Una Passione: edizion ELTeC Zuccari, Anna Maria (1846 - 1918) Editor Ciotti, Fabio 55822 COST Action "Distant Reading for European Literary History" (CA16204) Zenodo.org Una Passione Zuccari, Anna Maria Editor Treves, Emilio and Giuseppe Fratelli Treves Milano. 1910 1903

Italiano French Latin Revision in ELTeC format: Demma, Lorenzo
UNA PASSIONE I

Conosco Porta Renza

Al muschio ed al zibetto.

(Strenna del "Vesta Verde").

L'uscio a vetri del Ristorante Savini si aperse lasciando passare due signori che si fermarono un istante sulla soglia, quasi l'uno aspettasse dall'altro la prima mossa; ma poi contemporaneamente voltarono a destra verso l'ottagono della Galleria rialzando il bavero della pelliccia.

- Mi par che questo sia un posto terribile per le bronchiti.

- Avete ragione. Sarei dolente che un malanno di tal genere dovesse lasciarvi un brutto ricordo del clima milanese. Affrettiamo il passo.

- Non venite a teatro?

- No, grazie. Sono aspettato.

Molta gente invadeva la Galleria. Era l'ora degli appuntamenti fra amici che vogliono passare la serata insieme; l'ora in cui i vecchi mariti lasciano le dolcezze del focolare domestico per andar fuori a fare una fumata in libertà; mentre i giovani sposi escono insieme e fermandosi alle mostre tentatrici dei negozi si offrono l'un l'altro, coll'immaginazione, i più splendidi regali. Qualche famiglia attraversava rapidamente la Galleria per recarsi al teatro Manzoni, urtando i passeggeri, nella tema di perdere le prime scene della commedia. Qualche figura femminile, solitaria, eccentrica, si aggirava lentamente.

- Vous avez des jolies femmes - disse in francese quello dei due signori che era straniero e che veniva a Milano per la prima volta.

- Peuh! - fece l'altro, sbirciando una bionda che gli passava a fianco con un lungo soprabito a sacco e un cappellone verde con piume gialle - se non vestissero così male...

- Le milanesi tuttavia hanno fama di essere eleganti.

- Vi prego di credere che nemmeno cinque su dieci delle variopinte creature che incontriamo sono milanesi. Ma che cinque! Neppure tre su dieci. Forse che a Milano vi sono ancora delle milanesi?

Lo straniero non avvertì l'accento caustico del suo compagno, ma rispondendo a una verifica di fatto soggiunse:

- È il destino delle grandi città quello di rinnovarsi continuamente cogli elementi della provincia, ed è provvidenziale questo flusso di sangue forte e rigoglioso là dove c'è maggior consumo di energie.

- Sì, ma le altre città conservano ad onta di tutto la primitiva caratteristica, la imprimono ai nuovi venuti dei quali assorbono l'intelligenza e la forza piegandole a loro immagine. Guardate Parigi, guardate Londra, guardate Vienna e Berlino; chi vive nelle loro mura diventa ben presto cittadino. A Milano i provinciali restano provinciali, e ne abbiamo a torme. Udite i dialetti; ah! ma voi non potete comprenderli. È un campionario di tutte le regioni d'Italia. Essi distruggono il tipo milanese.

- Buon avviamento alla lingua universale - concluse ridendo lo straniero che forse aveva trovato irriverente il paragone fra Milano e le quattro grandi città fra cui stava la sua.

- Perchè, vedete - continuò l'altro con fuoco - io potrei rassegnarmi alla scomparsa del milanese uomo, ma la donna milanese, oh! la donna milanese chi potrà sostituirla? Chi ci darà la grazia della madamina di una volta, con quel velo nero sui capelli che nessuno vedrà mai più? Ne avete almeno udito parlare, voi, di quel velo che non era sdegnato neppure dalla gran dama? Pensate che esso sta agli sgangherati cappellacci moderni come una piccola e penetrante stella dei cieli azzurri alla fiamma scialba e sfacciata di un lampione di stagno.

- Terrò nota della definizione, domandandone scusa preventivamente alle milanesi moderne.

Sboccarono intanto dalla Galleria sotto i Portici e la massa imponente del Duomo li arrestò di nuovo.

- È fantastico, ed è insieme di una realtà palpitante! Finchè vi resterà questa meraviglia Milano sarà sempre dei milanesi.

La frase era un po' vaga, ma l'intenzione appariva gentile è l'altro ringraziò con un sorriso. Gli venne bensì in mente una questione dolorosa che poteva rinchiudersi in due parole: resterà così? Ma le due parole non le disse perchè non aveva voglia di incominciare un discorso sull'arte in quel momento. Si contentò di guardare intensamente le merlature bianche, di un bianco gelido sotto i raggi della luna invernale, quasi ricami di neve fioriti sui bruni pilastri contro i quali veniva a frangersi ed a morire l'effimera vita dei Portici colle sue innumeri fiammelle di luce elettrica, coll'onda della folla dolcemente eccitata nel piacevole lavorio della digestione.

Guardò il suo bel Duomo, come soleva far sempre senza parlare. Solamente quando furono all'ultima arcata dei Portici rallentò il passo, senza togliere gli occhi da quella meravigliosa cosa che è il fianco del Duomo, parete intermedia fra la terra e il cielo, slancio del pensiero che inceppato dalla creta la sforza per innalzarsi a raggiungere il sogno.

- Da che parte andate? - chiese lo straniero, Il milanese, con un gesto largo, indicò il Corso.

- Non volete proprio venire alla Scala?

- Non posso.

- Anche per me è troppo presto per andare a rinchiudermi. Preferirei passeggiare alquanto. Siccome non vado per l'opera ma per lo spettacolo dei palchi, ritardando non ho nulla da perdere. Credo anzi che le signore eleganti qui, come altrove, amino farsi desiderare.

- Accompagnatemi allora.

- Volentieri. Il vostro giornale vi lascia libero alla sera?

- Sì, fino ad una certa ora. Dovrò andare in redazione prima di coricarmi. E voi non scrivete in viaggio?

- Qualche nota appena per il mio taccuino.

S'avviarono giù per il Corso, bighellonando, urtati e separati tratto tratto dalla corrente umana che risaliva il sentiero.

- È una specialità di questo Corso l'uso quasi esclusivo di un solo sentiero, lo avrete osservato anche voi. È un darsi di gomito ininterrotto, ma nessuno scende,

- Neppure i provinciali?

- Ah! Ah! - fece il giornalista afferrando lo scherzo con disinvoltura - prevedo che le vostre note saranno piccanti. Ma, sul serio, i provinciali che vengono fuori dal loro guscio quando non sono i migliori sono i peggiori addirittura, Milano lo sa.

Per un tratto, fin verso il tempio di S. Carlo, il giornalista fu occupato a rispondere ai saluti di un gran numero di persone. Faceva ciò con una cortesia fredda, rizzando impercettibilmente la bella testa leonina dove lo sguardo troppo vivo sembrava cercare un rifugio dietro i cristalli lievemente cobalizzati de' suoi occhiali d'oro. Era un uomo di statura media ma che sembrava alta per la snellezza delle forme e per il portamento altero. Di pronto ingegno, fornito di studi discreti, si era fatto la sua strada da sè senza crearsi troppi nemici ed ora imperava dalle colonne di un giornale influente reggendo lo scettro con mano sicura.

Oltrepassata la colonna del Leone gli incontri diradarono e i lumi anche. L'antichissima chiesuola di S. Babila, accoccolata come una vecchietta dormente, non fu nemmeno scorta dai due passeggiatori che tenevano ancora il sentiero di sinistra. Il Corso, che quivi si allarga e si prolunga in una doppia fila di case signorili, acquistava dalla solitudine una imponenza grandiosa che sembrava riposare dal tumulto di prima. L'aria stessa era più pura, così che i due per istinto si arrestarono a respirarne una larga boccata; e come lo straniero osservava le colossali cariatidi di un palazzo, l'altro notò: - È il Seminario, fondato da Carlo Borromeo. Ha un bel cortile interno,

- Queste cariatidi risentono il loro tempo.

- È vero. Per quanto incaricate di rappresentare la Pietà e la Religione, il loro aspetto è molto profano. Quell'altro palazzo, a destra, col frontone a triangolo, potrebbe narrare i fasti dell'epoca napoleonica. Da quel parapetto di marmo Giuseppina volse in giro gli occhi seducenti avvezzi alle conquiste... Guardate da quest'altra parte: in quella casa modesta ebbe il suo epilogo un amore che venne consacrato nelle pagine ardenti di un Romanzo.... E qui, vedete l'impronta di un obice nello stipite della porta? Fu nel quarant'otto...

Evocate nel silenzio della notte le cose riprendevano l'anima antica. E veramente là, in quell'ampio Corso segregato dal movimento cittadino, dove non mettono capo nè affari, nè industrie, nè piaceri, dove i nuovi venuti non scelgono la loro abitazione, dove scarsi si aprono i negozi o raramente di sera si avventura qualcuno, là, alla vecchia Porta Renza, ribattezzata in Porta Venezia, il milanese ligio alle tradizioni si sentiva nella sua Milano.

Una nebbiolina leggiera venendo su dal Naviglio e unendosi alla umidità dei giardini gli dava quella sensazione profonda, di una dolcezza voluttuosa, di una intimità penetrante, che difficilmente intendono coloro che a Milano non sono nati. Colla pelliccia tirata sulle orecchie, un'eccellente virginia tra le labbra, egli diventava comunicativo.

- Su queste pietre camminarono Ugo Foscolo e Parini. Come noi essi vissero in una notte d'inverno pari a questa, fra queste case velate. Qui venivano a passeggiare due stranieri grandi ammiratori di Milano: Stendhal e Balzac. Balzac, lontano, invidiava ancora l'amico che poteva aggirarsi lungo il marciapiede di questo bel Corso dove abitava la donna amata... Vi narro tali particolari perchè siete poeta, chè del resto non ne varrebbe la pena.

- Grazie del privilegio che mi concedete. Vorrei potervelo rendere con un poema su questa notte incantevole. Ma forse abuso della vostra cortesia.

Per tutta risposta il giornalista gli strinse il braccio amichevolmente.

- Chiedete a questo deserto le memorie dei Corsi mascherati; i cento idillii che si intrecciarono a cento congiure; le belle ardimentose che dai veroni gettavano coriandoli tutta una giornata coll'ardore di moschettieri in guerra e che alla sera apparivano nei palchetti, raggianti, vestite di bianco in un palco, di rosso nell'altro, e nell'altro di verde!

Lo straniero rimase un istante sopra pensiero e poi disse:

- Voi non le avete viste queste cose.

- No; ma le udii narrare tante e tante volte in famiglia, vidi le coccarde che mia madre conservava gelosamente, udii i racconti delle eroiche imprese e, sapete, la fantasia galoppa. Appartengo per mia disgrazia ad una generazione di intermezzo. Non sono abbastanza vecchio per rifuggire dagli ideali presenti, eppure non so svincolarmi dal sogno glorioso che fecero i miei padri. Triste è il vivere fra due età!

Un lungo silenzio chiuse queste parole e, tacendo, ognuno dei due interlocutori venne a seguire per proprio conto un ordine di idee affatto svincolate da quelle del compagno. Lo straniero

pensava al suo paese; gli venne in mente sopra tutto con acutezza straordinaria di rimpianto una sera di inverno, un vero inverno nordico con quindici gradi sotto zero, e la corsa che egli aveva fatto, coll'ali ai piedi, verso una finestra fiocamente illuminata... In quel momento il giornalista emise un sospiro.

- Perdonatemi.

- Che mai?

- La mia indiscrezione.

- Ma non la vedo.

- Mi avete detto che siete aspettato. Se è una donna... non vorrei disturbarvi.

- Si tratta di una donna, ma non di un convegno amoroso. Cade il compleanno di una cara amica al quale non vorrei mancare. Mi picco di essere fedele.

Qualche cosa di caldo nell'accento del giornalista fece comprendere allo straniero che la donna era giovine e bella. Egli lo sapeva diviso dalla moglie; ma nei loro rapporti affatto intellettuali non si era mai trovato il posto per una confidenza intima. Lo straniero, non sapendo precisamente in quali acque navigava, non rispose nulla; ma appunto questo imbarazzo prolungato per alcuni istanti nella quiete misteriosa della via deserta, già presso alla barriera, con quell'interlocutore discreto che veniva a Milano per la prima volta, forse l'unica, e che ad ogni modo ripartiva all'indomani, rese loquace l'uomo che per diffidenza professionale votavasi abitualmente a nascondere i propri sentimenti. Senza aspettare la replica, senza parlare direttamente nè a sè stesso, nè al compagno, nè ai fantasmi della notte, mosso da un subito bisogno di espansione esclamò:

- Che donna!

E lo straniero fu peggio di prima imbarazzato. Volendo ad ogni modo dire qualche cosa arrischiò una osservazione generale sulle donne che sanno amare.

- Sì, queste donne sono preziose - interruppe il giornalista - ma sono più rare quelle che si fanno amare. Non è un paradosso, vi assicuro. Farsi amare è una cosa difficilissima. Vi riescono solamente le donne che hanno grandi qualità. Per le altre c'è il desiderio, il quale passa presto, come sapete. Quelle - soggiunse dopo una pausa - incitandoci ad amarle mettono in movimento la nostra fantasia, la nostra generosità, la nostra devozione, tutti gli istinti superiori che la mancanza di amore atrofizza. Quando non vi fossero più nel mondo donne capaci di suscitare in noi l'eroe, dove mai si rifugierebbero la bellezza e la nobiltà della vita? Amare è la missione dei buoni; farsa amare è quella degli intelligenti. La portata è di gran lunga superiore.

- Credo che abbiate ragione,

Si trovavano in fondo al Corso, vicino al bastione. Lo straniero gettò uno sguardo inquieto al di là della barriera.

- Ma dove abita la vostra regina?

- Regina! - ripetè il giornalista con un sorriso di compiacenza. - Ecco un titolo che lo compete a meraviglia. Abbiamo già passata la sua casa: torniamo indietro. È a due passi, appena svoltata la via che mette ai giardini, Regina di bellezza! Regina d'intelligenza! Sì, regina, Avrete notato - continuò animandosi - che ciascuno di noi ha un rango naturale non sempre in accordo col così detto, rango sociale. C'è una aristocrazia di nascita e questa obbligando chi ne è investito ad essere nobile, comunque sieno le esigenze della sua vita, fa sì che vediamo brillare, anche offuscate di qualche macchia, le faccette del diamante originario.

- "La perla nelle macerie".

- Fate conto, quantunque non vorrei lasciarvi l'impressione di macerie soverchie intorno alla mia amica. No, il paragone non va. Direi piuttosto una perla mal legata, fuori di posto.

Comprese di aver detto troppo o troppo poco. Gettò via il sigaro con un movimento, brusco e soggiunse:

- Vi annoio?

- Come potrebbe un Romanziere, un poeta dite voi, annoiarsi nelle cose dell'anima? Vi faccio grazia dell'interesse che mi destate personalmente, ma con tutta franchezza vi dirò che io viaggio alla maniera di Yorik, per conoscere gli uomini e le loro passioni.

