva.

Già da molte settimane il conte non era stato a trovar Fabio, tanto che questi cominciava ad essere inquieto, quando una sera Livio comparve con aria sorridente, ed abbracciando il giovane esclamò:

- Credevi ti avessi dimenticato, non è vero?

- No, ma temevo che foste ammalato.... e soffrivo.

- Povero ragazzo! Invece io stavo benissimo, vivevo in piena luna di miele, avendo raggiunto il colmo della felicità. -

Fabio lo guardava estatico.

- Avete preso moglie?

- No, mio caro, ma sono stato e sono l'amante della ragazza più adorabile che esista. Te la farò conoscere, nè avrai mai veduto nulla di più bello e perfetto. -

Il conte rimase con Fabio fino alla mezzanotte e promise di tornare presto.

Ma scorsero due mesi senza che comparisse.

Fabio deperiva: era diventato taciturno.

Passava ore intiere col ritratto del conte fra le mani, e s'irritava contro la sconosciuta che si era impadronita del suo benefattore.

Finalmente, non potendo più resistere alla smania che l'agitava, scrisse a Livio una lettera quasi supplichevole come faceva quando era ancora in collegio.

«Mio benefattore, «Ogni giorno che passa è un nuovo tormento per me non vedendovi, e pensando che mi abbiate dimenticato.... So bene che io sono misera cosa, di cui avete ragione di non curarvi: io non posso offrirvi altro che la mia devozione; ma a voi costerebbe così poco ridonarmi la felicità! Mi basterebbe una vostra parola scritta, o vedervi per pochi minuti. «A momenti odio quasi colei che vi distacca da me. Oh! perdonatemi, perdonatemi, e non scacciatemi dalla vostra via, voi che avete avuto tanta bontà per me! Se io dovessi perdervi, morirei. «Il vostro schiavo devoto «Fabio Ribera.»

Il giovane chiuse la lettera in una busta e la impostò; poi attese col cuore palpitante, come se dovesse ricevere la risposta o la visita di una donna adorata.

La mattina seguente trovò in portineria un biglietto del conte al suo indirizzo. L'aprì e lesse:

«Stasera, uscendo dal magazzino, vieni da me. Ti presenterai come commesso del mio sarto, senza dare il tuo nome: sarai subito introdotto.»

Fabio, appena uscito dal magazzino, si avviò senz'altro all'abitazione del conte.

Il domestico che gli aprì, sentito che era il commesso del sarto, gli disse:

- Venite: il conte vi aspetta. -

Gli fece attraversare alcune stanze elegantissime e, sollevata una portiera, picchiò ad un uscio chiuso.

La voce di Livio disse:

- Entrate. -

Il domestico aprì per avvertire che era giunto il commesso che aspettava.

- Ebbene, venga subito, - esclamò il conte - e bada bene che non ci sono più per alcuno!

- Ho capito. -

Fabio era entrato e rimaneva in atteggiamento umile, rispettoso.

Ma quando il cameriere ebbe richiuso l'uscio, il giovane si slanciò ai piedi del suo benefattore, che non si era alzato dalla poltrona su cui stava seduto, e gli prese una mano coprendola di baci, balbettando:

- Grazie, grazie di avermi concesso di vedervi: se sapeste quanto ho sofferto! -

Livio sembrava lusingato da quell'omaggio affettuoso.

- Povero Fabio! Ma alzati; ho da parlarti seriamente! -

Il giovane obbedì: sedette di faccia al conte, come questi gli aveva indicato, e lo fissò avidamente.

Allora si accòrse che la fisonomia di Livio non aveva più la freschezza di due mesi prima, nè si mostrava raggiante di piacere. Una ruga gli attraversava la fronte, un sorriso pieno di amarezza gl'incurvava la bocca.

- Siete stato ammalato? - chiese con segreta angoscia.

- No, Fabio, rassicurati; ho soltanto avuto una disillusione. Ti parlai pure di una ragazza di cui mi ero innamorato...?

- Sì; ebbene?

- Ebbene, caro mio, quella ragazza si è presa giuoco di me, che ho fatto tante bestialità per cagion sua. Basta, ora tutto è finito! ma ne ho avuto uno strappo al cuore.

- Miserabile sgualdrina! - esclamò Fabio. - Se la conoscessi, vorrei farle pagar caro il dispiacere che vi ha dato! -

Livio assunse un tono dolce, commovente.

- Ti ringrazio; ma è meglio non pensarci più. Parliamo piuttosto di te. Stai per compiere vent'anni, non è vero?

- Sì, conte.

- Io sono molto contento di te, ragazzo mio: hai superato tutte le mie aspettative e quelle di mia madre: sei un vero uomo. Vado orgoglioso di proteggerti, e sebbene tu non abbia ormai bisogno del mio aiuto, potrai in qualunque occasione rivolgerti a me.

- Ah! vorrei poter dare io la mia vita per voi!

- Può darsi benissimo che un giorno o l'altro abbia bisogno di te!

- Venga quel giorno benedetto: mi vedrà alla prova.

- Non ne dubito, mio buon Fabio; ma per ora mi basta solo il tuo affetto, la tua amicizia. E se ti ho fatto venir qui, invece di venire io da te, è stato per consegnarti una reliquia che non potevo darti prima. -

E presa una cassettina d'ebano la porse a Fabio soggiungendo:

- Qui dentro troverai due lettere che ti saranno più care di qualsiasi cosa al mondo: l'una di tua madre, l'altra della mia, lettere scritte da quelle sante pochi giorni prima di morire. Mia madre le affidò a me, pregandomi di consegnartele quando tu avessi vent'anni. -

Fabio, tremante per la commozione, prese la cassettina e ringraziò Livio, che lo accomiatò stringendogli la mano con affetto.

Poi il conte suonò il campanello, perchè il domestico accompagnasse il giovane commesso alla porta.

Appena solo, un singolare sorriso dischiuse le labbra di Livio.

- Com'è ingenuo! - pensava.

Egli non aveva detto a Fabio la verità qual'era, circa i suoi amori con Giulietta.

La fanciulla, affascinata dal libertino, aveva creduto a tutto quello che egli volle darle ad intendere.

Per quasi un mese Livio si condusse con lei come il più timido degli uomini, facendo bei propositi per l'avvenire.

- Come saremo felici! - le diceva. - Alla sera, tornando a casa, troverò la mia adorata mogliettina ad aspettarmi, a farmi dimenticare le cure dell'ufficio. Quando poi avremo un figlio.... -

Giulietta tremava ed arrossiva.

Livio sorrideva di quell'adorabile confusione.

Giulietta si lasciava cullare da quelle promesse, accompagnate da sguardi teneri, da dolci sorrisi.

Un giorno Livio le disse come avesse trovato un bell'appartamentino, che sembrava fatto per loro.

- Voglio spendere tutti i miei risparmi per rendere il nido degno di te, - aggiunse con tenerezza. - A proposito: hai pensato alle carte occorrenti per il nostro matrimonio? -

Giulietta provò una dolce commozione.

- No, non ancora; - rispose debolmente - ma posso averle in settimana.

- Brava! Le consegnerai a me, ed io provvederò per le pubblicazioni. -

Ormai si vedevano ogni giorno, ed egli era salito più volte nella soffitta di Giulietta, dove ottenne qualche puro bacio.

Una mattina che il conte andò a prenderla per fare una passeggiata prima di recarsi all'ufficio, come egli diceva, appena in istrada la prese allegramente a braccetto, esclamando:

- Indovina un po' dove ti conduco?

- Non so! - ella rispose guardandolo, raggiante di amore.

- Ebbene, ti conduco a visitare il nostro nido, che ieri ultimarono. Voglio sentire il tuo parere. -

Giulietta arrossì dalla gioia.

Il quartierino in parola era al secondo piano, in fondo al cortile di un vasto casamento sulla piazza Vittorio Emanuele I.

Livio aveva in tasca la chiave dell'appartamento, che era stato mobiliato in quei giorni. Entrarono in una piccola anticamera, un po' oscura, ma nella quale Giulietta scòrse subito una bella giardiniera piena di fiori.

Livio aprì l'uscio a destra, che metteva in un graziosissimo salotto azzurro pallido.

- È troppo bello per me! - esclamò Giulietta, confusa dal piacere.

Dal salotto passarono nella camera da letto, spaziosa, elegantissima.

La giovane credeva di sognare. Fabio aveva fatto tutte quelle spese per lei! Ancora poche settimane, ed ella sarebbe regina di quell'incantevole nido!

Livio notava quella commozione, e la sua perfida anima ne gioiva.

- Ti piace? - chiese con accento carezzevole, cingendole con un braccio la vita.

Giulietta lo guardò colle lacrime negli occhi.

- Oh! tanto, tanto; come sono felice!

- Se tu sapessi quanto mi rendi contento! Ma vieni: non hai ancora veduto la nostra cucinetta. -

Era graziosa anche quella, col fornello a gas, un armadio che conteneva tutto un servito per la tavola, un cestino di posaterie, diverse bottiglie di liquori.

- Vedi, - disse Livio con tono dolcissimo - i giorni feriali potremo pranzare in cucina; le feste, voglio che ce le godiamo a tavola in salotto: non sei del mio parere?

- Tutto quello che piace a te piace a me pure.

- Sei un angelo! Intanto mi permetterai, mogliettina mia, che ti faccia gli onori di casa: ho preparato un piatto di biscottini ed una bottiglia di vecchio marsala. -

Li tolse dall'armadio.

Giulietta volle aiutarlo a ripulire due bicchieri, a portarli sul vassoio. Egli la seguì colla bottiglia e i dolci. Misero tutto sul tavolino del salotto, poi Livio tolse il cappellino alla fanciulla, dicendole che gl'impediva di ammirare i suoi splendidi capelli d'oro.

Sedettero vicini, sul divano, dimentichi del mondo intero.

Duo ore dopo, quando uscirono da quella casa, Giulietta non era più pura come vi era entrata.

Non sapeva come fosse caduta, nè poteva darne colpa a Livio.

Egli nulla le aveva chiesto, non aveva preteso nulla, ma la voce fascinatrice di lui, le sue parole, l'avevano immersa in un'estasi, in cui non sapeva distinguere il sogno dalla realtà. E si era abbandonata senza riserva, incosciente, felice.

Quando riprese possesso di sè, pianse a calde lacrime. Ma Livio seppe sopire il suo rimorso e farle coraggio.

- Perchè piangi? Tu hai ceduto al tuo cuore, come io ho obbedito al mio. Saremo tra pochi giorni marito e moglie. Chi potrebbe rimproverarci la nostra felicità? -

Così soffocò i suoi ultimi scrupoli. Fin da quel momento Giulietta non seppe rifiutargli più nulla, visse in pieno idillio, attendendo il giorno in cui si sarebbero sposati.

Ma il libertino, ottenuto il suo intento, già pensava di abbandonare la poveretta.

Egli, riannodato con Cinzia, le raccontò ridendo la sua avventura sotto le spoglie di un commesso di banca, e le chiese consiglio per liberarsi della sedotta.

- Colei non sa davvero chi tu sia? - chiese Cinzia.

- No.

- Le hai scritto?

- Sì, ma firmavo le lettere col nome falso, quindi non ho nulla da temere da quel lato.

- Ebbene, fai scomparire il commesso di banca, ritorna il conte Livio Rossano, ed accompagnami a Montecarlo senza rivedere colei. Se tornando a Torino tu la incontrassi, fingi di non conoscerla; se ti venisse incontro, dimostrale che si inganna.

- Farò così. -

Il giorno stesso portò via la sua piccola valigia dalla camera ammobiliata presa in affitto come commesso. Pagò inoltre alla padrona del quartiere che Giulietta credette ammobiliato per il loro matrimonio, il prezzo di quei giorni, ed alla sera partì con Cinzia per Montecarlo, senza curarsi della sventurata che abbandonava dietro di sè.

Il conte per tre settimane fu di nuovo felicissimo con Cinzia, nonostante le perdite subite a Montecarlo.

Ma la ballerina partì con un altro per la Russia, e Livio fece ritorno a Torino.

Egli aveva dimenticato Giulietta.

Peraltro, quasi presentisse che un giorno o l'altro Fabio Ribera potrebbe avere parte in quest'avventura, pensò di raggirarlo fingendosi abbandonato dalla giovane, e consegnandogli quelle due lettere che dovevano sempre più avvincerlo alla sua persona.

Tuttavia nessun pensiero delittuoso era mai passato per la mente di Livio, che, datosi a nuovi capricci, continuò a dissipare il suo patrimonio, del quale stava per vedere il fondo.

Fu allora che la sua buona stella lo unì a Bianca Moreno.

VII.

Come già sappiamo, la povera Giulietta, dopo l'abbandono dell'amante, tentò di suicidarsi; ma fu salvata. L'affettuosa premura dei vicini le rese poi il coraggio di vivere.

Quando fu madre, allevò con amore la sua creatura, pur continuando a lavorare per guadagnarsi la vita.

Il nome di Fabio Ribera non era più uscito dalle sue labbra, ma la giovane non lo dimenticava.

Spesso, seduta accanto alla culla della sua creatura, il suo pensiero correva al bel giovane che aveva appassionatamente amato, o rileggeva le lettere di lui, e calde lacrime le scorrevano dagli occhi.

Menzogna, l'amore! Menzogne, i giuramenti!

Erano trascorsi tre anni.

Una mattina, Giulietta, affidata Gina a Teresa Pavin, era uscita per riportare del lavoro.

Giunta in via Garibaldi, una carrozza padronale si fermò vicina a lei. Ella si volse istintivamente a guardare chi scendeva, e credette ad un tratto di cadere a terra fulminata.

Dalla vettura era sceso un bell'uomo, elegantissimo, che aveva i lineamenti di Fabio Ribera. Egli porse poi la mano ad una giovane di una bellezza maravigliosa, dicendole con una voce che la povera Giulietta riconobbe tosto:

- Fa' adagio, Bianca! -

La coppia entrò in un negozio, e Giulietta rimase immobile, stupidita, come fuori di sè.

Fu scossa dalla voce dello staffiere, ch'era sceso dalla cassetta e che, vedendo quella bella ragazza, non si lasciò sfuggire l'occasione di farle un complimento.

Giulietta, assalita da un'idea improvvisa, sorrise all'audace staffiere, esclamando:

- La vostra padrona è più bella di me!

- La signora contessa è bruna ed a me piacciono le bionde! - rispose lo staffiere.

- Ah! è una contessa?

- Meritereste d'esserlo anche voi!

- Ed è suo marito, quel signore che l'accompagna?

- Sì, è il conte Livio Rossano. -

Che ella si fosse ingannata? Ma no, era lui, proprio lui!

- Il conte Rossano? - ripetè sorridendo. - Ah! mi pare di averlo sentito nominare...

- .... per aver corso molto la cavallina con belle ragazze pari vostro, - sussurrò in fretta e piano lo staffiere.

Giulietta si sentì torcere il cuore; tuttavia soggiunse con aria maliziosa:

- Ah! lo so.... Abita sul corso.... -

Fingeva di cercare il nome, come se non lo ricordasse.

- ....Palestro, - disse lo staffiere.

- Sì.... sì, è proprio lui! - proruppe ridendo Giulietta. - E tal padrone, tal domestico. -

Si allontanò, lasciando lo staffiere intontito.

Ella camminava in fretta, con la testa in fiamme.

- Ah! l'infame, - mormorava - era un conte, e si è finto un semplice commesso di banca! Il nome datomi era falso.... Ma lo smaschererò; forse sua moglie ignora tutto. Essa è bellissima ed ha il viso di buona. Se mi recassi da lei? Merita forse, quel miserabile, di essere un marito felice? -

Giulietta si guardò bene dal far parola con alcuno di quell'incontro; ma formò subito il suo piano.

Ella si recò sul corso Palestro, ed entrata da una lattivendola, le disse:

- Scusate, abita qui vicino la contessa Bianca Rossano?

- Precisamente: la servo io di latte. Che buona signora! È proprio un angelo!

- Non sapete se cerca una cameriera?

- Qualche tempo fa, sì, me lo disse Celia, la prima cameriera; ma credo che ora abbiano trovato.

- Peccato! - disse Giulietta. - Sarei andata volentieri in quella casa, dove si deve star bene.

- Per la contessa, sì. Ma il conte è una vecchia volpe! Ne ha fatte e ne fa di tutti i colori!

- Buono a sapersi! Se è così, non invidio le cameriere di quella casa. -

Giulietta salutò la lattivendola e se ne andò.

Frattanto si propose di accertarsi che il conte Rossano e Fabio Ribera fossero veramente un solo uomo.

La sera, affidata Gina a Teresa con un pretesto qualunque, si mise a spiare vicino al palazzo e ne vide uscire il conte. Gli tenne dietro. Quando fu giunto ad una svolta del viale, Giulietta gli si avvicinò, e battendogli sulla spalla:

- Buona sera, Fabio Ribera! - disse a voce alta.

Il conte si volse, pallido come un sudario.

Riconobbe Giulietta, ma volle fingere la sorpresa.

- Dite a me, signorina? - chiese con brusco accento.

- Sì, non fare quell'aria stupida! - rispose Giulietta sollevando arditamente la bella testa. - Oh! so bene adesso che il mondo ti conosce per Livio Rossano; ma per me sei Fabio Ribera, commesso di una banca.... fallita. -

E la giovane diede in una risata piena di sarcasmo, di amarezza, di disperazione.

- Io non vi comprendo, signorina! - arrischiò il conte.

- No? Ebbene, andrò a spiegarmi con tua moglie, e quando le avrò raccontato la mia storia e mostrato le tue lettere, sono certa che c'intenderemo. -

Livio fremette, e con voce tremante, in preda alla più grande agitazione:

- No, tu non lo farai, Giulietta! - balbettò.

- Ah! mi riconosci, adesso? Ricordi ancora il mio nome?

- Io non ti ho mai dimenticata, - diss'egli ritrovando a un tratto tutto il suo spirito, preparandosi a scolparsi. - Vieni, andiamo a casa tua, ti spiegherò tutto; vedrai che non sono colpevole come forse pensi. Le apparenze ingannano....

- Davvero? Ebbene, a casa mia non riporrai più piede; ma conducimi dove vuoi, foss'anche in un luogo infame, come facesti quando ero ancora una fanciulla onesta, purchè possa una buona volta gettarti sul volto tutte le tue viltà. -

Il conte era sulle spine, perchè la giovane andava alzando la voce.

Ma fece uno sforzo su sè stesso e disse vivamente:

- Ebbene, vieni. -

Si mise a camminare rapidamente e Giulietta lo seguì.

Giunsero ad una stazione di vetture.

Il conte aprì lo sportello di una di esse, perchè la giovane vi salisse.

Ella non si oppose.

Livio si rivolse al vetturino, gli dette con voce ferma un indirizzo, poi salì accanto a Giulietta.

Non scambiarono una parola fino a quando la vettura si fermò.

Allora il conte disse alla giovane:

- Aspettate un momento. -

Saltò a terra e disparve nel vestibolo di un bel palazzo. Salì al terzo piano, sonò all'uscio di destra. Una giovane cameriera venne ad aprire.

- È in casa la signora?

- Sì. -

Un uscio si schiuse e comparve Cinzia.

- Oh! che piacere! - esclamò, facendo l'atto di saltargli al collo.

Ma vedendolo pallido, colla fronte corrugata, ristette.

- Che hai?

- Andiamo nella tua camera: ho bisogno di dirti due parole in fretta. -

Cinzia si affrettò ad introdurlo.

- Che c'è dunque? Che ti succede?

Il conte la informò di quanto accadeva, e soggiunse:

- Bisogna assolutamente che io conceda a Giulietta il colloquio che mi chiede. Tu mi cederai il salotto, e te ne andrai con Rosetta.

- Rosetta la manderò fuori, ma io, caro mio, rimarrò qui, perchè voglio sapere la parte che debbo fare. D'altronde, fra noi, lo sai, non devono esserci segreti.... Se rifiuti, conduci pure la tua colomba in altro luogo. -

Il conte fremeva, ma fu costretto a cedere.

Egli ridiscese di volo le scale e fece salire Giulietta in casa della ballerina.

Appena entrato nel salotto, il conte gettò il cappello su di una poltrona e fece l'atto di inginocchiarsi dinanzi a Giulietta.

Ma la giovane lo guardò con disprezzo.

- È inutile che ricominciate l'ipocrita commedia! - disse. - Se la ingenua fanciulla vi cedette, la donna saprà mantenere la propria dignità.

- Non mi sarà permesso di scolparmi?...

- Scolparvi? Come lo potete? Sarei curiosa di saperlo. -

Ella aveva assunto un tono beffardo, altero.

Livio parlò dapprima a voce bassa, velata, ma che si fece a mano a mano più forte:

- Sono stato un miserabile, un infame, non lo nego, ma l'amore che voi m'ispiraste al primo vedervi mi fece perdere la testa.

- L'amore! - interruppe Giulietta ironica.

- Sì, io vi amai al nostro primo incontro, ed avrei voluto presentarmi a voi sotto le mie vere spoglie. Ma seppi che il vostro sogno era di sposare un impiegato o un commesso, e per attirarvi a me v'ingannai, ma adorandovi come nessuna donna è stata adorata.

- Ed è questa la vostra discolpa? - esclamò fremente di sdegno Giulietta, fissando sul conte gli occhi fiammeggianti. - Vi piacqui, e per passare il tempo ingannaste la povera operaia che nulla sapeva della vita, che non sospettava gl'intrighi dei vostri pari. Un giorno, stanco del vostro capriccio, mi abbandonaste, senza pensare che forse questa misera tradita era madre! -

Il conte indietreggiò. Giulietta seguitò, animandosi:

- La vostra infamia cangiò ad un tratto il mio amore in un profondo disprezzo, e l'uomo che doveva abbellire la mia vita divenne per me un oggetto d'odio, di terrore. Ma io pure ero stata colpevole, e non perdonavo a me stessa il mio fallo. Mi rinchiusi in una solitudine assoluta, accettai rassegnata la mia maternità, mi dedicai alla mia creatura, nè mi curai di venire in cerca di voi. Vi avevo dimenticato, quando il caso volle che v'incontrassi.

«Seppi allora come il sedicente Fabio Ribera non fosse che il conte Livio Rossano.

«Seppi inoltre che la contessa vostra moglie ignora la vostra perversità, si crede adorata, mentre voi la ingannate con avventuriere.

«Se mi avessero detto che eravate un buon marito, forse non mi sarei neppure curata di rivedervi; ma nel sapere che vi prendete giuoco anche della più onesta delle mogli, ho sentito di odiarvi come non vi avevo odiato per il vostro tradimento.

«Ed ho trovato la mia vendetta.

«Non è giusto che l'ipocrita abbia sempre a trionfare: io vi smaschererò dinanzi a vostra moglie. -

Il pallido volto di Giulietta si era fatto di fuoco, i suoi occhi fiammeggiavano.

Il conte la guardava, e gli pareva più bella così audace, minacciosa, che umile e tenera.

- Fai pure, - disse - ma un giorno rimprovererai te stessa di avermi giudicato più colpevole di quello che sono.

«Tu ignori, Giulietta, che cosa sia il mondo nel quale io vivo. Non scuso affatto la colpa commessa verso di te: ma ascoltami.

«Io non potevo sposarti, perchè quando ti conobbi ero già rovinato, e per me, avvezzo allo splendore, alla ricchezza, la miseria è peggiore della morte.

«Se fossi nato un povero operaio, anch'io forse sarei stato migliore. Ti amavo, ripeto, ma avevo in disgusto la povertà. E quest'orrore lo sentivo anche per te. Avrei voluto farti un trono d'oro, vederti regnare sopra tutte le altre donne. Ma se allora ti avessi detto tutto ciò, tu, fiera ed onesta, non mi avresti amato. Allora ricorsi all'unico mezzo che mi restava per legarti a me per sempre: farti mia, colla promessa che saresti mia moglie; e ci riuscii.

«Ma credi che questo bastasse a saziare l'amore quasi feroce che mi avevi ispirato? No! Il mio sogno persisteva. Volli essere di nuovo ricco, e soltanto per te, e sposai una donna che non amavo, per avere i suoi milioni da offrirti. -

Giulietta rivolse il capo con disgusto.

- La vostra infamia mi stomaca! Potevate mai sperare che io divenissi la vostra amante, calpestando una donna che io rispetto per quanto disprezzo voi?

- Credi forse che io non mi disprezzi? Eppure per te commetterei anche un delitto! Sì, sì: ad un tuo cenno mia moglie sparirà dal mondo, e noi potremo essere ancora felici con la nostra creatura. -

Le si era avvicinato fremente.

Giulietta lo respinse con orrore.

- Sciagurato! - esclamò. - Se ancora avessi nutrito un atomo di tenerezza per voi, le vostre parole l'avrebbero distrutto. Povera contessa, caduta nelle vostre mani! Ma no, non è giusto che essa continui ad illudersi sul conto vostro; mi parrebbe di essere vostra complice se non la illuminassi! -

Livio si morse a sangue le labbra.

- L'avvertirai? - chiese fra i denti.

- Sì! - rispose Giulietta freddamente.

- A noi due, dunque! - esclamò Livio. - Io ti ho offerto la pace, e tu vuoi la guerra. Sia. Ti do tempo un mese a pensarci.

- Non attenderò tanto per smascherarvi.

- Giulietta! -

Il volto di lui prese un'espressione così terribile, che la giovane credette fosse giunta l'ultima sua ora.

Allora pensò alla sua bambina, che senza lei sarebbe rimasta sola al mondo. E tutta la sua energia cadde; una lacrima corse nei suoi occhi e balbettò:

- Ebbene, no, non parlerò! -

Il volto di Livio espresse il trionfo.

Giulietta fuggì da quella casa come pazza.

Livio non aveva fatto un moto per trattenerla, ma nei suoi occhi era un lampo sinistro.

- Ella parlerà, ne sono sicuro! - pensava. - Ma io saprò chiuderle la bocca. -

Una mano che gli batteva sulla spalla lo fece trasalire.

Era quella di Cinzia.

- Hai sentito? - chiese il conte sorridendo.

Cinzia era più pallida del solito. La voce le uscì come un sibilo dalle labbra:

- Ho sentito tutto, e ti dico una cosa sola: mi fai orrore! -

VIII.

Fabio Ribera era al colmo della felicità. Amava ed era amato. Ilda sarebbe presto sua moglie.

La dolcezza infinita, la gravità melanconica di Fabio si affiatavano mirabilmente con la fierezza dei sentimenti di Ilda, il suo fascino incantevole. Una sera che il conte si era recato a trovare il suo protetto, si accòrse che un cambiamento era avvenuto in lui. Fabio sembrava più bello, aveva l'aria felice.

Livio intuì subito la verità.

- Sei innamorato! - gli disse sorridendo.

Fabio arrossì e rispose:

- È vero. Amo una fanciulla bella e buona, la quale mi corrisponde: è una commessa del magazzino dove mi avete impiegato. -

Il conte fece una smorfia.

- Una commessa? Una civettina che vorrà imbrogliarti. Fabio, ricordati come anch'io sia stato giocato da una fanciulla dal volto d'angelo.

- Colei non aveva cuore! - interruppe Fabio. - Ma io sono certo della fedeltà di Ilda, del suo amore per me. -

Il conte rideva.

- Tu sei un ingenuo, e nulla conosci del mondo e della vita. È così facile, alla tua età, ingannarsi! Ma io che sono più vecchio di te e t'amo come un figlio, vedrò e giudicherò la tua prescelta. -

Il volto di Fabio si era illuminato.

- Quanto siete buono! Per certo, quando conoscerete Ilda, approverete la mia scelta.

- Ebbene, avvertila che domenica sera mi condurrai con te.

- Grazie, grazie! -

Livio fu puntuale all'appuntamento.

Egli rimase soggiogato dalla bellezza della fanciulla, e provò una gioia infernale al pensiero di tentarla, di contenderla al fratello.

Ilda peraltro provò subito per il conte una ripugnanza istintiva, ebbe il presentimento che quel gentiluomo dal sorriso mendace le porterebbe disgrazia.

Livio comprese che non riuscirebbe a vincere il cuore di quella fanciulla e provò una rabbia interna, che si guardò bene dal dimostrare, ma giurò a sè stesso che Ilda sarebbe sua.

Il conte aveva quasi dimenticato le sue minacce a Giulietta, allorchè una mattina incontrò la sventurata vicino al suo palazzo.

Ella, nel vederlo, divenne pallida, ma non abbassò gli occhi dinanzi allo sguardo di lui. Sembrava minacciarlo.

Il conte le si avvicinò.

- Di dove vieni? - le domandò con arroganza.

- Parlate a me? - disse a voce alta Giulietta.

Il conte cambiò subito espressione.

- Scusate; - disse - vi avevo presa per la cameriera di mia moglie. -

E si affrettò ad entrare nel palazzo. Il portinaio passeggiava sotto il vestibolo.

- È stata qui una giovane bionda a chiedere della contessa? - domandò.

- No, signor conte.

- Bene: se venisse, dirai sempre che la contessa non riceve. -

Livio non era tranquillo. Quel giorno pensò sempre a Giulietta, e la sera, mentre si recava dalla fidanzata di Fabio, si fermò di botto, dicendo:

- Ho trovato! Toglierò di mezzo una donna che mi è divenuta odiosa, getterò tanto fango su Fabio, che Ilda non dovrà più provare che orrore per lui, e tutto andrà per il mio meglio! -

La mattina seguente scrisse a Fabio:

«Mio caro fanciullo,

«Mentre scrivo queste parole, tremo dalla febbre, dal dolore....

«Ieri ero felice: oggi tutto si rivolta contro me: e soffro tanto, che vorrei morire.

«Non posso scriverti di più, mi si confonde la vista dal pianto; vieni stasera nel mio quartierino da scapolo, dove passammo insieme tante ore, ricordando la nostra cara morta. Di faccia al ritratto di lei troverò il coraggio di dirti tutto, di chiederti un sacrificio.

«Colui che ti protegge e ti ama.»

La sera, Fabio, pallido da far pietà, sonava con mano convulsa all'appartamento indicatogli dal conte. Livio vi si trovava da un'ora.

Il gentiluomo sembrava invecchiato di vent'anni: i suoi occhi portavano le tracce delle lacrime versate.

- Grazie di essere venuto! - balbettò vedendo Fabio.

Questi gli disse:

- Che cosa vi è accaduto? Ditemi tutto, e se la mia vita stessa è necessaria per sollevarvi, prendetela; è vostra. -

Il conte gli gettò le braccia al collo, tenne la testa appoggiata alla guancia di lui, e per qualche minuto non seppe che pronunziare:

- Fabio! Fabio! Fabio! -

Poi si calmò alquanto, e sollevando la testa, proruppe con un tremito nella voce:

- Ti ricordi, Fabio, di quella sciagurata che ebbi la follia di amare e m'ingannò vilmente?

- Volete parlare di Giulietta Lovera? - interruppe il giovane.

- Sì, di lei, il mio genio crudele, Ed io che non volevo credere ai presentimenti!... -

Si passò la mano sulla fronte e proseguì:

- Ero felice, non pensavo più a lei, da che ho sposato la donna che adoro e dalla quale sono adorato. Ma ora la mia felicità sta per distruggersi.... e più ci penso, meno so come porvi rimedio. E tutto per lei.... per Giulietta. -

- Ma che pretende ancora, quella sciagurata? Che vuol fare? -

Il conte rimase per un istante silenzioso, come affranto. Egli recitava la parte che si era prefisso con un'arte che avrebbe ingannato chiunque.

- Te lo dirò! - rispose a voce bassa, soffocata. - Giulietta ha saputo che sono ammogliato, ricco, felice, ed è venuta a ricercarmi. Ella mi ha minacciato di presentarsi a mia moglie, di consegnarle delle lettere che ebbi la debolezza di scriverle, di raccontarle che io, dopo averla resa madre, l'abbandonai con una creatura.

- Miserabile! - proruppe Fabio. - Come può inventare simili infamie?

- Giulietta è capace di tutto.

- Ebbene, avvertite voi stesso la contessa!

- Oh! no.... mai! - esclamò con slancio il conte. - Dovrei confessarle di avere amato quella sciagurata, e Bianca non me lo perdonerebbe, perchè la cara bimba si è illusa di essere stata l'unico amore della mia vita ed io non voglio distruggere un'illusione che forma la sua felicità.

- Volete che mi rechi io stesso da Giulietta, la induca a desistere dalle sue minacce?

- Povero ragazzo! - interruppe il conte - ella ti riderebbe sul viso. Oh! se ci fosse ancora la mia povera mamma, saprebbe darmi un consiglio! -

E volgendo i suoi sguardi sopra una fotografia della contessa Rossano, disse con accento lacerante:

- Mamma, mamma, vieni tu in mio aiuto, ispira a me o a Fabio un mezzo per allontanare il pericolo! -

Anche Fabio aveva rivolti gli occhi al ritratto della contessa, ed in quel momento ricordò la lettera da lei vergata prima di morire, come ricordò le supreme parole di sua madre.

Entrambe quelle morte l'incitavano a sacrificare la sua vita, l'onor suo per il suo benefattore.

Avrebbe egli esitato? Esse stesso gli inviarono una suprema ispirazione.

- Il mezzo ci sarebbe, - disse - e, per quanto terribile, io stesso non esiterò a compierlo. -

Rialzò il capo: gli sguardi dei due uomini s'incrociarono e parvero comprendersi.

- Tu vorresti ucciderla? - disse Livio a voce bassa.

Fabio rispose:

- Sì.... sono disposto a commettere anche un delitto per rendervi la tranquillità.

- No; è troppo! Sarebbe una vigliaccheria la mia se accettassi. Ma la tua risoluzione è buona: io stesso sopprimerò Giulietta. -

Grosse lacrime sgorgarono dai suoi occhi, ma le asciugò rapidamente, come se arrossisse della sua debolezza.

- Voi, esporvi al pericolo di essere arrestato, condannato come assassino? - proruppe con slancio Fabio. - E credete che io potrei permetterlo? A me solo tocca a sacrificarmi, e lo farò. Il vostro nome non deve neppur venire pronunziato. -

Il conte volle dargli l'estremo colpo.

- Non pensi a Ilda? - mormorò.

Un lungo sospiro sfuggì dal petto di Fabio, una lacrima velò i suoi occhi; ma vincendosi subito:

- Prima di Ilda ci siete voi, voi, cui tutto debbo! - esclamò. - Sì, lo ripeto, io solo terrò da voi lontana la disperazione. Voi partirete da Torino con vostra moglie acciocchè nessun sospetto possa sfiorarvi, e checchè accada, il vostro nome non uscirà dal mio labbro. -

Fabio si era andato animando. Aveva l'esaltazione dello schiavo credente che tutto sacrificherebbe per il suo idolo. E l'idolo del povero commesso era il conte Livio. Ah! se avesse potuto leggere nel cuore di lui!

Il conte non dubitava delle parole di Fabio; egli sentiva di tenere la sua vittima nelle mani.

- Oh! Fabio, Fabio mio, dovrò dunque a te, a te solo la mia liberazione! -

Egli si stringeva a Fabio, chiamandolo suo salvatore, affascinandolo con tenere parole, e consigliandogli quanto desiderava con una destrezza infinita.

Fabio lasciò il conte a mezzanotte, e tornò a casa vacillando come un ubriaco.

Quando fu solo nella propria camera, si sgomentò.

Assassino! Sarebbe un assassino! E Ilda?

Il pensiero della sua adorata gli produsse una vertigine.

- Ella resterà libera, - mormorò - sarà felice con un altro! -

In quella notte sognò la contessa Rossano e la madre. Le due morte uscivano dalla tomba per dirgli:

- Compi il tuo dovere se non vuoi essere maledetto da noi. Quella donna non deve più vivere, è necessario che ella muoia per la felicità di Livio. -

Fabio si alzò come ipnotizzato, Fin da quel momento la sua risoluzione fu presa. Alla sera, quando si trovò con Ilda, le parlò di un suo prossimo viaggio per alcune carte concernenti il loro matrimonio,

La fanciulla non doveva aver sospetti.

Fabio accomodò le cose in modo da non suscitare il minimo dubbio.

Una volta lontano da Ilda, si sentì più calmo.

Il conte gli aveva consegnato una chiave della soffitta di Giulietta, dandogli i consigli necessari per l'adempimento del truce misfatto.

Il carnevale favorì l'assassino. La sera prima del delitto, durante un'assenza di Giulietta, Fabio potè penetrare nella soffitta della sventurata, studiarne la disposizione dei mobili, degli oggetti.

La notte egli non dormì.

Rilesse ancora una volta la lettera della madre e quella della contessa, e dopo averle baciate, le strappò a minutissimi pezzi.

La mattina seguente acquistò gli abiti da pierrot; la sera pranzò macchinalmente, ingoiò due bicchierini di cognac.

Era livido sotto la biacca che gl'impiastricciava il volto.

Quando entrò, verso le undici, nel casamento abitato da Giulietta, aveva il cervello in fiamme e con la mano destra stringeva convulsamente un coltello, che teneva nella tasca dei calzoni.

- La colpirò nel sonno, nessuno se ne accorgerà e avrò il tempo di allontanarmi tranquillamente. -

Ma nell'avvicinarsi all'uscio della soffitta gli tremavano le gambe.

Udì un rumore di voci e di passi: comparve lo studente Aldo, col misterioso domino.

Fabio attese un istante, poi entrò risoluto nella soffitta di Giulietta: tenebre profonde.

Egli accese un cerino e, veduta sulla tavola una candela, si accostò.

Giulietta, svegliatasi ad un tratto, si sollevò sul letto terrorizzata.

- Chi siete? Che volete? - chiese con voce soffocata.

Di un salto Fabio le fu sopra.

- Tacete! - disse a denti stretti.

Ma Giulietta, che lo guardava cogli occhi spalancati, mandò un'esclamazione:

- Assassino! Ti riconosco! Lasciami, o griderò a tutti che il conte Livio Rossano.... -

La sventurata non finì.

Il nome evocato fece tacere il senso di pietà sorto, a suo malgrado, nel petto di Fabio.

Egli alzò la mano armata di coltello e colpì.

Un grido sinistro echeggiò nella stanza: il colpo non aveva dato nel segno.

Coi capelli irti, smarrito, ansante, Fabio alzò una seconda volta la mano.

Allora avvenne una lotta terribile fra l'assassino e la vittima.

Egli colpiva, colpiva sempre, e quando vide Giulietta cadere rantolante, si slanciò verso l'uscio, l'aprì.

Ma una donna gli sbarrava il passo: Teresa.

Il resto è noto.

IX.

Il conte Livio, nascosto nel salotto attiguo alla camera da letto di Ilda, aveva evocato il passato, provando una gioia strana nel ricordare la parte assunta verso Fabio, la sua vittima, che gli aveva fatto olocausto della vita, dell'onore.

Mentre così rifletteva, Livio sentì un fruscìo di abiti e quasi tosto la voce di Ilda che diceva:

- Marietta, tu puoi andare a dormire: il signor Aldo rimane qui a discorrere con me. Lascia aperta la vetrata della galleria, così lo farò uscire da quella parte, senza disturbare alcuno. Metti qui il soprabito ed il cappello.

- Sì, signora. -

Ilda e lo studente erano entrati nel salotto: l'uscio fu chiuso.

- Perchè non volete che mi ritiri? - chiese Aldo con dolcezza.

- Perchè temo per voi! - rispose Ilda. - Il cuore mi dice che il conte si è appostato fuori del palazzo per attendervi, e non voglio che vi allontaniate fino a giorno. -

Si erano seduti vicini sul divano.

Livio stringeva i denti per soffocare la rabbia interna che lo divorava.

- Che ne pensate del conte? - chiese ad un tratto Ilda.

- Penso che è innamorato di voi e che deve odiarmi, credendomi vostro amante.

- Bisogna lasciarglielo credere; - soggiunse Ilda - è l'unico mezzo per giungere al punto che io e il signor Moreno desideriamo: fargli confessare che fu lui l'istigatore dell'assassinio della povera Giulietta.

- E da questa confessione, che possiamo sperare? - esclamò Aldo, - Bianca sarà sempre avvinta a quel miserabile.

- No; - rispose con voce cupa Ilda - se il mio sogno è di far comparire chiara l'innocenza di Fabio, il sogno del signor Moreno è di liberare la figlia dalle mani di un mostro. Egli ha deciso: o il conte si farà giustizia colle proprie mani, o il signor Moreno l'ucciderà.

- Io solo voglio punirlo! - interruppe Aldo. - Lo provocherò a duello.

- No, non dovete farlo, per Bianca; sapete quanto vi ama! -

Un fremito agitò Livio dal capo alle piante.

- Ed io l'adoro come si adora gli angeli del Cielo! - disse con esaltazione il giovane. - Per lei, sono pronto a soffrire tutto. Ora è necessario star divisi, perchè così vuole il signor Moreno, ma la mia vita, i miei pensieri sono tutti per lei. Ah! perchè non dovevamo conoscerci che in quella notte fatale dell'assassinio?

- Era destino! - mormorò Ilda.

Rimasero per un istante silenziosi.

La giovane riprese la parola.

- Se il conte potesse indovinare che suo suocero conosce tutte le sue infamie ed è sul punto di punirle! Se sapesse l'odio che io provo contro di lui!

- Avete osservato il suo pallore, allorchè parlammo della sua rassomiglianza col condannato? - osservò Aldo. - Il signor Umberto Trani vuol riguardare tutti gli atti concernenti il passato di Fabio, per scoprire qualche nuovo punto che possa darci la chiave del mistero.

- Comunque, - osservò Ilda - Fabio non smentirà la sua confessione, non accuserà mai il conte, dovessero sottoporlo a qualsiasi tortura.

- Vi sarebbe forse un mezzo per farlo parlare, - disse Aldo. - Informarlo come il conte abbia tentato di sedurvi.

- Bisognerà parlarne al signor Moreno. -

Rimasero un altro poco in silenzio.

- Voi siete stanca; - disse Aldo - andate a riposare. Io rimarrò qui ad attendere il giorno scrivendo, se vi compiacerete darmi un foglio ed una penna.

- Venite: vi condurrò nella camera attigua alla mia dove troverete uno scrittoio con tutto l'occorrente. -

Essi lasciarono il salotto.

Il conte stringeva i pugni in una convulsione di rabbia. Ciò che aveva sentito gli sconvolgeva il cervello.

Sentì degli usci che si aprivano, si chiudevano, poi il passo di Ilda strisciò sul tappeto della sua camera, quindi un lieve scricchiolio del letto fece capire al conte che la giovane si era coricata.

Passò un'altra mezz'ora: più nessun rumore; tutti dormivano nella casa.

Allora il conte lasciò il suo nascondiglio e si avvicinò all'uscio aperto della camera di Ilda.

Al chiarore della lampada, egli scòrse la giovane stesa sul letto, in sottana e accappatoio. Dormiva, stanca della serata. Sul comodino scintillavano i gioielli di lei.

Quei gioielli abbagliarono il conte e fecero sorgere nella sua testa un'idea, che volle mettere in esecuzione.

Si appressò in punta di piedi al letto, poi, afferrato un asciugamano, con atto fulmineo ne coprì il capo della disgraziata.

La vittima, svegliatasi, si dibatteva, ma non poteva sciogliersi da quel laccio, mandare un grido.

Intanto Livio, chino su lei, le diceva con voce alterata:

- Hai voluto trattenermi: peggio per te. Sei bella, mi seduci quanto Bianca, più di lei, e ti voglio! -

Ilda faceva sforzi supremi per liberarsi da quella stretta, ma inutilmente: egli premè più forte le dita.

Allora le braccia della sventurata, che si erano avvinte disperatamente a lui, caddero inerti sul letto; il corpo rimase immobile.

Il conte credette di averla strangolata e la lasciò.

Ilda non fece il minimo movimento. Livio non ebbe il coraggio di toglierle l'asciugamano dal viso.

Vi era però qualche cosa in lui più potente ancora dello spavento: il calcolo abietto fatto poco prima. Egli afferrò i gioielli che erano sul comodino, e recatosi nel salotto vicino, prese il soprabito di Aldo e nascose i gioielli nelle sue tasche.

Poi aprì la porta del salotto, entrò nella galleria lasciata aperta dalla cameriera, passò nelle sale deserte, e dall'anticamera scese in istrada senza incontrare alcuno.

Una volta fuori respirò: era salvo. Tutto si rivolgeva contro Aldo.

Egli si diresse al proprio palazzo, si coricò, e, affranto, non tardò a addormentarsi.

Appena risvegliato, un pensiero dominò tutti gli altri: egli aveva ucciso Ilda. Ma l'idea che Aldo, l'amante di sua moglie, sarebbe accusato, fece tacere la sua angoscia.

Il cameriere l'avvertì che la contessa e il suocero erano usciti assai presto.

Che voleva dire quell'assenza della contessa col padre? Erano già stati avvertiti dell'avvenuto? Ilda era morta? Aldo, arrestato?

- Vai a prendermi i giornali del mattino! - disse al cameriere.

Ma non vi trovò nulla di ciò che desiderava sapere.

Eppure in città erano ormai informati dell'avvenuto.

Quando Aldo si era ritirato nella camera attigua a quella di Ilda, il suo pensiero fu di attendere il giorno scrivendo a Bianca le impressioni di quella notte.

E cominciò:

«Mia Bianca adorata,

«Presso la camera di colei che tutti credono la mia amante, mentre attendo il momento propizio di ritirarmi, racconterò a te sola tutti gli eventi di questa notte.

«Ho avuto bisogno di tutta la mia forza di volontà per apparire tranquillo allorchè comparve tuo marito, l'uomo che odio con tutta l'anima.»

Aldo si fermò un istante di scrivere, perchè gli parve di udire un gemito.

Stette un momento in ascolto e si convinse di essersi ingannato. Allora proseguì:

«Tuttavia, pensando a te, ho eseguito la mia parte a maraviglia. Ma costui è troppo scaltro per tradirsi, e bisogna venire a qualche più violenta decisione. Mi dispiace che Ilda sarà la sacrificata, la vittima.»

Aldo si fermò ancora, depose la penna e s'immerse in profonde riflessioni, le quali avevano un unico oggetto: Bianca.

A un tratto un nuovo gemito, e questa volta distinto, lo fece balzare in piedi, porre la mano sulla gruccia dell'uscio che metteva nella camera di Ilda.

Ma prima di aprire chiese a voce alta:

- Signorina, avete bisogno di me? Non vi sentite bene? -

Gli rispose un altro gemito rauco, affannoso. Allora non ebbe più esitazioni.

Si slanciò nella camera della giovane,

Ilda si dibatteva sul letto, cercando di togliersi l'asciugamano che ancora l'avvolgeva.

Aldo cercò di aiutarla, ma la giovane lo respinse col gesto, e le sue grida si fecero più rauche ed acute. Nei suoi occhi stralunati apparve una tale espressione di spavento, che Aldo indietreggiò, allibito.

- Ilda.... che avete? Che vi ho fatto? -

Ella era riuscita con un ultimo sforzo a sciogliersi dal suo laccio ed a stendere la mano al cordone del campanello.

Sembrava volesse parlare, ma dalla bocca spalancata non uscivano che gemiti.

Ma alla violenta scampanellata era accorsa la cameriera.

- Presto, soccorrete la vostra padrona che sta male! - disse il giovane.

E cercò di aiutare la donna, ma si vide di nuovo respinto da Ilda, le cui pupille si fissarono ancora spaventate su lui; poi una nebbia le coprì, e la sventurata non vide più nulla.

Era svenuta.

- Presto, dell'aceto, dei sali.... - disse Aldo alla cameriera.

Questa aveva scorto sul collo bianco d'Ilda i segni dello strangolamento, aveva veduto il gesto di orrore della sua padrona allorchè Aldo si era avvicinato per soccorrerla, onde guardò con diffidenza il giovane balbettando:

- Vado subito a prenderli. -

E corse via per avvertire i domestici dell'accaduto.

Un momento dopo, tutti sapevano che Aldo aveva tentato di strangolare Ilda.

Un domestico andò a cercare un medico: un altro ad avvertire il signor Moreno.

Aldo intanto, con l'asciugamano stesso che aveva servito al conte per avvolgere il capo ed il collo della giovane, asciugò il gelido sudore e la schiuma, che la povera Ilda aveva agli angoli della bocca.

Nel far ciò, vide egli pure su quel collo bianco i segni dello strangolamento.

Possibile? Non sognava?

E mentre nella sua mente si chiedeva se il conte fosse l'autore dell'ardito tentativo, diverse voci gli ferirono le orecchie:

- Non lasciatelo uscire!

- Non può essere che lui! -

Aldo si volse. Nella stanza entravano due cameriere, la cuoca, due domestici.

- Che succede, dunque? - chiese lo studente.

- Nulla, signore; - rispose una delle cameriere fatta ardita - siamo venute per soccorrere la signora; lasci fare a noi. -

E si avvicinò al letto, mentre i due domestici rimanevano di guardia all'uscio.

Aldo non vedeva gli sguardi che si scambiavano i servitori.

Ilda a poco a poco rinvenne, e la prima parola che pronunziò fu per chiamare il signor Moreno.

- Fra poco sarà qui; l'abbiamo mandato ad avvertire; - disse una cameriera - ma c'è il signor Aldo.

- Fatelo uscire; che io non lo veda! -

Aldo credeva d'impazzire.

- Ma perchè, Ilda, perchè? - chiese avvicinandosi al letto.

Essa lo fissò con uno sguardo strano, terribile, e disse lentamente:

- Siete più vile, più miserabile dell'altro; egli mi aveva almeno rispettata!

- Ilda, non vi comprendo....

- Siate maledetto, voi che rovinaste tutto il mio avvenire.... che mi toglieste più della vita.... Infame!... Infame!... Povera Bianca!... Il suo disprezzo sarà il vostro gastigo!... -

E volse il capo sul guanciale per non più vederlo.

Aldo non sapeva che pensare.

Credeva di essere in preda ad un'allucinazione.

Egli si strinse il capo con le mani e fuggì via.

Ma nel salotto vicino i due domestici gli sbarrarono il passo.

- Signore, lei non uscirà di qui finchè non sia giunto il signor Moreno: glielo impediremo!

- Con quale diritto? - chiese Aldo.

- Con quello di due galantuomini contro un assassino! -

Aldo impallidì fece un passo indietro.

- Assassino, io?

- Sì, avete tentato di strangolare la signora.

- Ma siete pazzi! -

Aldo stava per commettere qualche atto insensato, allorchè giunsero il medico ed il signor Moreno.

Il primo venne tosto introdotto nella camera di Ilda, mentre il signor Moreno si slanciava incontro al giovane, dicendo:

- Grazie a Dio, vi trovo qui! Che storia mi sono venuti a raccontare sul vostro conto, di un tentato strangolamento verso Ilda?

- È ciò che vanno ripetendo anche a me, e vi giuro, signor Moreno, che mi sembra di perdere la ragione.

- Ma come possono essere sòrte tali voci?

- Io vi dirò la verità, signor Moreno, persuaso che voi almeno mi crederete. -

E volle raccontare ciò che era avvenuto, allorchè una cameriera corse ad avvertire il signor Moreno che Ilda chiedeva di lui.

Il signor Moreno entrò nella camera di Ilda.

La giovane era sempre spaventosamente pallida ed il medico, curvo su lei, esaminava attentamente le lividure del collo.

- Sì, vi è stato un tentativo di strangolamento, per fortuna non riuscito! - disse.

- Oh! meglio fossi morta. - dichiarò Ilda con un singhiozzo.

E veduto il signor Moreno gli stese le mani, soggiungendo con voce rotta:

- Guardate che hanno fatto di me! E non è tutto....

- Io non comprendo, figlia mia: spiegatevi. Chi può essere il colpevole?

- Il signor Pomigliano.

- Lui?... Ma è assurdo! Egli si protesta innocente, ed io lo credo.

- Non lo crederete più, quando vi racconterò ciò che è avvenuto: anche il medico può ascoltarmi, come Marietta, e raccogliere la mia deposizione. Voi sapete, signor Moreno, come stanotte io abbia data una festa ed il perchè.

- Lo so! - interruppe il gentiluomo. - E colui non ha accettato l'invito?

- Sì, è venuto. Ma non si è trattenuto più di un'ora: ad un tratto è scomparso senza salutare alcuno. Io ho avuto paura che tendesse un agguato al signor Aldo, fuori del palazzo, terminata la festa, e ho trattenuto il signor Pomigliano, pregandolo di non uscire prima di giorno. Egli acconsentì. Ho mandato la cameriera a letto, trattenendo il signor Aldo che sarebbe rimasto a discorrere con me. Dopo aver discorso alquanto, lui, accorgendosi che ero stanca, abbattuta, mi ha pregata di coricarmi e ha detto che egli avrebbe atteso il giorno scrivendo. Allora l'ho fatto passare in quella stanza, ho chiuso l'uscio, e, spogliatami, mi sono sdraiata sul letto e addormentata. A un tratto mi sono svegliata sentendomi soffocare: avevo il viso avvolto in un asciugamano, due mani strette alla gola, mentre una voce mi diceva parole infami.

- Era la voce del signor Aldo?

- Sì, era la sua; e poi, nessun altro che lui poteva pronunziare certe parole. Volli liberarmi da quella stretta ma inutilmente, mi sentii mancare, non ricordo più altro.... e sono tornata in me.... mentre il signor Aldo era intento a soccorrermi.

- Ma se egli fosse stato colpevole, sarebbe fuggito, - disse il signor Moreno. - E poi, a qual fine vi avrebbe così imbavagliata? Bisognerebbe che fosse divenuto pazzo ad un tratto. -

Ilda si torceva le mani.

- Ma non capite, non capite.... Non è la mia vita che voleva, ma il mio onore....

- No, - interruppe con forza il signor Moreno - non lo credo. Io ritengo invece che colui che credevate scomparso, si sia nascosto nella vostra camera e sia lui che abbia ordito l'orribile trama per perdere voi.... e l'altro. -

Ilda trasalì, ma poi scosse il capo.

- Non è possibile! - disse piano.

- Lasciate almeno che il signor Aldo si giustifichi; non condannatelo prima di averlo ascoltato; egli ha il diritto di difendersi. -

Ilda rimaneva perplessa. In quel momento si udirono diverse voci nella stanza vicina. Un servitore avvertì come fossero giunti un ispettore di questura e due delegati.

- Chi li ha chiamati? - chiese il signor Moreno.

- Non so, signore; ma ormai è noto a tutti che il signor Aldo ha tentato di strangolare la signora.

Dunque, lo scandalo era inevitabile.

I rappresentanti della giustizia vennero introdotti

Aldo era con loro.

Il giovane portava la testa alta.

Ilda, tremante, fece la sua deposizione a voce così bassa, che appena si udì.

- Voi dunque accusate il signor Aldo Pomigliano? - disse l'ispettore quando la giovane ebbe finito di parlare; e rivolto allo studente: - Che avete da rispondere?

- Che la signora mi accusa a torto. Quando essa mi ha lasciato nella camera attigua, io mi sono messo a scrivere, e la mia anima era assai lontana di qui. Sognavo, scrivendo, quando ho udito un gemito. Accorso qui, ho veduto la signora che si dibatteva sul letto per togliersi un asciugamano che le avvolgeva il volto.

«Stupito, mi sono avvicinato per soccorrerla, ma essa mi ha respinto, ha sonato il campanello per chiamare aiuto, e mi ha accusato di volere strangolarla.

«Ebbene: giuro che la signora s'inganna, che io sono vittima della perfidia di un altro!

- Io vi credo! - disse a voce alta il signor Moreno.

L'ispettore, che aveva ascoltato freddamente, deliberò:

- Visitiamo la stanza dove il signore afferma che stava scrivendo. -

Ma appena entrati nella stanza vicina, Aldo, coi lineamenti stravolti, in preda ad una grande agitazione, si slanciò per prendere la lettera abbandonata sulla scrivania e che fra quelle commozioni aveva dimenticata.

Ma l'ispettore lo fermò.

- Un momento: - disse - quel foglio appartiene ormai alla giustizia. -

Aldo, con voce stridente, gridava:

- Voi non avete alcun diritto di ritenere quella lettera! -

Il signor Moreno, che intuì come quel foglio fosse diretto a sua figlia, soggiunse con voce commossa:

- Il signor Aldo ha ragione: quella lettera non può aver nulla che fare coll'accusa! -

L'ispettore si volse al signor Moreno.

- Come può saperlo lei? In ogni modo è inutile ogni protesta: il foglio non uscirà dalle nostre mani. -

Aldo chinò il capo abbattuto. Che gl'importava adesso l'accusa formulata contro lui? Non pensava più che a Bianca, ch'egli aveva compromessa.

Ma un altro tegolo stava per piombargli sul capo.

La cameriera Marietta si era precipitata nella stanza dicendo che i gioielli della signora erano scomparsi.

La signora se ne era accorta in quell'istante e dichiarava che il signor Aldo non poteva averli presi.

- Meno male, - esclamò il giovane - che anche Ilda comincia a credere alla mia innocenza!

- Vedremo! - soggiunse l'ispettore. - L'inchiesta non è ancora terminata.- -

Poco dopo si recarono tutti nel salotto dove il giovane si era intrattenuto con Ilda.

Entrando, l'ispettore scòrse il soprabito gettato sopra una poltrona.

Lo sollevò, chiedendo:

- A chi appartiene questo?

- A me, signore, - rispose Aldo.

L'ispettore lo frugò e ne trasse un astuccio di velluto rosso, che mostrò al giovane dicendo con tono brusco:

- Questo è pure vostro? -

Aldo trasalì, ma tenne la testa alta.

- No, - rispose - e non capisco come si trovi nella tasca del mio soprabito.

- Ve lo farò capire io: guardate.- -

Aveva aperto l'astuccio, che conteneva uno splendido finimento di perle e brillanti.

Il giovane gettò un urlo d'indignazione.

- Questo è troppo! - esclamò. - I gioielli di Ilda nel mio soprabito? Chi è il miserabile che ve li ha posti?

- Voi dovete saperlo meglio di tutti, signore!... - esclamò l'ispettore.

- Ma dunque, credete che io sia un ladro, un assassino? - proruppe sempre più eccitato il giovane. - Avrei tentato di strangolare la giovane per impadronirmi dei suoi gioielli? Ma se ciò fosse, perchè sarei rimasto qui, invece di fuggire?

- Perchè non avete potuto fare altrimenti! - rispose l'ispettore. - La vittima chiamava soccorso!

- Oh! no, no, io sogno, impazzo! Perchè avrei commesso tutto ciò? Ilda era amica mia.

- Sì, l'amante del cuore! -

Aldo sentì il sudore scorrergli sulla fronte.

- È una spudorata menzogna, me ne appello al signor Moreno!

- Il signor Pomigliano ha ragione! - rispose il vecchio gentiluomo rimasto fino allora silenzioso. - Se egli si trova in questa casa, è per ordine mio; io stesso lo misi al fianco della giovane, che per certo già si pente dell'accusa lanciata su lui. Sto io stesso garante dell'onestà del signor Aldo!

- A noi non basta, signore! - interruppe con accento fermo l'ispettore. - Fino a prova contraria, per noi, il signore è colpevole!

- Vi ripeto che un altro individuo è entrato qui, ha fatto il colpo! - ripetè il signor Moreno.

- Non basta una vaga affermazione: diteci il nome di colui che accusate!

- Vi giuro che domani lo saprete! -

Un sorriso sfiorò le labbra dell'ispettore.

- E sia; - rispose - comunque, fino a che non scaturirà fuori quell'altro, il signor Aldo rimarrà a nostra disposizione, verrà con noi! -

Mezz'ora dopo, nonostante le proteste vivaci del signor Moreno e quelle di Ilda, che ormai temeva di aver accusato un innocente, il giovane venne condotto in questura, e di lì, dopo un breve interrogatorio, in prigione.

Il vecchio gentiluomo si recò immediatamente dal Trani per raccontargli l'accaduto.

Bianca, in questo frattempo, ignara di tutto, benchè avesse accompagnato il padre fino al palazzo di Ilda, si trovava colla istitutrice presso una pia signora, che doveva condurle a visitare un convento dove avrebbero trascorso la giornata.

Il signor Moreno, che lo sapeva, ne gioì perchè voleva avere un colloquio da solo col genero.

Tornato a casa, trovò Livio sorridente, quasi felice.

- Ho bisogno di parlarti; - gli disse il suocero. - Vieni nella mia stanza. -

Livio lo seguì.

- Hai dunque qualche cosa di molto grave da comunicarmi?

- Ne giudicherai! - rispose il signor Moreno colle sopracciglia aggrottate.

Egli sedette di faccia a Livio, lo guardò fisso.

- Dove hai passato la notte? - gli domandò.

- In casa della bella Cleo, che dava una festa nel suo palazzo. Ma siccome mi uggivo, all'ora della cena sono tornato a casa.

- Tu menti! - gridò con forza il signor Moreno. - Strappa una volta quella maschera d'ipocrisia che ti copre il volto, mostrati quale veramente sei: spudorato, cinico, vizioso, colpevole! Tu sei andato a quella festa perchè, innamorato di quella giovane che ti odia, volevi avvicinarla, sapere chi fosse che la manteneva in quel lusso.

«Tu non hai lasciato la festa, ma ti sei nascosto nella sua camera per attendere il momento propizio di attentare al suo onore.

«La sorte ti fu propizia. Tu non soltanto hai commesso il più vile dei delitti, ma hai fatto in modo che la tua vittima stessa, riavutasi, accusasse un innocente di ciò che tu solo avevi fatto.

«Oseresti negare? -

Livio lanciò una boccata di fumo verso il soffitto.

- Non ne ho alcuna intenzione, - rispose - e ti ringrazio di avermi informato di ciò che bramavo sapere. Dunque, tutto è andato a seconda dei miei desideri e il risultato è davvero splendido! -

Questa riflessione parve così brutale al signor Moreno, che scattò gridando:

- Miserabile! Birbante! Farabutto, che a furia d'inganni riuscisti a sposare mia figlia per averne la dote! Griderò a tutti i tuoi delitti!

- Davvero? E farai anche sapere che tua figlia, la tua onesta e ingenua figlia, è l'amante dello stesso uomo che ha tentato di assassinare la tua mantenuta per derubarla? -

Sotto l'insulto sanguinoso rivolto alla sua adorata, il signor Moreno perdè il lume della ragione e fece per scagliarsi sul genero.

Ma questi, più svelto di lui, aveva fatto un salto dietro la poltrona, e, togliendo una rivoltella dalla tasca, la puntò verso il suocero.

- Sono armato, - disse - e non mi sarebbe difficile far credere al vostro suicidio, data la condotta di vostra figlia e gli eventi di stanotte. Ah! fu una vera fortuna che io potessi assistere, nascosto, al colloquio fra Ilda e il signor Pomigliano. Così sono informato della trama ordita contro me, e so adesso in qual modo possa difendermi. -

Ci fu un istante di terribile silenzio.

Il vecchio, annientato, dovette afferrarsi ad un mobile per non cadere.

Il conte proseguì:

- Perchè agitarvi tanto? Discorriamo tranquillamente, dal momento che non ci sono più segreti fra noi. Ma forse conosco io più assai voi stesso, di quello che conosciate me. Voi mi giudicate da ciò che sentiste dire da vostra figlia o da altri: ebbene, si sono tutti ingannati. Voi mi accusate di aver sposata vostra figlia per denaro: è vero, perchè quando la conobbi ero rovinato; però, mi rimaneva ancora il titolo di nobiltà, ed una ricca borghese non è mai indifferente dinanzi ad una corona di contessa. Quanti bottegai arricchiti darebbero i loro milioni per divenire parenti sia pure di un nobile spiantato! Non voglio attribuire a voi tale debolezza: voi non cercavate che la felicità di vostra figlia. Ebbene, io potevo dargliela! Se Bianca era innamorata di me, io lo ero di lei, ed avrei continuato ad esserlo. Ma potevo pensare che una semplice scappata con una femmina volgare cambiasse l'amore di mia moglie in odio, mi facesse interdire dal suo appartamento per sempre? Ed intanto, la pura, la severa mia moglie aveva un amante che, più felice di me, la rese ancora madre.

- Ah! è troppa infamia questa, non resisto più! - urlò il signor Moreno colla schiuma alle labbra.

- Ma se voi stesso le avete tenuto di mano! - interruppe il conte, - Ne ho le prove: ho letto due lettere, sottratte proprio in questi giorni a mia moglie e che custodisco gelosamente. -

Il signor Moreno si strinse il capo fra le mani: un rossore sinistro copriva il suo viso.

- Sì, tutte le apparenze stanno contro me e contro Bianca: mentre voi siete il solo colpevole.

- Io? Oh! questa è bellissima!

- Sì, ascoltatemi a vostra volta.... Bianca vi amava, e quando scoprì il vostro inganno, uscì quasi di senno: la sera stessa del giorno in cui aveva trovato la lettera rivelatrice del vostro tradimento, esasperata, si mascherò e andò al veglione coll'idea di darsi al primo uomo che le fosse piaciuto.

«Volle fortuna che s'imbattesse in Aldo Pomigliano, il quale la condusse nella propria soffitta, dove, appena giunta, ella tornò in sè e con accento disperato chiese al giovane che la rispettasse. Infatti, ella uscì da quella casa pura come vi era entrata.

«Mentre ella ne usciva, udì un urlo straziante e delle grida:

«- All'assassino! -

«Bianca si trovava quella notte nelle soffitte della casa dove fu assassinata la povera Giulietta Lovera. Aldo arrestò l'assassino, e Bianca promise all'assassinata di fare da madre alla sua creatura.

«Ora quell'innocente bambina, che è forse vostra, la credete frutto di un amore di mia figlia! -

Livio aveva ascoltato con appassionata intenzione.

- Il romanzo è completo, - disse - ma non spiega i rapporti che continuarono fra mia moglie e l'uomo che le scrive frasi d'amore, dicendole: «Quando passeremo ancora qualche ora felice, inebriante, insieme con la nostra bambina?» Inoltre non so comprendere come Ilda sia venuta a far parte della trama ordita contro me per farmi confessare un delitto che non ho commesso, e mi maraviglio che voi abbiate promesso ad Ilda i mezzi per schiacciarmi, dichiarando di volermi far giungere al punto di togliermi la vita colle stesse mie mani.

- Sì, per punirvi di torturare mia figlia e per far giustizia dell'infelice che per cagion vostra espia in prigione un delitto da voi stesso commesso.

- Ma dunque persistete a credere che io abbia spinto Fabio Ribera a commettere un assassinio? Quali sono le prove contro di me? Per quanto cerchiate, non ne troverete.

- Perchè dunque taceste anche col cavaliere Umberto Trani i vostri rapporti con Fabio?

- Perchè non volli vantarmi di una buona azione fatta in altri tempi. Ma ora non è più così: si tratta della mia difesa e mi difenderò con tutte le mie forze. Così schiaccerò tutti coloro che hanno cercato di perdermi. Intanto ho cominciato coll'uomo che mi ha tolta Bianca. -

Il signor Moreno ebbe un brivido dal capo alle piante.

- Io racconterò la verità.

- Voi non direte nulla, - proruppe con forza il conte - voi non accuserete il marito di vostra figlia, che ormai prenderà su lei tutti i diritti che nessuno può contendergli. La legge stessa mi protegge, e per quanto cerchiate, non troverete alcuna prova contro me. Se poi voleste intentarmi una causa per separazione, mostrerò le lettere dell'onesto studente, citerò i testimoni degl'incontri dei due amanti, così Bianca sarà la sola disonorata. Ora che sapete come la penso, - soggiunse - sappiate regolarvi. -

Il signor Moreno sobbalzò come frustato.

- Io farò soltanto ciò che mi detta la coscienza: - rispose - difenderò con tutte le mie forze gli innocenti, nè Dio permetterà che uno scellerato pari vostro trionfi. Ed ora toglietevi dalla mia presenza, perchè non potrei più a lungo sopportarvi senza commettere un delitto. -

Il conte aprì l'uscio, ma prima di uscire esclamò al suocero:

- Dite a Bianca che fin da questa sera riprendo tutti i miei diritti di marito. Sarà la sua espiazione! -

E se ne andò, lasciando il vecchio annientato.

X.

Nonostante i passi fatti dal Trani, dal signor Moreno e dallo stesso conte Livio Rossano, lo scandalo riguardante il tentato strangolamento della bella Cleo scoppiò enorme.

Alcuni giornali riportarono il fatto coi più strampalati commenti, fra i quali nessuno poteva discernere la verità.

Ma una settimana dopo un articolo conteneva queste rivelazioni:

«Si è scoperta la verità circa l'attentato contro la bella Cleo.

«Per ben comprendere tutto l'intreccio, bisogna risalire ad un delitto commesso qualche anno fa, in cui ebbe tanta parte la bellissima Cleo, allora conosciuta sotto il semplice nome di Ilda.

«Come a tutti è noto, la notte di un giovedì grasso un certo Fabio Ribera assassinava Giulietta Levera, dalla quale aveva avuto una bambina. Il movente del delitto era lo sbarazzarsi di quella donna per sposare Ilda.

«L'assassino fu arrestato da uno studente: il signor Aldo Pomigliano, il quale in quella notte aveva seco una giovane di maravigliosa bellezza, che lo studente qualificò per una sua sorella.