Il giornalista, alla luce di un fanale, consultò il suo cronometro.

- Cinque minuti ancora. Probabilmente noi non ci trove Remo mai più insieme così, ed oggi aggiungendo un foglio alle vostre note scriverete: "A Milano, in una bella sera d'inverno, passeggiando sul vecchio Corso di Porta Renza, l'amico X mi parlò dell'amore e della donna...". I commenti ve li abbandono,

- Volete dirmi almeno se pensando a voi potrò credervi felice?

- Ignoro se sarò sempre felice; felice forse non lo sono neppure oggi. La felicità è altra cosa. Ho amato questa donna come un pazzo, sei anni fa. Ella vuole ora che l'ami come un saggio e procuro di obbedirla. Non per nulla si è regine. È incredibile come ella sa tenere avvinti tutti coloro che ha conquistato una volta. Capirete che non basta essere giovane e bella per ottenere ciò.

- È un'attrice o una signora dell'alta società?

- Nè l'una nè l'altra. Or sono vent'anni ero un giovinetto imberbe; compivo un viaggio di istruzione in Inghilterra; molti fatti di allora mi sfuggirono, ma ricordo un processo tristamente celebre, svoltosi qui, e dove un avvocato già di dubbia fama suscitò grandi clamori per le sue audacie, di Remo così, extra lege. Era un briccone di un ingegno straordinario, appartenente ad una famiglia distinta per censo e per onestà. Dopo di avere gabbato mezzo mondo mangiandosi un patrimonio cospicuo, scomparve non si seppe mai bene come, lasciando una moglie ed una bimba; povere creature sballottate da un appartamento sontuoso ad una camera ammobiliata, avvezze agli agi, incapaci di lavorare, indurite agli scrupoli... Vi lascio immaginare quale esistenza! Io allora non le conoscevo. Incontrai la figlia qualche anno fa. Orfana, tornava da un lungo soggiorno all'estero...

Passo passo avevano percorsa via Palestro e si trovavano sul viale che separa i due giardini. La solitudine era completa. Da una parte e dall'altra i rami nudi degli alberi biancheggiavano avvolti in un leggiero strato di brina. Sotto i fanali della Villa Reale la sentinella, ravvolta nel cappotto d'inverno, misurava lentamente il breve tratto di sentiero proiettando la sua ombra mobile e silenziosa sulle pietre indurite dal gelo.

- Nata sui gradini di un trono ella sarebbe stata Semiramide. Sarebbe stata Imperia nel magnifico Cinquecento. Ma i tempi sono meschini per l'espansione delle forti individualità. Il suo regno è limitato al primo piano di quella casa dove vedete trasparire la luce attraverso cortine color di opale e dove ella tiene la sua Corte. Ebbe poi la fortuna di fare in tempo una eredità che la mette al di sopra del bisogno... Brrr! Il freddo diventa pungente.

- Non vi trattengo più. Andate dove vi aspettano,

- Se non partiste così subito le chiederei il permesso di presentarvi. Senza permesso non oso. Ella ha uno statuto inviolabile. Pensate che non tollera una famigliarità in pubblico nemmeno dai più intimi amici. Una regina, vi ripeto.

- Tullia d'Aragona - mormorò lo straniero.

- Forse, ma non si impanca come Tullia a fare la letterata. Convenite che il vantaggio è grande. Ella ha preso per motto un verso di un'altra donna emula di Tullia, la Veronica Franco: Se bene o male io stessa mi contento. Un senso innato di fierezza e di onestà a suo modo la guida dignitosamente fuori della legge comune. Da suo padre ha ereditato l'ingegno scintillante, ebbe una educazione signorile ed ha anche della bontà, quando occorre, senza esserne mai schiava. Non è lei, per esempio, che si lascerebbe derubare od ingannare dai suoi domestici, ed ha domestici affezionati che la servono da anni. Quanto alle relazioni non riceve donne. Quelle della sua nascita e della sua cultura non le perdonerebbero gli errori suoi e de' suoi genitori: delle altre non saprebbe che farne. Per gli uomini pure ha un certo criterio di selezione che rende i suoi ricevimenti ambitissimi. "Nè libertini nè sciocchi" ha scritto di suo pugno sulla prima pagina dell'albo dove raccoglie le firme de' suoi ammiratori. Capirete, si sta all'erta così e si riesce ad essere un po' meno imbecilli!

- Badate a non perdere la testa.

- Se anche la perdessi ella è donna da ritrovarmela e rimetterla a posto.

Lo straniero questa volta si mise a ridere sonoramente, correggendo ciò che vi poteva essere di indiscreto nel suo riso con una energica stretta di mano.

Rientrando poi all'albergo, alle ore piccole, non scrisse nel suo taccuino ciò che precisamente avrebbe voluto il suo compagno, ma vergò sotto la data del giorno queste sole parole: "Gli innamorati sono sempre e dappertutto gli stessi".

II.

Se bene o male io stessa mi contento.

(VERONICA FRANCO).

Col passo sicuro dell'abitudine il giornalista varcò una porta di simpatica apparenza che a lui principalmente, milanese autentico, doveva piacere per il carattere generale di comodità e di agiatezza ambrosiana senza ricerche ostentate e senza sciatterie. Era una di quelle porte del settecento come se ne vedono ancora nei vecchi quartieri, con motivi ornamentali dalle curve morbide tutte piene del calore intimo e particolare che si ritrova in certi barocchi. Un breve andito, una portineria modesta, un cortile con un po' di verde, e finalmente una scala non troppo ampia ma che acquistava signorile aspetto dalla bussola chiusa e da un tappeto di panno rosso sobriamente illuminato da una fiamma a gaz. Suonò il campanello del primo piano e al domestico che venne ad aprirgli chiese:

- C'è molta gente?

- Molta; ma qualcuno sta già accomiatandosi per la serata di gala alla Scala.

Benedetta serata! pensò il giornalista ravviandosi gaiamente i capelli; ed essendosi in quel punto rammentato che vi doveva pure essere un gran ballo in casa Visconti ne trasse argomento di tale letizia che entrò nel salotto con una baldanza affatto giovanile.

La signora del luogo stava seduta da sola sopra un divano. Era vestita di velluto nero con scollo a punta, circondato da una trina meravigliosa fermata da un gioiello; le maniche, che si arrestavano al di sopra del gomito, erano pure terminate dalla medesima trina e dalla ripetizione in piccolo del medesimo gioiello. Niente altro. Lo sfolgorìo che la avviluppava quasi un nimbo, dando al subito vederla l'impressione esatta di una apparizione, veniva dal suo interno, da' suoi occhi, dal suo sorriso.

Era una creatura di sogno; aveva del fiore e del raggio. Non si poteva vederla senza provare il bisogno inconsulto di vivere nell'orbita della sua vita, ammirandola, quasi ringraziandola del bene che faceva colla sua bellezza; bellezza mobile, impressionante, che andava dallo sguardo alle labbra come un lume portato a mano il quale alterna bagliori improvvisi ad ombre piene di suggestione. La maggior parte di coloro che la frequentavano non avrebbe saputo dire se fosse bruna o bionda, tanto le caratteristiche dei due tipi si fondevano in quella specie di aureola che sembrava assorbire tutti i particolari del suo volto per non lasciare che una visione di luce; e se da questa immagine del raggio si passava a quella del fiore, era perchè la fragile esilità del corpo che la sorreggeva e la grazia cedevole dei movimenti suscitavano veramente l'idea di uno stelo. Ma al di sopra ancora della forma e del colore il mistero dell'intelligenza, sempre presente in lei e sempre vigile, vibrante ad ogni impressione, sia che si affacciasse qual da spiraglio aperto al varco della pupilla o che frenato preferisse adombrarsi in un lieve caratteristico batter delle ciglia, dava a tutto il suo essere l'impronta di una personalità squisita.

Come la prima volta, come sei anni addietro, il giornalista rimase un momento estatico a contemplarla, nascosto dal gruppo di persone che circondavano il divano.

- Sempre lei! non è vero? - mormorò al suo fianco con voce tremula da capra e pronuncia mancante qua e là di alcune consonanti, un signore lungo, cui il giornalista si affrettò a stringere la mano.

- Oh! don Peppino . È un bel pezzo che siete qui? Io non potei venire prima in causa di un collega... uno straniero, col quale dovetti pranzare... Ma quanta gente! Speravo maggiore intimità. Una volta eravamo in pochi a conoscere la data del suo compleanno.

- Una volta!! - ripetè don Peppino allentandosi coll'indice il nodo della cravatta. - Figuratevi che io la conobbi quando aveva ancora le treccie giù per le spalle e suo padre e sua madre ricevevano la migliore società di Milano. Abitavano in casa d'Adda, là, ai Portoni, e Norina non era allora così bella... Ne corse poi dell'acqua sotto ai ponti!

- Sì. Noi siamo i suoi più vecchi amici.

Il giornalista pronunciò questa affermazione con tanto maggior calore in quanto che don Peppino aveva una diecina d'anni più di lui, i capelli brizzolati, la voce t,Remo lante e tutt'insieme non gli era mai parso un rivale pericoloso; anzi contribuiva col suo nome patrizio e colla sua dignitosa persona al decoro di quel ricevimenti, e perciò gli faceva festa volentieri.

Due giovani ed eleganti ufficiali di cavalleria si inchinarono intanto a baciare la mano della signora.

- Non posso soffrire gli ufficiali di cavalleria! - esclamò il giornalista.

- Eppure sono molto carini.

- Fatemi il piacere!

- Hanno una bella divisa.

- Che! Si dovrebbe interdire ai militari di presentarsi in società con quegli abiti da operetta. È un'idea, sapete? I chirurghi vestono un casaccone speciale quando fanno le operazioni e i magistrati la toga quando vanno alle Assise, ma non si permettono di comparire a quel modo davanti alle signore. Voglio scrivere un articolo.

Don Peppino . rideva quietamente, da persona bene educata.

- Vi tirerete addosso tutto l'esercito e buona parte del bel sesso. È ben vero che si sono fatte delle guerre per motivi anche più futili. Dario dichiarò guerra agli Ateniesi perchè i loro fichi erano superiori a tutti gli altri. Lo disse...

Il giornalista non lo ascoltava più. Avendo scoperto una breccia nella siepe degli ammiratori si slanciò. Ella lo accolse con un sorriso:

- Vi aspettavo, caro.

La musica di queste tre parole e il dolce rimprovero che contenevano o che parve a lui che contenessero, gli fece salire al cervello un fumo di ebrezza. Cercò a tastoni una sedia il più possibilmente vicina al divano, trovò uno sgabello e vi si lasciò cadere. Da quel posto umile ma invidiato contava di lasciar sfollare un poco gli intrusi (così egli chiamava i nuovi venuti) e pascersi intanto della vista della signora, quando un sorriso caustico sbocciato proprio davanti a lui sul viso di un uomo che occupava la poltroncina più immediata accanto al divano gli gelò il sangue nelle vene. Wilss ! fischiò una serpe dentro il suo petto.

Come se l'altro lo avesse udito e volesse procurarsi il godimento felino del gatto che tende la zampa vellutata al topo, lo salutò con un cenno del capo troppo gentile perchè il giornalista potesse esimersi dal fare altrettanto. Ma pur salutando mulinava iroso: Che cosa fa qui costui? Perchè è venuto ancora? Perchè le sta così dappresso? Perchè mi guarda a quel modo?

L'oggetto di tale monologo interrogativo poteva avere dai trent'otto ai quarant'anni e quantunque i lineamenti irregolari, il naso camuso, le mascelle grosse non lo additassero quale tipo di bellezza, era pure un magnifico campione della razza umana per il doppio sentimento di intelligenza e di forza che si sprigionava da tutto il suo essere. Vestiva con quella apparente trascuratezza inappuntabile dei veri ricchi che non si curano affatto della esteriorità ed aveva nel contegno, nello sguardo, nello stesso silenzio una espressione di dominio così sicura e tranquilla che il giornalista, sempre più irritato, lasciò improvvisamente lo sgabello e rincorrendo don Peppino che stava coll'occhialetto in mano a contemplare un quadro poggiato sopra un cavalletto gli domandò a bruciapelo:

- Ma quell'americano non era andato in America?

- Quale americano? - fece candidamente don Peppino sgranando gli occhi.

- Quel Wilss della malora.

- Ah! mister Wilss . Ebbene, egli è andato e poi è ritornato. Che ve ne pare di questo quadro?

Il giornalista gettò sulla tela una occhiata distratta pronunciando:

- È un nuovo acquisto?

- È il mio dono per il compleanno - rispose don Peppino con un sorriso di compiacenza. - Vedete queste parole scritte a tergo? (voltò il quadro per un istante). A te principium tibi desinet . L'ho conosciuta sì piccina!

- Dove le avete trovate le parole? Già un feroce lettore quale voi siete pesca sempre nei libri. È per questo che quando parlate non si sa mai se siete voi o un altro.

- È il motto di Mirabeau a Sofia - tornò a rispondere don Peppino senza rilevare l'acrimonia dell'amico. - Il quadro vi piace?

Il giornalista questa volta lo guardò più attentamente palpando colla mano un piccolo oggetto in fondo alla sua tasca.

- È un Alma Tàdema forse? - È un Burne; ma assomiglia infatti a qualcuno del Tàdema. I due pittori hanno un punto di contatto quando si tratta di raggruppare diverse figure; anche qui l'effetto è un po' disperso; non al punto dell'Adriano che non trovando compratori fu dallo stesso autore tagliato in tre e venduto a spicchi come un cocomero... Questa è una scena rifatta del Convito di Peleo. Osservate di grazia la donna a destra... non è il suo sorriso?

Richiamato alle preoccupazioni gelose il giornalista esclamò:

- Parlatemi di quell'americano. Che cosa fa qui?

- Io non ne so nulla caro amico. Lo abbiamo trovato l'anno scorso come oggi, ricordate? Quando e dove Norina lo abbia conosciuto non si seppe mai. Egli le fece allora una corte in piena regola, gliela fa probabilmente ancora; e siccome sarebbe un po' arrischiato anche per un americano imitare i cavalieri del tempo di Artù, i quali per provare alla loro dama che erano insensibili a tutto ciò che non fosse il loro amore andavano attorno di piena estate colle pellicce e di pieno inverno nudi affatto, mister Wilss si accontenta di traversare l'Oceano per venirle a presentare i suoi auguri. Non c'è male. È cavalleria da milionari.

Il giornalista, essendosi abbastanza rosolato da questa parte, stimò che valesse meglio ripresentare l'altro fianco al fuoco e tornossene al suo posto sullo sgabello che era rimasto vuoto perchè i visitatori a poco a poco se ne andavano. Ma chi non si muoveva era il signor Wilss . Allora, facendo buon viso alla sorte qualunque fosse, l'eccitabile amante si rassegnò a prendere quel tanto che avrebbe potuto se non voluto, ed ammansandosi man mano sotto gli sguardi e le accorte parole della signora, riprese il suo giogo fiorito intorno al divano fra i quattro o cinque che erano rimasti, spiando l'opportunità di un colloquio più intimo.