«Ora peraltro è stato scoperto dal sostituto procuratore Meralta che quella sedicente sorella era invece la contessa Bianca Rossano.

«E qui entriamo in pieno romanzo.

«La contessa Rossano, nata Bianca Moreno, sposò il conte Livio per amore, portandogli in dote due milioni in contanti.

«Bianca Moreno, un'indole sensitiva, fanciulla ingenua, credeva che le persone da lei amate le fossero interamente devote.

«Il marito era per lei come un secondo Dio.

«Volle sventura che un giorno capitasse nelle mani della contessa una lettera di un'ex amante del conte, e presa da una collera violenta, credendosi tradita, pensò di vendicarsi.

«La sera stessa si recò al veglione dello Scribe, e invitata da Aldo Pomigliano si lasciò condurre nella sua soffitta. Ma, ivi giunta, ella comprese il tristo passo che stava per fare e volle andarsene, quando alcune voci che urlavano «all'assassino», le fecero dimenticare la sua situazione e si slanciò con Aldo nella stanza della povera Giulietta.

«Qui fa duopo aprire una parentesi. Se l'assassinata nei suoi ultimi momenti riconobbe la contessa Bianca, questa aveva pure riconosciuta l'infelice. È un altro romanzo che ha una sorgente quasi idillica, in cui lumeggia la virile figura del conte Livio, quella della sua defunta madre.

«A Torino tutti conoscevano la bella contessa Rossano, madre di Livio: la sua carità era inesauribile.

«La contessa Rossano aveva fra la servitù un cocchiere ed una cameriera che prediligeva. Costoro, venuti a morte, lasciarono un bambino di pochi anni, Fabio, che raccomandarono alla contessa Rossano. Questa si prese cura del fanciullo, e quando venne a morte essa pure, lasciò per legato al figlio di non abbandonare mai l'orfano Ribera. Così il conte, che aveva adorata la madre, eseguì con zelo e segretezza la missione affidatagli.

«Egli tacque sempre con tutti la sua opera generosa e non ne menò mai vanto con alcuno.

«Fabio Ribera divenne un uomo. Il conte lo fece impiegare presso un noto magazzino di mode, esortandolo per modestia a tacere i loro rapporti. Però il gentiluomo non mancava di recarsi a trovare più volte il suo protetto nel modesto alloggio di lui, ed il giovane gli confidò della relazione contratta con Giulietta Levera, del suo affetto per lei, del tradimento della giovane, del suo abbandono.

«Intanto il conte Livio si era ammogliato. Se a tutti aveva taciuto di Fabio, ne parlò bensì a Bianca sua moglie, senza però estendersi troppo sui benefizi prodigati al giovane. Una mattina, mentre il conte e la contessa passeggiavano insieme, s'imbatterono con Fabio, che si trovava in compagnia di Giulietta. Fabio arrossì, salutò goffamente; Giulietta avviluppò con uno sguardo ardente la contessa, che dal canto suo guardò con sorpresa quella giovane, dai capelli d'oro.

«Tutto ciò ebbe la durata di pochi secondi,

«La coppia passò rapida ed il conte disse a sua moglie chi fosse il giovane, ma tacque su colei che l'accompagnava.

Però la contessa non dimenticò più quel volto e lo ritrovò nell'assassinata Giulietta, la quale a sua volta riconobbe la contessa.

«E quelle parole dette dalla sventurata: Lei? Lei, signora? Ma non sa....volevano per certo significare: Non sa che il mio assassino è il beneficato da suo marito?

«Ma la contessa nel suo spavento non comprese: ella lasciò che Aldo Pomigliano la facesse credere sua sorella, ritornò nella soffitta di lui colla bambina, ed il giovane, per attirarsi quella bellissima signora che ormai gli aveva sconvolto il cervello, s'incaricò di far allevare la piccina, della quale la contessa voleva essere la mamma ed Aldo il babbo.

«Così l'orfana dell'assassinata divenne il legame fra quelle due persone che poche ore prima non si conoscevano, e fu cagione di tutta una trama ordita contro il conte Livio Rossano e l'ingenua contessa.

«Nessuno ignora come la fidanzata di Fabio Ribera protestasse in piena udienza contro la condanna del giovane, giurasse di scoprire ella stessa il vero colpevole.

«Ora, siccome Ilda conosceva i rapporti del suo fidanzato col conte, ideò che questi fosse l'istigatore dell'assassino. Due altre persone avevano interesse a sopprimere il conte: Aldo, perchè sperava che, sbarazzatosi del gentiluomo, la contessa sarebbe sua; il signor Moreno, persuaso che il genero fosse un dissoluto e facesse l'infelicità di sua figlia. Costoro si accordarono per perderlo.

«E la conclusione fu, che fra Ilda, divenuta miss Cleo, il conte Moreno ed Aldo, venne decretata la rovina del conte Livio. Ma il risultato non fu quale si aspettavano; l'inchiesta dimostrò l'innocenza di colui, su cui si voleva far cadere tutti i sospetti.

«Il tentato strangolamento d'Ilda, il furto dei gioielli, fu una trama non riuscita per perdere il conte. Peraltro la bella Cleo, che credeva di dover fingere da vittima, stava per esserlo veramente, giacchè Aldo voleva sopprimerla sul serio. Ella, sentendosi soffocare, chiese aiuto, e contribuì all'arresto del complice. Così Aldo Pomigliano comprenderà quanto fosse pazza l'impresa ideata e come non possa esservi felicità fondata sul delitto.»

Il giorno seguente a queste strane rivelazioni, i giornali annuziavano la morte improvvisa del signor Moreno e la scomparsa di Ilda da Torino.

Quindici giorni dopo si seppe che il conte e la contessa, riuniti, erano partiti per un lungo viaggio.

Aldo Pomigliano attendeva in carcere il giorno del processo, disperandosi segretamente per la sorte di Bianca.

Ed il solo, il vero colpevole, continuava a trionfare!

PARTE QUARTA Dramma fraterno.
I.

La villa Bianca, situata sulla collina di Moncalieri, in un'altura dominante le ville circostanti e lontana da tutte, era un vasto fabbricato, circondato da un parco grandissimo.

Livio Rossano, compratala, vi si era stabilito colla moglie.

Si diceva che tanto il conte quanto la contessa, dopo i dolorosi avvenimenti che avevano funestata la loro vita, sentivano la necessità della solitudine.

Tornati da un viaggio che durò quasi due anni, si erano ritirati alla villa Bianca, e da tre anni che vi abitavano

nessuno aveva ancora veduto la contessa: essa non riceveva, nè voleva vedere alcuno.

La servitù era stata cambiata. Celia fu rimandata al suo paese, e al fianco della contessa era una donna di fiducia di Livio: il conte non aveva preso cameriere, perchè diceva di attenderne uno che doveva venire da lontano e l'aveva servito altre volte con perfetta devozione. Anche la scelta della cuoca, del cocchiere, del giardiniere e degli altri domestici era stata fatta da lui. Tutti avevano ordini precisi, e guai se li avessero trasgrediti! Nessuno poteva penetrare negli appartamenti del conte e della contessa senza essere chiamato. Si sapeva che il conte e la contessa non mangiavano insieme, ma nessuno ne stupiva, perchè Bianca, per la sua salute malferma, aveva bisogno di un regime particolare. Del resto, se qualche volta si bisbigliava in cucina sui rapporti fra marito e moglie, quelle voci non uscivano al di fuori e nessuno avrebbe pensato a trasgredire gli ordini del conte.

La contessa Bianca aveva ereditato dal padre un patrimonio colossale ed aveva lasciato piena procura al marito di amministrarla.

Ed il conte non abusava di quella fiducia: si sapeva che non giuocava più, non si occupava più di altre donne che della propria.

Eravamo sul finire di maggio. Verso il tramonto di un sabato, sulla lunga erta che conduceva alla villa, saliva penosamente un uomo sui trent'anni, con una valigia e un nodoso bastone. Era un individuo dalla faccia sparuta, circondata da barba folta e lunga, di un biondo cinereo. Il largo cappello di feltro nascondeva la capigliatura. Un fazzoletto di seta gli cingeva il collo.

Egli si fermava ad ogni tratto per guardarsi attorno. Sulla sua bocca esangue errava un sorriso di soddisfazione. L'uomo era giunto quasi alla metà dell'erta, quando un altro individuo che veniva dalla villa gli si fece incontro correndo.

- Fabio, Fabio, sei tu, finalmente! - esclamò. L'uomo, lasciando cadere valigia e bastone, stendeva le mani scarne, balbettando:

- Voi? Voi, conte? Quanto siete buono! La gioia di rivedervi mi fa dimenticare tutto! -

Barcollava. Livio, giacchè era lui, lo trasse al suo petto e lo baciò.

- Se tu sapessi come ti attendevo! - mormorò. - Io ho bisogno di avere un amico come te al fianco. Non credo più a nulla, all'infuori di te!

- Tutta la mia vita vi è dedicata.... - rispose Fabio con voce alterata, tremante.

- Grazie, ma ora cerca di rimetterti! Devi essere stanco; perdonami di averti fatto venire a piedi dalla stazione, ma non volevo dar sospetti.

- Non sento più alcuna fatica vicino a voi! -

E lo guardava, mentre camminavano vicini. Come gli parve invecchiato, benchè a prima vista questo cambiamento non lo avesse colpito!

I due uomini erano giunti alla villa. Presso il cancello, attendevano un domestico ed il giardiniere.

Il primo, ad un cenno di Livio, tolse dalle mani di Fabio la valigetta, l'altro salutò. Nessuno disse parola.

Livio condusse Fabio nella camera che gli aveva destinata, divisa dalla sua da un breve corridoio. Era una bella camera spaziosa, tappezzata graziosamente di carta a fiorami. Ma ciò che commosse soprattutto Fabio fu di trovare a capo del letto due ritratti: quello della contessa Rossano e quello della presunta madre di Fabio.

Il povero giovane rimase per un momento stordito, incapace di articolar parola; poi si volse al conte per ringraziarlo, e con una commozione mista a spavento, lo vide inginocchiarsi davanti a lui, lo sentì dirgli:

- Io sono stato un infame con te, Fabio: ti ho disonorato, reso assassino; e tu, generoso, non ti smentisti mai, non mi accusasti.... Perdonami.... perdonami!... -

Fabio lo rialzò con un grido.

- Non parlate così: io sono cosa vostra: voi solo eravate padrone di disporre della mia vita, del mio onore. Io tutto avrei fatto per voi! -

Livio lo strinse al suo petto.

- Oh! mio solo amico! - mormorò singhiozzando.

Livio volle che Fabio, appena rifocillatosi, si coricasse.

La mattina dopo, Fabio dormiva ancora, quando il conte entrò nella sua camera.

- Caro Fabio, - gli disse sedendosi accanto al letto - come sono contento di vederti! Ho tanto bisogno di discorrere con qualcuno che mi comprenda! -

Egli chinò il capo sulla coperta, come se non potesse ritenere le lacrime.

Fabio era commosso.

- Sono stati molto cattivi con voi, ma hanno avuto la loro punizione! - disse con un tremito.

Il conte alzò all'improvviso il capo mostrando il volto contratto.

- Io ho sofferto più di tutti! - disse. - Ascoltami, voglio aprirti il mio cuore. Tu conosci ormai la trama ordita contro me, la lega formata fra il miserabile che ti arrestò e la tua perfida fidanzata.... Ma tu, l'ami ancora?

- No: la odiai un istante, poi quell'odio si è spento, dando luogo al più profondo disprezzo. Essa è morta per me! -

Rimasero un istante silenziosi, quindi il conte riprese lentamente:

- La condanna di Aldo, la scomparsa di Ilda che seppe sottrarsi colla fuga all'arresto, la scoperta di tutti questi orribili intrighi, furono un colpo supremo per mio suocero. Una congestione lo fulminò. Ma come se questo non bastasse, sua figlia, la mia sventurata Bianca, smarrì la ragione. La sua pazzia non è terribile! Essa non strepita, non grida; ma se io mi avvicino, è presa da un fremito, il suo occhio spento s'illumina, il suo volto si contrae con un'espressione di spavento e di orrore. Bianca è persuasa che io le abbia assassinato il padre, e che ora voglia attentare alla stessa sua vita. Invano io la supplico di credere alla mia innocenza, invano le ho mostrato il rapporto del medico sulla morte del signor Moreno. Bianca non mi crede. -

Fabio aveva l'animo straziato.

- Non vi è speranza di guarigione? - mormorò.

Il conte scosse il capo.

- Ho tutto tentato, ma inutilmente! Dio solo potrebbe compiere un miracolo. Mi avevano suggerito di metterla in una casa di salute, ma non avrei la forza di separarmi da lei. Non ti nascondo che tanto qui come a Torino ignorano la pazzia di Bianca: la credono soltanto malaticcia. Io attendevo ansiosamente la tua venuta, perchè almeno di te posso fidarmi.

- Oh! disponete pure della mia vita!

- Ecco quello che desidero da te. Io ti presenterò alla servitù come il cameriere fidato che attendevo, al quale dovranno obbedire come a me stesso. Sarà necessario ti cambi il nome: ti chiamerò Martino. Tu stesso farai la pulizia della mia stanza e di quella della contessa, alla quale ti presenterò, dandoti tutte le mie istruzioni. Tu sorveglierai tutto e tutti, riportandomi i discorsi che udrai. Fra me e te parleremo in tedesco, lingua che nessun altro qui conosce.

- Farò tutto quanto desiderate. -

Il conte ebbe un nuovo impeto di espansione.

- Ah! qual sollievo provo nell'aprirti tutto il mio cuore! Adesso tu mi aiuterai a sopportare la mia sventura. Venisse un giorno che Bianca guarisse!

- Sperate, conte, sperate! -

Lo stesso giorno Fabio, rivestito di nuovi abiti, coi capelli e la barba accuratamente aggiustati, venne presentato al servidorame come il cameriere di fiducia del conte, sotto il nome di Martino. Livio dette ordine che fosse obbedito come lui stesso.

Quando ebbe finito colla servitù, il conte si rivolse a Fabio e gli disse:

- Ed ora andiamo dalla contessa! -

II.

Bianca era irriconoscibile: pallida e magra come uno spettro. I suoi stupendi capelli neri le scendevano in trecce disordinate sulle spalle; gli occhi sembravano smisuratamente ingranditi, cerchiati di nero; le labbra scolorite mostravano, schiudendosi, gengive esangui; aveva il naso affilato come quello di un cadavere.

Eppure in quella figura spettrale vi era ancora tanto fascino, che non si poteva mirarla senza sentirsene attirati!

Come sappiamo, il conte Livio, il giorno stesso dell'arresto di Aldo, aveva detto al suocero che riprenderebbe tutti i suoi diritti sulla moglie, e il misero padre attese il ritorno di sua figlia per rivelarle tutto.

Quando Bianca, tornata al palazzo, si recò nelle stanze del padre, fu spaventata dall'alterazione dei lineamenti di lui.

- Che hai? - chiese agitata. - Ti senti male?

- No, cara. Ma dammi il braccio: ti accompagno nella tua camera perchè ho da parlarti. -

Ella si sentì terrorizzata come se avesse scoperto ai suoi piedi un abisso.

Calmatala, il signor Moreno le narrò tutti gli avvenimenti della notte, e infine la minaccia del conte di riprendere i suoi diritti di marito.

Bianca sembrava fulminata. Tutte quelle rivelazioni l'avevano schiacciata; ma il suo abbattimento non durò a lungo.

Un grido d'orrore sfuggì dalla sua bocca, ed afferrandosi con angoscia al padre:

- Tu non mi lascerai in sua balìa, non è vero? - esclamò. - Uccidimi, piuttosto, uccidimi!

- Bianca! -

Fu un tal grido pieno di strazio, che bastò a richiamare in sè la giovane.

Ella si gettò ai piedi del padre.

- Perdonami, perdonami: tutti questi dolori li devi a me; io sono stata la sola colpevole; ma non lotterò più,

purchè tu ritorni tranquillo, non mi maledica!

- Oh! maledirti, amor mio, mia gioia! - esclamò come delirante il padre, sollevandola. - Io vorrei salvarti a prezzo della vita! -

Egli rimase quella notte presso sua figlia, coricato sul divano attiguo alla sua camera, attendendo il conte. Ma Livio non comparve, nè lo videro il giorno seguente.

- Eppure egli trama qualche cosa! - disse il signor Moreno alla figlia.

Ella ormai pensava alla sorte di Aldo, di Aldo innocente, eppure accusato di tentato strangolamento e furto!

- Io reco danno a tutti quelli che avvicino! - mormorò la sventurata.

Da Celia seppero poi che Ilda era scomparsa da Torino, nè il signor Moreno ebbe una sola riga che l'avvertisse di quella scomparsa.

La sera, il signor Moreno si trovava da sua figlia, quando il conte apparve alla loro presenza.

Bianca, scorgendolo, divenne cadaverica.

Il conte era calmo, e con accento gentile:

- Non temete, Bianca, - disse - non sono qui per farvi del male, quantunque voi ne abbiate fatto moltissimo a me. Vengo solo ad avvertirvi che sarete chiamata dal giudice istruttore con vostro padre.

- Vi andremo, giacchè è necessario, - rispose per la figlia il padre - e non nasconderemo la verità!

- È quello che desidero!-soggiunse il conte inchinandosi e ritirandosi.

- Mi fa più paura il vederlo così calmo, che se fosse in collera! - disse Bianca.

- Egli è sicuro di sè, - rispose il signor Moreno - mentre noi, innocenti, abbiamo contro tali prove da renderci inquieti. Ti sentirai tu la forza di recarti dal giudice istruttore?

- Sì, padre mio, perchè la mia coscienza di nulla mi rimprovera, e poi tu sarai con me. -

Ma allorquando il signor Moreno tornò dall'interrogatorio, aveva le vene della fronte gonfie ed il viso di porpora, mentre Bianca appariva più livida di un cadavere.

- Tutti proclamano la sua innocenza, tutti; - proruppe con un riso sibilante il vecchio quando fu nell'appartamento della figlia - noi soli siamo i colpevoli: io temo d'impazzire! -

Fu la volta di Bianca di consolarlo, benchè essa pure avesse il cuore lacerato.

Il conte non si lasciava più vedere dalla moglie e dal suocero; eppure si sapeva che passava molte ore nel suo appartamento. Che faceva?

Dopo alcune notti passate insonni, il signor Moreno scrisse il suo testamento.

Egli lasciava metà del suo patrimonio alla figlia, l'altra metà divisa in parti eguali fra Aldo Pomigliano, Ilda e la piccola Gina, la figlia di Giulietta Lovera, l'assassinata «e ciò per riparare un'enorme ingiustizia del mondo.» Vi erano inoltre due vistosi legati per miss Lucia e Celia.

Mentre era intento a scrivere, fu bussato al suo uscio.

- Chi è? - chiese il signor Moreno.

- Io! - rispose il conte con voce tranquilla.

Il vecchio fu subito in piedi, nè pensò più al testamento che andava scrivendo. Si recò ad aprir l'uscio, chiuso per di dentro.

Il signor Moreno indicò al genero da sedere e sedette egli pure.

- Che avete da dirmi?

- Vengo a dirvi che sopra un giornale molto diffuso della città è comparso un articolo che aggrava la condizione del vostro protetto, signor Pomigliano, e la vostra.

- La mia? Che intendete dire, signor conte?

- Leggete, ciò mi eviterà di rispondervi. -

Gli porse il giornale in cui era segnato l'articolo: «Mistero svelato». Il signor Moreno lo afferrò con le dita convulse, e percorse avidamente il foglio cogli occhi.

Immerso in quella lettura che gli infiammava il sangue nelle vene, gli dava le vertigini, non s'accorse che Livio s'era alzato, avvicinandosi allo scrittoio.

Il conte aveva guardato macchinalmente il foglio sul quale il suocero stava poco prima scrivendo.

Ma alcune parole gli corsero sotto gli occhi, facendolo rabbrividire. Allora si chinò, e cogli occhi dilatati da una rabbia interna, lesse quel testamento inaspettato e per lui terribile.

Aveva appena finito, che una voce gridò alle sue orecchie:

- È un'infamia, un'infamia!... -

Il conte si volse di scatto, ed i due uomini si trovarono di fronte; il conte livido, ma in apparenza calmo, il signor Moreno congesto, con gli occhi striati di rosso, la bocca piena di schiuma.

- Sì, è un'infamia! - ripetè Livio lentamente.

- Miserabile, dite così, mentre voi stesso l'avete scritto, voi che ideaste tutto l'intrigo fra me, Aldo e gli altri!

- Vorreste negare che sia la verità? Ma ecco qui una nuova, luminosa prova: il vostro testamento. -

Il signor Moreno cacciò un urlo da belva.

- Lasciate quel foglio, datemi quel foglio! -

Livio lo sollevava al di sopra del suo capo.

- Non sono così pazzo: questo sarà una nuova prova che dimostrerà sempre più la mia innocenza. -

Un fiotto di sangue salì al cervello del signor Moreno, che non distingueva più nulla.

- Ah! furfante, non mi sfiderete più a lungo! - rantolò.

E a testa bassa, con un impeto terribile, fece per slanciarsi contro Livio; ma il conte saltò rapidamente di fianco, ed il vecchio, trascinato dal proprio slancio, cadde disteso bocconi, rimanendo immobile.

Il conte si pose il foglio nella tasca interna del soprabito ed attese che il suocero si rialzasse.

Il vecchio non si muoveva. Allora Livio si curvò su lui e fremette: il signor Moreno era morto.

Il conte sonò con violenza il campanello, si mise a gridare aiuto.

Accorsero i domestici, ed il conte spiegò loro come, mentre parlava col suocero, questi avesse ad un tratto stese le mani verso lui quasi per cercare un appoggio, ma egli non era giunto in tempo ad afferrarle, e il vecchio era caduto.

- Bisogna trasportarlo sul letto, andar subito in cerca di un medico. -

I suoi ordini vennero eseguiti.

In quel mentre Bianca rientrava al palazzo con Lucia, e furono sorprese di trovare le porte spalancate e nessun domestico in anticamera.

La contessa ebbe il presentimento di una sciagura e si slanciò verso l'appartamento del padre.

Ma ad un tratto le si fece incontro il conte che le disse con le lacrime nella voce:

- Bianca, te ne prego, non entrare là; vieni prima con me nel salotto! -

Ella lo fissò cogli occhi stravolti.

- Che c'è? Che succede?

- Coraggio, Bianca, tuo padre.... -

La contessa non lo lasciò finire: diede in un grido acutissimo e, respingendolo, volò nella camera del padre.

Alcuni domestici erano nella stanza, ed il medico presso al letto si chinava ancora una volta verso il cadavere; poi, rialzandosi, confermò:

- Morto! -

Bianca lo vedeva bene, là disteso sul letto, immobile, ma il volto di suo padre conservava ancora il colore della vita, gli occhi stranamente aperti.

No, non poteva essere morto, non era possibile!

- Signore, vi ingannate, il babbo non è morto! L'ho lasciato due ore fa che stava benissimo.

- Vi credo, signora, ma purtroppo non posso darvi alcuna speranza: il povero signore ha dovuto soccombere ad una congestione cerebrale fulminea, un accesso di sangue al cervello....

- Prodotto da che cosa? - chiese macchinalmente Bianca, mentre i denti le stridevano.

- Vi sono tante cause che possono condurre ad un tal risultato: un eccesso di collera, una profonda commozione, una fatica intellettuale. -

Bianca non l'ascoltava più. Si era gettata sul cadavere del padre, lo copriva di baci e lacrime, ripetendo fra i singhiozzi:

- No, tu non puoi avermi lasciata così sola.... sola!... Se tu sei morto, qualcuno ti ha ucciso! -

Ad un tratto si raddrizzò, ed i suoi sguardi, incontrati quelli del conte, espressero il raccapriccio, mentre ella, stendendo il braccio verso lui:

- Assassino, assassino! - gridò.

- Poveretta, il dolore le sconvolge la ragione! - disse il medico.

Il conte si era avvicinato.

- Bianca, torna in te; tutti qui possono testimoniare se io ho colpa nella morte di tuo padre!

- Sì.... voi l'avete ucciso.... via di qui.... la vostra presenza è un insulto alla vittima....

- Ma che io debba dunque essere sempre sospettato da te? - disse con angoscia il conte, - Ah! se tuo padre potesse parlare ancora, egli ti griderebbe che io sono innocente: te lo giuro sul suo cadavere!

- Non vi credo.... non vi credo!... -

Il conte fu costretto a ritirarsi, celando, sotto un apparente dolore, la rabbia che lo divorava. Ma ormai sua moglie rimaneva in sua balìa, e, quel che più importava, il patrimonio del suocero non gli sfuggiva più.

Bianca chiese il parere di altri medici, e tutti furono concordi nella diagnosi del male che aveva fulminato suo padre.

Il conte fece chiamare alcune suore perchè non abbandonassero la contessa e le facessero intendere che ella incolpava a torto il marito.

Quando fu il momento di deporre il cadavere nella cassa, Bianca, afferrandosi alla fredda salma:

- Voglio esser seppellita con lui! - diceva.

Dovettero trarla via a forza, ed allora si dibattè in convulsioni, finchè cadde svenuta.

Per qualche settimana si temette che soccombesse. Poi cominciò a riaversi, ma la sua mente era alquanto scossa.

- Io pure - pensava - ho aiutato ad uccidere mio padre. Se non avessi commesso quella follia quando scopersi il tradimento di Livio, sarei stata sventurata, ma la mia coscienza di nulla mi avrebbe rimproverata: mio padre non sarebbe morto, nè Aldo rovinato, nè Ilda vagante per il mondo. Anch'io merito una punizione, nè cercherò di sottrarmi colla morte al castigo che mi spetta! -

E fu così. Bianca si ritenne legata alla vita per espiazione. Se alla vista del conte tremava come una foglia scossa dal vento, se lo fissava con gli occhi stralunati, ripetendo senza esaltazione che egli era stato l'assassino di suo padre, di Aldo, le stesse cose ripeteva a sè stessa, rodendosi dal rimorso di essersi mostrata cattiva figlia, di essersi incamminata in una via orribile, nella quale non calpestava che morti.

Era una specie di pazzia la sua, una pazzia calma, commovente, che non richiedeva alcuna sorveglianza speciale.

Il signor Moreno non aveva lasciato testamento, quindi Bianca diveniva la sola erede del padre.

Il conte Livio, dietro consiglio del suo avvocato, si recò da Bianca onde ottenere da lei la procura per l'amministrazione del patrimonio.

Il conte aveva posta al fianco di Bianca una donna che si era votata a lui per sempre, perchè con quel posto la salvava dalla miseria, dal disonore. Era una certa Milia Lezzani, una vedova che fu in procinto d'affogarsi per la fame volendo conservare la propria onestà. Milia credeva all'innocenza del conte, e promise che avrebbe cercato di trasfondere la sua convinzione nella povera contessa.

Essa non era cattiva, sebbene avesse un'apparenza piuttosto burbera. Era una donna forte, robustissima, sui trent'anni: aveva un carattere integro, un'onestà senza limiti ed era di una segretezza a tutta prova. Il conte poteva fidarsi di lei.

Bianca, ritornando alla vita, si era trovata costei al fianco, ma non chiese chi fosse.

Quando il conte entrò dalla moglie con le carte inerenti alla procura che essa doveva firmare, Milia si trovava seduta presso la contessa.

Livio le fece cenno di ritirarsi e si avvicinò a Bianca.

A misura che il conte si avvicinava, essa cominciò a tremare, a battere i denti, il suo respiro divenne affannoso.

- Bianca, puoi ascoltarmi? - chiese con dolcezza Livio.

Ella trasalì a quella voce, e gridò con violenza:

- Volete uccidermi, come faceste di mio padre? Ma io chiamerò aiuto!

- Calmati, Bianca, io non voglio farti alcun male; vorrei soltanto che tu firmassi queste carte.

- Firmerò tutto quello che volete; ma non uccidetemi.

- Non ne ho alcuna intenzione. Lascia che io ti spieghi il contenuto di queste carte....

- Non voglio saper nulla.... Firmerò, purchè andiate via! -

E tremava sempre più forte.

La firma, sebbene fatta con mano tremante, riuscì perfettamente leggibile.

Il conte esultava.

Pochi giorni dopo partivano per la Sicilia, d'onde poi tornarono per stabilirsi nella villa comprata dal conte ed alla quale Livio pose il nome di Bianca.

Nei due anni che stettero assenti da Torino, i rapporti fra Bianca e suo marito non mutarono.

Ma nella solitudine della villa il conte volle qualche volta dare sfogo al fiele che aveva nell'animo.

Un giorno entrò nel salotto di Bianca, mentre questa dormiva su di una poltrona.

Per una completa evoluzione del suo spirito, Livio provava ormai per Bianca una passione così violenta, come non l'aveva mai sentita per lei.

Quel giorno il conte, vedendo la moglie che dormiva con un dolce sorriso sulle labbra, chiese a Milia, che sedeva poco lungi dalla contessa, lavorando:

- Da quanto tempo riposa così?

- Da quasi un'ora, - rispose la donna.

- Chi c'è? - chiese in quel momento la contessa aprendo gli occhi.

- Sono io, Bianca, - rispose il conte avvicinandosi a lei.

- Indietro, indietro! - gridò la contessa, i cui lineamenti si sconvolsero, - Non voglio vedervi!

- La sentite, Milia? - esclamò il conte con una lugubre risata. - Quella donna colpevole, che anche in questo istante sognava forse il suo amante, respinge il marito, che ha avuto la debolezza di perdonarla e di lasciar credere a tutti che ella era una vittima incosciente.

- Assassino!

- Ancora? Vuoi che ti ripeta ad alta voce le frasi d'amore da lui scritte, quelle lettere che io porto sempre con me? Oh! io le ho impresse nella mente, parola per parola; ascoltate, Milia!

- No, per pietà, tacete! - supplicò Bianca rabbrividendo.

- Hai tu pietà per me? Io sono stanco dei tuoi insulti, del tuo disprezzo! Sono tuo marito ed ho diritto di possederti! -

Si chinò sfiorandole colle labbra i capelli.

Bianca gettò un grido, respingendolo.

- No, non sarà mai, mai! Vi odio, perchè avete ucciso mio padre, debbo a voi tutte le mie sventure! Lasciatemi.... lasciatemi!... -

Livido, il conte seppe dominarsi, e indietreggiando disse con voce cupa:

- Ti lascio, ma ritornerò ogni giorno per dirti che sei la più sprezzabile delle creature! -

Appena si fu ritirato, Milia disse:

- Senta, se fossi io suo marito, non avrei tanta pazienza! E bisogna dire che lei abbia un cuore ben duro per trattarlo così!

- Voi non sapete.... - interruppe Bianca.

Ma la vedova non la lasciò finire.

- Io sto a quel che vedo, a quello che sento. Lei accusa suo marito di averle ucciso il padre, e tutti i medici hanno ripetuto che il povero signore è morto di un colpo.

- Se il conte non gli avesse fatto salire il sangue al cervello, mio padre non sarebbe morto. Dio, che sa tutto, farà un giorno giustizia! - mormorò Bianca.

Quelle scene si rinnovarono spesso, alterando sempre più la salute della contessa, accrescendo la passione morbosa di Livio.

A Milia sembrava che, continuando in tal modo, un giorno o l'altro sarebbe avvenuta una lotta spaventosa.

Pure vi fu un momento che quella situazione parve cambiata.

Bianca non usciva più in escandescenze, e dinanzi al conte rimaneva calma e fredda come una morta.

Così erano giunti al giorno dell'arrivo di Fabio e delle confidenze strazianti fatte dal conte al giovane prima d'introdurlo nell'appartamento della contessa.

III.

Bianca stava nella poltrona, presso la finestra aperta.

Milia, fedele guardiana, lavorava all'uncinetto, a pochi passi da lei.

Il rumore dell'uscio che si apriva fece volgere la donna; la contessa non si mosse.

Livio, seguito da Fabio, le si avvicinò, e poichè la giovane non si muoveva, il conte la chiamò.

- Bianca! -

Ella si rivolse, e scorgendo uno sconosciuto in compagnia di suo marito, si mise a tremare come una foglia scossa dal vento.

- Siete venuti ad uccidermi!... - balbettò.

- No, Bianca, ritorna in te; - rispose dolcemente il conte - tu sai quanto la tua vita mi sia preziosa, quanto ti ami, nonostante l'atroce supplizio che mi fai subire ogni giorno. Io sono venuto per presentarti il cameriere fidato che d'ora innanzi aiuterà Milia nelle cure che ti sono necessarie. È un uomo di cuore, al quale potrai confidarti. -

Bianca guardò Fabio, che provò un brivido.

- Lo riconosco: - disse poi con voce singolare - l'ho veduto spesso nei miei sogni; ora me lo mettete al fianco per sbarazzarvi di me, come di Giulietta. -

Fabio barcollò come colpito al petto: il conte divenne livido.

- Non badarle, Martino: - disse con la solita dolcezza - ella non sa quel che dice. -

La contessa chinò la testa sul petto, e socchiuse gli occhi.

Un'ombra passò sul volto di Livio, poi i suoi occhi si inumidirono e fuggì quasi correndo nelle sue stanze.

Fabio lo seguì.

Il conte si era gettato su di una poltrona.

- L'hai veduta? L'hai sentita? E credi che io possa resistere a lungo a tale supplizio? -

La fisonomia di Fabio si era fatta grave.

- Permettete, conte, che io vi dia un consiglio? Ebbene: dovreste vedere vostra moglie il meno che sia possibile, recarvi a Torino, distrarvi, o non presentarvi a lei se ella non vi fa chiamare. Vedrete che a poco a poco essa guarirà e tornerà ad amarvi. -

Il conte ebbe un sorriso amaro.

- Sai che bisognerebbe fare per guarirla? Ricondurle il suo amante. -

Fabio impallidì.

- Non lo credo, conte; - interruppe - non torturatevi l'animo con queste fantasie. La contessa non può avere un così vile pensiero. E poi, siete sicuro che colui sia stato suo amante?

- Se lo sono? Tieni, leggi! -

Ed il conte trasse dal portafogli una lettera che porse a Fabio.

Egli la prese con mano tremante e lesse:

«Mia adorata! «Quale giornata, quella di sabato! Non posso dimenticarla. Solo con te, colla tua testina appoggiata alla mia spalla, le mani nelle mie! Io avrei voluto morire così! «Cerco di studiare, ma ho la febbre e mi alzo ad ogni istante, non riuscendo a dominare la mia agitazione. Pensare che tu, mia Bianca adorata, sei lontana da me, vicina ad un marito che potrebbe far valere i suoi diritti, ad un uomo vizioso, infame, indegno di te! «È una situazione atroce, spaventevole la mia, o piuttosto la nostra. Quando finirà? Potremo strappare dal volto di quell'uomo la maschera d'ipocrisia che nasconde l'uomo senza vergogna ed indurlo a punirsi da sè stesso? Tuo padre l'ha promesso ed io ho fede in lui. «Quando ti rivedrò? Manda Celia ad avvertirmi; la vita mi è insopportabile senza un tuo sorriso, un tuo bacio. La nostra Gina ci aspetta. Io conto i giorni, le ore, i minuti che ci separano. Scrivimi. Ti amo! Ti amo! «Aldo.»

Fabio fremeva, e quando rese la lettera al conte, il suo volto esprimeva un vero strazio.

- E voi amate sempre vostra moglie?

- Sì, l'amo.... ed è questo il mio torto.

- Voi siete buono, generoso come un Dio e la vostra bontà avrà un giorno la ricompensa. Vostra moglie riconoscerà i suoi torti, si pentirà, e voi la riavrete purificata nelle vostre braccia.

- Se tu dicessi il vero! Intanto farò quello che mi consigli, ed oggi stesso mi recherò a Torino, perchè adesso ho qui te e posso fidarmi. Nessun estraneo, sia uomo o donna, deve essere introdotto presso la contessa, nessuna lettera deve esserle consegnata.

- Potate essere sicuro che ogni vostro ordine verrà eseguito a puntino.

- Quando il dispensiere porterà i cibi per la contessa, li consegnerà a te, che a tua volta li passerai a Milia, e se questa scenderà per rifocillarsi o fare un giro nel parco, tu la supplirai presso mia moglie. -

Il conte partì lo stesso giorno, senza avvertire altri, sicuro di Fabio come di sè stesso. Infatti Livio non poteva lasciare una persona più fidata nella villa.

Fabio pranzò alla tavola dei domestici, accaparrandosi subito la simpatia di tutti per i suoi modi gentili, la bontà che traspariva dal suo sguardo, dalle sue parole.

Quando Fabio risalì, passò nelle stanze della contessa, perchè Milia a sua volta potesse scendere, svagarsi un poco. Alla vedova era pure piaciuto il nuovo cameriere Martino, e capì che sarebbero andati perfettamente d'accordo.

Quando Fabio aprì la porta del salottino della contessa, Bianca non fece il minimo movimento: continuò a guardare fissamente nel giardino. Egli sedette presso un tavolinetto da lavoro.

A un tratto Bianca si rivolse, fece un gesto spaventato, e con voce rotta dall'angoscia:

- Siete venuto ad uccidermi? - balbettò. - Egli è partito come l'altra volta per lasciarvi libero d'agire? -

Fabio scosse dolcemente la testa.

- State tranquilla, signora; - rispose - io non sono qui per farvi male e v'ingannate sul mio conto. Io mi chiamo Martino e sono un povero servo, devoto a voi ed al conte, pronto a dare la mia vita per rendervi la felicità.

- Voi mentite! - esclamò Bianca. - Vi riconosco, sapete: siete l'assassino di Giulietta, l'uomo amato dalla povera Ilda, lo strumento cieco di mio marito! Quale malìa ha adoperato Livio per indurvi a commettere un delitto, per farvi sopportare lunghi anni di prigionia, per convincervi delle colpe di tanti innocenti?

- Innocenti? Sì, voi pure avete l'apparenza dell'innocenza, e innocente vi crederei se non avessi letto la lettera del vostro amante! -

Bianca aveva alzato il capo con un moto pieno di nobiltà ed alterezza: sembrava trasfigurata.

- Del mio amante? - ripetè. - Che Dio vi perdoni questa parola, che per voi ed il conte ha un significato vergognoso, giacchè non intendete l'amore se non accompagnato dal delirio dei sensi! -

Fabio arrossì come un fanciullo.

- Sbagliate, signora contessa! Voi chiamate puro un amore come il vostro, che permette ad un uomo di parlarvi di baci?

- Sì, quelle lettere mi accusano, accusano Aldo; eppure, se vi fu uomo che abbia saputo rispettare una donna, fu lui; se vi fu donna che, calpestata, avvilita dal marito, abbia saputo portar alta la fronte, sono stata io! E con tutto ciò siamo i puniti, mentre il vero colpevole trionfa! Non lo nego: amo Aldo e ne sono amata, ma il nostro amore è al di sopra di tutte le iniquità umane e si libra presso all'altare di Dio. Può il nostro carnefice torturarci, coprirci d'infamia, dividerci: le nostre anime saranno sempre unite, i nostri cuori vicini, e la fiamma arderà sempre più sfolgorante, quanto più cercheranno di spengerla con atroci patimenti. Ripetete pure tutto questo al conte.

- Non sono qui per fare la spia, signora contessa, ma saprò dimostrarvi come accusiate a torto vostro marito.

- Sarebbe inutile; - interruppe Bianca col petto ansante, guardando con compassione il volto pallido ma soave di Fabio - voi non mi convincereste, come io non riuscirei a convincere voi, povera vittima delle vostre illusioni!

- La sola, la vera vittima è vostro marito.

- Lui? - proruppe con veemenza Bianca.

Ma rimettendosi subito:

- Già, che importa spiegarvi? - soggiunse. - Egli ve l'ha detto: sono una povera pazza. Infatti, ho la testa ed il cuore straziati, sconvolti, e voi non potete nè dovete prestarmi fede, sebbene abbiate creduto a tutte le infamie che il conte ha inventate sulla sventurata Ilda. -

Fabio sussultò.

- Non mi parlate di colei! - proruppe con violenza. - Come potete chiamarla sventurata? -

Un sorriso ironico sfiorò le labbra di Bianca.

- La conoscete? - disse con strano accento. - Voi, il servo Martino, entrato ieri al servizio del conte? -

Fabio arrossì, tremò: si era tradito senza volerlo.

- Non badate a me; - soggiunse Bianca - non so nulla, sono una povera pazza! -

Così dicendo incrociò le braccia sul petto, chinò il capo e riprese quella calma apparente, che al conte faceva più paura della collera.

IV.

Quando Guglielmo e Severina seppero dell'accusa contro Aldo, della sua entrata in prigione, credettero d'impazzire dal dolore.

Una sera, al momento di coricarsi, i coniugi Rivalta sentirono bussare alla porta di strada.

Era una signora alta, velata, avvolta in un mantello.

- Chi cerca, signora? - disse Guglielmo che era andato ad aprire.

- Cerco di lei, signor Rivalta: sono mandata da Aldo Pomigliano.

- Entri, entri, la prego! -

L'introdusse nella saletta, accese la lampada, e attraverso il velo che copriva il volto della signora scòrse delle sembianze giovanissime, leggiadre.

Severina, sentendo una voce di donna, era frettolosamente scesa. Guglielmo le disse vivamente:

- La signora viene da parte di tuo fratello.

- Davvero? - proruppe Severina avvicinandosi alla sconosciuta. - L'ha veduto? Gli ha parlato?

- No, signora; ma sono portatrice di una sua lettera, consegnatami dal cavaliere Umberto Trani. Eccola.

- Leggila subito, Guglielmo! - esclamò la signora Rivalta. - E lei si accomodi, signora! -

Le indicò il divano, poi corse vicino al marito per leggere, dietro le spalle di lui, la lettera del fratello. Aldo scriveva:

«Caro Guglielmo,

«Questa lettera ha due scopi: presentarti la giovane che te la consegnerà, rassicurarti sulla mia sorte e pregarti di rassicurare Severina. Mi trovo in prigione sotto un'orribile accusa in cui venne coinvolta anche la latrice della presente: ella, mercè l'opera di persona influente, è riuscita a fuggire ed è assolutamente necessario che tu la nasconda, la sottragga a tutte le ricerche che si faranno di lei. È la signorina Ilda Corato.»

Guglielmo e Severina interruppero la lettura, guardando sbalorditi la giovane, che intanto si era sollevata il velo e fissava su di essi i suoi sguardi ammaliatori.

- Ma non è lei - disse la signora Rivalta non potendo contenersi - che, come annunziavano i giornali, accusò mio fratello di aver tentato di strangolarla e di averla derubata? -

Ilda doveva essere d'accordo con Aldo e con Umberto Trani, perchè rispose:

- I giornali hanno riportato il falso: io accusai il vero autore del tentato assassinio e del furto, ma non vollero credermi perchè in quella notte Aldo era presso di me e gli trovarono nel soprabito i gioielli, che il vero ladro vi aveva posti. Il giudice istruttore, incaricato dell'inchiesta, disse che era tutta una commedia preparata da me e da suo fratello per perdere l'altro.

- E non avete potuto dimostrare in alcun modo la vostra innocenza?

- No, perchè tutte le prove erano contro noi. Ma lasciate che vi racconti tutto.

- Prima terminiamo la lettera di Aldo! - osservò Severina.

- Essa non è che il riassunto di quanto io debbo dirvi, - soggiunse Ilda.

- Se è così, potremo leggerla anche dopo, - disse Guglielmo - e se la signorina non è stanca e vuol raccontare....

- Dirò tutto. Il signor Aldo era già in prigione quando fu spiccato il mandato di cattura anche per me. Ora dovete sapere che fra il cavalier Meralta, magistrato che deve istruire questo processo, ed il cavalier Umberto Trani, che voi conoscete, esiste un sordo rancore, perchè il Trani aveva chiesto di fare l'inchiesta, e non solo venne escluso per i suoi rapporti d'amicizia col signor Moreno o come frequentatore della mia casa, ma lo accusarono di aver sottratto altra volta alla giustizia la contessa Rossano per favorire la gentildonna ed Aldo, nascondendo i loro rapporti al conte per odio contro lui.

«Il Trani avrebbe potuto facilmente scolparsi di tali accuse; ma non lo fece per suoi motivi particolari e si limitò a dire che il tempo avrebbe dimostrato dove era la verità e dove la menzogna. Egli è convinto delle colpe del conte ed ha giurato di smascherarlo e di abbassare l'alterigia del suo collega, che momentaneamente trionfa. Il Trani si è dedicato interamente a questo scopo e dice che riuscirà. Intanto, per mezzo di un agente segreto, che gli è fidatissimo, ha potuto tenere corrispondenza con Aldo, al quale ha dato tutte le sue istruzioni. Così ha avuto questa lettera per voi ed ha potuto avvertirmi in tempo del mandato di cattura ed inviarmi qui, come il luogo, per ora, più sicuro per me.

«Ho lasciato i miei bagagli in stazione ed in un baule tengo un travestimento completo da contadina della valle di Susa. Io so parlare il dialetto di quella vallata. Voi figurerete di avermi conosciuta a Susa, in una famiglia presso cui ero come serva. Direte che quei signori, recandosi fuori d'Italia, mi hanno raccomandata a voi, finchè non abbia trovato un altro servizio. Con questo travestimento potrò anche andare e tornare da Torino senza che nessuno badi a me. Il mio scopo, secondo l'istruzione di Aldo, è di avvicinarmi alla contessa Bianca, di poterle parlare, dirle che il signor Pomigliano le raccomanda di essere tranquilla, che il suo pensiero sarà sempre vicino a lei; ho pure un biglietto da consegnare alla contessa.

- Però il mio povero fratello verrà condannato! - interruppe commossa Severina.

- Temo di sì, - rispose schiettamente Ilda - perchè hanno troppo interesse di toglierlo di mezzo. Ma Aldo vi prega di non tentare alcun passo per sottrarlo alla sua sorte; dice che subirà la condanna senza ribellione, certo di avere un momento o l'altro una rivincita. Egli pensa più a Bianca che a sè: teme solo per lei. -

Severina piangeva.

- È un'anima nobile e grande, e un giorno trionferà per certo con la sua innocenza! - soggiunse Ilda.

La giovane aveva ripreso tutta la sua energia di un tempo, e le sue parole finirono col consolare i coniugi Rivalta.

Ilda fu alloggiata nella stanza dei forestieri, ma per due giorni nè Gina, nè la servetta di casa la videro. Il terzo giorno comparve nei suoi abiti di montanara, che la rendevano irriconoscibile.

Gina fece subito amicizia con lei.

Di lì a due giorni, Ilda seppe della morte del signor Moreno, e molto se ne afflisse. Per saperne la causa, volle andare a Torino e si recò direttamente a casa del Trani.

Il magistrato stava per mettersi a tavola colla moglie ed i figli, quando gli fu annunziato che una giovane montanara chiedeva di essere ricevuta da lui avendo urgente bisogno di parlargli.

Un po' sorpreso, Umberto diede ordine che fosse introdotta nel suo studio.

- Che desiderate da me? - le chiese entrando.

- Ospitalità per qualche giorno, - rispose Ilda.

Al suono di quella voce, Umberto guardò la montanara, sbalordito.

- Voi? Voi? - disse, stendendole la mano.

Ilda raccontò perchè era venuta a Torino: le lacrime offuscarono i suoi occhi ricordando il signor Moreno e Bianca.

Anche il signor Trani era molto commosso.

- Quella morte ha recato a me pure una grande impressione! - disse. - Il signor Moreno ha avuto il colpo mentre si trovava nel proprio salotto solo col genero. Un domestico asserisce di aver sentito il povero signore gridare: «È un'infamia, un'infamia!»

- E la contessa Bianca?

- Vi parlerò più tardi di lei; adesso, senza complimenti, venite a pranzo con me, altrimenti la minestra si fredda.

- Che dirà la vostra signora, vedendomi?

- Mia moglie è la mia vera metà, a parte di tutti i miei segreti, e potete stare tranquilla sulla sua accoglienza; seguitemi. -

Il magistrato condusse Ilda nella sala da pranzo, ed ammiccando alla moglie, che guardava stupita la bella e giovane montanara, disse a voce alta:

- Guarda chi ti conduco, Norina! È la figlia del nostro fittavolo di Susa, che tu non conosci ancora; è venuta a Torino per una cura, giacchè è anemica; suo padre me la raccomanda. Resterà qui con noi.

- Sì, sì! - rispose sorridendo la buona moglie del cavalier Trani. - Sedete, bella ragazza, e ditemi come vi chiamate.

- Catì.

- Ebbene, Catì, state di buon umore e consideratevi come a casa vostra. -

Diede ordine perchè fosse portata un'altra posata, incoraggiò la giovane a mangiare, e durante il pranzo non parlarono che di cose indifferenti.

I figli del magistrato non si mostrarono affatto curiosi. Finito il pranzo i fanciulli si recarono a passeggiare ed il Trani colla signora ed Ilda si ritrassero in un altro salotto. Questa volta Umberto presentò Ilda alla moglie e raccontò il vero motivo per cui era venuta a Torino.

- La contessa Bianca - disse poi il magistrato alla sua ospite - è malata: i medici dicono che il dolore le ha alterata la ragione. Il conte si mostra premuroso con lei, forse perchè, non essendosi trovato il testamento, egli sa ormai che le ricchezze del signor Moreno vanno tutte di diritto a sua figlia. Il mio agente segreto è incaricato di riferirmi tutto quello che succede al palazzo: egli ha trovato una furba ausiliaria in una cameriera. Intanto debbo dirvi che Celia è arrestata.

- Arrestata? Perchè? - chiese con angoscia Ilda.

- Perchè si dice che facesse come voi parte della trama per sopprimere il conte.

- Mi pento di non averlo fatto! - mormorò la giovane. - Era meglio che l'avessi ucciso, quel furfante! -

Umberto scosse il capo.

- Avreste fatto male, - disse - perchè la sua morte non portava alcun vantaggio agli innocenti. No, no! Noi dobbiamo giungere ad accerchiarlo in modo che egli confessi le sue colpe. Ci riusciremo, sebbene la cosa non possa avvenire molto presto. Da chi però non abbiamo nulla da sperare, è da Fabio.

- Se io gli scrivessi, gli raccontassi come sia stato vittima del conte? - osservò Ilda. - Ma in qual modo fargli pervenire la lettera?

- Di questo m'incarico io, sebbene non abbia alcuna fiducia che egli si risolva a tradire il conte. Un uomo che diventa assassino per un altro, deve essere avvinto a quest'altro da tali obblighi, da tali segreti, che riuscirà difficile scoprire. Perchè la semplice gratitudine non basta a spingere un essere a tal punto di devozione. Ho già preparato un'inchiesta a tal uopo: risalirò fino alla nascita di Fabio, troverò qualche vecchio servo della casa Rossano che serviva al tempo dei coniugi Ribera. Quando avrò in mano il bandolo di quella matassa, potrò dire di essere quasi in porto. -

Ilda preparò la lettera, che fece leggere al magistrato, il quale la ritoccò in diversi punti, e, ricopiata, la tenne per farla pervenire al prigioniero.

Intanto ogni giorno si aveva nuove della contessa Bianca, che su per giù erano le stesse; poi si seppe che il conte, licenziata tutta la servitù, aveva già dato gli ordini per la sua partenza con la moglie, con la quale diceva di essersi riconciliato.

- Io non lo credo! - disse Ilda. - Il conte prepara qualche tranello per la contessa.

- Egli è troppo furbo per compromettersi ora che tutto gli va a seconda! - osservò il magistrato. - Forse la contessa, stanca di lottare, ha finito col sottomettersi.

- Sono persuasa che morirebbe prima di cedere! - interruppe Ilda. - Temo piuttosto che, fra tante scosse, abbia smarrita la ragione.

- Io saprò quello che le succede, - soggiunse Umberto. - Bisogna però che agisca con gran prudenza per non suscitare dei sospetti nel conte. -

Intanto fu informato che Livio era partito colla moglie per Napoli e di lì si sarebbe imbarcato per la Sicilia.

Pochi giorni dopo il magistrato, tornando a casa, consegnò ad Ilda una busta, dicendole:

- Non vi avevo avvertita che con Fabio a nulla saremmo riusciti? Giudicatene da quello che troverete qui dentro. -

Ilda lesse il biglietto del prigioniero, che le scriveva, rimandandole la sua lettera senza averla aperta:

«È inutile, signorina, che v'incomodiate a spedirmi lettere: esse non m'interessano affatto, e vi dareste una pena inutile, perchè vi sarebbero rimandate come questa. Potevo perdonare l'infedeltà, mi sarei rassegnato alla perdita del vostro amore ritenendola una giusta punizione al mio delitto: non vi perdono i bassi intrighi per perdere il mio benefattore, nè mi rassegno di saperlo vilipeso da voi, che conoscevate i suoi rapporti con me, la bontà del suo animo, la generosità del suo cuore. Io non vi conosco più: l'Ilda di un tempo è morta: per me adesso siete un'estranea, una indifferente. «Fabio.»

Il cavalier Trani, che osservava Ilda mentre leggeva, fu molto commosso dalla disperazione che sconvolgeva il suo bel viso.

- Non me l'aspettavo! - esclamò l'infelice lasciando cadere il biglietto che il magistrato raccolse.

Questi cacciò un grido di stupore ed esclamò:

- È insensato come non ci abbia pensato subito! -

La giovane rialzò il capo chiedendo:

- A che cosa?

- Questo biglietto è stato scritto proprio da Fabio, non è vero? Ne riconoscereste la calligrafia?

- Perfettamente.

- Aspettate un momento, - disse il Trani, agitato.

Lasciò Ilda sola, ma non tardò a ritornare portando un pacchetto, dal quale trasse una lettera che svolse e confrontò col biglietto.

- Ed io, stupido, che trascurai la cosa più importante! - disse bruscamente il magistrato. - Guardate, Ilda: vi sembra questa la calligrafia di Fabio?

- Questa è la calligrafia del conte.

- Ne siete sicura?

- Sì, perchè ho delle lettere scritte da lui.

- E firmate col suo nome?

- Certo.

- Queste invece sono firmate «Fabio Ribera» e dirette alla povera Giulietta Lovera.

- Ma dunque, non c'è alcun dubbio: - gridò Ilda - fu lui il seduttore, e fu lui che spinse Fabio ad assassinare quella sventurata!

- Non solo, - interruppe il magistrato - ma Fabio riconobbe quelle lettere per sue, ragione per cui io non mi curai più di indagare. Vedete bene che un segreto grave esiste fra quei due uomini, di cui l'uno tutto sacrifica per l'altro. Ma da Fabio non lo sapremo mai, ve lo ripeto, perciò bisogna cercare un'altra via per giungere alla scoperta della verità. E voi mi aiuterete.

- Con tutte le mie forze, dovessi rimetterci la pelle. - Nessuno, all'infuori della moglie del magistrato, seppe delle minuziose indagini fatte da Umberto Trani, assistito da Ilda, nel passato del conte e di Fabio.

Intanto non trascuravano Bianca, Gina ed Aldo. Questi, durante il processo, pure protestandosi innocente non tentò di difendersi, per salvare l'onore di Bianca. Che gli importava la propria condanna, il proprio disonore, purchè Bianca non avesse a soffrire per cagion sua? Egli era sicuro dell'amore di lei: il Trani gli aveva promesso di vegliare sulla contessa: che il proprio destino, dunque, si compisse!

Scontata la sua condanna, Aldo era scomparso da Torino, e così Ilda ed i coniugi Rivalta, Gina e Celia avevano lasciato Ivrea. Nessuno sapeva dove fossero andati: qualcuno sussurrò che si erano imbarcati per l'America.

Umberto Trani era a parte di quel segreto: egli solo avrebbe potuto dire dove si trovavano, ma si sarebbe ben guardato dal parlarne.

Cercava che tutti dimenticassero, non pensassero più a quella storia d'intrighi, d'infamie, per poter agire.

V.

Livio si era recato a Torino per svagarsi, sicuro ormai che Bianca sarebbe scrupolosamente sorvegliata.

Sotto i portici di piazza Castello, egli s'imbattè nel marchese Passiflora.

Il gentiluomo conservava la sua fisonomia beffarda.

- Chi non muore si rivede! - disse andando incontro al conte. - Sei proprio tu.... o la tua ombra?

Il conte sorrise, e ricambiando la stretta dell'uomo dal quale si sentiva odiato e che detestava del pari, rispose quasi gaiamente:

- Sono proprio io. Mi trovi molto cambiato? Ho avuto tanti guai! Basta, ora sono tranquillo ed ho fiducia nell'avvenire!

- Meriti davvero un po' di felicità! Sei tornato a Torino colla contessa? -

Livio scosse il capo.

- Essa non vuole abbandonare la campagna, ed io non la dissuado, perchè la poveretta ha bisogno di solitudine. -

I due uomini avevano preso a camminare.

- Sento - disse il marchese - che sei diventato un marito modello; ed è tanto più meritevole da parte tua, avvezzo ai tripudi e col patrimonio che adesso possiedi. Perchè deve aver lasciato un bel patrimonio, il vecchio Moreno!

- Un altro paio di milioncini, dei quali mia moglie vuole che io sia il solo amministratore.

- Capperi! La contessa non ha più alcuna prevenzione contro te, nonostante le tue scappatelle! Mi rallegro! A proposito, non lascerai così presto Torino, e vorrai stasera venire a pranzo da me. Troverai delle tue conoscenze; si farà una partita alle carte.

- A casa tua? Ma non pranzavi al circolo e non vi passavi sovente anche la notte?

- È vero, perchè mi trovavo solo. Ora, ho una compagna. Vedrai, vedrai.... Voglio lasciarti il piacere della sorpresa.... Vieni alle sette. Ti accomoda?

- Perfettamente. -

Alle sette in punto il conte entrò nel salone del marchese, dove era già riunita numerosa compagnia.

Il marchese Passiflora gli andò incontro.

- Ti ringrazio di non aver mancato! - disse. - Non si aspettava che te!

- Mi dispiace d'avervi fatto attendere! -

Strinse la mano al marchese, poi salutò tutti, lieto di ritrovare antichi compagni che si affrettarono a festeggiarlo.

- Credevamo che tu fossi sparito dal mondo! - gli dicevano senza dissimulare un sorriso pieno di sottintesi.

- Non è stata colpa mia. Il lutto, la malattia della contessa....

- Come sta adesso? - chiesero alcuni con premura.

- Assai meglio, ma non si risolve a lasciare la sua solitudine.

- Permettete che mi congratuli con voi per la guarigione della contessa! - disse una voce alle sue spalle.

Il conte si volse trasalendo e si trovò a faccia a faccia con Umberto Trani.

- Grazie, cavaliere, per la vostra squisita gentilezza, - disse Livio con un sorriso oltremodo amabile. - Sì, la mia Bianca si è quasi completamente rimessa delle scosse subite. -

Frattanto Livio gli stendeva la mano.

Ma il magistrato non fu in tempo a stringerla, perchè alla volta del conte tornava Passiflora, tenendo al braccio una donna.

Livio indietreggiò.

La compagna di Passiflora era Cinzia.

Ella sorrise al conte, senza mostrare la minima commozione.

Era più pallida del solito, ma conservava quegli occhi strani, incantatori, il sorriso voluttuoso, le movenze serpentine.

- Finalmente, - esclamò, porgendo la mano a Livio - ecco un risuscitato! Non volevo credere a Passiflora quando venne a dirmi che eravate dei nostri.... Ne sono proprio contenta, perchè ero persuasa di non rivedervi più!

- Io invece pensavo che vi avrei ritrovata presto o tardi, - rispose galantemente il conte - e sono tanto più lieto di rivedervi felice.

- Oh! sì, lo sono! - mormorò Cinzia volgendo uno sguardo languido al marchese, che arrossì di piacere, mentre gli amici non nascondevano un maligno sorriso.

- Signori, a tavola! - gridò la voce di un domestico.

I commensali erano quattordici, fra cui cinque donne.

Cinzia sedette in capo tavola, avendo alla sua destra il conte Livio, a sinistra il Trani, di faccia il marchese. Nessuno faceva le maraviglie di vedere in quella casa il magistrato, sapendolo amico di Passiflora ed amantissimo, almeno in apparenza, della società.

Il pranzo era squisito, i vini scelti.

Livio aveva ripreso il suo spirito, la sua gaiezza di un tempo. Riempiva ad ogni momento il bicchiere, che vuotava di un fiato; premeva dolcemente sotto la tavola il piede di Cinzia, raccontava aneddoti a bizzeffe, come se volesse ad ogni costo divertire gli altri.

- È vero - gli chiese il Trani - che avete preso in affitto la villa Stenner?

- È verissimo. A mia moglie piacque per la posizione.

- Forse la contessa non sa come il precedente proprietario, il banchiere Stenner, fosse ivi assassinato! -

Un mormorìo corse lungo la tavola.

- Siete in inganno, cavaliere; - soggiunse il conte - lo Stenner si tolse da sè la vita, non potendo sopportare i tormenti di una malattia che da diversi anni l'affliggeva.

- Se così vi hanno detto, è perchè i parenti del morto facevano correre questa voce, onde sbarazzarsi di una tenuta che altrimenti non avrebbero trovato da vendere o da affittare. Ma io so benissimo come sono andate le cose.

- Raccontate, raccontate! - esclamarono ad una voce i commensali.

- Lo farei di buon grado, ma temo d'impressionare troppo l'odierno possessore della villa. -

Il conte scoppiò in una risata.

- Raccontate pure, non ho certo alcun timore. La villa è cintata e custodita, ed alla notte si sguinzaglia due mastini, coi quali nessuno vorrebbe far conoscenza.

- Il banchiere Stenner non era meno prudente di voi. Egli era scapolo, ed io lo conobbi una sera in casa del prefetto. Era un bell'uomo, alto, asciutto, di apparenza fredda. Egli teneva casa in Torino, ma passava la più gran parte dell'anno nella sua villa. Si diceva che avesse una singolare passione per la cultura dei giardini, che amasse la solitudine della campagna. Teneva dei domestici che sembravano giganti, dei cani che intimorivano al solo guardarli.

«Una mattina, uno dei domestici trovò sul ciglio di un fosso il cadavere di Stenner. Una palla in fronte l'aveva fulminato. Tutti accorsero sul luogo, vennero i carabinieri da Moncalieri, le autorità da Torino, i medici, fu telegrafato ai parenti e si sparse la voce che il banchiere si era suicidato.

«Ma nessuno rinvenne la pistola colla quale si era tirato il colpo, nessuno sapeva capacitarsi come un uomo ricco a milioni potesse finire i suoi giorni in tal guisa: io solo scopersi la verità, ma era inutile ormai propalarla.

- Perchè? - chiese Cinzia sorridendo. - Era vostro dovere illuminare la giustizia.

- Giustizia era già stata fatta del colpevole! - rispose in tono grave Umberto. - Il banchiere Stenner, benchè avesse un'apparenza piuttosto austera, era il più consumato dei libertini. Per lui nulla vi era di sacro: egli non rispettava nè le mogli, nè le figlie dei suoi dipendenti, e nessuna osava fiatare perchè tutte lo temevano ed avevano timore di far perdere ai padri, ai mariti il loro posto.

«Fra le sue vittime vi era la figlia di un'onesta vedova, che di nulla sospettava.

«Jetta era una ragazza sedicenne, bella e pura come gli angeli. Per certo egli dovette usare delle pazienti astuzie per averla in suo possesso: come vi riuscisse, è un segreto; ma il fatto sta che un bel giorno l'attirò nel parco, e quando l'infelice ne uscì era disonorata. Di poi, licenziò dal suo servizio la ragazza e la madre di lei.

«Jetta non ebbe il coraggio di rivelare subito la verità alla mamma. Peraltro, cominciò a deperire, e tre mesi dopo era in agonia. Solo prima di chiudere gli occhi Jetta disse tutto a sua madre.

«La povera donna, baciato il cadavere della figlia, le sussurrò agli orecchi alcune parole che la morta sola sentì: «Riposa in pace, e sarai vendicata!»

«Pochi giorni dopo il conte fu trovato nel parco con una palla nella testa.

- Bisognava farlo soffrire di più! - urlò Cinzia.

- È vero! - aggiunsero gli altri.

- Che volete, - soggiunse il magistrato - certe vendette raffinate non sono conosciute nella classe alla quale apparteneva la povera madre.

- Ma voi, come sapeste questa storia, che mi pare un po' assurda? - chiese Livio.

- La seppi dalla bocca stessa dell'infelice madre.

- E non la denunziaste?

- L'avreste fatto voi?

- Sì, perchè in fondo quella donna era un'assassina!

- E qual nome dareste all'assassinato? -

Il conte alzò con noncuranza le spalle.

- Quando un uomo - soggiunse il magistrato - abusando dell'innocenza, della fiducia d'una giovinetta, le ruba l'onore, se la vittima o chi per essa fa giustizia del don Giovanni, è nel suo diritto. No, non denunziai quella madre.... e la coscienza non mi rimprovera: feci il mio dovere.

- Bravo, benissimo.... - gridarono tutte le donne.

Passiflora, per tagliar corto alle discussioni che potevano sorgere, colmò il bicchiere di sciampagna, e, sollevandolo, disse gaiamente:

- Alla salute di tutte queste belle! -

Finito il pranzo, i commensali passarono in un'altra sala, dove erano preparati i liquori, il caffè, i sigari.

Due porte di questa sala erano spalancate: una metteva nella stanza da giuoco, l'altra in una galleria a fiori.

Alcune coppie si erano già avviate in quella galleria, ed il conte invitò Cinzia ad imitarle; ma in quel momento Passiflora si avvicinò dicendogli:

- Aspettiamo te per fare una partita.

- Un momento; vengo. -

E mentre il marchese si allontanava per parlare con un altro, Livio disse rapidamente a Cinzia:

- Bisogna che ti parli.

- Anch'io, - rispose ella con voce oppressa.

- Vieni al Trombetta. Ti attenderò tutta la mattina.

- Alle nove ci sarò. -

Cinzia si diresse verso il Trani, che entrava nella galleria.

Livio si recò nella sala da giuoco.

Alle due di notte, quando si ritirò, aveva perduto ventimila lire, ma poco glie ne importava.

Al conte ormai non premeva che togliere Cinzia a Passiflora. E l'impresa gli pareva facile, perchè la cortigiana doveva amarlo ancora, a malgrado del modo poco gentile con cui l'aveva trattata.

Egli era partito da Torino colla moglie senza più rivederla, senza dirle dove si sarebbe recato, senza lasciarle del denaro, quantunque sapesse che in quel momento Cinzia non si trovava in buone acque. E non si era mai più curato di sapere che fosse avvenuto di lei.

Ora, avendola ritrovata con Passiflora, il conte, inasprito dalle ripulse della moglie, sentì rinascere con violenza il suo capriccio del passato, capriccio accresciuto dal desiderio di prendersi giuoco di Passiflora.

Egli non potè dormire: alle sette era già alzato.

Ma erano già passate le nove ed il conte, fremente di impazienza, di collera, passeggiava nervosamente per le stanze, quando il cameriere venne ad avvertirlo che una signora chiedeva di lui.

Cinzia entrò: vestiva un abito scuro, semplice, elegantissimo.

Il conte le andò incontro, stendendole la mano, dicendo a voce alta:

- Buon giorno, cugina! -

Ma appena il cameriere si fu ritirato, Livio chiuse l'uscio con la spranghetta e si volse a Cinzia per abbracciarla.

La cortigiana disse con accento mordace:

- Giù le zampe, mio caro! Non sono venuta qui per subire i tuoi amplessi, ma solo per sfogarmi! -

Egli fece un gesto irato.

- Se avevi l'intenzione di farmi una predica, - esclamò - potevi risparmiarti la pena di venire!

- Ah! - esclamò Cinzia, che si era seduta sul divano. - Ti farebbe comodo, dopo avermi lasciata cinque anni fa, come un cane, senza neppur dirmi addio, riprendermi adesso che ti è tornato il capriccio e sei qui senza tua moglie! Ma ciò non fa comodo a me, e se sono venuta, è per dirti in faccia, da soli a soli, che sei un birbante, un mascalzone! Ed io ti amavo al punto di sacrificarti tutto, ed ho sempre taciuto sulle tue marachelle, che potevano mandarti all'Assise, come quel povero diavolo che vi si recò volontariamente per salvarti. -

Il conte era divenuto cadaverico.

- Cinzia, tu vaneggi!

- Sai bene che no! Ma non importa, starò zitta su questo punto, perchè mi preme la pelle: volevo soltanto parlarti della tua ingratitudine verso me. Mentre tutto ti andava a seconda ed io stessa ti aiutavo perchè tu riuscissi a trionfare, a schiacciare quella Cleo, che mi era rivale, tu pensavi già a sbarazzarti di me.

- Non è vero, Cinzia!

- Non è vero? Te lo provo, Tu sai che in quei giorni io mi trovavo in cattivissime acque: il mio protettore se ne era andato e tu mi lesinavi il denaro, perchè ne avevi bisogno per riuscire a trionfare sui tuoi nemici. Però mi lusingavi dicendomi che, ottenuto il tuo intento, mi avresti fatto parte dei milioni del suocero, e mi avresti serbato una riconoscenza eterna. Parole! I nemici furono vinti, il suocero se ne è andato all'altro mondo, i milioni sono caduti nelle tue mani, e tu, senza una parola, un addio, fuggi colla moglie e ti rivedo dopo cinque anni!...