- Eleonora , mi fai morire! - le susurrò all'orecchio in un momento in cui si era impegnata una discussione fra uomini.

Ella si volse a guardarlo coi begli occhi corrucciati dentro cui passò un lampo:

- Lo meritereste bene... almeno per un poco. Anzitutto...

- Lo so, lo so, perdonate, ma vi amo tanto!

- Ed è una ragione per starvene rannuvolato così tutta la sera, la sera del mio compleanno?

Gli aveva teso la mano e il braccio bianchissimi sotto il velluto nero della manica. Egli si curvò ad esaminare il gioiello che fermava la trina sulla piegatura interna del gomito, ma in realtà distratto dalla delicatezza madreperlacea che appariva in quel punto dove una vena azzurra serpeggiava fra le nevi leggermente concave in una morbidezza che sembrava chiamare le labbra irresistibilmente.

- Siete ancor più bella con quest'abito, se non fosse troppo serio per la vostra giovinezza.

- Sapete che entro oggi nel trentesimo anno? L'ho messo apposta quale proposito di vita più saggia.

Egli la guardò inquieto, non sapendo quale parte gli sarebbe riservata nel nuovo programma; ma la discussione intanto si riscaldava nel gruppo vicino a loro intorno a un argomento di attualità.

- Che cosa ha fatto precisamente questo giovinotto per meritare tanto interessamento?

Era Wilss che moveva la domanda e la signora, volgendosi vivamente dalla sua parte, esclamò:

- Che cosa ha fatto? Questo. Una delle scorse notti, la più rigida, la più scura che si possa immaginare, si appiccò il fuoco a un grande caseggiato fuori di Bergamo, un collegio dove stavano raccolte tre fanciulle maestre e inservienti non meno di cinquanta persone; cinquanta persone, capite, lontane dall'abitato e quasi impazzite dal terrore. I giornali hanno dato i particolari della orribile scena. Esaltate, sfuggendo alla soffocazione dell'incendio, le povere donne si accalcavano invano alla porta d'uscita trasformata in rovo ardente e cadevano le une sulle altre, urlando, gemendo, strette in un cerchio di fiamme. Tutto intorno, pensate, era silenzio e solitudine!... Solamente a mezzo chilometro circa, da un casolare campestre, si accorsero dell'incendio; ma i padroni del casolare, due vecchi, pare si chiudessero ermeticamente nel loro guscio impedendo ad un giovine che viveva con loro di accorrere sul luogo del disastro. Fu questo giovine che si lasciò calare dalla finestra, raggiunse a corsa il palazzo incendiato, e con una presenza di spirito meravigliosa e pari audacia, girando al lato nord, dove scorre un fossato lungo il muro di cinta che nessuno aveva preso in considerazione perchè mancante di uscita, diede coraggiosamente la scalala e le piccole bimbe portò via in collo, le più energiche fece saltare addirittura dalle finestre nel fossato dove egli stesso andava a raccoglierle conducendole alla riva, così che su cinquanta persone immancabilmente destinate a perire, otto o nove appena rimasero ferite. È portentoso, sopratutto riflettendo che fu un uomo solo a fare tutto ciò, un giovane campagnuolo cui non moveva nessun interesse egoistico, che dovette fuggire di casa contro la volontà de' suoi e che ora si trova in fin di vita per le conseguenze del suo slancio generoso. È o non è una bella azione?

Il bel volto della signora si era straordinariamente animato durante il racconto, troppo forse, perchè il geloso si affrettò a soggiungere con poca riflessione:

- Non bisogna però credere a tutto quello che dicono i giornali, alle ampollosità, alle gonfiature...

- Tengo nota della confessione - ribattè subito la signora: - essa è preziosa, molto più quando si volesse risalire dal giornale al giornalista.

Le parole erano dette con tanto garbo che non si poteva aversene a male; ma la smorfia maligna del signor Wilss , quella era amara da inghiottire. Sentendosi nondimeno troppo commosso per accettare una scherma di frizzi egli continuò, con tutta serietà:

- Noi latini siamo impressionabili. Giovinotti che danno la scalata ai muri, riflettendo bene, non hanno nulla di meraviglioso e quanto all'accorrere sul posto dell'incendio è una gloria da pompiere.

- No, no; fatemi il favore grandissimo di non pronunciare più una sillaba su tale argomento. Potrete scrivere, se v'aggrada, un articolo per dimostrare su quali dati si debba decretare la medaglia al merito. Io però non lo leggerò. Non mi piace mettere uno spegnitoio sui miei entusiasmi.

- Cambise ... - incominciò don Peppino ; ma non potè così subito seguitare perchè il giornalista volle chiedere scusa alla signora e ottenerla e prometterle di lasciarla arbitra per tutti gli allori presenti e futuri.

- Per penitenza però della vostra insubordinazione preparerete un entrefilet per annunciare ai vostri lettori che il giovane Ippolito Brembo, oltre che essere un eroe, ha spiegato un talento eccezionale come musicista. Ne ebbi la comunicazione diretta da un professore del Conservatorio di Bergamo.

- Cambise - don Peppino approfittava di una pausa - essendo innamorato di sua sorella, domandò ai giudici del suo Regno se non esistesse qualche legge che gli permettesse di sposarla. No, risposero i giudici imbarazzati e timorosi di spiacere al monarca; ma ve n'è una la quale permette ai re di Persia di fare ciò che vogliono.

- Graziosissimo! - esclamò il signor Wilss , - Inchiniamoci alla regina di Persia.

Ed ella disse:

- Prometto un premio, che potrebbe anche essere una discrezione, a chi saprà condurmi qui il giovane eroe.

- Vi faccio osservare - insinuò il giornalista - che egli trovasi per il momento nella impossibilità di muoversi. Le ultime notizie, lo sapete anche voi, recavano che il suo stato è gravissimo. Anche salvandosi resterà un mostro.

- Poveretto!

Ella ristette pensierosa, colla guancia appoggiata ad una delle sue bellissime mani. Se il geloso avesse potuto leggerle nel pensiero non sarebbe stato niente affatto pago del progresso che faceva l'eroe sconosciuto sulla immaginazione della donna, sazia oramai delle solite avventure ed avida ancora.

Il crocchio intanto si era diradato. Rimanevano appena Wilss , don Peppino e il giornalista, il quale, approfittando di un momento in cui gli altri due stavano discorrendo tra loro, fece scivolare in grembo all'amica un astuccio che si era levato di tasca.

- Che cos'è? - fece ella aprendolo senza soverchia curiosità, assente ancora; ma subito commovendosi si levò in piedi per guardarlo meglio alla fiamma di una lucerna.

Era, in piedi, meravigliosa. Wilss girò la testa avviluppandola con uno sguardo elittico; quasi ella ne avesse subito il magnetismo, gli si avvicinò d'un balzo fino a sfiorarlo:

- Guardate, Wilss !

Poi, senza aspettare i commenti, tornò accanto al giornalista:

- È avorio vecchio?

- Un avorio del quattrocento, probabilmente fiorentino. L'ho trovato da un antiquario e fui colpito dalla espressione della donna che solleva le braccia riversandosi in dietro col corpo verso la Croce in modo così appassionato, così ardente...

- Dà i brividi! - ella disse con accento profondo.

- Nevvero? Mi piacque perchè rappresenta il mio stato d'animo e sarò felice se volete aggradirlo.

- Grazie.

- È veramente squisito. - soggiunse don Peppino curvandosi coll'occhialetto in mano - degno di Norina .

- Perchè veramente vi ostinate a chiamarla Norina ? - chiese il giornalista. - È così bello il nome di Eleonora .

- La conobbi colla treccia giù... - si scusò don Peppino colla sua voce belante - Eleonora del resto è troppo lungo.

- Lungo? Un nome caro non lo si assapora mai troppo, e se è lungo meglio.

- El...ly! - mormorò Wilss , mostrando nella lentezza della pronuncia come si possano assaporare anche due sole sillabe.

- Non mi piacciono i nomi storpiati, nè in italiano nè in inglese. Un bel nome di donna è pari alla musica scritta da un grande maestro; non bisogna alterarne una nota - riprese il giornalista.

- Mi ricordo l'impressione che ebbi da alcuni nomi di fanciulla scritti accanto ai loro lavori nella mostra delle scuole egiziane laggiù al Parco, al tempo delle Esposizioni riunite, uno fra tutti: Dulcelina Schiava. Non sentite in questo nome la poesia dell'Oriente?

- Tanto più - disse serio il signor Wilss - che lì accanto vi era la mostra della Birmania con due orecchini di vetro verde che sembravano lumini da notte e una statuetta dell'ultimo Budda morente per dissenteria. Anche questo è molto orientale.

- Wilss ! - fece la signora corrugando lievemente le sopracciglia.

- Convengo - riprese don Peppino - che certi nomi fanno alle volte un effetto curioso. Io non posso tollerare la Venere dei Medici perchè ha una faccia da Carolina, e Carolina mi è un nome insopportabile.

- Ecco almeno qualche cosa di inedito! - osservò il giornalista. - Si può soggiungere che certi nomi avvantaggiano certe parentele. Eleonora Duse è magnifico; ma che effetto farebbe una Brigida Duse? E ancora: Eleonora è così bello, così pieno, che basta a se stesso. Non mi ricordo se la Venere dei Medici abbia una faccia da Carolina. So bene però che Eleonora potrebbe convenire a qualsiasi dea.

- Norina è più affettuoso.

- Elly più pratico.

Mentre le voci si riscaldavano la signora interruppe:

- Sono grata a tutti delle buone intenzioni e mi guardo bene dal negarle; ma faccio osservare che nessuno di voi permettendosi delle varianti al mio nome ha pensato di chiedere almeno il mio parere. Ora ve lo dico io. Non mi piace nè Eleonora , nè Norina , nè Elly . Amerò di più quello che mi chiamerà Lilia .

- Lilia ! Lilia ! - esclamarono ad una voce don Peppino e il giornalista, mentre Wilss soggiunse abbassando la voce:

- Vi chiamerò Lilia quando acconsentirete a sposarmi.

Ella lo guardò colle pupille stellanti meravigliose di luce, ma non rispose nulla.

Fu il giornalista che attaccandosi a don Peppino gli susurrò con malumore:

- Cosa parla di sposare quell'americano?

- Eh! Eh! Non sarebbe un cattivo partito, sapete? Quattrini parecchi, uomo simpatico...

- Simpatico! Che bestemmia! Con quel naso.

- Anche Socrate lo aveva.

- E appunto non fu fortunato colle donne.

- Comunque, il dono che egli le fece oggi mi pare proprio un dono da futuro marito.

- Voi sapete tutto.

- È il vantaggio di averla conosciuta...

- Sì, sì, la nota storica. Che cosa le ha dato infine?

- Un servizio da tavola in argento e oro.

- Peuh! che cattivo gusto. Un servizio da tavola! Si può essere più volgare?

- Quando lo vedrete muterete opinione. È un finissimo lavoro artistico. Ogni pezzo rappresenta un mese dell'anno simboleggiato da un fiore: gennaio elleboro, febbraio violetta, marzo primula, e via via. Deve essere costato una somma pazza.

- Già! Ha voluto buttarle in faccia i suoi milioni per abbagliarla, da quel rifatto che egli è.

- Non digrignate tanto i denti, amico. Norina , cioè Lilia , vi inviterà a pranzo, e potrete ammirare il gusto squisito di un'opera d'arte.

- Per mangiarvi la zuppa.

- E perchè no? Nei secoli d'oro della bellezza ogni oggetto destinato ai bisogni della vita riceveva questa impronta di un concetto di arte che lo nobilitava. Bere una perla, checchè se ne possa dire, è un piacere selvaggio; ma bere dentro a una perla sarebbe da raffinato. Non vi pare?

Il giornalista non rispose perchè era ritornato presso alla signora, umile, mormorandole una parola all'orecchio.

- Geloso! - ella disse ridendo e battendogli il ventaglio sulla bocca.

Egli prese il leggiadro oggetto e lo baciò religiosamente, ma insistette:

- Ditemi se è vero!

- Che ve ne importa? Voi già non potete sposarmi.

- Chi lo dice?

- Il codice, amico mio, che non permette due mogli; ma tranquillizzatevi, non sono ancora decisa a perdere la mia libertà. Se dovessi prendere marito, voi mi conoscete, sarebbe sul serio. Dunque per ora no!

Questa frase, forse ad intenzione, era stata pronunciata con voce abbastanza alta perchè tutti potessero udirla; e come si sorbisce lentamente un liquore prelibato il giornalista si voltava e rivoltava fra le labbra quel prezioso no, senza sospettare che Wilss accoglieva per suo conto il non meno prezioso per ora, pur rimanendo impassibile sotto la sua maschera socratica.

Vi fu qualche istante di silenzio, rotto da don Peppino con accento più tremulo e più patetico ancora del consueto, mentre si faceva innanzi con una esitazione comicissima da Re Mago in cospetto del Presepio.

- Divina Lilia , sono ben fortunati questi giovinotti che possono parlarvi d'amore e di matrimonio, mentre io non lo potrei fare sotto pena di espormi al ridicolo; ecco ecco che già ne vedo i prodromi sui loro volti... Lilia salvatemi!

- Che malinconia vi piglia, don Peppino ? e che cosa posso mai fare per voi?

- Voi potete rendermi sacro.

- Nientemeno.

- L'imperatore Nicolò di Russia...

- Ah! ecco l'aneddoto. Don Peppino siete insopportabile!

- Lasciatelo terminare - ordinò Lilia .

- L'imperatore Nicolò di Russia, in seguito a un editto che proibiva il duello agli ufficiali, se ne trovò davanti uno il quale, avendo ricevuto uno schiaffo, mal sapeva scegliere fra l'onta dei compagni e lo sdegno dello Czar e fremeva e chiedeva aiuto di consiglio. Nicolò lo tolse dall'imbarazzo baciandolo sulla guancia in presenza di tutta la sua Corte e dicendogli: "Il tuo affronto è cancellalo. Ti fo sacro". Fatemi sacro voi pure, signora mia, sfiorando col vostro bel labbro la mia venerata canizie così che nessuno possa ridere di me quando dico di amarvi.

Il giornalista stupefatto della conclusione si pose a gridare:

- Non si può dire che costui non sappia trar profitto dalle sue letture. Ce ne vuole del toupet ! L'istruzione a questo modo diventa un'immoralità.

Ma Lilia , ridendo fino alle lagrime, aveva gettato le braccia intorno al collo di don Peppino e lo baciava sonoramente sulle due guancie.

III. CAMBIAMENTO DI SCENA.

Il paesaggio è quello che si stende al sud di Bergamo per una serie ininterrotta di campi coltivati la maggior parte a grano ed a gelsi, con verdeggiamenti nella stagione buona di erbe alte e distese dorate di ravettone in fiore, opulenti sotto il cielo morbido di Lombardia. Ma una forte nevicata in principio di febbraio, seguita da disgelo, aveva steso sulla pianura una monotona tinta grigio sporco dove i rami secchi degli alberi si confondevano coi campi, e colle strade coperte di fanghiglia, e coi ruscelli che sembravano morti fra le due rive spoglie di cespugli a guisa di labbra sdentate. Solo in fondo, verso Bergamo, brillava in cima alla avvenentissima prealpe il diadema di un cielo azzurro senza nubi, ma era molto lontano e si vedeva appena.