Il conte aveva cambiato fisonomia.

- Perdonami, Cinzia, perdonami....tu hai ragione; ma io aveva perduto la testa....

- Vai a darlo ad intendere ad altri, non a me, che ti conosco.... Non ti pareva vero di liberarti di me, ricco a milioni, con una moglie che tu stesso avevi resa pazza e non ti dava più noia. Intanto io sono rimasta con un pugno di mosche in mano e per soprappiù mi sono ammalata e sono stata condotta all'ospedale: all'ospedale, capisci, dove rimasi cinque mesi, e quando ne uscii, non avevo più nulla da vivere, ed ero così debole.... così debole.... Basta, non voglio tediarti col racconto delle sofferenze da me patite: ti dirò solo che ti maledivo mille volte al giorno e ti auguravo ogni male. Alfine, un'anima pietosa s'interessò di me e cominciai a star meglio. Ma ero stanca di far la vita della donna alla mercè del primo venuto, e volli mettermi a lavorare. La persona che si era interessata di me mi diede pure i mezzi per rilevare una rivendita di sali e tabacchi. E facevo degli affari. Fra i miei avventori era il marchese Passiflora, che s'intratteneva a discorrere volentieri con me. Egli mi confidò che era sua intenzione prendere in affitto un elegante appartamento, ammobiliarlo riccamente per ricevere ogni sera gli amici e le amiche, per giocare. Mi propose di entrare in società con lui: accettai. -

Il conte ebbe un sorriso ironico.

- E dividete i proventi della bisca, o ricevete anche i magistrati che assistono impassibili allo spoglio dei giocatori?

- Vuoi parlare del cavaliere Trani? Ma egli non è più in servizio: già da qualche anno ha dato le sue dimissioni. -

Livio provò un segreto sollievo. Cinzia riprese:

- Io vado perfettamente d'accordo con Passiflora, e, grazie a lui, la mia situazione fra poco sarà cambiata, perchè diverrò sua moglie.

- No, tu non lo sposerai! - disse con violenza il conte.

- Perchè? Sei tu che ti opponi? È grottesco: dopo avermi lasciata nella miseria, non curandoti di me per cinque anni.... Basta! finiamola: ora che mi sono sfogata, me ne torno a casa.

- No, tu non andrai via così: voglio che tu ti calmi, che tu rifletta. Non mi dirai che ami Passiflora.... no, non lo credo. E perchè lo sposeresti? Per avere il suo nome? Bel nome! Tenutario di una bisca. Per i quattrini? È rovinato, e quello che oggi possedete insieme, non si fonda su basi solide. Che bell'avvenire ti attende!... E come può quell'uomo divertirti? No, non fa per te! -

Cinzia tratteneva a stento le risa.

- Avrei un bel vantaggio a cambiarlo con te! - disse.

- Sì, che l'avresti! - interruppe con impeto il conte. - Prima di tutto, io sono adesso padrone di circa tre milioni, ed almeno la metà di questo denaro potremo godercela insieme. Bianca ormai non si muove dalla villa, ma io posso venire a passare con te almeno tre giorni della settimana, purchè sia sicuro di trovare la tua casa sempre aperta, il tuo cuore come per il passato, e che io possa confidarmi a te interamente. Non è vero che accetti la mia proposta? -

Le s'inginocchiò dinanzi, le baciò le mani.

Cinzia sembrava commossa.

Egli si fece sempre più incalzante, perchè voleva ad ogni costo supplantare Passiflora e perchè il fascino che emanava da Cinzia tornava ad avvilupparlo.

- Resta con me! - pregava con voce piena di lacrime. - Dimmi che cosa vuoi che io faccia per ottenerti ancora! -

Cinzia si alzò.

- Ebbene, avrai la mia risposta domattina.

- E perchè non adesso?

- Perchè voglio rifletterci. Addio! -

Rimasto solo, il conte fu dapprima assalito da una collera violenta.

Ma dovette contenerla, calmare i nervi e lo spirito. Sceso a fare colazione, poi lasciò l'albergo, stette fuori parte della giornata ed alla sera fu tentato di recarsi da Passiflora.

Ma resistette alla tentazione; tornò all'albergo e si sentì molto triste, come forse non lo era mai stato nella sua vita.

Pensò a sua moglie, e sentì che non avrebbe mai più riacquistato il suo amore: poteva ottenerla colla forza, ma non avrebbe più posseduto che un cadavere.

Ebbe un moto di ribrezzo a quel pensiero.

Nessuno lo amava al mondo, all'infuori di Fabio; ma quella stessa cieca affezione del misero, invece di tornargli di conforto, l'irritava, ricordandogli le sue orribili menzogne, il delitto fatto compire.

Era malcontento di sè, di tutti, e passò anche quella notte senza chiuder occhio; si alzò di cattivo umore ed attese la risposta di Cinzia.

Alle nove precise sentì battere all'uscio.

- Avanti! - disse.

Con un vivo battito di cuore vide entrare Cinzia col sorriso sulle labbra, gli occhi pieni di fiamme.

- Vengo a portarti la risposta io stessa! - disse, porgendogli le labbra.

Livio gettò un grido di gioia e la strinse al suo petto.

Ma Cinzia si svincolò, e indietreggiando alquanto:

- Adagio! - esclamò. - Prima dobbiamo fare i nostri patti! -

VI.

L'assenza del conte Livio dalla villa si prolungava, ma egli aveva scritto a Fabio dicendogli che alcuni interessi lo terrebbero lontano per qualche settimana. Gli raccomandava la contessa, e aggiungeva che se ella avesse mostrato desiderio di scendere nel parco a farvi una passeggiata, lui e Milia l'accompagnassero, non staccandosi mai dal suo fianco.

Fabio nascose la lettera, quindi si recò dalla contessa per avvertirla che il conte non sarebbe tornato presto.

Quella mattina Bianca sembrava rianimata: era uscita un momento sul balcone e si appoggiava alla balaustrata. Vestiva un abito azzurro pallido, stretto alla vita da una cintura d'argento: aveva due grosse trecce pendenti sulle spalle.

Pareva una giovinetta.

- Signora contessa.... - disse Fabio alle sue spalle.

Ella sussultò e si rivolse.

- Che volete? - chiese.

- Vengo a dirvi che il signor conte mi ha scritto.

- Che m'importa? - esclamò ella duramente.

- Egli s'interessa molto della vostra salute, mi scongiura di avervi ogni riguardo, e mi dice che, se desideraste passeggiare nel parco....

- Posso scendere nel parco? - interruppe vivamente Bianca con lo slancio di una bimba.

- Sì; - rispose Fabio - Milia ed io vi accompagneremo. -

Bianca non mise tempo in mezzo, e scese subito la scalinata; ma dovette fermarsi, ansante.

Fabio le chiese con premura: - Posso offrirvi il braccio?

- Voi?! -

Era in quella esclamazione tanto disprezzo e tanto orrore, che Fabio indietreggiò come se l'avessero schiaffeggiato.

Poi, chinando il capo, rispose:

- Avete ragione: scusate! -

E siccome Bianca aveva ripreso a camminare, la seguì.

Egli aveva il cuore oppresso.

Come mai era stato così audace da offrire il suo braccio alla contessa, lui, un servo, un assassino?

Come Bianca doveva sprezzarlo!

Ma anch'essa era stata colpevole, sebbene lo negasse; anch'essa aveva voluto commettere un delitto, associandosi con coloro che volevano sbarazzarsi del conte!

Pure, nel contegno di lei, nella sua fisonomia, non era quell'impaccio di persona che, essendo colpevole, sta continuamente in guardia temendo di tradirsi. E neppure poteva dirsi pazza: il conte s'ingannava su questo.

Fabio camminava colla testa china.

Bianca, giunta ad una panchina, sedette.

Fabio si appoggiò al tronco di un albero, non osando volgere lo sguardo sulla contessa.

- Che bei fiori vedo su quel prato! - disse ad un tratto Bianca. - Se avessi la forza di correre, vorrei coglierli. -

Fabio si allontanò e non tardò a tornare con un fascio di fiori, che depose sulla panca presso Bianca. Poi si appoggiò di nuovo all'albero.

La contessa spinse coll'ombrellino il fascio di fiori che caddero in terra, quindi si alzò e si diresse verso casa.

Fabio non disse parola, ma fremette e seguì Bianca con passo vacillante.

La contessa, giunta nella sua camera, disse che aveva bisogno di riposo. Fabio si ritirò nella propria camera, e lasciatosi cadere su di una poltrona, vi rimase tutto compreso dal dolore.

Egli non aveva mai provato tanta umiliazione nella sua vita.

Neppure nella solitudine del carcere ebbe mai una visione così chiara dell'infame delitto da lui commesso!

Dunque egli era un gran miserabile per avere sbarazzato il suo benefattore d'una donna che lo minacciava!

E lui non aveva provato vergogna del suo delitto, pensando solo di pagare un debito di riconoscenza al suo benefattore!

Ora tutto ciò gli appariva mostruoso!

Il disprezzo di Bianca gli aveva aperto gli occhi: egli capì l'avversione che la contessa doveva provare per lui. Ilda sola, Ilda che egli aveva amata di un amore puro e buono, non si era peritata a difenderlo innanzi a tutti, gli aveva stesa la mano.

Se Bianca avesse avuto ragione? Se il conte fosse il solo colpevole?

Fabio gettò un grido che lo scosse, lo fece tornare in sè, e fu spaventato dei propri pensieri.

Dove mai lo trascinava la contessa col suo disprezzo?

Finiva col dubitare del proprio benefattore!

- È così che obbedisco alla mia povera mamma e alla mia defunta benefattrice? - mormorò colle lacrime agli occhi, fissando il ritratto della bellissima contessa Rossano.

Ma non tornò tranquillo: sentiva un cambiamento nel suo essere, e pregò Dio di liberarlo da quell'incubo, di aiutarlo nell'adempimento dei doveri prescrittigli dal conte.

Poi gli parve di aver bestemmiato con tale preghiera.

Si sentì soffocare e si alzò per aprire la finestra.

Fabio respirò più sollevato.

Nell'ora in cui Milia discese per desinare, egli tornò nell'appartamento della contessa.

Le si avvicinò umilmente, e piegando un ginocchio:

- Perdonatemi! - disse con voce tremante.

Bianca alzò il capo e lo guardò, stupita.

- Sì, perdonate il mio ardire di aver còlto quei fiori per voi! - soggiunse Fabio.

Un mesto sorriso rischiarò il bel volto di Bianca.

- Ho già dimenticato. - disse.

Fabio si chinò colla fronte sino a terra, baciandole il lembo dell'abito. Quando si alzò, aveva gli occhi inondati di lacrime, ma sul volto era un'espressione di dolcezza così commovente, che Bianca ne fu mossa a pietà.

Tuttavia rimase silenziosa, con gli occhi fissi nel vuoto, inerte.

Fabio la guardava e stupiva di vederla così tranquilla, con quell'aureola di candore sulla fronte.

Possibile che quella soave creatura avesse avuto un amante?

Aveva pur letto la lettera di Aldo; ma il dubbio ormai si faceva strada nella sua mente.

Ad un tratto si ricordò delle lettere scritte dal conte a Giulietta e firmate col suo nome: Fabio Ribera.

Egli aveva saputo quel particolare quando fu interrogato dal giudice istruttore.

Livio aveva dunque premeditato d'ingannare Giulietta, prendendo il nome di Fabio per sottrarsi ad ogni responsabilità.

Ora non poteva Livio avere scritto quella lettera firmata Aldo, per dimostrare la colpa della moglie? E se un giorno, stanco di Bianca, gli proponesse di sopprimerla?

- Oh! no, no, questo mai! - disse a voce alta, volgendo attorno gli occhi spaventati.

Bianca l'udì, si rivolse verso lui.

- Che avete, Martino? -

Egli si scosse, divenne di fuoco.

- Nulla.... contessa; - balbettò - il silenzio di questa stanza mi aveva assopito, e sognavo....

- Che il conte voleva farvi commettere un altro delitto? - interruppe sorridendo Bianca.

Fabio ebbe una gran vergogna di sè stesso.

- No, no!

- Quali sogni spaventevoli devono talvolta opprimervi! - proseguì la contessa. - Ditemi: non vi appare mai l'ombra di colei che uccideste per un altro? Non è venuta mai Giulietta a chiedervi conto della sua bambina? -

Le labbra di Fabio tremavano convulsamente.

- Non capisco, contessa, non so nulla, nulla! -

Ella ebbe un sorriso di disprezzo.

- Avete ragione, dimentico sempre che siete.... Martino. -

Milia entrava e Fabio fuggì nel parco.

Quando tornò, Bianca si accòrse che egli doveva aver pianto, perchè aveva gli occhi rossi.

- Avete ordini da darmi, contessa? - chiese con voce alterata.

- Sì, Martino! - rispose con dolcezza Bianca. - Se domattina il tempo è così bello preparatemi la poltrona a ruote: mi farete fare tutto il giro del parco. -

Il volto di Fabio s'illuminò d'improvviso.

- Sì, contessa.

- Vi diletta leggere, Martino?

- Sì, contessa.

- Ebbene, prendete questo libro: vi piacerà. -

Egli afferrò il libro con mano tremante, balbettò un ringraziamento.

Quando se ne fu andato, Bianca disse a Milia:

- Mettimi a letto, sono stanca, ma sto meglio.

- Dio sia lodato! - esclamò la vedova.

VII.

Fabio, seduto nella sua camera, aperto il libro che Bianca gli aveva dato, leggeva:

«Noi c'inchiniamo servilmente davanti ad un idolo di creta, facciamo talvolta per una creatura umana il sacrifizio del nostro dovere, della nostra anima, della nostra felicità eterna, mentre ci pare grave servire Dio immortale, creatore e dominatore di tutte le cose.

«E che otterremo da una creatura mortale, che domani è polvere? Che avremo da quell'idolo di creta, che la semplice volontà di Dio basterebbe a rovesciare?

«Un giorno verrà che l'apparente trionfo farà sembrare più grande ancora la giustizia di Dio, mentre le lacrime degli innocenti faranno esaltare ancor più la sua misericordia.

«L'ora verrà in cui tutte le pene cesseranno. E sarà quando l'uomo, comprendendo le sue colpe, si umilierà dinanzi a Dio, implorerà il suo perdono. Dio è sempre pronto a salvare chi si pente. Egli accoglie il peccatore pentito, gli addita la via del Cielo! Oh! la dolcezza della parola divina in un'anima abbattuta! Quand'anche tutto il mondo ci mancasse, Dio ci resta sempre....»

Fabio, angosciato, con un sentimento nuovo nel cuore, che lo torturava e lo consolava ad un tempo, cadde sulle ginocchia, e mentre lacrime cocenti cadevano dai suoi occhi, balbettava fra i singhiozzi:

- Mio Dio, perdonatemi! Mio Dio, fate scaturire la luce, perchè io mi penta, perchè sia tutto vostro! Mio Dio, io ho fede in voi! -

Così inginocchiato, Fabio ritornò sul suo passato, esaminò la sua vita. La giudicò miserabile! Egli non aveva avuto altro fine che accontentare il conte, senza neppur sapere se faceva bene o male. Aveva obbedito ciecamente come uno schiavo che si piega alla minima volontà del padrone, senza cercare se questa volontà è contraria alle sante leggi di un padrone più onnipotente.

Oh! ricominciare una nuova vita, una vita utile a tanti innocenti!

Mentre così pensava, la sua anima venne rapita da un'estasi mai provata, come avviene a tutti coloro cui la fede in Dio si rivela per la prima volta.

La mattina seguente il sole era sorto radioso, ma più radiosa era l'anima di Fabio.

Quando egli entrò nella camera della contessa per avvertirla che la poltrona era pronta per la passeggiata nel parco, apparve agli occhi di Bianca come un altro uomo. Sembrava che tutto il suo essere fosse cambiato.

Bianca non lo interrogò, scese nel parco, sedette sulla poltrona, ed allora soltanto, rivolgendosi a lui, gli disse:

- Andiamo: spingete. Voi, Milia, restate pur qui a riposarvi. -

Fabio palpitò. La contessa non aveva dunque più orrore di lui?

La poltrona scorreva dolcemente pei viali. La casa e Milia più non si vedevano, allorchè la contessa disse: - Riposatevi, Martino: io starò bene qui, all'ombra.

Egli obbedì: trasse la poltrona dove gli alberi erano più folti, e si allontanò di qualche passo per non rendersi indiscreto.

Ma Bianca lo chiamò.

- Avete letto il libro che vi ho dato? Non avete nulla da dirmi? -

Egli si gettò ai piedi della contessa.

- Non osavo parlarvene, - disse - eppure ho il cuore pieno. Il vostro libro mi ha aperto gli occhi. Io credevo di seguire il bene e sono stato un malvagio. Non nego più.... sono Fabio Ribera, l'assassino di Giulietta Levera.

- Lo so; - rispose Bianca con tristezza - ma so altresì che il conte è il maggior colpevole in tale delitto: egli solo vi spinse al male. -

Fabio si strinse colle mani la fronte.

- È proprio vero, contessa? L'anima mia si dibatte fra atroci dubbi. Ho chiesto a Dio d'illuminarmi. È possibile che l'uomo da me adorato, il mio benefattore sia colpevole?

- Se era un uomo onesto non avrebbe armato la vostra mano per farvi commettere un delitto! Chi benefica un uomo per spingerlo al male, è un demonio! Ma se Dio ha toccato il vostro cuore, voi potete essere salvo. Fabio, vedete che io, pur trovandomi qui sola, inerme, non ho più paura di voi e vi stendo la mano da amica? Ebbene, ora io ho piena fiducia in voi, come dovete averla in me. Siamo qui soli, nessuno può ascoltare i nostri segreti: apritemi la vostra anima, come io vi aprirò la mia. Allora Dio, che ci ascolta, diraderà le tenebre dalla vostra mente, farà apparire agli occhi vostri la verità.

- Avete ragione: confesso.... confesso tutto. Dio mi ispira. -

In ginocchio sull'erba, dinanzi a quella creatura il cui volto soave pareva trasfigurato, Fabio fece il racconto di tutta la sua vita passata, nulla tacendo di quanto riguardava sè, la contessa Rossano, madre di Livio, ed il conte.

Bianca ascoltò con intensa attenzione. Essa fu colpita più che altro dalla raccomandazione di Stefana fatta a Livio di non abbandonar mai l'orfanello.

Ad un tratto nella mente della giovane subentrò una gran luce e tutto divenne per lei verità semplice ed evidente.

Fabio, terminato il suo racconto, le disse:

- Non sembra anche a voi, contessa, che un uomo, il quale mostrò tanta generosità verso il figlio di un povero servo, non può essere colpevole di quanto lo accusano?

- Lo è più ancora di quanto m'immaginavo! - esclamò Bianca. - Fabio, non vi siete mai guardato allo specchio? Non vi ha mai detto alcuno della vostra strana rassomiglianza col conte? Ebbene, egli è per certo vostro fratello....

- Impossibile! - esclamò Fabio. - Io sono iscritto sui libri dello Stato Civile come figlio dei coniugi Ribera.

- Chi erano questi Ribera? - interruppe concitata Bianca. - Due servi devoti alla loro padrona. La contessa Stefana, e questo lo seppi dalla bocca stessa di Livio nei primi mesi del nostro matrimonio, in un momento di espansione, assomigliava perfettamente a lui nel carattere; era creduta una donna virtuosa, ed ingannava il mondo, come ingannava il marito. Non vi è dunque nulla di straordinario che, per nascondere una colpa, abbia avuto per complici i suoi fidati domestici. -

I denti di Fabio sbattevano sulle sue labbra sbiancate.

- Ed io sarei il frutto.... di quella colpa?

- Lo giurerei. La contessa non ebbe il cuore di abbandonarvi e si occupò di voi, quando Dio vi privò di coloro che vi avevano dato il nome. Ma nè la vostra finta madre, nè la vera, ebbero il coraggio di rivelarvi la verità, neppure al letto di morte. Il conte, che sa tutto per certo, vi ha tenuto sempre al livello di un suo servo, e non basta: egli ha voluto fare di voi un assassino. Vi ha fatto credere che Giulietta era disonesta, che finiva col minacciarlo. Essa era invece una fanciulla onesta, che il conte aveva sedotta sotto il vostro nome e che abbandonò quando fu madre. Nè tanto gli bastò: Livio, temendo di vedersi smascherato dalla disgraziata, armò la mano stessa del fratello. -

Fabio ansava.

- Dio mio! - mormorò con angoscia.

Bianca continuò, come se quelle rivelazioni la sollevassero:

- E sapete dov'era il conte, mentre voi compivate l'esecrabile delitto ed io mi dibattevo in spasimi morali atroci, nel mio palazzo a Torino?

«Egli si godeva il carnevale a Milano, in compagnia di una certa Cinzia, una creatura spregevole al pari di lui e che doveva essere a parte di tutte le sue infamie.

«Ma non basta. Istigandovi a colpire Giulietta, sbarazzandosi di lei e di voi col lasciarvi condannare, il conte aveva un altro scopo: quello d'impadronirsi della pura fanciulla da voi amata.... Ilda. -

Fabio credette di morire.

- Oh! questo non è vero, ditemi che non è vero! - balbettò con accento straziante.

Bianca alzò il pallido viso trasfigurato.

- Per la cara memoria di mio padre, vi giuro che è la verità! Ma perchè meglio mi comprendiate, vi racconterò la mia storia, perchè ad essa si collega quella di altri innocenti: Aldo Pomigliano e la vostra fidanzata, Ilda. -

Fabio ascoltò, col cuore in sussulto.

Quando Bianca gli ebbe detto tutto, egli cadde sull'erba, rompendo in singhiozzi.

Mezz'ora dopo Bianca tornava alla villa con Fabio, il quale partì il domani per Torino.

VIII.

Nei patti stabiliti da Cinzia col conte, la cortigiana si manifestò pratica e ponderata. Prima di tutto, non volle fare le cose con precipitazione: una rottura improvvisa con Passiflora avrebbe provocato spiegazioni, forse un duello; e Livio doveva evitare uno scandalo per riguardo alla moglie.

Il conte avrebbe dunque continuato a frequentare la casa del marchese Passiflora, fingendo di esservi attirato dal giuoco, ma ogni mattina i due amanti si vedrebbero in qualche appartamento ammobiliato, dove Livio abiterebbe. Quando poi il marchese sollecitasse il matrimonio, Cinzia gli confesserebbe di voler riprendere la propria libertà.

La cortigiana volle pure che Livio le giurasse che per qualche tempo non rivedrebbe la contessa, perchè essa era gelosa di lei.

Il conte giurò tutto quanto essa volle, accettò tutti i patti che a Cinzia piacque fargli sottoscrivere e si dette subito attorno per trovare l'appartamento che desiderava.

Egli ne prese uno al pianterreno, su di un corso deserto, in un palazzina abitata dai soli padroni, due vecchi negozianti in ritiro, che passavano quasi tutto l'anno in campagna.

In quel momento la casa era vuota. Il conte non aveva nemmeno bisogno di passare innanzi al portinaio: aveva un'entrata particolare dal giardino.

Due tappezzieri allestirono in pochi giorni il quartiere, ma il conte non prese alcun domestico. Si accordò col portinaio e la moglie di esso per la pulizia delle stanze e lì ricevette Cinzia quasi tutti i giorni.

Una mattina il conte stava per uscire dall'albergo dove si recava a dormire ogni notte perchè tutti ignorassero il suo ritiro segreto, quando si trovò a faccia a faccia con Fabio.

- Tu qui? - esclamò. - È successo qualche cosa a Bianca? -

Fabio aveva la fisionomia tranquilla.

- No, rassicuratevi; la contessa sta assai meglio; sono venuto a Torino per eseguire alcune sue commissioni; ma prima ho desiderato vedervi. -

Il conte guardò l'orologio: erano le nove; aveva mezz'ora a sua disposizione.

- Hai fatto benissimo! - rispose. - Vieni!

Il conte rientrò nell'albergo, e condotto Fabio nel proprio appartamento:

- Ebbene, che hai da dirmi? - gli chiese.

- Volevo soltanto avvertirvi che la contessa va migliorando ogni giorno; non vaneggia più, non mi respinge quando le parlo di voi, anzi sembra ascoltarmi con molto interesse. Però ho dovuto trasgredire al vostro ordine e dirle che sono veramente Fabio Ribera. -

Livio aggrottò le sopracciglia.

- È stata un'imprudenza!

- L'ho commessa nel vostro interesse, - rispose il giovane - perchè così ho potuto dimostrarle quanto s'ingannava sul vostro conto, parlandole di tutti i benefizi da voi ricevuti, giurandole che voi non prendeste alcuna parte nell'assassinio di Giulietta. Se ho fatto male, ve ne chiedo perdono! -

Il conte gli sorrise con bontà.

- Ti sono anzi grato della tua devozione. Ma che risponde Bianca sentendo perorare la mia causa?

- Rimane pensosa. Ieri disse queste parole:

«- Che io mi sia sempre ingannata sul conto di Livio? Che abbia avuto una benda sugli occhi? -

«Non aggiunse altro, ma ieri sera mi chiese dolcemente se sarei venuto a Torino ad acquistarle alcuni libri e dei pezzi di musica, che desiderava. Mi affrettai a rispondere che ero lieto di compiacerla.

«Io credo però che la contessa mi abbia inviato a Torino colla speranza che io vi veda e vi parli di lei; sarebbe dunque bene che ritornaste alla villa. -

Il conte lo fissava con grande attenzione.

- Dimmi la verità, Bianca stessa ti manda da me.

- No, ve lo giuro!

- Aspettiamo dunque che lei mandi a cercarmi! - esclamò sorridendo il conte, alzandosi. - Aspettiamo che la sua guarigione sia completa. In questo momento non potrei abbandonare Torino; ho qui affari che non ammettono dilazioni. Forse fra qualche settimana farò una scappata. Non parlare a Bianca di me; se t'interroga, dille che non mi hai veduto. -

Fabio pure si era alzato.

Capiva che Livio voleva sbarazzarsi di lui.

La pendola sonava le dieci: Livio sussultò.

- Ho un appuntamento; - disse - ti lascio; ci rivedremo alla villa.

- Scendo con voi. - Appena in istrada, il conte, senza neppure stendere la mano a Fabio per la fretta, salì in una carrozza che stazionava dinanzi all'albergo, gridando forte al cocchiere:

- Corso Grugliasco, e di corsa! -

Fabio tenne dietro cogli occhi alla vettura, e quando la vide sparire il suo volto divenne triste e cupo. Dove correva il conte? Aveva dunque delle tresche, dei raggiri?

Agitato, Fabio salì a sua volta in un fiacchere dando al vetturino l'indirizzo del cavaliere Umberto Trani.

Il magistrato lo ricevette subito e sussultò nel vederlo.

- Vengo da parte della contessa Bianca Rossano, che vi manda questa lettera, - disse Fabio.

Umberto fece un brusco movimento.

- La contessa Bianca? - ripetè. - L'avete veduta? Le avete parlato?

- Sono al suo servizio fino dalla mia uscita di prigione.

- Chi vi ha dato quel posto?

- Il conte Livio, facendomi passare presso la servitù e presso la contessa stessa per un antico suo cameriere di nome Martino. Ma voi sarete meglio informato dalla lettera. -

Il magistrato offrì una sedia a Fabio, e, sedutosi egli stesso allo scrittoio, lacerò la busta e lesse quanto Bianca gli scriveva.

«Finalmente! Dio ha compiuto il miracolo: Fabio ha confessato tutto, si pente del suo delitto, è divenuto nostro alleato, nostro amico, disposto a tutto per conoscere il segreto della sua nascita, i legami che l'uniscono al conte, ed aiutarci a vendicare tanti poveri innocenti.»

Il magistrato si fermò: i suoi occhi scintillavano di contento fissandosi sul volto di Fabio.

- È vero ciò che mi scrive la contessa? - chiese Umberto.

- È vero; - replicò Fabio senza sconcertarsi - solo vi aggiungo che alla buona signora si deve il miracolo; ella sola ha saputo mostrarmi il mio accecamento. Io sono stato molto colpevole, signore, e darei tutto il mio sangue per espiare.

- Ed io vi aiuterò nella vostra opera di espiazione, - rispose il magistrato.

E si rimise a leggere.

Bianca gli faceva il racconto di quanto era accaduto fra lei e Fabio.

- La nostra causa è vinta! - esclamò finalmente il Trani. - Ah! lo vedranno coloro che credevano di mettere anche me nel sacco!... Sapremo dimostrare chi è stato il solo colpevole! -

Nascose la lettera nel portafogli, si fregò le mani, poi disse al giovane:

- Adesso avvicinatevi e parliamo: le ricerche che volete fare per conoscere il legame che ha reso di voi, galantuomo, il complice di un gentiluomo altrettanto vile quanto miserabile, l'ho incominciate io stesso e con buon risultato. Ebbene, quello che la contessa Bianca suppone, è la verità: voi siete il secondo figlio della contessa Rossano. -

Fabio arrossì, poi tornò pallido: tutto il suo corpo tremava dalla commozione.

- Suo figlio? - ripetè, - E non mi ha dato il nome di mio padre?

- Ascoltatemi, Fabio, e non credete che io oltraggi la memoria della donna che fu vostra madre: tutto quanto vi dirò, posso provarvelo. Oh! questa minuziosa investigazione del passato di una morta mi è costata non pochi sforzi, ma ci sono riuscito. -

Infatti il magistrato narrò tutta la storia della contessa Stefana Rossano, del frutto del suo adulterio, delle dissolutezze di Livio, che fece poi vittima Giulietta, armando la mano di Fabio, e la povera contessa Bianca.

- Ora, - concluse - il conte è di nuovo incapriccito di Cinzia, e forse finirà col proporvi di sopprimere anche sua moglie. -

Un grido d'angoscia sfuggì dalla strozza di Fabio.

- Non temete per la contessa Bianca; - soggiunse il magistrato - il conte ormai è nelle nostre mani: Cinzia è nostra alleata. Colei detesta il conte, e ambisce a divenir moglie del marchese Passiflora. Ora non fa che tenere a bada Livio, ed attende un mio cenno per fargli confessare tutto, mentre voi, io ed altri due testimoni, nascosti in una stanza attigua, ascolteremo la sua confessione. Potete trattenervi a Torino? Io mi accorderò stasera con Cinzia, e domani notte potrete sentir confermare dalla bocca stessa di vostro fratello quanto già sapete.

- Ho promesso alla contessa Bianca di portarle stasera una vostra risposta, e non vorrei mancare.

- Ebbene, andate. Ma domani verso quest'ora tornate da me, vi darò le mie istruzioni; noi non faremo scandali, ma il conte merita di essere punito. -

IX.

Nell'assenza di Fabio, la contessa Bianca non si mosse dalla sua camera.

Erano circa le quattro del pomeriggio. La contessa, dopo aver desinato, sedette sul balcone, attendendo il ritorno di Fabio.

Ella provava in cuore una dolce commozione ed aveva il vago presentimento che quel giorno dovesse essere per lei notevole.

Mentre era così immersa nelle sue fantasticherie, fu sorpresa di sentire un arpeggio di chitarra, mentre una voce di bimba cantava la tenera e soave romanza:

«Rondinella pellegrina Che ti posi sul verone....»

Bianca provò una scossa indefinibile: ella chiamò Milia.

- Non senti quel canto di bambina? - le chiese la contessa.

- Sì, infatti.

- Sai chi è che canta?

- No, contessa, ma vado subito ad informarmi, se vi fa piacere.

- Sì, va', va'! -

Il dolce canto continuava; poi, ad un tratto, cessò. Alcuni minuti dopo Milia apparve con una bambina magra, vestita di nero, col capo coperto da un fazzoletto nero che gli scendeva sulla fronte e impediva di scorgere il colore dei capelli.

La bimba inoltrava quasi tremando.

- Contessa, - disse Milia con tono commosso - vi ho condotta la piccola cantante, certa che, se anche il conte ed il signor Martino lo sapessero, non mi sgriderebbero, come vorrete impetrare indulgenza per Pietro il giardiniere e sua moglie, che hanno commesso una mancanza.

- Quale mancanza? - chiese Bianca.

- È passata di qui una compagnia di sonatori girovaghi, dei quali fa parte questa bambina. Sono due donne ed un uomo: la più vecchia, quando è stata al cancello della villa, ha avuto uno svenimento. Il giardiniere e sua moglie, impietositi, li hanno ricettati nel padiglione del parco.

- Hanno fatto benissimo! - interruppe concitata Bianca. - Vai subito a portare a quella povera gente quanto può loro occorrere. Intanto la piccina mi terrà compagnia. -

Milia non vide alcun inconveniente nell'appagare il desiderio della contessa, e si affrettò ad allontanarsi, lieta di aver trovato anche per sè un passatempo, pur facendo una buona azione.

Durante il discorso delle due donne, la bambina era rimasta silenziosa, cogli occhi bassi, in mezzo alla stanza.

Appena uscita Milia, la contessa sedette su d'una poltrona, dicendo con dolcezza:

- Avvicinati, mia cara, non temere! -

Allora si vide una cosa inaudita. La bambina si tolse d'un lampo il fazzoletto che aveva in capo, lasciando sciogliere sulle spalle lunghi e folti ricci d'un biondo dorato.

Poi d'un salto fu al collo della contessa, baciandola convulsamente, balbettando fra lacrime e singhiozzi:

- Mammina.... la mia mammina.... finalmente.... finalmente.... t'ho ritrovata!... -

Fu un vero miracolo se Bianca non cadde svenuta. Senza una parola, strinse convulsamente fra le braccia Gina, la figlia della povera Giulietta, e per un istante fu un vero delirio.

- Sei tu, proprio tu, Gina mia? - balbettava la contessa.

- Io, mammina cara; se tu sapessi quanto abbiamo fatto per avvicinarti senza che ci scoprissero! Ma ti dirò tutto, sai! E non temere: ora sono grande e saprò non tradirmi per restare vicino a te.

- Cara, cara, tesoro adorato; ma aspetta un momento, chiuderemo l'uscio.

- Non importa, mammina! - osservò giudiziosamente la bimba. - Non bisogna destar sospetti a quella donna che ti serve; sta' tranquilla, per un pezzo non verrà; il babbo saprà trattenerla! -

La contessa sentì mancarsi il respiro: il suo cuore si mise a battere pazzamente.

- Il babbo è qui con te? - mormorò.

- Sì: povero babbo, ha sofferto tanto! Ma ci ha dato sempre speranza e coraggio. Egli ha pensato di trasformarci in sonatori ambulanti....

- Ma chi sono le due donne che avete insieme? - chiese palpitante la contessa.

- Una si chiama Ilda e mi tiene luogo della povera zia Severina, che è morta.... -

Gli occhi di Bianca si empirono di lacrime.

- Morta? Morta di dispiacere, non è vero? - mormorò, parlando più a sè stessa che a Gina.

- Sì, mammina, ma anche morendo pensava a me, a te, e scongiurava il babbo di ricondurmi nelle tue braccia, e perdonava a tutti.

- Povera e santa creatura! E suo marito?

- Ha lasciato Ivrea, non potendo più vedersi nel paese dove è morta la zia. Non sappiamo dove sia andato.

- E l'autore di tutte queste sventure dovrà restare impunito?

- Il babbo dice che bisogna aver fede nella giustizia divina. -

Quella semplice espressione di fiducia in Dio commosse profondamente Bianca.

Gina la guardava con un sorriso estatico.

- Mammina, se tu sapessi quanto ho pregato per te! Ed anche per il babbo, che non vedevo più.... Ma un giorno egli tornò. Era pallido pallido e tremava mentre mi stringeva fra le sue braccia. È tanto buono, il babbo, mammina! Oh, se tu potessi scendere un momento, vederlo, parlargli! -

Bianca si scosse e con subitanea commozione:

- Ebbene.... sì.... verrò.... lo debbo, lo voglio!...

- Oh! mammina cara, quanto sei buona! Non temere: quella donna che ti serve non saprà nulla. Guarda! -

Scivolò dalle ginocchia della contessa, riprese il suo fazzoletto e ne avvolse i dorati capelli.

Poi, sorridendo di un sorriso angelico, stese la mano a Bianca, dicendo:

- Volete venire, bella signora? -

La fisonomia della contessa si era mutata. Ella era divenuta seria ed i suoi occhi brillarono stranamente.

- Vengo! - rispose in tono risoluto, alzando il capo con fierezza. - Non sono io qui la padrona? Gina, cara bambina mia, conducimi da tuo padre. -

Gina l'afferrò per la mano.

In quel momento comparve Fabio. Egli era pallidissimo, ma calmo.

Guardò con sorpresa la bimba vestita a lutto, che alla sua vista si rifugiò fra le gonne della contessa.

- Ah! siete tornato a tempo, Martino! - disse Bianca senza scomporsi. - Vedete questa cara bambina? Essa fa parte di una compagnia di sonatori girovaghi che io ho permesso di ricoverare nel padiglione del parco. Ora, per aderire alle preghiere di questa bambina, stavo per scendere a visitare i suoi compagni.

- Volete che vi accompagni, contessa?

- Più tardi; prima ho bisogno di parlarvi. Va' tu sola, cara, - soggiunse volgendosi alla bambina - di' a tuo padre ed agli altri che tra poco sarò da loro, ed avverti la donna che mi serve che io sono qui col signor Martino e non ho bisogno per ora di lei.

- Sì, contessa! - balbettò la bimba. - Mi permettete di abbracciarvi?

- Con tutto il cuore! -

E mentre Gina si stringeva al collo di Bianca, le sussurrò all'orecchio:

- Quello è l'uomo cattivo che ti tiene chiusa qui, lontana da me?

- No, tesoro; - rispose la contessa - quello è un uomo buono, che farà del bene anche a te! -

E a voce alta:

- Dai un bacio anche al signor Martino! - soggiunse.

- Certamente, se lo vuole! - rispose pronta Gina.

- Oh! lo voglio sicuro! - esclamò Fabio, commosso da quella spontanea ingenuità.

E si chinò sorridendo, ricambiando il bacio purissimo. La fanciulla corse via tutta contenta.

- Sapete chi sia quella bimba? - disse la contessa posando la mano sulla spalla di Fabio, che tremò a quel contatto.

- No, - rispose con voce velata.

- Ve lo dirò io: è la figlia di Giulietta Lovera. -

Egli si rivolse alla contessa con un'espressione straziante.

- Mio Dio.... ne siete sicura? Ed avete voluto che baciasse me.... il miserabile che l'ha privata di sua madre?

- Io non vi considero un assassino, e sono sicura che anche la povera Giulietta vi ha perdonato. -

Fabio scoppiò in dirotto pianto.

- No.... non me lo merito.... Ah! potessi spargere tutto il mio sangue per farla rivivere! -

La contessa disse dolcemente:

- Giacchè non è possibile, pensiamo alla sua bambina.

- Oh! avete ragione.... sì, sì.... ditemi ciò che io posso fare per lei.... sono pronto a tutto.... a tutto....

- Sedete, Fabio, ed ascoltatemi bene. Ormai posso confidarmi a voi. La figlia di Giulietta non è qui a caso: essa è venuta in compagnia di altri sventurati che attendono, soffrendo, il giorno della giustizia. -

Fabio sussultò, spalancando gli occhi.

- Chi sono? - chiese a bassa voce, tremando, perchè temeva d'indovinare.

Bianca alzò la bella testa, che pareva cinta da un'aureola.

- Ancora non li ho veduti, nè ascoltati; - disse - ma li vedremo ed ascolteremo insieme, Oh! non temete, soggiunse dolcemente, vedendo Fabio impallidire - non voglio obbligarvi ad essere presente, nè pronunzierò il vostro nome! Col vostro permesso farò venir qui quella gente: voi entrerete nella mia camera lasciando la portiera abbassata, e di lì potrete ascoltar tutto. Sarà senza dubbio una confessione penosa per me e per voi.

- Non come quella che udrò domani sera, - interruppe Fabio.

- Domani sera? Dove?

- A Torino, in una casa dove mi condurrà il cavaliere Umberto Trani, del quale vi riporto la risposta alla vostra lettera.

- Siete dunque andato da lui? - domandò con ansia febbrile la contessa.

- Sì.

- Ma allora avete veduto mio marito, e siete persuaso adesso che non fu calunniato?

- Lo sono; ecco perchè fino da questo istante io mi dedicherò tutto a redimere il male da me fatto. Comandate: se volete far venire quelle persone, sono pronto a sonare il campanello per dare gli ordini necessari.

- Un momento: lasciate prima che io legga la lettera del cavalier Trani. -

Fabio la guardava mentre essa leggeva, e andava pensando come suo fratello fosse stato vile, miserabile, a sacrificare, per i suoi infami vizi, quella soave creatura, così squisitamente educata.

Per una completa evoluzione del suo spirito, Fabio provava ora per la contessa tanta stima e venerazione, quanto odio e disprezzo per il conte. Sentiva che, trovandosi di fronte a lui, avrebbe a mala pena contenuto la sua indignazione.

Bianca, finito di leggere, stese la lettera a Fabio.

- Ormai non esistono più segreti fra noi; - disse - leggete. -

Egli sentì gonfiarsi gli occhi di lacrime.

- Quanto siete buona! - mormorò. - Grazie! -

Furono interrotti dal passo pesante di Milia nella stanza vicina.

Fabio nascose la lettera in tasca, e mentre la vedova bussava all'uscio.

- Avanti! - disse a voce alta.

- Scusate se vi disturbo, - esclamò Milia entrando - ma non ho ben capito l'ordine di quella piccina, sembrandomi impossibile che la contessa non avesse bisogno di me!

- Stavo per chiamarvi adesso, - disse Bianca. - La piccina ha eseguito benissimo la mia commissione, perchè il signor Martino desiderava parlare a me sola. -

Milia si volse a Fabio.

- Avete fatto un buon viaggio, Martino? Avete veduto il conte?

- Sì. Mi ha detto che tornerà presto, e che intanto dobbiamo obbedire in tutto alla contessa.

- Oh! per me non chiedo di meglio. Sono tanto lieta di vederla migliorata!

- Ora, - interruppe Fabio - siccome la contessa desidera conoscere quei sonatori ambulanti ai quali ha fatto dar ricovero, andate a dir loro che li aspetta, e conduceteli in questo salotto. E non occorre che io e voi conosciamo le sventure di quei poveretti, dei quali la nostra padrona vuole occuparsi; per cui ci ritireremo entrambi, appena li avrete condotti qui. -

Milia si ritirò.

Fabio entrò nella camera della contessa, per consiglio della medesima.

Bianca chiuse la vetrata del balcone ed attese seduta su di una poltrona. Era pallidissima. Stava dunque per rivedere Aldo, lo sventurato che aveva tanto sofferto per cagion sua!

Gina entrò per la prima nel salotto e corse a lei per dirle:

- Mammina, coraggio, non tradirti! -

E ristette timida presso Bianca, mentre gli altri entravano a loro volta nel salotto, preceduti da Milia, che diceva:

- Eccoli, signora contessa! -

Bianca vide un uomo male in arnese, dai capelli lunghi e brizzolati, che teneva gli occhi bassi e rigirava fra le dita un largo cappello; una donna in sottana corta con un fazzoletto a colori avvolto intorno al capo, ed una vecchia che si reggeva su due bastoni e camminava curva, penosamente.

- Avanti, avanti! - disse la contessa con voce che si sforzava di rendere ferma. - Milia, avvicina delle sedie, poi vattene. -

Appena la donna fu uscita, Gina andò a chiudere l'uscio a chiave, mentre Aldo si affrettava a togliersi la parrucca, Ilda, il fazzoletto e la vecchia metteva in un angolo i bastoni, raddrizzava il corpo ancora robusto e andava a gettarsi ai piedi di Bianca, esclamando fra i singhiozzi:

- Oh! la mia padrona, la mia padrona!... Finalmente vi rivedo!

- Tu.... Celia.... tu?...

- Io, sì, che mi sono disperata tanto per cagion vostra! Ma ora è passato tutto, perchè vi ho ritrovata, sono vicina a voi, posso parlarvi, contemplarvi ancora!

- E noi, dunque? -

E la contessa si trovò ad un tratto circondata da quelle quattro persone che l'adoravano.

Dopo un lungo scambio di strette di mano, di frasi affettuose, la contessa volle che le raccontassero tutto ciò che era avvenuto dopo la loro separazione.

- Incomincerò io, - disse Celia che aveva ripreso tutto l'ardire di una volta. - Voi già forse sapete, contessa, come io sia stata condannata per aver detto la verità su vostro marito. La condanna fu lieve, ma ingiusta. Basta: uscita di prigione, vostro marito mi diede lo sfratto. Allora mi recai ad Ivrea, e fui accolta in casa Rivalta, dove rimasi poco, volendo ad ogni costo sapere la sorte vostra. Ma voi eravate partita, ed io tornai al mio paese. Il signor Pomigliano fu quello che mi venne più tardi in aiuto, - concluse Celia. - Ed ora spetta a voi, Aldo, a parlare. -

II giovane rimase concentrato alcuni minuti, poi disse con voce commossa:

- Non parlerò dei miei dolori, perchè è facile intuirli. Ma tutte le mie torture fisiche e morali furono nulla in confronto all'idea di lasciarvi nelle mani di un uomo che su voi avrebbe fatto pesare la sua tirannica volontà.

«Scontai l'ingiusta condanna, e sonata che fu l'ora della libertà, corsi in casa del Trani, dove trovai, colla più affettuosa accoglienza, Ilda, che tutti credevano rifugiata all'estero.

«Appena mi vide, ella si gettò ai miei piedi, chiedendomi perdono, dicendosi cagione delle mie sventure.

«Povera innocente, vittima al pari di me! La sollevai commosso, le dissi che il solo colpevole era il conte, che da lui solo erano venuti tutti i nostri dolori, le nostre vergogne, le nostre umiliazioni.... e che lui soltanto meritava di essere punito.

«Basta: fra me ed Ilda combinammo di ritrovare le vostre tracce.

«Ma una lettera di mio cognato mi chiamò ad Ivrea. Mia sorella, colpita al cuore dalla mia condanna, andava adagio adagio estinguendosi.

«Mio cognato l'aveva condotta per qualche tempo in Isvizzera con Gina; però la mia povera sorella non volle fermarsi ivi a lungo e tornò ad Ivrea.

«Ella aspettava il mio ritorno, e mio cognato sperava che la mia presenza contribuisse a renderle la salute.

«Severina morì invece sei mesi dopo nelle mie braccia, e con una mano stretta in quella del marito.

«L'ultimo suo pensiero fu per voi. -

Aldo tacque un istante perchè aveva delle lacrime nella voce. Bianca e gli altri pure piangevano.

- Mio cognato, - continuò Aldo - che in pochi mesi era divenuto tutto bianco, colla faccia rugosa, la schiena curva come un vecchio, presso al letto di morte di Severina voleva suicidarsi.

«Feci appena in tempo per strappargli l'arme dalle mani. Tuttavia egli partì dopo senza volermi dire dove si sarebbe recato.

«Mi ritrovai solo con Gina, che mi chiedeva insistentemente di voi.

«Allora sorse in me il progetto di ricercarvi, di avvicinarvi, in unione a tutti coloro che avrebbero voluto vendicarvi.

«Mi recai con la bimba a Torino, spiegai il mio progetto al Trani.

«Egli mi approvò.

«Scrissi a Celia, ebbi un colloquio con Ilda, e pochi giorni dopo potevo dire a Gina:

«- Non piangere: noi andremo in cerca della tua mammina. -

«Avevamo deliberato di formare una compagnia di sonatori ambulanti, di percorrere l'Italia per seguire le vostre tracce.

«Per mezzo del Trani, ci fu facile avere un passaporto in piena regola. Io passavo per il padre di Gina, orfana di madre, Ilda per mia sorella, Celia, una zia.

«Ora non sto a descrivervi tutte le peripezie del nostro viaggio: vi dirò solo che, arrivati a Messina, una lettera del cavaliere Trani ci avvertiva che il conte aveva acquistata questa villa, e che qui si era ritirato con voi. E si diceva che, guarita dalla pazzia cagionata dai dolori sofferti, vi eravate riconciliata col marito.

«Per quanto io soffrissi, era tale il desiderio di sacrificarmi per la vostra felicità, che vi perdonai di aver dimenticato le ingiustizie da me sopportate.

«Avremmo dato tutti la vita per risparmiarvi un nuovo rammarico.

«Però, se io perdonavo a voi, Ilda non perdonava all'uomo che le cagionò tanto male.

«- Voglio assicurarmi che la lettera dica il vero! - esclamò. - Io non credo al pentimento di costui: ho idea che quella riconciliazione debba servire al conte per giungere al possesso di tutte le ricchezze della moglie, e ottenuto il suo scopo: sopprimerla. -

«Allora scrivemmo al Trani per fargli parte dei nostri sospetti; egli ci rispose che ormai il conte era nelle sue mani, e ci pregava di tornare a Torino.

«È inutile vi racconti adesso il colloquio che ebbi col Trani: ne capirete più tardi il risultato.

«Egli però non sa che ci troviamo qui in questo momento, ma io non seppi resistere al desiderio di Gina, di Celia e di Ilda, che volevano ad ogni costo avvicinarvi, mentre io non osavo sperare tanta felicità.

«Adesso siamo in attesa dei vostri ordini.

- Un momento! - esclamò Ilda, che fino allora aveva taciuto. - Io debbo e voglio dire alla contessa quale sia il mio scopo nell'avvicinarmi a lei; ma prima, guardatemi bene, signora. -

Ella si era avvicinata a Bianca, che fissò con compassione quel volto un giorno affascinante, ora alterato dal dolore, quegli occhi sinistramente fiammeggianti, quella bocca livida.

- Il signor Aldo è un santo! - disse la giovane sedendo di fronte a Bianca. - Condannato ingiustamente, torturato, parla ancora di clemenza, di perdono. Io, no! Sarà una demenza la mia, ma non avrò pace finchè non schiaccerò sotto i miei piedi il miserabile, cagione di tante sventure! Mi ucciderò se non l'uccido, e sono donna da mantenere la mia parola!

«Ho troppo sofferto per cagion sua, ho veduto troppo soffrire gli altri, innocenti al pari di me!

«Ed è giusto questo?

«Io sono adesso come una belva che va attorno alla gabbia nell'attesa di sbranare chi l'ha ridotta all'impotenza.

«Egli deve venire qui, non è vero? Ed io qui resto.

«Scommetto che non sarà solo; egli avrà seco l'uomo che ha già spinto ad assassinare una innocente; colui è sua vittima!

«Fabio è uscito di prigione, ma nessuno sa dove si sia nascosto.

«Nessuno lo sa? M'inganno! Il conte deve saperlo ed io ho il presentimento che verrà qui con lui per compiere qualche altro mostruoso delitto.

«Ma non temete: ci sono io, io che strapperò finalmente la maschera all'infame Livio, che mostrerò a Fabio chi sia l'uomo al quale egli affidò un giorno la fidanzata.

«Io non ho paura nè dell'uno, nè dell'altro: forte della mia innocenza, saprò far giustizia e lasciare a Fabio, che dubitò di me, un eterno rimorso.

«Contessa, è vero che non ci allontanerete dalla villa?

- No! - disse pronta Bianca. - Rimarrete tutti presso di me. È qui un uomo che il conte mi ha posto al fianco per sorvegliarmi; ma costui ormai è divenuto lo schiavo di ogni mia volontà. Egli vi assegnerà un appartamento in questa casa, eseguirà gli ordini che io darò. Tornate nel padiglione; anzi, vi accompagnerò io stessa per non dare sospetto alla servitù; voi sola, Ilda, rimanete qui ad aspettarmi: ho bisogno di parlarvi in particolare. -

La contessa uscì, seguita da Gina, Celia ed Aldo.

Ilda non li seguì.

Essa si era abbandonata su di una poltrona e nascondendosi il volto fra le mani pianse silenziosamente.

Ad un tratto la giovane fremette.

Una voce dietro a lei, una voce piena di lacrime, diceva:

- Ilda, se vuoi uccidere anche questo sciagurato che osò dubitare di te, eccomi pronto: non mi difenderò! -

Fabio si gettò ai piedi della giovane.

- Indietro, assassino! - esclamò. - Io non ti credo più; se ti trovi in questo luogo, è per commettere un altro delitto.

- Io sono qui invece per salvarvi tutti e punire il nostro comune carnefice.

- Ipocrisia, menzogna! - gridò Ilda. - Vattene, vattene! -

Fabio si era alzato e la guardava con infinita tenerezza e pietà.

Ilda, che se lo vedeva sempre dinanzi, fu presa da un impeto di furore.

- Ma vattene dunque! Non capisci che la tua presenza mi è odiosa?

- No, fermatevi, Fabio! - disse dolcemente la contessa che rientrava in quell'istante. - Ho bisogno che voi siate presente al colloquio che avrò con Ilda. -

X.

- Non vuoi prendere la rivincita? - chiese il marchese Passiflora a Livio, che aveva gettate le carte e si alzava dalla tavola da giuoco, dove perdeva.

- No; - rispose il conte, fingendo di trattenere uno sbadiglio - sono stanco; me ne vado a letto. -

Passiflora si mise a ridere.

- Quando Cinzia tornerà dal suo breve viaggio, - soggiunse - sarà soddisfatta di sentire che durante la sua assenza i miei amici disertano le sale prima della mezzanotte. Ma spero sia questo il suo ultimo viaggio e che al suo ritorno possiamo incominciare le pubblicazioni per le nozze.

- Te l'auguro! - disse il conte porgendo la mano al marchese.

Una carrozza attendeva il conte alla porta.

Egli vi salì e si fece condurre verso il corso Grugliasco.

Già da tre giorni Cinzia aveva preso possesso del nido delizioso in cui prima non faceva che rare comparse. Ella si era fatta consegnare da Livio la chiave, dicendogli che là dentro voleva essere la sola padrona e non desiderava che egli ne profittasse per condurvi altre donne.

Inoltre aveva voluto che Livio si recasse da Passiflora onde non dargli alcun sospetto fino al giorno decisivo della loro rottura.

Il conte aveva ceduto a tutte le sue volontà, tanto più che non aveva il diritto di dubitare del suo amore, se la capricciosa rinunziava al marchese per lui.

Egli scese dinanzi alla porticina segreta e pulsò il campanello elettrico.

Un uomo che pareva un domestico comparve, facendo un inchino.

- È il signor conte! Avanti, avanti! -

Livio lo guardò con sorpresa: non aveva mai veduto quell'individuo.

Tuttavia lo seguì senza esitare.

Nell'anticamera il domestico gli tolse il soprabito, il cappello, il bastone, e stava per precederlo nel salotto, quando Cinzia apparve sorridente.

Salutò il conte, indi, rivolta al domestico:

- Puoi andartene; non abbiamo più bisogno di nulla. Vieni, amor mio! - disse al conte.

Livio seguì Cinzia, che lo condusse fino ad un padiglione di lillà, posto in un angolo del giardino.

Il padiglione era vivamente illuminato; nel mezzo era preparata una tavola per due, con piatti freddi, gelatine ed un numero abbastanza notevole di bottiglie in ghiaccio.

Cinzia rideva come una bambina.

- Sei contento della sorpresa? - disse. - Qui godremo di un fresco delizioso e di un profumo inebriante, mentre ceniamo: e saremo al tempo stesso nella più completa libertà, come isolati dal mondo intero.

- Sì, è bellissimo e ti ringrazio del tuo gentil pensiero! - esclamò Livio. - Ma dimmi, chi è quel domestico venuto ad aprirmi?

- È un cameriere della trattoria dove ho ordinato la cena: oggi ho avuto anche altri uomini in casa: tappezzieri, fiorai, perchè ho voluto cambiare le giardiniere e i mobili che non mi piacevano.... Mi sgriderai?

- Perchè dovrei sgridarti? Ti ho dato carta bianca! Ma siedi qui; non mi hai ancora dato un bacio.

- Aspetta; prima vado a vedere che non ci sia più alcuno. -

Fuggì, ma ritornò dopo brevi istanti e gli si gettò fra le braccia, esclamando:

- Siamo proprio soli.... soli.... Oh! che felicità!... -

Livio se la strinse al petto con passione, ma Cinzia si svincolò.

- Le sentimentalità a più tardi! - disse ridendo. - Prima ceniamo. -

Al conte pareva di non averla mai vista più desiderabile.

Sedette accanto a lei sopra un divano che la cortigiana aveva ivi fatto trasportare.

Cinzia mangiò con appetito, o mentre mangiava volle sapere da Livio che cosa gli avesse detto il marchese.

Livio le ripetè lo ultime frasi di lui.

Cinzia rise a crepapelle.

- Che imbecilli sono gli uomini! - esclamò.

- Anche per me dici questo?

- Perchè no? - rispose la cortigiana, alzando le spalle con aria di sfida. - Ne faccio giudice te stesso. Mentre sei in possesso di una moglie bella, adorabile, stai qui a spasimare per una donna, che non vale la punta del suo dito mignolo.

- Non dire così, nè mi parlare di mia moglie; voglio te, te sola! -

Ella divenne più audace.

- Sì, me l'hai già ripetuto, salvo poi, se io domani lascio definitivamente il marchese per te, ad abbandonarmi dopo una settimana in mezzo ad una strada.

- No, Cinzia, te lo giuro!

- I tuoi giuramenti valgono poco. Che garanzia ne ho io?

- Ma sarei qui, vicino a te, a supplicarti di essere mia, se non ti amassi? -

Il riso di Cinzia si fece insolente.

- Amarmi? - interruppe. - Questa parola in bocca tua è una bestemmia. Se la povera Giulietta Lovera non ti avesse prestato fede quando le giuravi altrettanto, tu, invece di farla sopprimere da quello stolido che credeva a tutte le tue menzogne, l'avresti adorata; se Bianca Moreno avesse riso alle fanfaluche che le raccontavi, sarebbe stata la moglie felice di un altro, e tu saresti con un impiccio di meno.

- Taci, Cinzia, taci! - mormorò il conte.

- No, voglio che tu capisca che a me non la darai ad intendere.

- Ebbene, ammetti pure che quello che provo per te non sia amore, ma un delirio dei sensi; - proruppe eccitato Livio, bevendo molto vino generoso, mentre toccava appena i cibi - ma è certo che ho bisogno assoluto di te, nè potrei adesso lasciarti. Con te sola posso sfogarmi liberamente, dire tutto quello che penso....

- Cioè, quello che ti torna più comodo dire, - interruppe Cinzia - e tenermi invece nascosti gli eventi più importanti della tua vita. Così mi confidasti di esserti sbarazzato di Giulietta Lovera per mezzo di Fabio, ma non mi dicesti il segreto che ti lega a costui, qualche grave motivo, nè mi raccontasti del famoso tranello che servì a perdere Aldo e la bella Cleo, mia rivale. E vuoi che creda di essere la tua prescelta? No! Più penso ai tuoi inganni, anche verso me, più mi cresce il desiderio di darti un addio per sempre e ritornare dal mio vecchio marchese, nel cui cuore leggo come in un libro aperto. E tu cercherai un'altra amante, chè delle donne non ne mancano, quando si ha le tasche piene, benchè quel denaro sia stato estorto in modo poco delicato a tua moglie.

- Ma taci dunque! - gridò Livio in un impeto di collera e di passione, rovesciandola sul divano. - Vuoi dunque farmi impazzire? -

La cortigiana disse con la più completa calma:

- E tu vuoi il mio amore, mentre mi tratti da villano? Vuoi forse strangolarmi come facesti con Ilda, per violarla? -

Il conte si raddrizzò con impeto.

- Violarla? - ripetè. - Chi ti ha dato ad intendere tali stupide fandonie? Sì, l'avrei fatto, perchè era in mia balìa, se nella stanza attigua non vi fosse stato Aldo e non avessi avuto timore di essere sorpreso. Vuoi saper tutto? Te lo dirò, ma devi giurarmi di non far più parola del marchese Passiflora e di lasciare Torino con me. Sì, sono ricco, tu l'hai detto, e con questo denaro potremo viaggiare, divertirci, godere ancora la vita!

- Non mi basta.

- Che vuoi ancora?

- Te lo dirò poi, quando avrai parlato. Ora confessati a me.... lo voglio.... te ne prego!

- Maliarda! -

Nel giardino il silenzio era perfetto.

Il conte colmò un bicchiere di vino, e dopo averlo vuotato:

- Ascoltami: - disse afferrando una mano di Cinzia - voglio contentarti, perchè tu sola mi sei stata fedele anche quando t'ingannavo, ed è forse per questo che torno con delirio a te, ora che non ho più altri che mi ami.

- Non hai fatto la pace con tua moglie?

- L'hai creduto? Ebbene, te lo giuro, Cinzia: dal giorno che Bianca trovò la tua lettera, prese a odiarmi, a disprezzarmi: nè le preghiere, nè le minacce poterono indurla ad amarmi ancora: sarebbe morta prima di cedermi.

«Eppure un giorno mi amò! Ricordo ancora le prime felicità della nostra unione.

«Ma non ne parliamo più: tutto è passato; fra me e Bianca vi è un muro di ghiaccio; se ella mi lascia amministrare il denaro ereditato, se vive in una completa solitudine, è perchè crede forse che l'uomo da lei amato sia morto.

«Ed io l'odio, quell'Aldo, e vorrei averlo non solo infamato, ma ucciso!

«Sì, io tesi quel tranello a lui e ad Ilda, ma ti giuro che in quella sera non ci pensavo.

«Mi ero recato a casa di Ilda, o della bella Cleo, come tu la chiami, assalito da un desiderio ardente di conoscere l'uomo che essa aveva preferito a me.

«Aldo Pomigliano mi venne indicato come l'amante della bella Cleo.

«Chi era costui? Dove prendeva il denaro per mantenere il lusso della giovane?

«Il marchese Passiflora s'incaricò di spiegarmelo. Egli mi disse che l'oro con cui Aldo pagava i capricci della cortigiana proveniva da mia moglie, di cui era l'amante.

«Nel primo impeto del furore volevo correre nella sala, schiaffeggiare il giovane, ucciderlo; ma riflettendo meglio, pensai che lo scandalo sarebbe ricaduto su me, e volli trovare un altro mezzo per vendicarmi.

«Ed il mezzo mi si offrì quella notte stessa. - Qui il conte raccontò a Cinzia la scena accaduta nella camera della bella Cleo.

- Tu fosti fortunato! - esclamò Cinzia quando egli le ebbe detto tutto, e come fosse fuggito dalla casa d'Ilda senza incontrare alcuno. - La fortuna è degli audaci! Ora incomincio a credere che tu sia l'uomo che mi convenga.

- Cinzia! - mormorò Livio appassionatamente, cercando attirarla a sè.

- Un momento! - diss'ella svincolandosi. - Ancora non mi hai detto tutto. Chi è dunque Fabio, il complice, che fai agire a tuo talento, che preferisce disonorarsi al disonorarti?

- Vuoi saperlo? Quell'uomo che ha fede in me come in Dio, è mio fratello. Siamo figli della stessa madre, ma egli è nato per essere il mio schiavo, io il padrone: la nostra sorte non sarà mai uguale: io potrei ucciderlo, egli mi adorerà fino alla morte.

- Fabio sa di questo legame che esiste fra voi?

- Sarei stato uno stupido se glielo avessi rivelato! Egli porta il nome di due vecchi servi di mia madre, che salvarono in tal modo l'onore della loro padrona. Fabio ignorerà sempre la verità, mi adora come suo benefattore, non ha altra volontà che la mia. -

Cinzia gli disse lentamente:

- Così, se tu dovessi sopprimere tua moglie, ti serviresti ancora di lui? -

Il conte balbettò:

- Sopprimere mia moglie? A che scopo? -

Cinzia si mise a ridere.

- E me lo domandi, mentre pretendi di amarmi? Se vuoi che io abbandoni Passiflora, ricominci la vita con te, devi cercare il mezzo di sopprimere tua moglie; così, liberi entrambi, ricominceremo la vita in due, non pensando più che ad adorarci. Vuoi? -

Si era chinata verso lui, avvolgendolo del suo profumo.

Livio fu inebriato.

- Sì, - rispose - fa' conto che Bianca sia già morta. Ma questa volta Fabio sarà uno strumento incosciente: egli le verserà la morte in qualche bevanda, dove vi sarà della polvere che io gli consegnerò come un medicinale per guarirla. Sei contenta così?

- Sei proprio l'uomo che io ho sempre sognato, l'unico che io possa amare! - esclamò Cinzia. - Vieni, rientriamo in casa. -

Essi erano spariti, lasciando accesi i lumi nel padiglione.

Allora sorsero, come dalla terra, cinque uomini vestiti di nero.

Uno di essi disse:

- Non una parola, finchè non ci troveremo a casa mia: andiamo, è tempo. -

Si diresse verso la porticina segreta; gli altri lo seguirono in silenzio.

L'uomo che aveva parlato era Umberto Trani.

XI.

Bianca ricominciava a godere della più pura felicità. Era circondata da persone fedeli, che tutto mettevano in opera perchè dimenticasse i suoi dolori.

Aveva tanto bisogno di essere consolata. I sonatori ambulanti vennero alloggiati nella villa, e Fabio diede ordine che si avesse per essi ogni riguardo.

Milia si avvide con sorpresa che il servo Martino si era molto interessato di quei girovaghi, ed aveva permesso che la piccola Gina dormisse nella stanza stessa della contessa.

Ciò era molto strano. Ed il conte non compariva. Che voleva dir ciò?

Fabio si era di nuovo assentato, ed al suo ritorno, dopo un lungo e segreto colloquio con la contessa, aveva licenziato alcuni domestici, mettendo ai loro posti Aldo e le sue compagne.

Milia incominciava ad avere qualche sospetto.

Di mano in mano che Bianca ricuperava le forze e la salute, le sue passeggiate nel parco si allungavano sempre più e si faceva spesso accompagnare dalle nuove cameriere, dal nuovo domestico.

Ciò inasprì Milia, quantunque la contessa le avesse detto con molta dolcezza:

- Tu non devi stancarti. Io sto benissimo, non ho più bisogno d'appoggio e sono sorvegliata lo stesso. La piccina mi tiene per mano e mi aiuta a cogliere i fiori: non desidero altro.

- Ma io vorrei sapere se il conte è poi proprio contento che vi teniate attorno della gente, che egli non conosce! - rispose Milia.

La contessa aggrottò lo sopracciglia.

- Qui adesso la padrona sono io: - soggiunse - quando tornerà mio marito, agirà come egli crede. E tu sei abbastanza saggia ed onesta per comprendermi. -

Milia però non era persuasa e si ripromise di sorvegliare, intuendo che tutti quei cambiamenti di persone nascondevano qualche segreto che il conte ignorava.

Una sera che la contessa, rientrata in camera con la piccina, aveva fatto chiamare Aldo, che aveva assunto il nomignolo di Cantor, appunto perchè cantava sempre qualche romanza accompagnandosi con la chitarra, Milia vide scendere furtivamente nel parco Martino con la più giovane della compagnia, la Moretta, come la chiamavano.

La vedova intuì un intrigo amoroso.

- Se scopro qualche cosa, questa volta ne avverto il conte, dovessi recarmi a Torino! - pensò. - Tutti questi pasticci mi sanno di marcio; sono certa che il padrone ignora tutto e Martino gli ruba il salario. -

Si era tolta le scarpe, e seguì guardinga la coppia che non s'era accorta di lei.

Fabio camminava accanto ad Ilda, senza parlare.

La coppia camminò ancora un pezzo, quindi sedette sopra un sedile all'ombra di alcune piante.

Milia, strisciando leggermente, giunse a poca distanza da loro e tese avidamente gli orecchi.

- Ilda, - disse dolcemente Fabio con una voce che la vedova non avrebbe riconosciuta se non avesse saputo da chi veniva - ho voluto parlarti ancora prima di partire.

- Il conte ti ha proprio chiamato?

- Sì, egli mi dice che non può in questo momento lasciar Torino ed ha urgente necessità di vedermi: puoi immaginarti ciò che vuole da me.

- Dunque, non è sazio d'infamie, non ha pietà di una povera martire che chiede solo di essere lasciata tranquilla? Non gli basta il denaro di lei: ne vuole la vita! Nè il suo cuore si è mosso un solo istante a pietà per te, e cerca ora di nuovo la tua mano per versare la morte alla sua vittima? E tu puoi ancora resistere di fronte a lui?

- È necessario, Ilda, se vogliamo salvare la contessa, - disse lentamente Fabio. - Non temere: questa volta lui cadrà in trappola, ed io, suo fratello, sarò il suo giudice! Ilda, ho voluto vederti, perchè tu sei forte, e nessuno più di te può vegliare perchè alla povera donna nulla trapeli di quanto si trama attorno a lei. Le ho taciuta l'ultima parte della confessione del conte per timore di colpirla mortalmente: l'ho detto a te, perchè conosco la tua energia e so che non mi tradirai. E poi, adesso che tu mi hai perdonato, sento in me un coraggio che non ebbi mai, affronterò tutto. -

La voce di Ilda si fece commossa.

- Fui violenta e dura con te. - esclamò - ma avevo sofferto tanto!