Le campane dei rari paesi sparsi avevano suonato tutte l'Ave Maria e nel freddo crepuscolo saliva insieme all'onda dei suoni, il fumo dei comignoli, aggiungendo una nuova gradazione bigia al colore del paesaggio che acquistava nell'insistenza della stessa nota una espressione di malinconia intima e profonda, eppure dolce, quale d'anima amorosa che soffrendo e aspettando spera.

Per quanto l'occhio potesse abbracciare era dovunque una quiete di giornata chiusa, di attività sospesa e riposante; nessun passaggio sulla strada; nessun rumore di attrezzi e di carri: qualche lontano abbaiar di cani e il nitrito di un cavallo dentro una stalla rammentavano debolmente la vita.

Eppure guardando bene lungo il filare dei gelsi stecchiti, sulla striscia di terra più alta e più asciutta, un'ombra passava stretta nella giacca contadinesca sotto la quale pendeva il logoro sacco del portalettere.

Sul finire della giornata umida e grigia, mentre gli altri stavano giù raccolti nel tepore delle case, il portalettere compiva il suo giro, metodico, irresponsabile, inesorabile come il destino. Nulla della sua figura scialba staccava sul fondo uniforme della campagna; sul terreno molle il suo passo non produceva alcun rumore. Egli andava, indifferente, senza fretta e senza posa, recando i palpiti di mille cuori. La via si allungava dietro a lui, i rami degli alberi impallidivano sempre più nella leggera nebbia serotina, sempre più confondevasi la forma e il colore delle cose, nè egli se ne accorgeva. Il movimento meccanico di mettere un piede innanzi all'altro senza indugiare, senza distrarsi mai, per anni ed anni, sulla stessa via, alle medesime ore, in condizioni invariate, sordo e cieco ai segreti che recava con sè, passivo e pure fatale, obbediente come la natura che lo circondava ad una legge invisibile: questo continuo assorbimento del suo io nel cumulo di passioni e di desideri che gli fremevano intorno gli avevano tolto le caratteristiche comuni agli altri uomini. Egli non si fermava mai a contemplare un punto nuovo dell'orizzonte, perchè nessun punto era nuovo per lui; nè affrettava o rallentava il passo, non avendo nessuna ragione di arrivare prima e non potendo in causa del servizio ritardare; nè mai gli occorreva di sostare guardandosi intorno incerto della strada, nè canticchiava o zufolava simile a colui che va a diporto, nè faceva i conti e i preventivi di chi si reca a contrattare per compere o vendite. Sorteggiato a distribuire la gioia e il dolore procedeva silenzioso, inavvertito quasi, fra le acque dormenti nel fondo dei fossati e grigie come la terra grigia, come il cielo.

L'ultima meta del suo viaggio in quel giorno era un caseggiato largo e basso, una specie di fattoria con un'aia davanti, un verziere a tergo e fiancheggiato da piccole fabbriche per gli usi diversi della vita di campagna. Il portalettere traversò l'aia e andò direttamente a bussare a un uscio dalle cui fessure usciva un sottil raggio di luce; ma nemmeno ebbe bisogno di bussare, perchè appena urtata l'imposta una ragazzetta che stava per uscire ad attingere acqua tese la mano alla lettera che biancheggiava sull'orlo della buia sacca.

- Una sola?

- Sì, questa sera è una sola.

- Siete stato bravo a venir fin qui per una sola lettera.

L'uomo si strinse nelle spalle senza rispondere. La ragazzetta, dato un salto indietro, buttò la lettera sopra una tavola e scappò ad attinger acqua facendo risuonare il manico della secchia.

La tavola sulla quale la lettera era caduta trovavasi nel mezzo di una cucina vasta, rallegrata da un bel fuoco di legna scoppiettante sotto il camino. Al lieve rumore una donna che stava attaccando il paiolo all'uncino si volse e mormorò:

- Ancòra!

Di là dalla cucina, attraverso un uscio aperto, una voce d'uomo chiese imperiosamente:

- Chi è?

- Nulla. Il portalettere.

Rispose un grugnito di là dalla cucina e la lettera rimase sulla tavola nera. Quando ritornò la servetta coll'acqua, dopo di avere deposto la secchia, si accostò adagio e toccò la lettera con un dito; poi, sillabando lentamente l'indirizzo, disse:

- È per il signor Ippolito .

- Naturalmente. Per chi dovrebbe essere?

- Gliela porto?

- Ci mancherebbe altro! Sbuccia le patate e lesta! Finirà bene anche questo nolo.

Che cosa intendesse la donna con quella parola "nolo" applicata fuor di proposito sarebbe difficile dire; ma l'espressione di malumore che l'accompagnò la corredava di sufficiente spiegazione. Era una femminuccia sui cinquanta, scialba e raggrinzita nel suo abito di lana scura, con un largo grembiule dinanzi alla moda di provincia e due manichini di lana nera lavorati a punto di calza con un festoncino di perle d'acciaio ricadente sulle mani piccole e rugose.

- Rosalba ! - chiamò, di là dalla cucina, la voce imperiosa.

- Un momento. Non si può servire insieme il papa e l'imperatore.

Che il paiolo rappresentasse il papa o che rappresentasse l'imperatore, la femminuccia vi prestava tutta la sua attenzione; e non era certamente di quelle che possono prodigarsi.

- Dov'è ,Remo ?

- Non lo so.

- E quell'altro di sopra che cosa fa?

- Aspetta la sua zuppa, ma l'aspetterà un pezzo. Miracoli non ne fa nessuno.

La servetta che si divertiva intanto a fabbricare una chiocciola colla buccia delle patate ricevette un pizzicotto nell'orecchia e gettò un grido.

Dall'altra parte si tornò a chiedere:

- Che cosa c'è?

- Nulla. Un pizzicotto meritato.

Il dialogo continuava a sbalzi attraverso l'uscio aperto, accompagnato dal crepitare della fiamma sotto il paiolo, quando dalla porta sul cortile entrò un ometto accuratamente chiuso in un pastrano color marrone. Entrò fregandosi le mani, sorridendo e guardandosi in giro con due occhi buoni e lucenti ai quali le sopracciglia singolarmente rialzate conferivano una espressione di stupore perenne.

- Non pretenderete anche voi che il desinare sia pronto, dal momento che sono sola a pensare a tutto e che mi tocca servire anche il signorino, di sopra, con due braccia sole...

- Ma... io... io non ho ancora aperto bocca. Io non pretendo nulla, Rosalba . Che bel fuoco! Come si sta bene qui!

- Già... colle mani in mano a godersi il lavoro degli altri.

Il nuovo arrivato chinò la testa come un cane sotto lo scudiscio del padrone e passando dietro la servetta la accarezzò paternamente sui capelli.

- Non le fate perder tempo! - garrì Rosalba . - Siete voi che mi guastate tutte le serve.

A questa nuova accusa le sopracciglia ad arco acuto invasero tutta la fronte, ma il loro proprietario non disse nulla. Anzi, avendo proprio in quel punto teso timidamente il collo per guardare la lettera che stava nel mezzo della tavola, Rosalba gli intimò così bruscamente di badare a' fatti suoi che egli si affrettò a sgattaiolare per l'uscio aperto nell'altra stanza, la quale era un tinello molto modesto illuminato da una lampada a petrolio, con qualche sedia di cuoio, una libreria e un attaccapanni. La mensa, già pronta, era coperta solo per metà da una piccola tovaglia sulla quale stavano appoggiati tre coperti con posate d'ottone (quelle d'argento si serbavano per le occasioni) e piatti di maiolica ordinaria e tre tovaglioli prudentemente rinchiusi in tre anelli ricamati a punto in croce; un anello rosso, uno giallo, uno bleu.

Il proprietario dell'anello rosso lo aveva già sciolto. Seduto a capo tavola nell'unica sedia a bracciuoli, più alto di tutti gli altri, dominatore, colla persona aitante, la testa poderosa, il volto irsuto, faceva pensare ad una di quelle vecchie statue ornamentali rappresentanti un Fiume. Contribuiva all'illusione la posa solenne di deità pagana, col pugno destro appoggiato alla mensa e il braccio rilevato, proprio a guisa di ponte sotto il quale scorresse la fiumana dei secoli. Guardò d'alto in basso l'ometto dal pastrano color marrone mentre stava levandoselo dalle spalle per appenderlo, non senza qualche sforzo di equilibrio sulla punta dei piedi: dopo di che, tirando indietro col minor rumore possibile la sedia accanto al colosso, si disponeva a togliere dall'anello giallo il proprio tovagliolo.

- Che luna!

- Luna? - ripetè l'ometto guardando il soffitto.

- Dico a te. Non hai ancora aperto bocca. È una vita piacevolissima; piove tutti i giorni, quel citrullo è sempre a letto, e tu che te la spassi in giro come un signore, tornando a casa non hai nulla da raccontare.

- Se sapessi, Romolo , che ti può far piacere la descrizione della mia giornata, ti direi che col nuovo semestre avrò sette bambini di più, che nella scuola non ci staranno tutti e che oggi sono andato a Bergamo per domandare al signor ispettore che mi conceda un altro locale.

- Tutti così questi maestri. S'immaginano che il mondo stia ritto sulle loro scuole e che non si abbia altro a fare che pulire il naso ai loro marmocchi. Per quel che rendono!

- Si fa quel che si può.

- Ma giammai quello che si deve. Io mi domando che cosa fruttarono i tuoi quarant'anni d'insegnamento. Quale uomo, dico, quale uomo, è uscito dalla tua scuola? A calcolare trenta allievi all'anno, farebbero mille e duecento; ma colle lezioni private ed altre storie possiamo argomentare che mille e cinquecento fanciulli sono passati sotto le forche caudine della tua grammatica e della tua aritmetica. Che cosa ne hai fatto? Dov'è Cesare? Dov'è Dante? Dov'è Galileo? Dov'è Sisto V? Dov'è Napoleone? Dov'è Napoleone, andiamo?

- Ma...

- Non c'è ma che tengano. So quello che vuoi dire, ed è un errore. Bada, un errore grosso, marchiano.

- Io non posso...

- Sta zitto che te lo dico io. Tu vorresti far credere che è Dio che crea i geni.

- Mi pare.

- Dio crea il seme delle quercie, d'accordo; quantunque... basta, lasciamo correre. Ammesso, per farti piacere, che Dio crea il seme delle quercie, se voi altri lo coltivate nello stesso modo delle zucche e delle rape...

- Scusa...

- Siete voi, col vostro metodo cretino, colla vostra supina acquiescenza all'ordine; con tutto quell'arsenale di dogmi balordi e d'insegnamenti puerili che strozzate gl'ingegni sul nascere, insaccando nelle vostre classi menti umane come altri insacca in un budello carne di maiale!

Momentaneamente calmato dalla sfuriata il colosso girò intorno, roteante di fiamme, il suo occhio nero protetto da un grosso cespuglio di peli ispidi e grigi.

Nati ad un parto, chiamati per questo Romolo e ,Remo , i due fratelli presentavano le maggiori disparità che si possono riscontrare in due individui appartenenti al medesimo sesso. Quanto Romolo spiegava di potenza e di forza, altrettanto ,Remo offriva di dolcezza e di remissione. Venuto secondo alla luce, mentre già la famiglia si era rallegrata del maschio poderoso e ne era paga, lui esile e meschino parve subito una superfluità dannosa, un inutile concorrente, una bocca di più. Che faceva al mondo, che importanza poteva avere, lui, così piccolino, in confronto col fratello bellissimo e aitante? Il latte che prendeva dalla madre era un furto fatto all'altro; buono ancora che per gli abiti e per i camicini servivano quelli smessi dal fratello. ,Remo si avvezzò così presto a non contar nulla che ogni cosa gli sembrava regalata, anche lo stretto necessario; ed essendo la sua anima mite, manchevole di qualsiasi lievito di invidia, si univa esso pure al coro dei parenti inneggianti alla salute, alla floridezza, all'intelligenza di Romolo . Per ciò che riguarda costui nessuna quercia (quelle quercie che gli erano per segreto istinto tanto care) si era mai levata più libera nell'espansione dell'aria e dei venti. Al sorgere divino della giovinezza l'universo fu suo. Ebbe un giorno nella vita in cui, misurando il braccio erculeo e l'intelletto volonteroso, egli potè dire a sè stesso: "Il mondo è mio!" Tutti pensarono intorno a lui: "Chi sa che cosa diventerà!"

E non aveva fatto nulla. Non era diventato nessuno. Il fiore dei vent'anni cadde dalla sua bella fronte orgogliosa senza aver dato un frutto. Tentò vie diverse, ma non ne percorse alcuna. La sterilità pesava sopra il suo ingegno pur tanto agile e pronto. Il volere non andava di accordo col potere, oppure una falsità di ambiente e di occasione gli aveva stroncate le forze creatrici; ma erano soltanto le cause esterne che egli accusava, per modo che avanzando negli anni il suo umore si era fatto iracondo sospettoso e bizzarro.

Prima vittima de' suoi accessi di bile era naturalmente il fratello che vi opponeva una rassegnazione tutta fatta di umiltà e di sacrificio. Anima candida e mansueta, nutrita di un vero spirito religioso, ,Remo aveva ondeggiato molto tempo fra il sacerdozio e l'insegnamento; si era deciso per quest'ultimo, trascinato dal suo grande affetto per i fanciulli. D'estate e d'inverno, per quarant'anni, dalla sua modesta cattedra di legno grezzo egli aveva insegnato alle piccole animucce affidate alle sue cure le gioie e i doveri dell'uomo onesto tal quale gli venivano suggeriti dal suo concetto ottimista della vita; nè mai la sua coscienza si era offuscata di dubbi tormentosi; mai l'invidia lo aveva morso, mai dilaniato l'orgoglio, mai turbato la cupidigia. Sereno al pari dei fanciulli coi quali viveva, il suo volto recava l'impronta della sua semplicità e sarebbe parso melenso per una certa attitudine di stupore muto se, sotto l'arco troppo rilevato delle sopracciglia, l'occhio non avesse brillato di luce intelligente.

Rosalba , entrando colla zuppiera, interruppe la discussione tra i due fratelli; discussione per modo di dire, perchè nelle violente diatribe di ogni giorno era sempre Romolo che parlava. Era sempre lui che nella febbre rientrata di lotta e di successo inventava il nemico, lo assaliva incalzandolo furiosamente, lo debellava al suolo e pascendosi di un simulacro di vittoria si rizzava per un istante almeno, pago.

Rosalba , deposta la zuppiera, non sedette subito a mensa. Ella apparteneva a quella categoria di massaie turbolente e brontolone che si ritengono indispensabili quasi come la presenza di Dio. Durante tutto il desinare faceva la spola fra il tinello e la cucina, trovando sempre qualche cosa da rimproverare alla servetta, accusando ,Remo , sopportando male Romolo . Vedova di un terzo fratello morto povero, essendo ella stessa di umile condizione, viveva in quella casa per affetto dei cognati, ma senza che ciò la arrestasse menomamente nel suo dispotismo meschino di femminuccia il quale riusciva talvolta a soverchiare il dispotismo più virile e più alto di Romolo . Mulier subjecta viro , diceva ,Remo nelle ore di bonaccia, e commentava con una certa arguzia ingenua: "Il che tradotto significa La donna comanda e l'uomo ubbidisce".

Se poi la servetta che aveva dodici anni, la testa più spettinata e la lingua più volubile di tutto il circondario, si lagnava qualche volta della brutalità della padrona, ,Remo accarezzandola e sorridendo le parlava di pazienza, di docilità; ed era egli stesso così paziente che l'esortazione sembrava naturale, onde erano per ciò amicissimi.

- Sei stata di sopra? - le mormorò piano in un orecchio, intanto che dietro comando di Rosalba ella levava le scodelle della zuppa.

- Non ho potuto - rispose lesta la servetta.

Una lieve contrarietà, una contrarietà che era piuttosto malinconia, apparve nel volto aperto dell'onesto pedagogo che si pose, come era sua abitudine in tali frangenti, a battere - oh! ma molto adagio - il tamburello colle dita. Rosalba sospettosa, garrì:

- Non era buona la minestra?

- Eccellente, cara, eccellente.

- Salata - soggiunse Romolo .

- Per me - tornò a dire ,Remo in tono conciliativo - non me ne sono accorto.

- Che cosa vuoi mai giudicare tu? Sei senza palato.

- Anche questo può darsi.

- È! - tuonò Romolo . - Una patente di maestro non basta per formare il gusto.

- Già! Già! - mormorò ,Remo sempre più dolce mostrando con un sorriso di apprezzare lo spirito del fratello, ma attento a certi rumori che udiva sopra il soffitto.

La servetta in cucina lasciò cadere un piatto.

- Quella sventata! - gridò Rosalba scattando in piedi e correndo sul luogo del disastro.

,Remo , raccattando la sedia e il tovagliolo che nella furia ella aveva sbattuti in terra, e disponendo in belle pieghe il tovagliolo, approfittò della di lei assenza che lo lasciava almeno con un avversario solo, per chiedere al fratello:

- Hai visto Ippolito nel pomeriggio?

- Sì.

- E come stava?

- Ma benone. Cattiva pelle si salva sempre.

- Che disse il medico?

- A sentir lui la convalescenza è appena iniziata. Solite storie per tirare in lungo. Se mi fossi immaginato una cosa simile lo tenevo a Bergamo o in un modo o nell'altro. E fu per economia... Bella economia, oh! sì, bella! E tu, che fai il maestro, perchè non me lo hai suggerito? Si sarebbe evitato tutto. Ma già basta insegnare agli altri per non capire niente in casa propria. Ed è pure un tuo beniamino quel rompicollo!

- La sua azione in quella notte è stata eroica però.

- L'eroismo di un pazzo. Eroismo! Eroismo? - continuò Romolo esaltandosi in una visione d'impotenza rabbiosa. - Sono questi gli eroi! Quattro salti acrobatici e la fama è stabilita. Uno consuma la vita tendendo il proprio genio come arco alla gloria e rimane oscuro; un ragazzaccio salta dalla finestra ed eccolo celebre. Tutti i giornali s'interessano di lui, fioccano le interviste, la posta è occupata solamente a servirgli gli omaggi.... L'eroe! L'eroe! Ved,Remo quando codesto eroe ci rimborserà le spese. È lì che lo aspetto!

Un movimento insolito in cucina, una esclamazione della servetta, un'altra più forte di Rosalba e contemporaneamente un'ombra sulla soglia dell'uscio li fece rimanere entrambi a bocca aperta.

Cessato lo sbalordimento della sorpresa ,Remo si alzò tendendo le braccia quasi temesse che all'ombra cara mancassero le forze per accostarsi, e disse dolcemente, con quella sua tenerezza calma e remissiva:

- Ippolito , non è questa una imprudenza?!

IV. Ippolito .

Colui del quale per oltre un mese tutta la stampa lombarda si era occupata, Ippolito Brembo, era un orfano nella numerosa famiglia patriarcale e viveva fin dall'infanzia cogli zii nel casolare solitario, tranne qualche semestre passato a Celana, il collegio classico dei bergamaschi, il bel collegio eretto sulla cima di un colle dominante le vallate di San Martino e di Val Cava. Si era deciso tardi, fra incertezze e dibattiti infiniti, a frequentare il Conservatorio di Bergamo colla modesta prospettiva di finire organista. Non era una vocazione molto spiegata la sua; anzi egli aveva avuto diverse altre vocazioni, o piuttosto era corso dietro successivamente ad ogni nuovo fantasma, fosse pur sorto dalla sua immaginazione o dall'esempio altrui, risospinto indietro al momento di afferrarlo, come se avesse dentro una forza latente che lo comandasse.

"Non ne fa,Remo nulla", decretava Romolo , che per quanto alla sua maniera gli volesse bene pure si trovava ad ogni nuova sconfitta segretamente lusingato che un altro non potesse giungere dove egli stesso non era giunto, sembrandogli un conforto insieme ed una giustificazione. ,Remo invece diceva: "Eppure in quel ragazzo c'è qualche cosa!" I fatti tuttavia davano ragione a Romolo .

Quando, nei lieti mattini di primavera, tutto verdeggiava intorno al casolare, in quell'ora che i poeti sogliono abbellire coi più dolci aggettivi ed in cui veramente pare che uno spirito alato sorga dentro di noi traendoci a sogni di bellezza immortale, Ippolito , se libero dalla scuola, aveva fin da fanciullo l'abitudine di scomparire dietro le siepi, lungo i fossatelli, nei viottoli più angusti mezzo sepolti fra le alte erbe o sdraiato bocconi fra i papaveri, col mento appoggiato sulle palme e i gomiti inchiodati per terra, di seguire lungamente l'errar delle nuvole, il volo degli uccelli, lo stormire del vento fra gli alberi: ed anche il variopinto volteggiare delle farfalle intorno ai calici semiaperti dei fiori e il trascinarsi lento dei brucherelli da cespuglio a cespuglio producendo cento piccoli rumori quasi indistinti che il fanciullo sembrava ascoltare avidamente.

È singolare - pensava tra sè il buon ,Remo - che con tanto materiale di osservazione egli non arrivi a mettere insieme una descrizione campestre che si sollevi un sol punto dalla mediocrità. - Taceva, l'onesto pedagogo, per non dare buon giuoco agli sfoghi atrabiliari del fratello; ma intanto procurava di interessare il fanciullo alle forme, ai colori, ai suoni, e, per quanto il risultato fosse poco incoraggiante, la sua fede non ne veniva scossa. Bisogna aver pazienza - concludeva egli invariabilmente - e sia che rispondesse così a qualche indiscreta domanda o che pronunciasse le parole per sè solo, a mezza voce, si capiva che la pazienza in lui era una cambiale a scadenza continuamente rinnovata.

Nella stagione in cui fervono i lavori della campagna Ippolito assisteva al raccolto delle messi. Seduto sui carri di fieno o sui mucchi delle pannocchie prendeva parte ai giuochi dei compagni, nè migliore, nè peggiore della maggioranza di essi; vivo, lesto, ghiotto di frutta acerba e di chicchi di grano cotti sotto la cenere - la quale ultima cosa lo metteva spesso in querele colla zia Rosalba che bofonchiando e brontolando tutto il giorno intorno ai fornelli non tollerava altre persone vicino a sè. Gli era però facile di trovare un alleato nelle servette, le quali erano sempre al disotto dei quindici anni, per economia, e perchè Rosalba potesse meglio comandarle o farle piroettare a suo talento.

Anzi era tra le servette che Ippolito cercava la compagnia preferita, ignaro delle cause, ma pur consapevole di un effetto più simpatico sui suoi nervi, e siccome più di due o tre anni in massima non rimanevano in casa, ed in pratica assai meno, egli ne aveva un piccolo assortimento nelle caselle della memoria...

Pigiare l'uva nei tini ed assistere allo smallo delle noci che gli uomini venivano poi di sera a caricare per far l'olio, era una delle più grandi gioie dell'autunno. Questo faccende si compivano in una specie di cantinone, alla parca luce di una lampada di ferro a quattro becchi sospesa contro il muro e il cui raggio non oltrepassava la cerchia dell'operazione; per cui tutto in giro sulle pareti di rustica calce luccicanti qua e là di strisce di salnitro si alzavano e si abbassavano le ombre dei lavoratori quali vaganti fantasmi, e negli angoli più riposti, dove non giungevano le pallide fiammelle delle lampade, si addensava un nereggiamento di tenebre così profonde che alla viva immaginazione del fanciullo sembravano aperture di regni misteriosi.

Quanti brividi paurosi e giocondi avevano fatto balzare il cuore di Ippolito rannicchiato nel vano di due botti se un topo disturbato nelle sue faccende attraversava rapidamente il cantinone! E quale indimenticabile sensazione, una sera di autunno inoltrato, freddissima, in cui egli, per non rinunciare ai giuochi usati, se ne venne a prendere il suo posto fra le due botti, tremante come una bubbola, con un principio di febbre addosso, e la servetta, raggiungendolo dalla cucina, gli prese le mani diacce per riscaldarle nel suo grembiule che scottava! Veramente egli non ricordava delizia maggiore di quel subito tuffo delle sue mani intirizzite entro il rigatino del grembiule abbrustolito alla viva fiamma, se non la delizia susseguente, quando, venendo grado a grado a raffreddarsi il grembiule, egli sentiva un altro calore, più dolce assai, quantunque meno intenso, immedesimato colla personcina della fanciulla; soave calore che lo attrasse a posare, insieme alle mani, la testa sul piccolo grembiule e nel piccolo grembo. Nè per quella sera egli vide più gli uomini che insaccavano le noci e neppure i topi rincorrentisi negli angoli bui. Di quella sera non seppe più nulla perchè il giorno dopo era a letto colla febbre.

Fu la sua prima malattia: il morbillo. Otto giorni eterni sotto le coltri, quasi sempre solo, in una camera immensa, grande appunto come il cantinone sottostante, ma nella quale era prigioniero e dove la servetta non entrava che raramente, accompagnando Rosalba con un brodo panato o con un bicchiere di acqua o magnesia che ella scuoteva invano vertiginosamente col cucchiaino senza riuscire a fargli perdere quel sapore di terra che gli rimaneva poi a lungo nelle fauci, ritornello monotono della malattia.

Ma anche a quel periodo triste o noioso, Ippolito collegava una rimembranza simpatica. La grande camera dove avevano messo per sbarazzo il suo letticciuolo accoglieva tutti i mobili inutili della casa: canterani panciuti a larghe maniglie di metallo, scrivanie complicate a piani moventi, armadietti fitti di cassettini tanto misteriosi quanto inutili, specchiere arruginite, sedie zoppe, sopratutto una quantità di pendole, sveglie ed orologi d'ogni genere - antica mania di Romolo , il quale si era piccato un tempo di sorpassare Carlo V nel regolarli tutti sopra una medesima ora, e che poi se ne era stancato e veniva oramai di rado a caricare solo i più importanti.

In questo ospedale di pendole ve n'erano di curiosissime; dall'antico cucù allungato in mezzo alle due finestre, alla pendola di Germania fabbricata nella Foresta Nera con una architettura ingenua arieggiante il frontone di un tempio; dalla pendolina del settecento tutta fiorami e svenevolezze, alla rigida pendola Impero cogli angoli aguzzi, le colonne scannellate e l'immancabile aquila; e vi era la pendola della prima metà del secolo, in falso bronzo, col gruppo di Paolo e Virginia riparati sotto una immensa foglia di palma. Grossi orologi di rame o di argento occupavano i vani tra una pendola e l'altra affermando un'agiatezza che non si sarebbe supposta mai in quella famiglia dalle abitudini contadinesche, di una parsimonia che rasentava, ostentava la povertà. Ippolito , che non vi aveva prima d'allora posto mente, incominciò nei lunghi giorni della sua malattia a osservare tutti quegli oggetti e ad ascoltare il suono delle pendole.

Sopratutto di notte l'impressione era fantastica. Ogni pendola aveva la sua voce particolare: c'era quella che faceva tec tec come un compagno allegro che racconta una storiella, e un'altra faceva toc toc come un'austera matrona che predica la virtù. La suoneria di Paolo e Virginia aveva delle interruzioni curiosissime: taceva per un pezzo e poi si metteva a battere una gragnuola di colpi fitti fitti del più bizzarro effetto. La pendola della Foresta Nera, con un indice rotto, non segnava più le ore ma aveva un macchinismo di sveglia che alla più piccola scossa saltava su a stornellare col movimento disorientato di chi si desta da un lungo sonno. Qualcuna suonava solamente le ore; qualche altra le ore e le mezze; qualche altra le ore e tutti i quarti, proprio a guisa di una pettegola che non tace mai.

Per fortuna Romolo avendo oltrepassato il momento della voga non era molto puntuale nelle registrazioni, ed essendo anche frequenti i guasti nei diversi congegni, le soste avvenivano frequentemente; da ciò una grande varietà nei concerti. Talvolta era un coro completo con alti e bassi; talvolta era un terzetto o un duetto, frammezzato dagli a solo formidabili della Foresta Nera ai quali Ippolito non riusciva ad abituarsi, che lo facevano sempre sobbalzare fra lo sgomento e la curiosità. A poco a poco però conoscendo meglio i suoi bizzarri compagni di prigionia egli aveva preso ad amarli; li distingueva tutti alla voce, e fu appunto addentrandosi in questo esame dei suoni che gli parve di scoprire una gioia nuova, quasi un accrescimento di vita, quasi un piccolo mondo, tutto suo dove si sentiva affatto libero in una solitudine attraversata da fantasmi luminosi.

Nella notte oscura, mentre tutta la casa era immersa nel silenzio, egli prestava l'orecchio a quegli ordigni di legno e di metallo dai quali pareva che tante anime sconosciute si affacciassero lanciando ognuna il suo segreto. Ascoltarle, intenderle, divenne presto per il fanciullo un diletto intenso. La sua fantasia si schiudeva ad uno sforzo superiore agli anni e per questo sterile; ma il suo cuore sospendeva i battiti per seguire quegli altri battiti, d'altri cuori, d'altre fantasie, sì che talvolta egli dava una forma umana a tutte quelle voci; ed una sfilata di fantasmi, misti di sesso, di costumi e di età, danzava nelle veglie febbrili dell'adolescente intorno all'ampia camera, fra i mobili antiquati, mentre il sapore terreo della magnesia gli ritornava su le papille del palato.

Fu certamente da quel periodo speciale della sua adolescenza che sorse e si rivelò in Ippolito una particolare tendenza alla musica, quantunque frammezzata e interrotta da cento altre attitudini che ad ogni istante ne spostavano la vocazione scombuiando i pronostici dei parenti e ,Remo ra fatale agli studi.