- Oh! mia Ilda!... -

Stettero un momento silenziosi, tenendosi per mano.

- Fabio, - disse ad un tratto Ilda - io vorrei chiederti un'altra cosa.

- Parla, mia cara!

- Dobbiamo fidarci di Milia, quella vedova che il conte ha messo al fianco della moglie? Ho sorpreso certi suoi sguardi che mi hanno dato da pensare. Ella sospetta di noi.

- Milia - rispose gravemente Fabio - è una buona creatura, che serba riconoscenza al conte per averla salvata dalla miseria e non immagina certo di servire essa pure d'istrumento cieco ai voleri di un briccone. Essa può diventare pericolosa per noi non essendo a parte della verità. Per cui fa duopo allontanarla.

- No, non mi allontanate, non mi allontanate; io sarò dei vostri, se è vero che il conte è un uomo cattivo! - esclamò Milia, non potendo contenersi, sorgendo ad un tratto dinanzi alla coppia sbalordita.

- Sciagurata! Avevamo dunque ragione di dubitare di voi! - proruppe Fabio alzandosi con impeto. - Dove vi eravate nascosta? Che avete sentito?

- Tutto.... - balbettò la vedova con voce appena intelligibile - ma ve lo giuro.... è stato a fin di bene....

- Non vi crediamo, - interruppe Ilda - perchè, se così fosse, avreste interrogato lealmente il mio compagno o la contessa.... No, non possiamo fidarci di voi! -

Milia ebbe una scossa nervosa.

- Se io fossi una donna disonesta, se io volessi tradirvi, - disse - non vi chiederei di rimanere qui: mi sarei recata a Torino per avvertire il conte del tradimento che si prepara per lui. -

Fabio ed Ilda si consultarono con un rapido sguardo, poi la giovane disse:

- Ebbene, vogliamo prestarvi fede, ma se vorreste tradirci, non vi mancherebbe la punizione.

- Sono sicura che non me la meriterò mai.

- Ecco allora ciò che esigo da voi: - disse Fabio - fingerete colla contessa d'ignorare che essa corre un pericolo. Durante la mia assenza fate in modo che nessun estraneo l'avvicini ed entri nella villa. Se io tornassi in compagnia del conte, non parlate delle persone che ho accolte.

- Il conte non verrà che quando sarà finito tutto, - interruppe Ilda - cioè, quando l'avvertiremo che la contessa non è più. -

Milia soffocò un grido.

- Mio Dio, credete proprio che il conte voglia farla sopprimere?

- Sì; - rispose Fabio - ma Dio vuole altresì che la buona signora abbia intorno cuori devoti, persone che sapranno dare la propria vita per salvare la sua....

- Io per la prima, - esclamò con slancio sincero Milia - verserei a goccia a goccia tutto il mio sangue per lei!

- Vi credo. - disse Ilda stendendole la mano.

Ritornarono in casa.

La mattina seguente la posta recava una lettera di Livio alla contessa.

Il conte le scriveva:

«Mia adorata Bianca, «Dal mio e tuo fidato servo Martino ho saputo che tu vai migliorando, e puoi figurarti se ciò mi rallegra, mi fa benedire di essermi allontanato per qualche tempo da te: così al mio ritorno ritroverò la mia Bianca di una volta e ricominceremo insieme una vita nuova. «Però io rimango ancora per qualche settimana assente, farò un piccolo viaggio; ma siccome voglio mostrarti che non ti dimentico ti manderò per Fabio una cassettina, in cui troverai diversi oggetti per te, che potranno ricrearti nella tua solitudine e farti ricordare chi ti adora sempre. «Tuo aff.mo marito Livio.»

Fabio, partito la mattina, tornò infatti la sera portando la cassettina datagli dal conte per la moglie.

Quella cassettina conteneva gingilli giapponesi, scatole d'argento piene di confetti, boccettine di profumo ed una fiala di vetro azzurro, su cui ora stampato: «Elixir miracoloso di lunga vita per ridonare le forze, ringiovanire la mente, eccitare l'appetito.»

- Il conte mi ha raccomandato questo elixir, - disse Fabio a Bianca. - Egli mi ha detto di versarne alcune gocce ogni sera nella limonata che prendete prima di andare a letto, ed ha aggiunto che in pochi giorni sarete guarita. -

Un tremito assalì Bianca: un presentimento le attraversò lo spirito.

- Questa fiala contiene del veleno! - esclamò.

Fabio rimase calmo.

- Io non lo so, contessa: - rispose - vi ripeto le parole e l'ordine datomi da vostro marito. Ma dal canto mio vi dico: conservate questa fiala, nascondetela fino al momento in cui vi dirò di adoperarla: tenendola nascosta, vedrete che compirà il miracolo di prolungare a voi la vita ed accorciarla a chi ve l'ha mandata. E giacchè siamo qui uniti, aggiungo: l'ora della giustizia è sonata! -

PARTE QUINTA Il castigo del colpevole.
I.

Erano le due di notte.

Il conte Livio Rossano usciva dalla casa di Passiflora, dove aveva vuotato il suo portafogli, perchè la sorte gli era stata sfavorevole.

Egli era di cattivissimo umore, mentre tornava a piedi all'albergo.

Cinzia, dopo avere stretto un patto segreto con lui, era partita da Torino, ingiungendogli di rimaner lì per non dare sospetti, fino a che l'ostacolo che impediva la loro unione fosse stato tolto di mezzo per sempre. La cortigiana gli aveva bensì promesso di scrivergli, ma ancora non si era fatta viva, nè da Fabio aveva avuto alcuna nuova sul risultato del miracoloso elixir, che doveva compiere la guarigione della contessa.

Ciò lo rendeva nervosissimo, inquieto.

Quella notte il cielo era oscuro, piovigginoso: nelle strade buie, deserte, tutto ora triste, silenzioso.

Livio era giunto all'angolo di una strada deserta, allorchè un uomo di alta statura gli si fece dinanzi, balbettando con voce commossa:

- Ho bisogno di parlarvi, signor conte! -

Livio fece istintivamente un passo indietro.

- Parlarmi a quest'ora? - esclamò. - Che cosa volete? Io non vi conosco.

- Mi farò conoscere, conte. - interruppe l'altro togliendosi il cappello e mostrando un volto pallido, patito, con grand'occhi luccicanti, coronato da capelli bianchi come la neve. - Guardatemi bene. Io sono un uomo onesto, non vi ho mai fatto del male, ma voi mi condannaste ad una vita d'inferno, non pensando che io potessi un momento o l'altro cogliervi a vostra volta. -

Livio l'osservava con stupore, non conoscendo affatto quei lineamenti.

- Io credo, signore, - gli disse - che i fumi del vino vi abbiano dato al cervello, perchè più vi guardo, meno mi ricordo di avervi già veduto.

- Il mio volto non vi è certo familiare, ma io non sono ubriaco nè pazzo, conte; se non mi conoscete di figura, mi conoscete di nome: sono Guglielmo Rivalta, il cognato di Aldo Pomigliano.

- Ah! - esclamò il conte, lieto di trovare qualcuno su cui sfogare i suoi nervi. - Capisco! Siete il galantuomo che aiutava lo studente galante a mangiare i denari di mia moglie.

- Vile, miserabile! - urlò Guglielmo facendo l'atto di gettarsi su lui.

Ma il conte aveva fatto un salto indietro, e con un rapido mulinello, girando il bastoncino, ne lasciò cadere il pomo di piombo sul capo scoperto dello sventurato che cadde di peso al suolo.

Livio non stette ad osservare se fosse ferito o morto: nessuno aveva assistito a quella rapida scena, onde si allontanò lestamente, fischiando un'aria di operetta.

L'avventura gli aveva calmato i nervi.

Intanto Guglielmo, che per il colpo perdeva sangue dal capo, sotto la pioggia incominciava a rinvenire, quando sentì alcune voci che dicevano:

- È ubriaco!

- No, è ferito!

- Bisogna trasportarlo all'ospedale!

- Aspettate che cerchi alla meglio di fermargli il sangue! -

Sotto la pressione della mano che gli fasciava il capo con un fazzoletto, Guglielmo si riebbe e disse:

- Non è nulla, credo di potere alzarmi e andare a casa. -

Gli uomini che si erano presi cura di lui, erano dei bravi operai, che a quell'ora già si recavano al lavoro.

Essi si mostrarono lieti, sentendo che il ferito parlava.

- Aspettate, signore, vi sosterremo e vi accompagneremo fino a casa.

- Vi ringrazio, vi ringrazio mille volte! - disse Guglielmo. - Ma posso andar solo. Ho avuto uno svenimento, e nel cadere mi sono ferito. Ma ora sto bene. -

E salutati gli operai si allontanò.

Guglielmo Rivalta aveva preso alloggio nella casa stessa dove era stata assassinata la povera Giulietta, e non avrebbe neppure egli saputo dire il perchè. Nel casamento avevano dimenticato il dramma accaduto. La soffitta abitata un giorno da Giulietta, quindi da Ilda, era stata presa in affitto da un venditore ambulante che vi depositava la sua merce.

Guglielmo Rivalta aveva affittato una camera all'ultimo piano, qualificandosi sensale. Appena si trovò nella sua cameretta, Guglielmo si sfasciò la testa: il sangue non colava più. Egli empì una catinella d'acqua, si lavò, poi, fasciatosi di nuovo, si stese vestito sul letto, a meditare.

Egli era sparito da Ivrea senza lasciar detto dove si recasse, perchè nessuno potesse dubitare dell'idea che si era messa in mente.

Guglielmo voleva provocare il conte, costringerlo a battersi con lui, ucciderlo per vendicare tutte le vittime del miserabile e soprattutto il suo povero cognato, la sua adorata Severina e sè stesso.

Il signor Rivalta era un valentissimo schermitore, per cui era sicuro del fatto suo, nè gli sorgeva neppure il pensiero che in un duello potesse esser vinto.

Aveva cercato a lungo il conte e l'aveva ritrovato per esserne quasi aggredito in quel modo!

Guglielmo digrignò i denti, si morse le dita. Il suo odio contro Livio si esasperava.

Vendicarsi, vendicare Severina, Aldo e tutti gl'innocenti! Ciò diventava un vero fanatismo nella mente di Guglielmo.

Il giorno dopo uscì di casa e si diresse senz'altro verso l'albergo, dove sapeva che il conte alloggiava, per averlo già pedinato.

- Si potrebbe parlare col conte Livio Rossano? - chiese gentilmente Guglielmo al segretario dell'albergo.

- Il conte è partito per la sua villa di Moncalieri, - rispose. - Ha ricevuto un telegramma che lo chiamava colà: sembra che la contessa si sia improvvisamente aggravata. -

Guglielmo si sentì venir freddo.

- Stava male, la contessa?

- Oh! da molto tempo non si muove più dalla villa: il conte non teneva neppur più casa a Torino; venendo qui per i suoi interessi, si tratteneva nel nostro albergo.

- Lo so, e mi dispiace della nuova che mi dà; gli scriverò. -

Allontanandosi, agitava nella sua mente terribili idee.

- Anche lei, anche lei!... Ah! questo pone il colmo a tutte le sue iniquità. Ma sarà l'ultima, lo giuro! -

Guglielmo salì in tranvai per recarsi a casa. Si mise nelle tasche della giacca una rivoltella carica a sei colpi, un paio di fazzoletti, il portafogli.

Guglielmo non sapeva dove si trovasse la villa del conte, ma era sicuro che, giunto a Moncalieri, tutti gliel'avrebbero indicata.

Era di domenica. Il signor Rivalta prese il tranvai che partiva almeno un'ora prima del treno, e arrivato a destinazione si fece indicare da un trattore la villa del conte. Era distante: un'ora di cammino; ma Guglielmo non si sgomentò.

Giunto nei pressi della villa, si fermò e sedette.

Come entrare là dentro?

- Che stupido! - disse a un tratto. - Se la contessa è aggravata andrà bene il medico a curarla, le si chiamerà anche il prete. Ebbene, per mezzo di questi, io entrerò nella villa. -

E soddisfatto della sua idea, si rialzò e camminò gesticolando, minacciando un fantasma invisibile.

II.

Cinzia non aveva lasciato Torino, ma compiuta la sua parte con Livio si era rifugiata di nuovo in casa del marchese Passiflora.

Fu però assai sorpresa di non trovare nel gentiluomo quell'accoglienza che si aspettava per essere riuscita a smascherare il conte in faccia a coloro che lo volevano nelle mani.

- Non sei contento di me? - gli chiese con audacia. - Bada che io ritorno da Livio e non gli nascondo che la mia è stata solo una commedia per perderlo.

- Tu non andrai, - disse freddamente il marchese - se hai cara la tua vita: intanto non uscirai dalla tua camera, perchè se tu lo tentassi ti ucciderei! -

Cinzia si morse a sangue le labbra.

- A che giuoco giochiamo, vecchio mio? - esclamò. - Non sei tu forse che per il primo mi hai spinta a vendermi ai nemici del conte, non sei tu che mi hai allettata dicendomi che, compiuta un'impresa che avrebbe liberata la società di un birbante, mi avresti dato il tuo nome?

- È verissimo.

- E allora, perchè adesso sembri minacciarmi, invece di stendermi le braccia come meritavo?

- Il perchè lo saprai tra qualche giorno. Adesso, ti ripeto, sei mia prigioniera. Tu hai detto al conte che partivi per un viaggio, e deve crederlo.

- E se io non accettassi la tua condizione?

- Non discutiamo. Se tu tentassi di uscire dalla tua camera, ti farei saltare le cervella, salvo poi a fare altrettanto con le mie. Guarda! -

Le mostrò una rivoltella che teneva in tasca, ed aggiunse in tono più mite:

- Del resto, non è che una prigionia di pochi giorni, non ti mancherà nulla e ti servirò io stesso da carceriere. -

Cinzia non replicò, ma provava una rabbia profonda, mista ad un'angoscia orribile per qualche cosa d'impreveduto, che non poteva definire.

- È questa dunque la ricompensa per averti servito con tanto zelo? Senza di me, non avresti mai avuto il conte nelle mani.

- Questo è vero, - rispose con calma il marchese. - E senza di lui non t'avrei così bene conosciuta come ora ti conosco. -

Cinzia fu chiusa nella sua camera, ed il marchese, acceso un sigaro, si ritirò nel suo salotto, dove si mise a fumare nervosamente, camminando in su e in giù, gesticolando.

Il marchese Passiflora, come sappiamo, aveva commesso un giorno una viltà, facendo ritirare dalla posta lettere dirette alla contessa, lettere che la condannavano, benchè pura ed innocente, scoprendo al conte il legame fra Aldo e la contessa.

Inoltre Passiflora, trovatosi solo, senza affetti, si ora dedicato a Cinzia, che gli pareva creatura fatta proprio per lui.

Col proporle di vivere insieme, il marchese aveva avuto lo scopo di conoscerla meglio, e la maliarda aveva saputo agire in modo, che egli si era innamorato di lei fino a sentire il bisogno di darle il suo nome, onde rialzarla ai propri occhi ed a quelli degli altri.

E quando il Trani, rimasto suo amico, gli propose di servirsi di Cinzia per indurre il conte a confessione, il marchese dapprima rifiutò. Non era bastato a Livio di togliergli Bianca, e gli toglierebbe ora anche la sola compagna che gli abbisognava?

Ed in uno sfogo di passione, di gelosia, disse al magistrato:

- Cedergli Cinzia? Mai, mai! -

Il Trani guardò l'amico con commiserazione, gli prese una mano, che tenne stretta nella sua.

- Tu commettesti un giorno un'azione indegna dl te, - disse - ma puoi ancora ripararla, perchè in fondo sei un gentiluomo onesto, nè vorrai macchiare il tuo onore per una donna indegna di te.

- Tu calunni Cinzia! - gridò il marchese.

- Ti proverò che ella si ride di te, che se l'intende di nuovo con Livio, - disse il Trani.

Un fiotto di sangue salì al cervello di Passiflora, gli imporporò il viso.

- È falso...., è falso!...

- È la verità, e, per quanto possa offenderti, non voglio nascondertela. Tu credevi di prendere una rivincita sul conte, prendendogli la donna che fu sua amante. Orbene, il domani stesso, i due si ritrovarono insieme. Nel rivedersi, sentirono risvegliarsi con nuova forza gli istinti bestiali di una volta; ma siccome Cinzia teme di perderti, finge un profondo disprezzo pel conte. -

Passiflora strinse i pugni.

- Se ne fossi certo! - esclamò.

- Che faresti? Vorresti imbrattare la tua mano di gentiluomo per un sgualdrina? Lascia quella parte al conte, che oramai ha perduto ogni senso di onore, e se ti resta ancora un atomo di affetto per la sventurata contessa che tu stesso contribuisti a calunniare, aiutaci a salvarla, a toglierla dalle mani del suo carnefice. -

Non invano il magistrato aveva fatto appello all'onore del marchese. Tutti gli istinti cavallereschi si risollevarono ad un tratto in lui, lo fecero ridiventare padrone di sè stesso.

Egli stese la mano ad Umberto.

- Ebbene, sarò con te: spiegami quale sia il tuo progetto! -

Umberto glielo disse. Passiflora ascoltò dapprima attentamente, poi ad un tratto interruppe:

- Ma se tu affermi che Cinzia è d'accordo con Livio, non accetterà di tradirlo.

- Lo farà; tu non conosci ancora bene quella donna: ella è venale e non vuol perderti. Tutti i giorni non le si offre l'occasione di divenire marchesa autentica. Io le farò la proposta, e vedrai che l'accoglierà con entusiasmo. Intanto domani la farò chiamare nel mio gabinetto, fingendo di volerle parlare da sola; tu sarai ad ascoltare.

- Accetto, accetto e ti ringrazio! -

Passiflora rimase così persuaso della perfidia e leggerezza di Cinzia.

Quando il magistrato le propose di sedurre novamente il conte per fargli confessare i suoi delitti, Cinzia simulò scrupoli di delicatezza, disse che non si sarebbe mai prestata a simile commedia.

Ma quando Umberto le dimostrò che egli non ignorava i misteriosi convegni di lei col conte nel nido del corso Grugliasco, Cinzia, spaventata, non potendo negare, balbettò con accento soffocato:

- È vero, non ho saputo sottrarmi al fascino che mi attira verso Livio; ma, per pietà, non mi perdete con Passiflora: che egli nulla venga a sapere, ed io vi servirò in tutto quello che volete!

- Il marchese stesso desidera di smascherare il conte, e dietro mia preghiera acconsente che voi l'attiriate nel tranello che io ho ideato: dalla mia bocca Passiflora non saprà nulla; ma guai a voi se ci tradirete col conte! -

Cinzia aveva ripresa la sua audacia.

- Potete fidarvi di me: ambisco troppo a divenire una marchesa autentica. -

Passiflora ebbe il coraggio di non muoversi, di non tradire la sua presenza con un solo movimento; ma appena Cinzia fu partita, si slanciò presso l'amico esclamando:

- Tu avevi ragione, io tenevo una benda sugli occhi per quella sgualdrina; ma ora è caduta e non macchierò il mio stemma per una tale femmina, come pure desidero rialzarmi agli occhi della contessa per ottenere un giorno il suo perdono. -

Il marchese sentiva ormai troppa vergogna per quello che aveva fatto, ed avrebbe dato metà del suo sangue per rimediarvi.

Cinzia non sapeva che la notte della confessione di Livio, anche Passiflora era fra coloro che ascoltavano. Il Trani l'aveva introdotto nella villa sotto un travestimento facendolo passare per un suo fidato agente, ed il marchese si era allontanato dopo gli altri, in preda ad un disgusto orribile per quella coppia colpevole, assalito da uno spasimo angoscioso nel sentire con quanta freddezza il conte accettava di sbarazzarsi della moglie.

Allorchè Cinzia era ritornata a lui, fingendo con Livio di partire finchè tutto fosse finito, il marchese, ritenendo pericoloso che il conte sospettasse la presenza della cortigiana nella sua casa, e soprattutto perchè nessun ostacolo sorgesse ad impedire quanto il Trani aveva combinato, pensò di tenervela rinchiusa.

Cinzia, prigioniera da due giorni, incominciava a trovare la cosa singolare, e si pentiva di aver preferito il marchese al conte, dal momento che questi, una volta libero di sua moglie, si dava completamente in sua balia.

Dopo una settimana passata in alternative di speranze e timori, Cinzia non ne potè più.

Ella voleva ad ogni costo uscire dalla sua reclusione.

Picchiò, risoluta, all'uscio, decisa a farne saltare in aria la serratura od a chiedere aiuto dalla finestra se il marchese non compariva.

Ma al primo clamore Passiflora accorse.

- Che c'è? - chiese, - Che vuol dire un tal chiasso?

- Vuol dire che sono stanca di rimanere qui! - esclamò Cinzia con accento rabbioso.

- Se tu avessi avuto pazienza, questa sera stessa ti avrei liberata, - risposo Passiflora. - Ma non importa: sarà forse meglio anticipare, perchè è giunto il momento di una spiegazione importante fra noi. -

Cinzia ristette indecisa, turbata, e senza rispondere si mise a sedere.

Passiflora fece altrettanto e, senza alcun preambolo:

- Sai dove si trova in questo momento il tuo amante? - chiese.

Cinzia sussultò.

- Il mio amante? - ripetè. - Vuoi forse parlare del conte? Vuoi prenderti giuoco di me? Sai bene che mi sono sacrificata a ritornare con lui per alcuni giorni onde compiacere te ed il tuo amico Trani. -

Passiflora lasciò sfuggire una lugubre risata.

- Ed i tuoi ritrovi anteriori erano pure fatti per compiacermi? -

Cinzia si morse le labbra, ma non chinò per questo gli occhi.

- Il tuo amico mi ha calunniata!

- Lui? Egli non ha aperto bocca sul conto tuo: tu stessa ne parlasti trovandoti nel suo gabinetto, senza pensare che altri poteva ascoltarti.

- Ebbene, se fosse vero? Forse che non vi ho dato il conte nelle mani, non vi ho serviti lealmente, mentre potevo tradirvi ed essere a quest'ora molto lungi di qui con lui?...

- Ne convengo: tu hai mantenuto i tuoi patti e meriti una ricompensa. Per cui, invece di consegnarti alle guardie come complice del conte, ti condurrò io stesso fino a Genova, ti metterò a bordo di un bastimento che ti condurrà lontana dall'Italia....

- Siete pazzo! - interruppe Cinzia. - Non partirò!

- Preferisci dunque la prigione alla libertà? Perchè, se tu rimani, sarai denunziata per aver preso parte all'assassinio di Giulietta Lovera, conoscendo fino da allora quello ed altri intrighi orditi dal conte, e di avere ultimamente istigato il conte a sbarazzarsi di sua moglie.

- Non è vero! - gridò Cinzia.

- Cinque testimoni, persone onorate, attesteranno come tu sola abbia spinto il conte Rossano a sbarazzarsi con un delitto di sua moglie. -

Cinzia, còlta al laccio, gettò un grido di rabbia e disse:

- Siete una massa di vigliacchi! -

Il marchese, livido, trasse di tasca la rivoltella.

Allora la sciagurata si vide perduta, e folle di terrore si gettò ai piedi del marchese.

- Perdonami!... Perdonami!... Non mi uccidere!... Partirò. Farò quello che vorrai! -

Gli occhi del marchese brillarono di una gioia sinistra.

Nascose lentamente la rivoltella e trasse di tasca un foglio in cui era scritto che Cinzia si obbligava ad obbedirlo.

- Ebbene, firma! - le disse.

Cinzia obbedì.

- Eccomi in tua balìa! - disse poi. - Non avrei mai pensato, il giorno in cui mi giuravi di amarmi, che tutto sarebbe finito così! -

Ella lo fissava cogli occhi umidi di lacrime, e Passiflora, temendo di cederle, lasciò quella camera per andare a rinchiudersi nella propria.

Gli occorrevano alcune ore per ricuperare tutta la sua fermezza onde giungere alla fine del suo compito.

Ma quando ritornò da Cinzia, trovò la camera vuota. Aveva dimenticato di rinchiuderla, e la cortigiana ne aveva profittato per svignarsela.

Passiflora si sfogò in invettive, quindi finì col calmarsi.

Doveva avvertire Umberto di quella fuga? Sì, era necessario.

E senz'altro, il marchese si recò dal cavaliere Trani per avvertirlo di quanto accadeva.

Ma il magistrato aveva egli pure lasciato Torino.

III.

Nonostante tutto il suo cinismo, allorchè il conte Rossano ricevette il telegramma di Fabio che diceva: «Contessa improvvisamente aggravata, si teme catastrofe, urge vostra presenza», un livido pallore si stese sul suo volto.

Egli partì subito; ma era molto turbato.

A Moncalieri fece attaccare un calesse che avrebbe guidato egli stesso.

Livio non desiderava che alcuno turbasse le sue riflessioni di quell'ora.

Egli voleva formarsi tutto un piano prima di giungere alla villa. Tutti, compreso Fabio, dovevano credere al suo dolore, al suo strazio per la fine immatura di Bianca.

Ad un tratto sussultò. La morte di Bianca lo lasciava padrone interamente del patrimonio di lei? Non poteva Bianca aver fatto testamento a favore di altri, lasciando a lui la sola legittima? Perchè non aveva pensato prima a tutto ciò? Era stato pazzo, imprudente!

- Purchè arrivi in tempo a rimediarvi! - mormorava fra i denti. - Sono stato così pazzo da cercare di toglierla dal mondo prima di aver sistemati i miei interessi. -

Il conte sferzava adesso il cavallo per giungere più presto. Bisognava ad ogni costo che Bianca testasse a suo favore.

Eccitato da quel pensiero, il conte proseguiva a frustare.

Era giunto ad un sentiero, le cui pietre ruzzolavano sotto i passi del cavallo.

Livio scese e condusse a mano l'animale.

Egli fremeva d'impazienza.

Finalmente giunse al cancello della villa: silenzio perfetto. Livio tirò con violenza il campanello.

Il giardiniere corse ad aprire. Il conte gli domandò:

- Ebbene, Lorenzo? La contessa è dunque peggiorata?

- Oh! signore.... non avrò mai il coraggio di dirglielo.... no.... no!... - esclamò il giardiniere.

E ruppe in pianto.

Livio divenne livido.

- Parla.... lo voglio.... - balbettò con accento soffocato - la contessa.... mia moglie? -

Lorenzo rispose con voce rotta:

- E spirata.... questa mattina. -

Un urlo, che parve avere squarciato il cuore del conte, sfuggì dalle sue labbra.

- Morta!... Morta!... No! Dimmi che non è vero!...

- Ahimè, signore.... se potessi farla rivivere, darei con piacere tutto il mio sangue! -

Livio sembrò assalito da una specie di furore e corse verso la villa.

Nel vestibolo vide alcuni domestici che l'osservavano, pallidi e inquieti. E ad un tratto gli si fece incontro Fabio, pallidissimo, ma calmo.

- Perdonatemi, signor conte, - disse con voce commossa - se non sono venuto alla stazione; ma urgeva la mia presenza qui. Non so se ho fatto male, ma ho dato ordine che non fosse ancora avvertito alcuno della morte della contessa.

- Hai fatto benissimo; - rispose a voce alta il conte, perchè tutti lo intendessero - fino a domani, proibisco a chiunque di parlarne..... Oh! mia Bianca, mia povera, amata Bianca! -

Ruppe in singhiozzi e si afferrò al braccio di Fabio per sostenersi.

- Coraggio, signor conte! - disse questi dolcemente. - Nessuno poteva prevedere una così rapida fine. Nessuno qui ha trascurato il suo dovere. Abbiamo avuto per la povera signora tutte le premure; si sperava nel miracoloso elixir da voi mandato e che non trascuravo di farle prendere ogni sera; eppure non è bastato! -

Fabio s'interruppe, perchè piangeva.

- Martino, accompagnami nella mia camera; - disse il conte - mi narrerai l'accaduto. Ora non avrei il coraggio di vederla. Chi veglia accanto a lei?

- Milia, che non l'ha abbandonata mai.

- Come siete stati buoni tutti! Io solo l'ho trascurata, almeno in apparenza, mentre non pensavo che a lei; andiamo, Martino! -

Salì al proprio appartamento, e appena in camera gettò il cappello sul letto e si lasciò cadere su di una poltrona.

- Signore, - disse Fabio - la povera contessa ha scritto una lettera per voi e mi ha pregato, qualche ora prima di morire, di consegnarvela. -

Il conte apparve oltremodo agitato.

- Una lettera per me? Dammela subito!

- Vado a prenderla, conte! -

Fabio uscì e tornò poco dopo con una lettera fra le mani.

- Mentre leggete, - disse - io andrò a dare alcuni ordini necessari. -

Fabio uscì di nuovo.

Livio volse e rivolse la busta fra le mani, poi la strappò convulsamente da un lato, ne tolse il foglio che Bianca aveva scritto, e lesse:

«Livio, «L'accostarsi della morte dà nuove facoltà all'intelletto, tanto che cogli occhi della mente si penetra nei cuori, si legge in essi ciò che hanno tenuto sempre nascosto. «Ed io leggo in quest'istante nel tuo cuore, ti vedo esultare nel trovarti alfine libero di colei, la cui perdita effettua i tuoi sogni di piacere e di ricchezza. Sei sceso alla bassezza, all'infamia, al delitto, per ottenere il tuo intento. «Ebbene, il mio denaro non l'avrai! L'assassino non pensa sempre a tutto. La carta che tu mi facesti firmare e ti dava l'amministrazione di tutti i miei beni, la dimenticasti nel partire ed io l'ho distrutta: la mia ricchezza è in salvo e passerà nelle mani di coloro che tu credevi di distruggere, e che invece sopravviveranno a te. «Una dichiarazione da me firmata ed unita alla boccetta che contiene ancora una parte dell'elixir miracoloso che tu m'inviasti, rivelerà la causa della mia morte, la spaventosa agonia cui mi condannasti e che nascosi gelosamente all'istrumento incosciente dei tuoi delitti, il quale senza saperlo mi ha versato il veleno, credendo con esso di ridarmi la vita. «La mia dichiarazione, unita alla boccetta, l'ho chiusa io stessa nella cassaforte della mia camera; ho appeso la chiave, attaccata ad un cordoncino, al mio collo, ed ho fatto giurare a Milia che, anche dopo morta, quella chiave non mi verrà tolta se non da colui che ho già designato perchè venga a staccarla da me prima che io sia deposta nella bara. «Ho fatto altresì giurare a Fabio che, se io venissi a morte, egli solo ne veglierà il cadavere. «Ed ora che ho tutto disposto, ora che ho fatto giustizia del mio carnefice, verserò il triplo della dose che tu mi facevi mescere del tuo miracoloso elixir per finirla al più presto e perchè al più presto tu sia punito. «Bianca.»

Dire ciò che provasse il conte a quella lettura, sarebbe impossibile.

Vinto.... era vinto, quando si credeva prossimo alla vittoria!

Una rabbia fredda s'impadronì di lui. Egli sonò con violenza il campanello.

Fabio accorse.

- Tu hai mentito con me, - disse con voce sorda. - Da questa lettera apprendo che i miei nemici hanno potuto parlare alla contessa. -

Fabio lo guardava, addolorato.

- Io non vi comprendo, conte, - rispose. - Vi giuro che nessuno ha mai avvicinato la contessa all'infuori del medico che veniva qualche volta a visitarla e del parroco, perchè voi stesso avevate dato ordine di non rimandarli.- -

Il conte andava calmandosi.

- Io non capisco più nulla, - mormorò. - Bianca mi fa delle accuse, che io non merito. Essa non ha cessato di odiarmi fino alla tomba.

- Odiarvi? Io credo che v'inganniate, conte. La contessa già da qualche tempo parlava con grande affetto di voi, mi diceva che se avesse seguito i vostri consigli si sarebbe trovata più tranquilla e felice, che non vi aveva apprezzato abbastanza. Ella stessa volle che vi telegrafassi perchè si sentiva morire, e aggiunse che in quel supremo istante il vostro sublime affetto le appariva in tutto il suo splendore, ed apprezzando la mia devozione per voi e per lei, mi fece giurare che veglierei il suo cadavere. -

Il conte fremeva, mentre Fabio parlava. Egli non poteva, nè voleva mostrare al giovane la lettera della contessa. Fabio non doveva sapere che si era servito della sua mano per versarle il veleno.

Ah! pazzo che era stato a non prender prima tutte le sue disposizioni!

Un fremito di disperazione lo colse: lo spettro della miseria, del disonore, si drizzò davanti a lui.

Ma siccome era energico, non tardò a riaversi da quella debolezza e formò subito nella sua mente un'ardita risoluzione.

- Voglio crederti, - disse a Fabio - benchè questa lettera mi dimostri il contrario. Ma la mia povera Bianca deve averla scritta in un momento di esaltazione mentale. Ah! non mi perdonerò mai di non essere stato vicino a lei negli ultimi momenti! Dimmi, ha molto sofferto?

- Moltissimo! - rispose Fabio. - Se voi foste stato qui, non avreste potuto resistere a quell'orribile agonia. E la contessa non voleva che si chiamasse il medico, nè altri; diceva che l'unica medicina che l'avrebbe guarita, voi stesso gliel'avevate mandata. -

Livio impallidì, si morse le labbra, e passandosi una mano sulla fronte:

- Chiamami Milia! - disse.

Fabio uscì subito per obbedirlo. Un momento dopo la vedova compariva dinanzi al conte.

Ella aveva gli occhi gonfi di lacrime, ed alla vista del suo padrone scoppiò in pianto, balbettando:

- Oh! signor conte, perchè non siete venuto prima? Mio Dio.... mio Dio, essa è morta chiamandovi, disperata! -

Il conte la guardò con aria minacciosa.

- Non è vero! Essa mi ha maledetto! E tu le tenesti mano per favorire i miei nemici, tu le conducesti qui il suo amante! -

Milia indietreggiò spaurita.

- Voi bestemmiate, conte! Da quando sono qui, la contessa è vissuta come una santa. Martino può attestarlo. Io posso giurarvi che era una donna veramente onesta, e se volete sapere la verità, prima di morire la contessa ha passato al suo collo un cordoncino con attaccata una chiave e mi ha detto:

«- Giurami, Milia, che non mi lascerai togliere questa chiave che da una bambina, la quale si presenterà qui prima che io venga deposta nella bara e ti dirà: «Sono la figlia del conte Rossano e di Giulietta Lovera; la mia povera mamma fu assassinata innocente. A me sola spetta di consegnare questa chiave nelle mani di mio padre.» -

Il conte sentì intorbidarsi gli occhi, fece un passo indietro, poi disse a Milia:

- La contessa vaneggiava.