- Qualche cosa gli manca di sicuro - pensava fra sè e sè il buon ,Remo : - .se è il genio, parce sepulto, se è l'ambiente, verrà!

- Coltivare i propri fagioli - diceva Romolo , al pari di colui che reduce da un naufragio rinnega la bellezza del mare - guardar crescere l'erba e persuadersi che il mondo è una solenne corbelleria!

Rosalba poi, quantunque nessuno l'avesse mai interpellata in proposito, era d'opinione che prete o soldati fossero le migliori soluzioni del problema.

Fra queste correnti contrarie Ippolito cresceva un po' alla maniera di un albero selvaggio favorito dalla libertà della vita campestre dove il suo bel corpo robusto si addestrava alla più naturale delle ginnastiche. Egli era infatti verso i quindici anni un ammirabile giovinetto, le cui membra, non fuse nel bronzo quali ci appaiono dai capolavori dell'arte greca, ma vive e frementi nel giuoco dei muscoli esercitati, davano agli occhi una rivelazione squisita di armonia.

Lontanavano oramai nelle memorie dell'adolescenza le impressioni dei raccolti, della vendemmia, del cantinone dove si insaccavano le noci; sparita la servetta che gli aveva riscaldato le mani alla vigilia della malattia; e molte altre venute in seguito, sparite del pari, lasciandogli nella mente un lembo di gonnella rossa, un ciuffo di capelli, un motto, un riso, un pugno di nocciuole fattogli scivolare nella tasca e, ritorno frequente, la memoria di qualche ramanzina sorbita insieme.

Una delle ultime scene che gli erano rimaste impresse si riferiva al giorno dei morti, il due novembre. Tutta la famiglia era riunita intorno al gran fuoco della cucina attendendo la bollitura delle castagne e nell'attesa recitava il rosario. Era quello un momento solenne in cui Rosalba dedicando la preghiera ai suoi poveri morti sembrava sorgere dalle grette preoccupazioni quotidiane per vestire una solennità di pensiero che la ingrandiva. Non era ogni cosa morta per lei? Da quando al fonte battesimale le avevano regalato il primo, forse l'unico complimento, chiamandola a un punto solo rosa e alba, che mai di buono aveva trovato nella vita? Un'ora d'amore, se pure era stato amore, e poi più nulla. La sua persona secca negli abiti vedovili era la perfetta immagine della sua mente e del suo cuore, ond'è che nessuno l'amava. Ma non era essa anche una grande infelice? Ippolito la osservava alla luce della fiammata che per quanto vivida non riusciva a estrarle nessuna scintilla, tranne che dalle perline di acciaio rilucenti sull'orlo de' polsini neri; e un sentimento nuovo, un sentimento d'anima matura che intuisce i misteri dell'afflizione si faceva strada in lui; sentimento profondo di pietà per la povera donna dalla mente piccina e dal cuore arido incapace di fare il male quanto di fare il bene. Proprio in quel momento, recitando il trentesimo requiem, una grande stanchezza le apparve sul volto e la corona del rosario le scivolò di mano. La servetta scoppiò a ridere in un modo così sciocco che Ippolito si sentì ferito in quel suo sentimento nuovo ed insieme gli parve che una barriera sorgesse improvvisamente a dividerlo da tutto ciò che era stato il suo passato.

Non lo si vide più d'allora scherzare colle servette nè trastullarsi e ridere di ciò che ancora faceva ridere i suoi coetanei. La trasformazione iniziata per un subito risveglio di sensibilità continuò il lavoro occulto di dirozzare i suoi nervi. Divenne più schivo, più difficile nei gusti, più insofferente anche e più malinconico. Sentenziava ,Remo : - È il passaggio dall'una all'altra età.

Ma il grande problema rimaneva lo stesso: Che cosa avrebbe fatto? Quella specie di indolenza che aveva sempre paralizzato l'ingegno di Ippolito non accennava a sparire. Romolo e ,Remo discutevano tutti i giorni il suo avvenire senza che egli vi prendesse parte attiva, indifferente alla carriera degli impieghi ed a quella dell'insegnamento fra cui sembrava pendere la scelta. Il gusto per la musica che non lo aveva totalmente abbandonato e qualche relazione fatta a Bergamo coi frequentatori di quel Conservatorio lo consigliarono a prepararsi per un posto di organista, senza che per altro egli vi si accalorasse troppo. Tutto era dunque in sospeso, quando gli capitò la coscrizione militare. I suoi zii, d'accordo questa volta, gli fecero fare non senza qualche sacrificio l'anno di volontariato, e così partì.

Vide Firenze, vide Roma. Egli scrisse a casa che gli sembrava di sognare. La verità era che tra le sorprese non tutte piacevoli della caserma ebbe la fortuna d'incontrarsi con un amico intellettuale che lo iniziò al gusto dell'arte e della poesia, così che le passeggiate fatte insieme nella Città Eterna furono per Ippolito meglio che un corso di studi superiori. Quanti slanci sublimi sollevarono il petto dei due giovani dalle alture del Gianicolo guardando giù l'immensità di Roma! Partito ignorante, tornò coll'animo aperto al divino sentimento della bellezza. Ma rientrando nell'angusta vita domestica l'antica incertezza lo riprese davanti alla scelta di una carriera. Da quel po' di esperienza fatta gl'impieghi gli erano venuti in uggia, e la prospettiva di trascorrere tutta quanta l'esistenza a correggere còmpiti non gli sorrideva più, poi che era riuscito a comprendere di non avere la pazienza di zio ,Remo . Procedendo con questo sistema di eliminazione si trovò da capo alla carriera musicale. Dovendo finalmente decidersi per qualche cosa si inscrisse al Conservatorio di Bergamo, senza soverchio entusiasmo, ma attratto dal lato poetico di una professione che lo avrebbe conservato in un ambiente d'arte.

Nel rivedere Bergamo, dopo le iniziazioni di Firenze e di Roma, Ippolito comprese per la prima volta quanto fosse bella la sua città. Arrivando tutte le mattine a piedi dal cascinale, la vaghissima gli sorrideva dall'alto del colle, protendendo le braccia quasi ad un amplesso; ed era così luminosa, nella cornice verde dei bastioni, colle sue torri antiche, coi pensili giardini, che egli si domandava come mai non se ne fosse accorto negli anni addietro. Andava pure a rivedere i monumenti e le chiese con animo nuovo, cercando di rivivere in quel passato medioevale che appare in alcuni punti con una straordinaria potenza di suggestione, presente ancora nei neri palazzi e in certe viuzze solitarie fiancheggiate da conventi, in certi muri nerastri incrostati di affreschi, a cui il tempo ha conferito vaghi contorni di apparizione. Santa Maria Maggiore lo accoglieva in occasione delle feste solenni, quando l'organo suonava a distesa sotto le volte magnifiche illustrate da Luca Giordano, tra l'oro pallido dei capitelli. Egli andava a collocarsi di fianco al grande arazzo centrale in vista del monumento di Donizetti e lasciava che la sua fantasia si imbevesse della solenne poesia del tempio.

Mille visioni gli ondeggiavano allora nella mente, visioni di gloria e d'amore, confuse insieme in un grande barbaglio di luce, dove i profili vanivano; sogno delizioso, dolce miraggio creato da uno stato d'animo che solo i vent'anni possono dare col tesoro intatto dei loro entusiasmi, pari ad uno stuolo di aspettanti efebi sulla soglia di un giardino dove ogni albero fosse fiorito. In quelle ore divine il tempio rappresentava a' suoi occhi l'asilo della pace e della bellezza; ascoltando i suoni dell'organo, seguendo il volo degli angeli dipinti, tutte le materialità della vita erano così lontane da lui che veramente gli sembrava di essere uno dei predestinati a recare sulle miserie della terra il raggio dell'arte. L'impeto era violento, la percezione acuta, irresistibile il bisogno; ma quando dai regni della visione egli voleva discendere e concretare il suo desiderio in un'opera sensibile la sottile trama gli si spezzava fra le dita. Il dio occulto non era nato ancora.

V.

LA LETTERA.

Era stata veramente una imprudenza quella di scendere, contro i consigli del medico, e il tenero ,Remo ebbe ragione di spaventarsi quando vide sulla soglia Ippolito , bianco come un morto. Lo stesso ,Remo , il quale ostentava in ogni occasione lo spirito forte, fu colpito dal pallore del giovane che si reggeva a stento.

- Quale follia! - disse; perchè anche i moti spontanei della compassione gli uscivano in forma di rimprovero, senza di che gli sarebbe parso di menomare la sua forza.

- Non ne potevo più - rispose Ippolito semplicemente, lasciandosi cadere sulla sedia che ,Remo gli aveva accostato. - È già un mese, lo sapete!

- Oh se lo sappiamo!

Il giovine teneva un braccio al collo e sul volto gli si vedevano gonfie e vermiglie ancora le traccie delle bruciature riportate nella notte fatale dell'incendio. I capelli rasi, i baffi e le sopracciglia bruciacchiate contribuivano ad alterargli la fisonomia per modo che Romolo guardandolo fisso tornò a dire:

- E bello non sei diventato.

- Il dottore - si affrettò a soggiungere ,Remo - ha promesso che guarirà perfettamente.

Rosalba e la servetta vennero esse pure a contemplare il redivivo. ,Remo suggerì che occorreva riconfortarlo un poco e poi persuaderlo a ritornare nel suo letto.

Ippolito guardandosi in giro con la speciale compiacenza dei convalescenti fermò l'occhio sui noti oggetti che gli apparivano in sembianza di vecchi amici ritrovati: le sedie ricoperte di cuoio, la libreria, l'attaccapanni, la lucerna con la sua gonnella di carta verdina e una pertichetta appoggiata in un angolo, la quale particolarmente lo fece sorridere ricordando l'uso a cui era destinata; cioè di sciogliere il piccolo panneggiamento della finestra che si impigliava regolarmente nei vetri quando era il caso di aprirli o di chiuderli, La pertichetta era stata un'idea di Rosalba .

- Come ti senti però?

- Bene, zio ,Remo , bene.

Ma impallidiva.

- Orsù. È meglio tornare a letto.

Romolo lo prese attraverso la vita con le sue braccia poderose costringendolo ad alzarsi. A malincuore il giovine si lasciò trascinare dal colosso, confortato da ,Remo che andava dicendo:

- È per il tuo meglio. La scossa che hai ricevuto è stata forte e bisogna andar cauti. Poco per volta. Abbi pazienza.

In cucina la servetta gli pose in mano la lettera.

Ma Ippolito aveva presunto troppo dalle risorse della sua gioventù e fu meravigliato della spossatezza che lo prese di ritorno in camera. Cacciandosi sotto le lenzuola ebbe un brivido. Fuori dell'uscio ,Remo , che era salito ad accompagnarlo, gli gridò ancora: - Copriti bene! - e udì dal basso la voce agra di Rosalba la quale borbottava: - Purchè non faccia una ricaduta!

Tutto ciò non era allegro. Ippolito comprese in quel momento più viva che mai la tristezza della sua solitudine morale che gli creava un bisogno insoddisfatto di carezze e di parole dolci, di una dolcezza che non fosse quella ingenita di ,Remo , uguale per tutti. Oh! un bacio - di chi? - non lo sapeva, ma un bacio ardente sulla sua fronte, per lui, tutto e solamente per lui!...

Voltandosi vide la lettera. La prese, la guardò, non riconoscendo la scrittura. Il sesto era simpatico, la carta filogranata di una tinta pallida di avorio, l'inchiostro nerissimo. Il suggello di ceralacca color di viola recava impresso un solo monosillabo: Se.

Durante il periodo acuto della sua gloria egli aveva ricevuto dei fasci di lettere: lettere di amici, di condiscepoli, di curiosi, di oziosi, di vanesii, di incettatori d'autografi, di giornalisti che lo invitavano a descrivere la scena dell'incendio e del salvataggio quasi miracoloso, e, infine delle persone salvate che gli offrivano la loro riconoscenza; pure una lettera come quella non gli era giunta mai, ne era sicuro.

Per un senso inesplicabile sorto in quel momento istesso, intuizione o presentimento che fosse, speranza folle o vago terrore, o semplice ansia dell'ignoto, egli esitava ad aprirla. L'ora era troppo mesta perchè quella lettera che sembrava averlo chiamato con una misteriosa forza di magnetismo, traendolo, nuovo Lazzaro, dalla specie di sepolcro dove giaceva da tanto tempo, non dovesse esercitare sulla sua sensibilità un'acuta impressione dove sentimento e fantasia lavoravano insieme. Gli veniva dunque dal mondo, dal gran mondo ignoto e lontano, una voce?

Alzò la lettera contro la fiamma della candela senza che nulla trasparisse; se l'accostò al volto, ma non avvertì nessuno dei soliti profumi commerciali, benchè fosse invasa da un sottilissimo effluvio proprio degli oggetti femminili chiusi negli stipi odoranti di legni fini e di fiori freschi.

Sorse a sedere sul letto. Non aveva più freddo. Con un movimento affatto giovanile ricacciò indietro le coperte. Fu un lampo. Si ricompose, si riadagiò girando la lettera fra le mani per vedere da qual parte avrebbe potuto aprirla lasciando intatto l'enigma del suggello. Sul tavolino da notte c'era un piccolo cucchiaio; lo prese e ne introdusse delicatamente la parte sottile in un interstizio della busta. Ancora un istante di esitazione. Che mai, che mai lo aspettava? Crac! La busta spaccata gemette.

Non così un ladro od un innamorato procede cauto sul sentiero di un violato giardino come Ippolito ritirò dalla busta il foglietto e delicatamente lo aperse. Un'anima forse vi stava rinchiusa? Segnava in quel momento il destino l'ora decisiva della sua vita? Egli avvertì come un soffio misterioso. Pallido, rattenendo il respiro, lesse:

"Signore,

"Una persona che si è interessata vivamente al terribile incendio del 26 gennaio per la parte generosa che Ella vi ha sostenuto, desidera sapere se le conseguenze cessarono dall'essere per Lei così dolorose come apparivano nei primi tempi. Le notizie contraddittorie dei giornali esaltano, invece di calmare, il mio spirito. Vorrebbe essere tanto gentile da comunicarmi direttamente una parola? La domanda è indiscreta, lo so, e ne chiedo scusa; ma vi sono dei sentimenti così spontanei e così vivi che non si curano delle convenienze. Tale è la mia ammirazione per il suo coraggio.

Lilia

"Fermo in posta - Milano ."

Depose il foglietto aperto sulla rimboccatura del lenzuolo e lo guardò nello stesso modo che si guarda una fisonomia nuova. Senza essersi mai interessalo di grafologia, Ippolito non poteva sfuggire all'impressione spontanea e affatto naturale che desta in ognuno di noi l'aspetto di quei segni che si ricongiungono immediatamente per mille indizi ad una volontà. Più lo scrittore è ignoto meglio lo si cerca nella sola rivelazione concessa, la sua scrittura. Il carattere, l'educazione, qualche volta perfino l'aspetto fisico escono meravigliosamente dalle parole scritte: una lettera al pari di un volto può riuscire attraente o ripugnante, perchè la lettera, come la voce, come lo sguardo, come il riso, come il pianto, come il passo, come l'ombra, se non è tutta la persona, è però della persona una emanazione diretta che difficilmente inganna.