- Essa era pienamente in sè, padrone, ed io attendo domattina quella bambina: se non verrà, allora voi avrete ragione, conte. Sono una donna onesta, e Dio mi punirebbe se non mantenessi il giuramento fatto ad una morente. Non venite, conte, a vedere la povera signora?

- Verrò più tardi, lasciami! -

Voleva essere solo per calmare il tumulto dei suoi pensieri, ritrovare la calma necessaria per non tradirsi in faccia ad alcuno.

Ah! come era stato giuocato bene da quella morta, che egli aveva creduto di tenere nelle mani!

Quale colpo supremo gli aveva preparato, facendogli consegnare quella chiave dalla figlia di Giulietta, dalla sua propria figlia!

Livio non aveva viscere di padre. Il ricordo di quella bambina cui fece assassinare la madre, non lo commoveva, ma l'irritava.

Come poteva la contessa averle parlato? Se la fanciulla era entrata nella villa, per certo vi era venuto anche Aldo Pomigliano!

Egli cercava la verità senza trovarla, e continuava a digrignare i denti, a bestemmiare, a maledire.

Poi tornò a calmarsi, e tutte le sue facoltà si concentrarono per avere le ricchezze di Bianca.

Non un rimorso nell'anima del conte: solo il pensiero di salvarsi e ricuperare la fortuna che gli sfuggiva.

Atteggiando il volto al più profondo dolore, egli si diresse all'appartamento di Bianca. Nel corridoio incontrò Fabio.

- Dammi il braccio; - mormorò Livio - temo di non avere la forza di sopportare la vista di quella salma adorata.

- Coraggio! - disse Fabio.

Entrarono nella camera della contessa. Milia, che era presso al letto funebre, si chinò come se volesse aggiustare i guanciali della morta, quindi si trasse da parte.

La camera era avvolta nell'oscurità: chiuse le persiane e le imposte; una sola lampada accesa gettava un incerto chiarore sul letto, dove il conte vide distesa sua moglie, vestita di bianco, con le trecce nere pendenti sull'abito, gli occhi chiusi.

Egli osò appena guardarla: ebbe un brivido di paura, e staccatosi da Fabio cadde sulle ginocchia fingendo di singhiozzare disperatamente e gridando:

- Mia povera Bianca, mia povera Bianca! -

Fabio e Milia, ritti, immobili, muti, sembrava non osassero turbare quel dolore.

Ad un tratto il conte si rialzò balbettando:

- No, non posso resistere, non posso resistere: tornerò più tardi; se rimanessi qui adesso, impazzirei! -

E fuggì da quella camera, si recò nel parco per essere solo a riflettere.

Appena fu scomparso, Bianca aprì gli occhi, si sollevò alquanto, sorrise.

- Credete al suo dolore? - chiese.

- No, - risposero insieme Fabio e Milia.

- Il conte non vi ha rivelato il contenuto della mia lettera?

- No, - soggiunse Fabio - se ne è guardato bene; però non ha potuto nascondere i suoi fremiti di furore; ho visto nei suoi occhi passare dei lampi sanguigni.... e sono ormai persuaso che stanotte si tradirà.

- Recatevi a sorvegliarlo, - disse dolcemente la contessa. - Non bisogna perderlo d'occhio un istante. Inoltre vi raccomando di farlo mangiare e soprattutto bere.

- Fidatevi di me. -

Il conte, in balìa dei propri pensieri, si mise a percorrere rabbiosamente i viali del parco, gesticolando; poi si gettò disteso sull'erba, e coi pugni chiusi sotto il mento, gli occhi torbidi, si diede ad organizzare nella sua testa tutto un piano tenebroso che quella notte stessa doveva avere uno svolgimento.

- Fabio solo può aiutarmi, e mi aiuterà! - mormorò ad un tratto quasi ad alta voce.

Riconfortato da questa riflessione si rialzò ed ebbe un brusco sussulto, trovandosi all'improvviso dinanzi il giovane, cui in quel momento pensava.

- Tu qui? - disse Livio vivamente.

Fabio appariva triste, commosso.

- Andavo in cerca di voi, - rispose. - Vi avevo veduto così agitato! Ma ora ringrazio Dio di ritrovarvi più tranquillo! -

Il conte gli prese una mano, gliela strinse affettuosamente.

- La tua presenza mi rende il coraggio. Oh! ti ringrazio di essere venuto! Nessuno è più fedele di te e so che posso contare assolutamente sul tuo affetto.

- Sì, conte; io non dimentico la lettera di vostra madre, la contessa Rossano, la mia benefattrice; ho sempre in mente le sue parole: «Su mio figlio riverserai tutta la riconoscenza che nutri per me, obbedirai ad ogni sua volontà, farai solo ciò ch'egli ti ordinerà di fare» ed io sono tutto vostro. -

Un raggio di trionfo passò negli occhi di Livio.

- Grazie, Fabio!... - esclamò. - Sei degno del mio amore!... -

Ritornarono a casa a braccetto. Nel salotto particolare del conte era imbandita la tavola, e Livio volle che Fabio vi sedesse con lui.

Il conte cominciò a mangiare macchinalmente, con aria triste, poi il suo appetito essendosi risvegliato, fece onore alle vivande e bevette più di quello che volesse, eccitandosi a poco a poco, incitando Fabio a fare lo stesso.

- Sì, è una sventura per me la morte di Bianca; - disse empiendo un bicchiere di vecchio barolo - ma lei, poveretta, ha finito di soffrire. Col suo cervello debole, la sua salute scossa.... -

Vuotò il bicchiere di un fiato e soggiunse:

- Non poteva durare a lungo: aveva un temperamento troppo eccitabile. -

Bevve di nuovo, e guardando fissamente Fabio:

- Dunque, Bianca ti ha fatto giurare di passare la notte presso il suo cadavere?

- Sì, conte, - rispose gravemente il giovane - ed io adempirò al mio giuramento. - Farai bene, io veglierò la cara salma con te. -

Fabio lo guardò a sua volta negli occhi.

- Voi, conte? Ne avrete la forza?

- Tu sarai con me e mi darai coraggio. E poi avrò forse da chiederti un favore.

- Qualunque sia, - rispose Fabio con dolcezza - sarete obbedito. Sono il vostro schiavo.

- No, sei il mio amico, il mio solo e migliore amico. -

Gli stese la mano, senza accorgersi che quella di Fabio ebbe un fremito nel toccarla.

Poi il giovane disse:

- Allora, se permettete, andrò a dare gli ordini opportuni perchè Milia vada a riposare ed i domestici si ritirino di buon'ora.

- Va' pure, e fa' intendere che non voglio a nessun costo essere disturbato! -

Fabio uscì, ed il conte, versatosi un altro bicchiere di barolo, disse sogghignando:

- Oh! mamma cara, come fosti previdente nel procurarmi un tal fratello!... La tua colpa d'amore ha dato a me due volte la vita! -

IV.

Erano circa le dieci. Nella villa regnava il più perfetto silenzio. I domestici si erano coricati, così Milia, dopo avere scambiate poche parole con Fabio.

Bianca, distesa sul letto, sembrava dormisse l'ultimo sonno.

Quando il conte entrò con Fabio, questi disse:

- Io temo che la vista del cadavere finisca col turbarvi e non possiate sopportarla; se me lo permettete, tiro le tende del letto.

- Fai pure! - rispose il conte.

Fabio si affrettò ad obbedire.

Una sola lampada rischiarava la stanza.

- Volete che accenda un altro lume? - chiese Fabio.

- No, - rispose il conte - basta così.... Spingi piuttosto quella poltrona presso alla mia, perchè dobbiamo discorrere. -

Fabio fece quanto egli desiderava.

- Se ho voluto passare la notte qui con te, - cominciò il conte con voce cupa - è stato per rivelarti ciò che nessun altro deve sapere, per farti una confessione che ti strazierà il cuore, come ha straziato il mio. -

Livio sembrò reprimere un singhiozzo.

- Mio Dio, che è successo? - chiese Fabio. - Forse correte nuovi pericoli? Cercano ancora di farvi del male?

- Sì, ed è quella morta, capisci, che si vendica di me, non perdonandomi di avere smascherato il suo amante; quella morta che mi ha odiato fino all'ultimo momento.

- Se non foste voi che me lo diceste, non lo crederei, perchè, vi ripeto, la contessa in questi ultimi tempi sembrava cambiata a vostro riguardo.

- Per meglio ingannarti! - interruppe il conte. - Tu, così ingenuo, fidente, non te ne accorgesti; ma io posso dirti che è riuscita a rivedere il suo amante, posso provarti che Bianca è morta per vendicarsi di me.

- Morta per vendicarsi di voi? - ripete con accento di sorpresa Fabio. - Scusate, conte: non vi comprendo. -

Il conte volse uno sguardo rapido al letto, come se temesse che la morta sorgesse a smentirlo; poi disse:

- Tu credi che la morte di Bianca sia stata naturale? -

Fabio finse di scattare sulla poltrona, stralunò gli occhi.

- Ma non so, non capisco...! -

Livio si chinò ancora più verso lui.

- Mia moglie è morta avvelenata! - disse piano.

Fabio gettò un grido.

- Avvelenata? Come? Da chi?

- Da sè stessa.

- Un suicidio, dunque?

- Sì, un suicidio, per perdermi. -

Fabio era divenuto pensieroso.

- Ma come ha potuto procurarsi il veleno?....

- Ecco ciò che ignoro, ma un momento o l'altro lo scopriremo.

- Ma voi, in qual modo indovinaste...?

- Dalla lettera che tu mi consegnasti da parte della defunta, lettera che è tutta una minaccia, un insulto per me. Bianca mi dice che ha nascosto nella cassaforte il resto dell'elixir da me inviatole, con la dichiarazione che contiene del veleno.

- Non è vero, però? - interruppe Fabio, mostrandosi agitato.

Il conte alzò le spalle.

- Non capisci che il veleno vi è stato posto da Bianca, la quale ha così dato sfogo al suo odio contro me! Ma se quella boccetta con quella dichiarazione venisse trovata, io sarei perduto. -

Il viso di Fabio si era contratto.

Egli volse uno sguardo disperato alla cassaforte.

- Come fare? La chiave non è nella serratura, e noi non possiamo sforzare il mobile.

- Io so dove si trova la chiave; - disse lentamente il conte - Bianca stessa me lo dice nella sua lettera. Ma ella è sicura che io non la toglierò mai dal posto dove si trova, e per questo mi affido a te. Sì, tu solo puoi rendermi un tale servizio, e me lo farai, altrimenti ne va del mio onore, della mia vita.

- L'onore e la vita del vostro schiavo - disse Fabio - non hanno alcun valore, quando si tratta della vostra salvezza; io sono pronto a sacrificarli per voi. Ditemi dove si trova quella chiave.

- Al collo della morta, - rispose il conte tremando - ed io non avrò mai il coraggio di togliergliela. -

Fabio si passò una mano sulla fronte.

- Sarebbe una profanazione, quasi un delitto!

- Pensa che, diversamente, io sono perduto; ricordati la raccomandazione della tua benefattrice, la preghiera di tua madre. -

Fabio scattò in piedi.

- Avete ragione! - disse con accento risoluto. - Perdonatemi se ho esitato un istante. -

Si diresse di passo fermo verso il letto funebre, ne tirò di nuovo le tende.

Il conte, più livido del cadavere, seguiva ogni movimento del giovane, senza muoversi dal suo posto.

Egli vide Fabio chinarsi verso la salma e ad un tratto indietreggiare con un grido, mentre la morta si sollevava sul letto, e con una voce che sembrava venisse di sotterra, pronunziava queste parole:

- Non ti basta, Livio, di aver fatto di tuo fratello un assassino; vuoi che sia anche ladro? -

Il conte tentò di rispondere, ma la voce gli spirò nella gola; fece per alzarsi, ma i suoi piedi ricusarono di muoversi e si ripiegò svenuto.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Quando risensò, era nella propria camera e dinanzi a lui, colle braccia incrociate sul petto, stava Fabio.

Ma il giovane non aveva più l'aspetto timido, sommesso, che il conte gli conosceva.

Egli alzava fieramente la bella testa, ed i suoi occhi fissi su lui avevano un'espressione di freddo disprezzo.

- Io sogno.... - mormorò Livio.

- No, tu sei sveglio, Caino.... - rispose Fabio sordamente. - Guardami, guardami bene.... Sono io, Fabio.... tuo fratello! -

Il conte ricominciava a riprendere la sua audacia.

Si raddrizzò con violenza.

- Mio fratello.... tu? Chi ti ha dato ad intendere simili menzogne?

- Dimentichi la confessione fatta da te stesso alla tua degna amante Cinzia? - rispose Fabio ridivenendo ad un tratto calmo, ma di una calma terribile. - Io ero là ad ascoltarti, e non ero solo: altri raccolsero la tua confessione, mentre tu aprivi per la prima volta la tua anima alla donna che ti tradiva.

- Tu menti! - ruggì il conte.

- Ho le prove di quanto ti dico, e sono in mani sicure.

- Ebbene, ammettendo che tu sia figlio di mia madre, tu sei un bastardo, e non pretenderai adesso di avere gli stessi diritti del figlio legittimo.... Dovresti ringraziare Dio se ti venne dato un nome! -

Fabio vacillò sotto l'ingiuria, ma sollevando tosto con più fierezza la testa:

- Sì, quel nome mi sarebbe bastato, - pronunziò - se tu non ti fossi compiaciuto di trascinarlo nel fango. Io non ti contendo i tuoi diritti, ma sono qui per chiederti conto di tutte le infamie che m'inducesti a commettere. Che facesti tu e mia madre del fanciullo che nella sua innocenza vi credeva suoi benefattori, del fanciullo che aveva lo stesso vostro sangue nelle vene? Un vile schiavo ed un sicario. Una povera fanciulla da te ingannata sotto il mio nome, ti dava noia per i tuoi progetti di matrimonio; tu armasti la mia mano per sbarazzarti di lei, facendola apparire un mostro di dissolutezza. Una buona creatura da me amata suscitò il tuo capriccio, e tu fosti lieto della mia condanna che la toglieva a me e la dava nelle tue mani. Avevi ideato di perderla. -

- Non è vero! - urlò il conte.

- Se essa è sfuggita al tuo oltraggio, - proseguì Fabio - non è stato per tua volontà. Un giovane onesto, che aveva raccolta tua figlia, che venerava la contessa come una santa, destò la tua invidia e te ne sbarazzasti, facendolo passare per ladro. Non parlo di tutte le altre tue vittime: tuo suocero, la signora Rivalta, morti di crepacuore. Vengo alla contessa. Non ti bastava di averle tolto il padre, cercasti di sopprimerla avvelenandola. Ed avevi scelto di nuovo me per versare la morte alla povera martire. Ma Dio era stanco delle tue infamie e permise che io aprissi gli occhi sul tuo conto e che la contessa fosse salva. -

Un grido di rabbia sfuggì dalle labbra di Livio.

- È dunque commedia la morte di Bianca? - esclamò.

- Sì, commedia, per smascherarti interamente. Neppure davanti a quella donna che tu credevi cadavere avesti un lampo di rimorso per quello che volevi farmi commettere. Ebbene, vedi: benchè io sia povero, disprezzato, non abbia il nome che tu porti, mi sento più grande di te, nè vorrei cambiare la mia posizione colla tua. Potrei ucciderti con le mie mani, ma non voglio fare la parte di Caino; eppure, se ti lasciassimo vivere, tu faresti ancora del male! -

Quest'ultima frase riempì Livio di terrore. Egli si portò le mani in tasca, come se cercasse un'arme che non aveva, digrignò i denti e con voce spezzata:

- Che vuoi dunque da me? - chiese. - Pensi che io voglia farmi saltare le cervella?

- No, qualcuno ti suggerirà una morte meno violenta. -

Fabio aprì l'uscio e chiamò a voce alta:

- Gina! -

La figlia di Giulietta Lovera comparve. Essa assomigliava così stranamente alla madre, che il conte indietreggiò terrorizzato, come se si fosse veduto sorgere dinanzi la sua vittima.

La fanciulla vestiva di nero, ed il suo adorabile viso aveva una gravità che colpiva.

Ella teneva nella mano destra una chiave, ed avvicinandosi al conte:

- La mamma vi manda questa chiave, - disse, con una voce che scosse tutte le fibre del miserabile - perchè possiate aprire la cassaforte e prendere la boccetta di liquore che vi guarirà per sempre. -

Livio non rispose, non stese la mano.

Guardava quella fanciulla, e grosse gocce di sudore gli scorrevano sulla fronte.

- Non la volete? - proseguì Gina. - Avete paura? Eppure la mamma mi ha detto che siete forte e terribile! Io vi temevo e vi odiavo senza conoscervi, ma ora che mi hanno detto che siete ammalato, non vi temo nè vi odio più, e vi darò la medicina per guarire, così diverrete buono, vi pentirete del male fatto. -

Il conte continuava a guardarla, e ad un tratto chiese bruscamente:

- Come sei qui?

- Dio mi ha guidata qui per salvare la mamma.

- È dunque la contessa, la tua mamma? - ripetè il conte sogghignando.

- Sì, la mammina del cuore; l'altra mamma.... me l'hanno uccisa, ma Dio punirà il suo assassino! -

Il sogghigno del conte si accentuò.

- Sai chi sia stato il suo assassino? Guardalo.... l'hai dinanzi a te. -

E le indicò Fabio, che era divenuto livido.

La fanciulla gettò un grido, poi, spinta da un'angoscia indicibile, si slanciò verso Fabio.

- Non è vero! - esclamò, - Dimmelo tu! Quell'uomo cattivo ha mentito per far del male anche a te!

- No, Gina; - rispose con gravità e tristezza il giovane - quell'uomo ha detto la verità: per obbedire a lui, io tolsi dal mondo la tua povera mamma. -

Gina si mise a singhiozzare.

Fabio le si inginocchiò vicino.

- Io ho pianto a lacrime di sangue il delitto fattomi commettere da quell'uomo, - proseguì - ma la tua povera mamma apparve a me una notte, stendendomi la mano, dicendomi che mi avrebbe perdonato il giorno in cui il vero colpevole fosse punito. Io ti giuro, Gina, che quando colui sarà punito, mi ucciderò, e tu allora mi perdonerai come mi perdonerà tua madre. -

La fanciulla esitò un istante, poi si slanciò al collo di Fabio.

- Io non voglio che tu ti uccida; ti perdono, come ti perdonerà la mamma, ti vorrò bene come prima, perchè tu non sei colpevole; l'assassino è lui! -

E volgendosi al conte:

- Sì, siete voi, - soggiunse - doppiamente cattivo, perchè dopo che avete fatto ammazzare la mamma, accusate un altro: la mamma non vi perdonerà mai, come io non vi perdono: voi mi fate paura, io vorrei vedervi morto! -

Gettò la chiave in terra e si avvinghiò di nuovo a Fabio.

- Portami via, - mormorò supplichevole - non voglio vederlo! -

Nello sguardo del conte passò un lampo di odio, ma Fabio e la bambina non se ne avvidero, perchè uscirono dalla stanza, lasciandolo solo.

La collera di Livio, fino allora repressa, scoppiò terribile. Egli morse con rabbia disperata un fazzoletto che teneva nelle mani, imprecò, bestemmiò.

- Anche lui contro di me! - diceva. - Caino! Mi ha chiamato Caino, e lo sarò! Anche Cinzia mi ha tradito! Miserabile! Se potessi averla fra le mani.... Ah! credono che io voglia prendere il veleno? Stupidi tutti! La vita mi preme troppo e voglio conservarla per vendicarmi! Ah! tutti sperano che io scompaia! Ebbene, non sarà questa la soluzione che vi aspettate! Io prenderò ancora la mia rivincita, e quale rivincita: lo vedrete! -

Egli aprì un cassetto del suo scrittoio e ne trasse una rivoltella carica a sei colpi, che si mise in tasca.

Poi raccolse da terra la chiave che vi aveva gettata Gina, e si avviò all'appartamento di sua moglie.

Era sorto il giorno, ma nella villa il silenzio era perfetto.

Il conte entrò nella camera di Bianca.

Non vi era alcuno.

Livio volse subito gli sguardi alla cassaforte, e quando vi giunse vicino, i suoi occhi si fecero ardenti.

Egli mise la chiave nella serratura, aprì.

Vide subito la boccetta dell'elixir, con accanto un foglio piegato.

Ma prima di prenderlo il conte rovistò febbrilmente nella cassaforte, sperando di trovarvi dei valori, o i gioielli della contessa.

La cassaforte era vuota.

Un'onda di sangue gli salì al capo.

- Nulla, più nulla! - gridò.

Allora, con una rabbia impossibile a descriversi, strappò coi denti il foglio vergato da Bianca senza neppure leggerlo, e afferrata la boccetta, la scagliò a terra: il liquido si sparse sul pavimento.

Poi, con una furia da pazzo, il conte si slanciò verso l'uscio.

Ma sulla soglia stava la contessa Bianca, sorridendo con sanguinosa ironia.

Il conte indietreggiò come fulminato. Egli non riconosceva quasi più sua moglie in quella donna dal volto animato, dagli occhi brillanti.

Essa inoltrò di qualche passo e disse:

- Sapevo bene che non avevate cuore nè orgoglio, che la vostra anima è inaccessibile al pentimento, che nulla vi avrebbe commosso, neppure la vista della vostra innocente bambina. Inoltre, siete troppo vigliacco per uccidervi! -

Ad ogni insulto di quella donna, il conte trasaliva; ma non era quello l'istante di porre in opera quanto aveva divisato. Giacchè sua moglie era là, egli l'avrebbe costretta a dargli tutto il denaro, a firmare ciò che voleva.

- Venite voi dunque a darmi la morte? - domandò.

Bianca fece un atto di altero disprezzo.

- Non sono un'assassina! - . rispose, - E giacchè siete tanto attaccato alla vita, nessuno qui ve la toglierà. Solo vi avverto che, dietro la vostra completa confessione, che cinque testimoni, compresi due magistrati, hanno accolta, voi non sfuggirete alla giustizia umana. È già stato spiccato l'ordine di arrestarvi, e solo dietro una mia preghiera, per non suscitare scandalo, hanno lasciato che prima venissi a proporvi io stessa il patto, che solo varrà a salvarvi.

- E questo patto? - chiese egli con tono leggermente beffardo.

- Voi lascerete subito l'Italia: vostro fratello stesso vi accompagnerà fino all'Havre, ed al momento del vostro imbarco per il nuovo mondo, vi consegnerà una somma bastante a sopperire al vostro viaggio, ai vostri primi bisogni. Dopo, cercherete di guadagnarvi la vita ed espiare, col lavoro, l'indegna vostra condotta passata. Per me sarete morto, perchè scriverete un biglietto, in cui direte che, stanco di un'esistenza torturata dai rimorsi, vi siete ucciso. -

Il conte era ritornato calmo.

- E questo biglietto devo lasciarlo a voi?

- Sì.

- Ebbene, sarete soddisfatta; datemi carta e calamaio, ed io lo scriverò subito per mostrarvi che non sono il vile che credete e che qualche cosa di buono è ancora in me. -

Mentre Bianca obbediva, il conte si strinse il capo fra le dita convulse, e come parlando a sè stesso:

- Sì, sono stato un grande colpevole! - disse in tono violento. - Non merito il perdono di alcuno! -

La contessa era commossa: senza guardare il conte, si chinò a disporre sul tavolino la carta da lettere ed il calamaio.

In quel momento sentì un soffio ardente alle sue spalle; si volse di scatto e si trovò dinanzi il marito, livido, con gli sguardi scintillanti di selvaggia energia, la mano armata della rivoltella.

- Credevi di trionfare, - esclamò Livio con un'esaltazione che andò crescendo - credevi di liberarti per sempre di me, di avermi nelle tue mani vinto, umiliato! Invece sei tu nelle mie: quella carta servirà a te stessa per scrivere che metà della tua sostanza mi appartiene interamente. Vedi che sono discreto; ma se tu esiti a scrivere, io ti uccido! -

La contessa, alla vista della rivoltella, aveva provato un brivido di terrore, ma subito riprese la sua calma, perchè vide sollevarsi il panneggiamento di un uscio ed apparire Fabio alterato, irriconoscibile per lo spavento.

Egli inoltrava in punta di piedi dietro al fratello: ma all'istante di afferrare il braccio che teneva la rivoltella, un movimento lo tradì.

Livio si rivolse e gettò un grido di rabbia.

- Ah! tu stavi a spiarmi? - urlò furente. - Vattene, vattene, o non rispondo più di me!

- Colpisci dunque, Caino, colpisci! - esclamò Fabio presentando il petto al fratello.

Bianca, presentendo il pericolo che il giovane correva, si gettò a sua volta sopra il conte per disarmarlo, ma non fu a tempo.

Uno sparo rintronò, e Fabio, colpito alla spalla sinistra, cadde senza gettare un grido.

- Assassino, fratricida! - urlò Bianca pazza dal terrore. - Aiuto! Aiuto! -

Due uomini si precipitarono nella stanza: Aldo Pomigliano e Umberto Trani.

Livio non li riconobbe: egli non era più un uomo, ma una belva.

- Fatemi largo.... o ammazzo tutti! -

Tre altri spari rintronarono nella stanza: fortunatamente i colpi andarono a vuoto.

Ma Livio aveva ottenuto in tal modo il passo libero e si slanciò fuori, mentre gli altri non si occuparono più che di Fabio steso a terra, immerso nel sangue. Il conte scese, sempre correndo, nel parco, e si mise a percorrerlo come un forsennato, continuando a sparare colpi all'impazzata.

Ma la rivoltella era ormai scarica; tuttavia egli continuava a fare scattare il grilletto, in preda a un delirio orribile, mentre le tenebre avvolgevano la sua mente.

Alla svolta di un viale si fermò: un uomo gli era sorto dinanzi, un uomo armato egli pure di rivoltella.

- Ah! finalmente ti ritrovo! Mi riconosci? - disse costui sbarrandogli il passo. - La Provvidenza mi ha scelto per porre un termine ai tuoi delitti: tu morrai per mano mia!

- Non so chi siate! Indietro, o vi uccido io per il primo! - urlò a sua volta il conte.

E spianò contro lui la rivoltella scarica.

- Io morrò, ma vendicato! - rispose prontamente l'altro, lasciando a sua volta partire il colpo.

Fu la cosa di un attimo. Un lampo brillò, un grido si intese, e il conte, colpito in pieno petto, cadde al suolo fulminato.

L'uomo che aveva fatto giustizia era il signor Guglielmo Rivalta.

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Fabio apriva gli occhi alla vita dopo quindici giorni di alternativa fra speranze e timori.

Egli si guardava attorno senza pronunziare parola.

Una donna, col viso alterato dalle veglie e dal dolore, osservava quella prima manifestazione di vita con occhi inondati di pianto: era Ilda.

Allorchè il medico, visitato il ferito, dichiarò che il caso era mortale e che soltanto un miracolo poteva salvare Fabio, Ilda esclamò con passione:

- Io compirò il miracolo! Io lo salverò! -

E non lasciandosi vincere dal dolore, curò Fabio giorno e notte.

Egli era sempre in preda al delirio ed evocava ad alta voce le scene più orribili della sua esistenza, quelle che più erano rimaste impresse nella sua mente.

Invano Ilda cercava di calmare quel delirio con delle pezze ghiacciate.

Fabio si dibatteva, faceva degli sforzi, come se volesse difendersi da un nemico invisibile, respingeva la mano amica, pronta a salvarlo.

E batteva l'aria con le braccia, cercava di gettarsi dal letto, quindi vi ricadeva spossato, mentre le lacrime inondavano il volto di Ilda.

Di quando in quando Fabio sembrava riconoscerla, poi tornava a delirare, consumando così le sue forze, mentre Ilda pregava Dio che prendesse la sua vita, ma salvasse Fabio.

Ma Dio, senza volere tanto sacrifizio da lei, le rendeva l'uomo redento dal dolore, dal pentimento!

Lo sguardo di Fabio, dopo aver vagato a lungo qua e là, si fermò ad un tratto, per la prima volta con un lampo di intelligenza, su Ilda, e per la prima volta sembrò che la vedesse.

- Tu? - mormorò. - Tu, mia adorata? Perchè vicina a me? -

Ilda non seppe resistere; chinandosi verso lui, mormorò con voce commossa:

- Per salvarti. -

Fabio fece un brusco movimento.

- Per salvarmi? Forse che corro qualche pericolo?

- No; ma sei stato molto malato. Ora, però, grazie a Dio, tutto è passato: tu sei guarito....

- Per merito tuo, non è vero? -

Ilda sorrise: Fabio le stese la mano; ma spossato da quel breve sforzo, richiuse gli occhi e si addormentò.

Dormì per molte ore, nè Ilda si mosse dal suo posto.

Quando il medico giunse, Fabio dormiva sempre, nè lo svegliò, assicurando Ilda che quel riposo tranquillo era vita per lui.

- Quando si sveglierà, - disse - comprenderà tutto e potrà dirsi completamente guarito. -

La contessa Bianca, Aldo e Gina entrarono nella camera per assicurarsi coi loro occhi del miglioramento di Fabio.

Ed un sospiro di sollievo sfuggì dai loro petti.

Allorchè Fabio riaperse di nuovo gli occhi, era perfettamente in sè.

Riconobbe Ilda e sorrise.

- Ah! sei tu, sempre tu! - disse con voce debole. - Quanto sei stata buona con me, che ti ho disconosciuta! Dimmi: fui ferito gravemente?

- Sì, ma oramai ogni pericolo è scomparso.

- Mi trovo sempre alla villa Bianca?

- Sempre. -

Fabio si passò una mano scarna sulla fronte, e con voce leggermente alterata:

- E mio fratello? - mormorò.

- Non pensare a lui, adesso: quando sarai più forte ti dirò tutto.

- Lascia almeno che ringrazi te, che mi hai dato una seconda vita. -

Le stese le mani, l'attirò a se: le loro labbra s'incontrarono in un lungo bacio.

Il domani egli era più forte, e, risvegliandosi, trovò al suo capezzale non solo Ilda, ma la contessa Bianca, Gina ed Aldo.

Quante esclamazioni di gioia quando il convalescente li salutò tutti a nome, sorrise loro fissandoli con sguardi dolci e turbati!

Per molti giorni nessuno ricordò a Fabio i fatti avvenuti; ma allorchè il giovane cominciò ad alzarsi, ruppero il silenzio che diveniva ormai penoso.

Ilda lo informò di quanto accadde dopo la scena rapida e violenta fra lui ed il fratello, che aveva cercato di ucciderlo.

Raccontò la fine del conte.

La gente, però, non sapeva il vero; la notizia era stata diffusa dal Trani, dal Meralta e dal marchese di Passiflora: Livio Rossano si era suicidato.

Un mandato di arresto era stato spiccato contro lui, dopo una confessione firmata da cinque testimoni, in cui il conte aveva rivelato delle perfidie che nessuno avrebbe mai immaginate.

Così si seppe che l'assassinio di Giulietta Lovera era stato ordito e fatto consumare da lui onde sbarazzarsi della giovane che gl'impediva di contrarre il suo matrimonio con Bianca.

Così pure si scoprì che il tentato strangolamento di Ilda ed il furto del quale venne accusato Aldo Pomigliano, erano stati perpetrati dallo stesso conte pe' suoi fini tenebrosi.

Inoltre il conte stava per commettere un ultimo e più infame delitto cercando di avvelenare la moglie; ma la giustizia, avvertita in tempo, si era recata alla villa per arrestarlo.

Nella colluttazione che aveva avuto luogo per impossessarsi di Livio, questi, perduta la testa, aveva tirato alcuni colpi di rivoltella, andati a vuoto, poi si era slanciato nel parco, ed ivi si era suicidato.

Ilda aggiunse che Cinzia, arrestata, aveva confermato quei particolari, ed era stata tale l'impressione provata per la tragica fine del conte, che la sciagurata si trovava morente nell'infermeria delle carceri.

La giovane concluse che nessuno aveva fatto parola della ferita riportata da Fabio, dei suoi legami col conte, nè alcuno avrebbe avuto il minimo dubbio sul suicidio di lui, se una lettera di Guglielmo Rivalta, ricevuta dalla contessa Bianca, non avesse rivelato che lo sventurato aveva fatto giustizia del colpevole e si era poi ritirato in un convento a finire i suoi giorni, persuaso che Dio lo avrebbe perdonato e ricongiunto alla sua adorata Severina.

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Sei mesi dopo, la villa Bianca era di nuovo in vendita.

Bianca Rossano si era ritirata nella tenuta di suo padre, e Fabio, marito felice di Ilda, era divenuto amministratore dei beni della contessa. Sua moglie era la più devota amica della giovane vedova.

Gina non aveva più lasciata la sua cara mamma. Aldo invece aveva ripreso dimora a Torino, continuando i suoi studi ed i suoi esperimenti sopra un modello di macchina, che un giorno gli procurerebbe fama e fortuna.

Il tempo scorreva tranquillo nella tenuta.

Una volta alla settimana Aldo vi compariva, ed era una vera festa per tutti, ma specialmente per Bianca.

Due anni scorsero così.

Una mattina Bianca ricevette un telegramma che le fece battere il cuore a colpi precipitosi,

Diceva; «Stasera sarò costì a prendere il premio del mio lavoro. Aldo.»

Questo voleva dire che il disegno esposto della macchina inventata da Aldo aveva riportato un trionfo.

Ed a questo trionfo era collegato il suo avvenire e quello della contessa.

Perchè egli non avrebbe mai aspirato alla mano di lei finchè non avesse potuto offrirle un nome degno di lei.

Quando Aldo giunse alla tenuta, tutti erano ad aspettarlo.

Egli fu condotto in casa quasi in trionfo; ma dopo cena, quando la notte fu calata, tutti si ritirarono, lasciando Bianca e il giovane soli.

Ella sedeva accanto al balcone aperto; egli le si mise ai piedi.

La luna brillava, inondandoli di un mite e soave chiarore.

- Bianca, adorata! - sussurrò Aldo guardando la giovane che la felicità rendeva ancora più bella. - Ora sarai mia per sempre, non è vero? Nulla più ci dividerà! Ora anch'io ho uno stato da offrirti....

- Credi forse che se tu non fossi riuscito avrei rinunciato a te? - rispose Bianca senza arrossire. - Io fui tua fino da quando mi considerasti come una sorella, e se adesso vado orgogliosa del tuo trionfo, è solo per te. Aldo, credi al mio amore?

- Se ci credo! Ma è il tuo amore che mi ha dato la forza di soffrire, di lottare! E qual premio migliore posso ottenere che quello di farti mia per sempre! Bianca, io ti adoro, noi saremo felici, l'avvenire è nostro! -

L'attirò a sè, senza che ella opponesse resistenza, e per la prima volta le loro labbra s'incontrarono in un lungo bacio d'amore.

FINE.