La scrittura che egli aveva davanti agli occhi, semplice e chiara, presentava un tutto insieme nitido con assenza assoluta di svolazzi, molto spazio fra le linee tracciate con mano ferma e nessuno di quegli uncini così sgradevoli nella loro laidezza rivelatrice di ignobili istinti. Le parole non troppo inclinate indicavano forse che l'intelligenza soverchiava la sensibilità, ma alcune finali prolungate oltre il consueto davano pure indizio di animo generoso. La firma sopratutto era caratteristica per l'altezza speciale delle due elle conferenti a quel nome di donna una eleganza straordinaria.

- Lilia ! - ripetè Ippolito a voce alta per udire il suono di quelle sillabe così leggiadramente aggruppate - e gli parve un suono dolcissimo, morbido come una brezza che scuota sovra un alto stelo il calice profumato di un fiore. - Lilia !

Era un nome affatto sconosciuto, che non si ricongiungeva a nessuna reminiscenza nè di persone, nè di libri, un nome non udito mai, nuovo eppure non straniero, quale veste entro cui palpitasse un corpo lungamente vagheggiato.

Chi poteva mai essere?

Tornò a prendere in mano il foglio e lo rilesse attentamente, sembrandogli di notare nelle prime linee una intenzione di impersonalità che andava man mano scomparendo fino alla dichiarazione finale ed alla firma, sicura, slanciata, escludente il sotterfugio dell'anonimo. La spontanea accusa di indiscrezione ed il perdono richiesto indicavano una natura delicata, mentre la sicurezza dello stile non lasciava dubbio sulla educazione della scrivente.

Una donna, una fanciulla certamente; bel nome, molto entusiasmo, molta franchezza - così concludeva Ippolito ricacciando la lettera nella busta - ma chi sarà mai?

Le tre parole ferma in posta si potevano interpretare in diversi modi. La signorina non era libera; oppure non voleva svelare il suo nome; oppure sotto l'apparente disinvoltura vi era un ritegno pudibondo di fanciulla che pur osando teme... L'ambiente provinciale in cui era cresciuto Ippolito favoriva lo sviluppo di questo tipo primitivo.

Una pura fanciulla! Non era questa la forma più concreta del suo sogno? A chi aveva eglimai pensato nei mattini di primavera vagando sotto i castani fioriti delle Mura di Bergamo, se non ad un fresco viso sorridente accanto al suo, a un fresco cuore che palpitasse contro il suo braccio? E nelle estasi un po' mistiche della chiesa, quando l'organo di Santa Maria Maggiore lo trasportava fuori della realtà, non era ancora una bianca fanciulla che egli vedeva fluttuare fra le nuvole dell'incenso o prendere parvenza di vita nelle figure evanescenti dell'arazzo antico?

Egli era giovine, egli era giovine. Il succo meraviglioso dei vent'anni scorrendo nelle sue belle membra virili chiedeva ad alta voce la corona della fioritura. Presagiva egli qualche cosa al di là? Forse, in certi momenti; ma tutte le sue forze tumultuavano ora nella tempesta della preparazione, e qualunque fosse la meta non la vedeva, non poteva vederla attraverso la visione persistente del desiderio giovanile.

Lilia ! Gli parve di scorgere un fascio di rose bianche, di gigli bianchi, di bianchi narcisi odoranti lievi, di serenelle bianche sfrangiate in una caduta di petali pioventi intorno al suo guanciale di convalescente. Chiuse le palpebre sotto un'onda di voluttà dolcissima.

Delle tante fanciulle salvate la notte dell'incendio una forse gli scriveva? Tale supposizione affacciatasi un istante alla sua mente fu subito rimossa. La fanciulla avrebbe anzitutto parlato di sè stessa. Ippolito fu quasi lieto di concludere che ciò non poteva essere, perchè quelle povere educande acerbe ed un po' goffe non gli suscitavano nessuna immagine seducente; ma poteva essere una sorella od una amica. Ad ogni modo la lettera veniva da Milano e domandava risposta a Milano.

Risposta? Ecco una cosa che sembrava molto difficile. Che dire? In qual modo? E perchè? Decise di non pensarci oltre per quella sera. Soffiò sul lume e si voltò dall'altra parte.

Ma le pendole incominciarono allora a suonare in coro e Ippolito che doveva pure esservi abituato, perdette subito l'invito al sonno. Toc toc - tec tec - tin tin - drilin din din; e con la sveglia facevano tutte insieme un baccano indiavolato. Mai avevano fatto tanto baccano. Che cosa si narravano, proprio in quella notte? Ippolito le ascoltò suo malgrado finchè tacquero, contando cinquantatrè ore suonate pazzescamente dalla pendola di Paolo e Virginia che aveva tratto tratto questi capricci incomprensibili. - Fanno forse all'amore - pensò Ippolito rivedendo al buio con l'immaginazione le due figurine di bronzo abbracciate sotto la foglia di palma. E rise.

Perchè gli venne in mente improvvisamente il passaggio degli Ebrei attraverso il Mar Rosso? Non vi era alcun nesso logico fra le due idee, e in verità dovette riconoscere che non gl'importava nulla delle avventure degli Ebrei. il coro del Nabucco alla buon'ora, quello aveva una certa ragione di opportunità: "Va' pensiero sull'ali dorate". Ma perchè dorate?... Cercò di raffigurarsi l'effetto di due ali color di oro. Già. La chioma di Berenice! Che c'entrava adesso la chioma di Berenice? Magnifica, senza dubbio. Portavano capelli finti le antiche dame Romane? Forse Cleopatra no. 1,450,000,000? Sarà vero che la popolazione del globo ascende a tanto? Che lunga, lunga, lunga fila di uomini! Quei giornali d'America le sanno tutte. Voglio imparare l'inglese.

- Dalli al gatto!

Questo grido singolare interruppe le divagazioni febbricitanti di Ippolito . Era Rosalba la quale dormendo nella camera attigua sognava di uno de' suoi nemici famigliari. Ippolito vide anche lei, come già aveva viste le figurine della pendola, con l'immaginazione eccitata: Rosalba , stesa nel suo vedovo letto, un fazzoletto giallo annodato sui pochi capelli grigi, la bocca aperta, un cero pasquale appeso al muro e, sotto, il ritratto del defunto marito in una di quelle fotografie vecchie così tristi a vedersi e così brutte.

- Povera donna! - pensò ancora Ippolito . - Chi sa se sarà stata ai suoi giorni un po' piacente. Non crederei.

Irritato dalla veglia, volle provarsi a dormire ad ogni costo. Aveva letto in qualche luogo che ciò si ottiene aprendo e chiudendo successivamente le palpebre per trenta o quaranta volte, ma si stancò gli occhi senza ottenere lo scopo. Ancora mille immagini scomposte vennero ad assediarlo: paesaggi, racconti, memorie, visioni, storia, Romanzo; un profilo, un suono, il colore di un abito femminile, l'eco di una risata di amici; tante cose lette, scritte, vissute, sognate, inventate lì per lì con una foga insolita che aveva della rivelazione e della allucinazione insieme.

E poi tornò a pensare alla lettera ricevuta, meravigliato di sentirsi fluire alle labbra incomparabili parole di risposta, con una abbondanza, una chiarezza meravigliosa. Tutta la risposta gli sorse così finita nelle cellule della mente senza fatica, senza pentimenti. La scriverebbe così, al mattino, subito appena desto. Intanto però bisognava dormire. Pazienza che il tempo dell'insonnia non era stato sprecato poichè la risposta era pronta. Firmerebbe semplicemente Ippolito ? No non conveniva. Meglio era Ippolito Brembo tutto intero. Dormire intanto, dormire...

Col lenzuolo buttato sulla faccia per concentrarsi meglio, egli serrò gli occhi disperatamente; e quando credette di avere raccolto un po' di sonno, mentre gli sedava il cuore nelle prime dolcezze dell'oblio, il canto di un gallo lo fece sobbalzare. L'alba!

Affranto dalla veglia si chetò finalmente quando il sole era già alto e dormì parecchie ore di un sonno profondissimo, pesante. Al suo risvegliarsi vide seduto ai piedi del letto lo zio ,Remo che lo contemplava con una ciera compunta. Romolo intanto caricava le pendole.

- Ha la febbre...

- Non c'era da aspettarsi altro dalla bravata di ieri sera.

- Benedetta gioventù! Vuol proprio sempre pagare la propria esperienza.

Quantunque ,Remo avesse pronunciato queste parole con un tono mansueto e pieno di indulgenza, Romolo non accettò il la offerto dal fratello e rizzando tutte le sue punte di uomo malcontento rispose: - Mi sembrava che a bruciacchiarsi mezzo fosse già stata una bella paga per il suo sentimentalismo e a starsene a letto per oltre un mese c'era anche la buona misura. Vuol dare la mancia adesso questo gran signore?

- Eh! eh! - fece ,Remo mostrando di gustare lo scherzo, come faceva sempre per pacificare l'animo del fratello. - Eh! eh!

La faccia del buon maestro, attraverso abilità di mimo trovò modo di distendere un sorriso sull'espressione desolata che gli produceva la scoperta della febbre; il risultato dovette esser buono perchè anche Romolo sorrise rimettendo la campana di vetro su Paolo e Virginia.

Ippolito , accovacciato sotto le lenzuola, si sentiva la testa pesante e vuota nello stesso tempo, il palato secco, le membra dolenti. Seguiva cogli occhi macchinalmente i movimenti di Romolo che grande e grosso com'era oscurava tratto tratto o l'una o l'altra delle finestre.

- Piove ancora - disse il colosso.

,Remo pensò che non avrebbe neppure in quel giorno potuto servirsi del suo ombrello nuovo senza grandi contrasti al pian terreno, essendo una opinione di Rosalba che fosse peccato sciupare gli ombrelli nuovi quando piove.

- Tornerai presto, zio ,Remo ?

- Se mia moglie me lo permetterà - obbiettò ,Remo colla dolce e innocente malizia delle sue pupille rotonde. Sua moglie, in linguaggio figurato, era la scuola.

- Punto e a capo - disse Romolo tastando nel passare a canto al letto la fronte del giacente. - Ne av,Remo per un altro mese.

- No, no; speriamo di no! - si affrettò a rispondere ,Remo , fiducioso nell'influenza degli auguri.

I due fratelli uscirono insieme. Ippolito rimasto solo volle scrivere subito la lettera. Sentiva che il mal di testa si avvicinava a gran passi e gli sembrava di guadagnar tempo. Già non era questione che di poche parole. Saltò giù a prendere il calamaio, la penna, la carta; rabbrividiva di freddo, ma non ne fece caso. Son poche parole: Signorina.

Colla penna levata cercò la parola seguente, quella bella parola che incominciava la lettera, dietro la quale tutti gli altri periodi scorrevano lisci come fiume di latte. Che parola era?

Tornò a bagnare la penna; rilesse in cima al foglio nitido: Signorina. Aggiunse un punto esclamativo, così: Signorina! Ma la parola non veniva; nè quella, nè alcun'altra. Egli l'aveva pure scritta tutta col pensiero una letterina breve ed elegante che non diceva nè troppo nè poco, che era gentile e dignitosa insieme. Dove era fuggita? In quale angolo ,Remo to della memoria? Ah! Un momento gli sembrava di afferrare a volo il motivo generale, ma anche quello fuggiva, gli si scioglieva nel cervello con un'inconsistenza di bolla di sapone, con un fruscìo vano di falena che batte l'ala contro il lume acceso. Nulla! Non trovava più nulla.

Si strinse la fronte nelle palme con una violenza di concentrazione che parve spezzargliela. Nulla!

Allora fece una pallottola del foglio di carta, la scaraventò in fondo alla camera, e colle mani diaccie, le tempie di fuoco, i denti che battevano, si cacciò disperato e vinto sotto le coltri.

VI.

1° aprile. Dovrei mettermi in ginocchio a vergare queste righe, le prime che le rivolgo, o fata gentile (non so come chiamarla diversamente), per spiegare le ragioni di un silenzio che le sarà parso inqualificabile. Pensi solamente questo: sono stato otto giorni in delirio.

Quando mi giunse la sua lettera credevo di entrare in convalescenza, mi tenevo sicuro di risponderle subito per ringraziarla dell'interesse pietoso; le scrissi anche, sono sicuro che le scrissi, ma non trovai più la lettera. Sopraggiunse poi la febbre che mi tolse i sentimenti e mi tenne per parecchio tempo in pericolo di vita. Queste cose gliele dico per mia giustificazione, non per accrescere la sua pietà, quantunque da essa io abbia avuto le più pure gioie, forse, della mia giovinezza. Quel fiore che mi giungeva tutti i giorni chiuso in una busta identica a quella della prima lettera, muto, eppure eloquente, in quale giardino ideale era stato colto? Oh! ella non saprà mai il bene che mi ha fatto venendo tutti i giorni a visitarmi così silenziosa, invisibile e discreta! Mi domando se vale la pena di guarire quando riacquistando la salute dovessi perdere la dolcezza della sua compassione.

Ma guarito non sono ancora, la prego di rammentarlo. Ho voluto solo dedicare a lei la mia prima ora serena.

Ippolito BREMBO.

10 aprile.. Signorina, le scrivo confuso, tremente, pieno di dubbi. Ella è stata così buona con me che non lo potrò dimenticare mai. Ma forse l'ho offesa? La mia lettera fu dunque così disgraziata da togliermi d'un tratto una protezione che m'era parsa il più bel dono della vita rinascente? Il suo silenzio me lo fa temere. Se così fosse la scongiuro a perdonarmi. Subirò quel qualsiasi castigo che ella vorrà infliggermi, ma mi perdoni e me lo dica.

Ippolito BREMBO.

12 aprile. No, signore, ella non mi ha offesa menomamente; non capisco neppure in qual modo possa averlo pensato. Deve essere molto giovane.

Io ho seguito ansiosamente le notizie che i giornali recavano della sua ricaduta; poi vedendo tante violette in giro, insieme a qualche altro fiore primaverile giudicai che dovessero farle piacere e per questo gliele mandavo, ma senza aver di mira nessuna riconoscenza.

Sono felice che ella si trovi in via di guarigione e non voglio nemmeno credere ai commenti della Gazzetta nuova il cui direttore, mio amico, è una bravissima persona, ma che non è sempre bene informato.

Lilia .

14 aprile. Ha ella mai provato, signora, la tristezza di certi mattini, quando non le nuvole in cielo, non le persecuzioni degli uomini, non le materialità di dolori terreni, ma una intima inesplicabile veggenza ci fa presagire una giornata infelice? La conosce, lei, la tristezza che non ha nome, grigio fantasma sorto all'improvviso per l'urto di una parola, di un sogno, meno ancora o più ancora, per ciò che l'anima sente di fatalmente sospeso fra noi e l'ora? E non è nemmeno ciò che vorrei dire; se vi fossero parole per esprimerlo potrebbe questo strazio uscire dal mio petto: ma le parole non esistono o io non le conosco.

Devo ringraziarla per la sua lettera quantunque fosse una lettera cattiva, ben diversa dalla prima, ben diversa da quei teneri messaggi fioriti che tanti soavi sogni addussero al mio capezzale. Sono giovine, è vero. Ella sembra chiedermelo in modo ironico, ed io le rispondo col cuore gonfio di lagrime. Sì, se essere giovine vuol dire credere, sperare, amare il fantasma ideale, inseguire la visione alata, darsi tutto e prodigarsi tutto, io sono giovine.

La ringrazio ancora dei fiori che ella mi mandò durante la mia ultima malattia, ma non oso offrirle più una riconoscenza della quale non saprebbe che fare.

Può dire, se crede, al suo direttore della Gazzetta nuova che le conseguenze dell'incendio mi tennero bensì a letto due mesi, ma che non sono rimasto nè storpio, nè cieco, nè cretino, come egli ebbe la bontà di scrivere.

I miei rispetti, signora.

Ippolito BREMBO.

16 aprile . Signore, ella ha tanto spirito e tanta fierezza quanto ha di cuore. Tocca a me questa volta chiederle scusa. Lo faccio, come vede, senza por tempo in mezzo perchè mi dorrebbe di restare nella sua memoria sotto un aspetto che se è stato per un momento il mio, non è però tutta me. A tanta distanza e senza conoscerci mi sarebbe difficile darle una spiegazione della mia sciocca lettera, ma nutro fiducia ch'ella vorrà assolvermi in ispirito senza esigere una confessione che mi diminuirebbe troppo.

Ella mi ha parlato della tristezza di certi mattini. Io le dirò: conosce l'ora misteriosa che non ha punto fisso nella giornata, che è sempre calda anche nella stagione del gelo, l'ora profetica, l'ora dolce, l'ora santa in cui ci è dato di vedere a nudo una bella anima? Si svolga poi l'avvenire come Dio vorrà. Basta quell'ora per rischiarare molte tenebre.

Gradisca la mia primiera ammirazione moltiplicata per mille.

Lilia .

P.S.

Voglia dirmi se ora sta proprio bene.

22 aprile . Chi disse essere il poscritto la parte più importante di una lettera aveva forse ragione. Non so se avrei risposto alla sua gentilissima del giorno sedici, poichè con essa si poteva credere "l'incidente esaurito", come dicono i giornali; ma quel piccolo poscritto mi fa ardito a pensare che ella si interessi ancora alla mia umile persona e m'impone il dovere di soddisfarla.

Sto proprio bene, salvo qualche cicatrice sulle mani, sulla spalla e sopra una guancia, ma temporanee. Anche i capelli, che avevo rasati fino alla radice, spuntano più densi di prima se fosse possibile. Le forze sono tornate e con esse la volontà di lavorare; spero fra pochi giorni di riprendere le lezioni al Conservatorio. Ho dunque finito di essere un personaggio interessante. Ripiombo nella mia oscurità.

In seguito a tale dichiarazione ella ha tutto il diritto di ritirarmi una benevolenza fondata sopra un momento di entusiasmo che io non ho purtroppo la facoltà di prolungare. Ella è senza dubbio una creatura privilegiata, una signorina buona, gentile, forse bella ed io non sono e non sarò mai altro che un povero organista.

Le presento i miei rispetti.

Ippolito BREMBO.

25 aprile . Signore: Incomincio a scoprire in lei un difetto molto grosso: l'orgoglio. Fatalmente è proprio il difetto che amo.

Ah! lei non voleva più scrivermi? E perchè? Perchè non mi crede degna di comprenderla? Perchè mi suppone una creatura privilegiata, buona, gentile, forse bella e - questo non lo dice, ma si legge tra le righe - un po' vana? Potrei risponderle con le parole di Margherita:

Io non son damigella

Nè bella...

Buona poi, buona veramente, nel significato alto della parola, ho cercato qualche volta di esserlo; ma o l'ideale troppo lontano o le forze troppo deboli o gli istinti contrari o le reminiscenze fatali mi hanno reso il compito molto duro. Nessun privilegio è in me, nè di nascita, nè di fortuna, nè di affetti. Sono sola.

In verità non so quale forza mi spinga a scriverle, io che non scrivo quasi mai; ma dal primo momento che intesi il suo nome mi parve di riudirlo. Avevo forse sognato una giovinezza pura, un coraggio temerario, un eroismo impulsivo che si desse per darsi, senza secondi fini. Ella dice di rientrare ora nell'oscurità, ma quando si ha un'anima come la sua ripiegandosi su sè stessi si entra nella luce. L'ho conosciuta l'anima sua alla sua terza lettera, la rammenta?... ma qualche cosa è avvenuto in seguito per cui non mi fu più dato di ritrovare la stessa armonia. Ella non mi crede, è così! Vero?

E se è così, sono io che le parlo col cuore gonfio di lagrime, disperata della mia impotenza a esprimere uno dei più nobili sentimenti che mi abbiano mai infiammata. Tuttavia le serbo riconoscenza per avermi fatto provare, in mezzo a tanti palpiti vili che mi circondano, un palpito generoso. Mi dica che crede!

Lilia .

2 maggio . Quante rose intorno a me! Il mio buon zio, reduce dalla scuola con la messe primaverile che gli tributarono i suoi scolaretti, ne adornò il tavolino della mia camera. I fiori mi fanno pensare a lei.

Sì, credo. Credo alla sua sincerità, anche alla sua bontà discussa, anche alla sua bellezza negata. Credo perchè questo è un bisogno di tutto il mio essere. Sono un fanciullo impulsivo e selvaggio, crebbi senza madre, ho ventidue anni. La fede e l'amore si confondono nella mia mente, talchè non so neppur io quello che voglio; ma so che ogni cosa bella mi attira; e non solo il bello visibile, ma più ancora, oh! sopratutto, la bellezza che non si può fermare in una linea determinata, quella che non si vede ma che si sente sparsa nel mondo per mille sottilissimi fili ai quali l'immaginazione sospende, pensili nidi, le sue chimere. Amo anche la verità, purchè mi si conceda di chiamare verità il profilo che la nuvola disegna passando e che si trasforma mentre lo guardo. Procuri lei di mettere insieme tutte queste idee perchè sarei dolentissimo se non potesse comprendermi; spiegarmi meglio non so.

Intanto che mi curvavo a guardare le rose un pelalo cadde su questo foglio e ve lo lascio. Rispettiamo il destino. Di queste rose compagnuole nate nei rozzi orti e venute a morire sul tavolino di un povero studente, esso solo, il piccolo petalo, muta sorte. Lo segue per un istante il mio pensiero pieno di visioni, ma io non so dove anderà a posare... Tale dubbio mi lascia/, trepido ed incerto.

Ippolito BREMBO.

P.S.

D'ora in avanti mi scriva ferma in posta a Bergamo.

6 maggio . Signore, dice che i fiori le hanno fatto pensare a me: grazie del complimento. Per un selvaggio non c'è male: dimostra per lo meno una grande attitudine a incivilirsi.

Io sono oggi molto contenta. Anzi, se devo dire tutta la verità lo fui dal giorno 3, quando la posta mi recò la sua lettera. Ecco che le contraccambio il madrigale.

La rassicuro poi subito sulla sorte del petalo caduto così provvidenzialmente nel foglio: io ve l'ho lasciato perchè mi parve che vi stesse bene, ma li ho poi rinchiusi entrambi - foglio e petalo - in una cartella dove ho già riunite le altre sue lettere e dove c'è molto posto...

Davvero le sue lettere mi procurano una gioia fresca e graziosa come queste giornate di primavera che sembrano ridare al mondo una purezza antica. Mi parli di lei. È possibile che con tanto ingegno e tanta energia giovanile voglia ridursi a vegetare in una cantoria? So che ella ha molta disposizione per la musica. Perchè non viene a Milano? Il nostro Conservatorio è celebre; ella ne uscirebbe con un diploma in seguito al quale tutte le porte si apriranno da sè. Se vuole posso appianarle la strada perchè conosco il direttore ed anche qualche maestro. Infine mi metto tutta a sua disposizione.

Mi permetto di mandarle un volume che forse non conosce. Sono le lettere intime di Berlioz. La prego di non credermi una soverchia ammiratrice di Berlioz scrittore; penso anche che si potrebbe tralasciare di leggerle; ma le lettere sono precedute da una prefazione di Gounod e Gounod mi piace sempre. Vedrà qualche punto segnato, là dove parla delle eccezioni.

Va forse a stabilirsi a Bergamo che si fa mandare le lettere colà? È singolare: questa città non la conosco affatto. È bella?

E suo zio, quel buon zio che le adorna il tavolino di rose, chi è? Mi troverà immensamente curiosa, ma pensi che la curiosità non è quel sentimento volgare che si va dicendo. Essa è il principio di tutte le grandi cose, dei grandi affetti come delle grandi scoperte. In fondo all'arte, alla poesia, alla scienza non c'è forse una curiosità? una curiosità tormentosa, febbrile, che fa star male, che strappa lagrime di sangue, che fa comporre la canzone di Ofelia e l'ultimo atto del Rigoletto? L'amore stesso non è forse la più terribile delle curiosità?

Ma divago e mi dilungo troppo. Addio, mio incognito amico.

Lilia .

Pasqua di risurrezione. Tutta la casa è in festa! Mia zia Rosalba , per aver digiunato la settimana santa si trovava coi nervi in rivoluzione e faceva scontare agli altri il suo atto di virtù ma si è chetata oggi ed ha messo il suo abito di seta color Bismarck, che la ringiovanisce di trent'anni, almeno nella data dell'abito suddetto e per le memorie che vi si collegano. Mio zio Romolo , fedele ad una vecchia abitudine di famiglia, ha voluto che si facesse oggi una colazione sommaria in cucina per serbare il servizio e l'appetito al pranzo solenne; anche la cucina oggi è così bella col rame lucidato di fresco e le fresche ghirlande di lauro! Mio zio ,Remo infine fece venire i suoi scolaretti più poveri e più diligenti e distribuì, a ciascuno un piccolo regalo. Io le scrivo... ed ecco perchè tutta la casa è in festa.

Abbiamo poi i peschi e i mandorli fioriti che ci intuonano sotto le finestre una sinfonia di colori; uno stuolo di rondini s'incarica dell'accompagnamento. Mio zio ,Remo assicura che nessun lusso è paragonabile a questo. Mio zio ,Remo è un santo o poco ci manca. Apparentemente la sua professione è di fare il maestro; in realtà è quella di fare il maggior bene che può.

Mio zio Romolo non è cattivo, ma non avendo trovato il mondo come lo desiderava lui, è sempre in collera con tutti. Rosalba è la vedova di un terzo fratello. Ella ha un'abitudine curiosa: quando chiama i suoi cognati separatamente dice Romolo o dice ,Remo al pari di chiunque, ma se le avviene di dover pronunciare i due nomi insieme allora sono Romolo e ,Remo lo. Questa è la mia famiglia.

Dimenticavo un quadretto che sta proprio davanti al mio tavolino, in mezzo a due vecchie pendole. Il quadretto, chiuso in una cornice di cartapesta dorata di gentile fattura, apparteneva ad una mia cugina anziana rimasta nubile in seguito alla perdita del suo fidanzato il quale morì tragicamente per un colpo partito da un fucile che si credeva scarico. Mia cugina ricamò allora questo quadretto co' suoi propri capelli. Rappresenta una tomba ombreggiata da un salice piangente e sulla fronte si legge:

Piangi pure, o salcio amico,

Sul destin di Fortunato;

È un conforto al cor piagato

Il tuo pensile dolor.

E le dirò che io voglio bene a questa cugina non conosciuta mai tanto quanto agli altri parenti, cioè moltissimo.

La ringrazio vivamente del bel volume che ha voluto mandarmi, certo contro i miei meriti, per un nuovo impulso del suo cuore caritatevole che interpreta i bisogni delle anime affamate. Lo leggerò con raccoglimento. È d'uopo peraltro che le tolga subito un'illusione; non so chi possa averle parlato del mio ingegno; le assicuro che nessuno finora se ne è accorto, neppur io. La prospettiva di finire in una cantoria, che a lei sembra orribile, non è poi tanto brutta per un giovine povero, sognatore, di mediocre intelligenza, che abborre dal commercio, dalla burocrazia, dalla folla, e che ama invece il silenzio rotto solo dall'armonia dei suoni. Le energie giovanili cui ella allude esistono certamente, ma si trovano allo stato di un esercito senza capo. Per drizzarle ad una mèta un po' più alta ci vorrebbe quell'impulso speciale che appunto mi manca, forse quello stato "tormentoso, febbrile, che fa star male, che strappa lagrime di sangue, che fa comporre la canzone di Ofelia e l'ultimo atto del Rigoletto" chiamato da lei "curiosità", da me "genio", e che è forse un'altra cosa ancora.

Un secondo ringraziamento le devo, sentitissimo, per l'offerta relativa al Conservatorio di Milano. Dopo ciò che le ho detto e della mia famiglia e della modestia delle mie aspirazioni capirà che non posso accettare. Del resto anche il Conservatorio di Bergamo ha tradizioni gloriose, e se bastò a un Mayer, a un Donizetti, a un Ponchielli, si figuri se non devo accontentarmene io!

No, cara signora, non vado a stabilirmi a Bergamo, bensì mi reco a Bergamo tutti i giorni per frequentare le lezioni. È una strada un po' lunga, specialmente se il tempo è cattivo, ma questa fatica muscolare mi fa bene, poi, quando sono a Bergamo, prendo la funicolare per portarmi al Conservatorio.

Mi domanda se Bergamo è bella? Se le dicessi che è bellissima crederebbe ella forse a un entusiasmo di campanile? In verità è bellissima. Immagini, dopo una successione di pianure, una montagna che si erge improvvisamente a guisa di baluardo, e su questa montagna una città, e ai piedi di essa una seconda città, e fra l'una e l'altra una fascia di viali verdi, di giardini in pendio, di fiori che salgono e scendono a gruppi, a festoni, a macchie, a cespi, incorniciando i veroni, sbucando fra le pietre con una festosità di bimbi in vacanza; bianchi, rosei, azzurri, biondi, quali appunto sono, i colori della fanciullezza. Come vede, fiori, gioventù, luce, vita - e accanto, vecchie pietre nere, vecchie torri, vecchie chiese, vecchi palazzi pieni di memorie, vecchie storie di amore e di terrore. Bellissima, Bergamo, bellissima! Ho pensato a lei, ieri, nella cappella Colleoni che fiancheggia la chiesa di Santa Maria.

E con ciò finisco. Le bacio la mano devotamente.

Ippolito BREMBO.

15 maggio . Perchè finire? Questo vocabolo non mi è mai mai parso tanto sgraziato come leggendolo nella cara sua lettera che avrei voluta lunga il doppio. Le notizie che mi dà di lei, della sua famiglia e della sua città le ho trovate interessantissime. È tutto nuovo per me che vivo in una città così diversa, priva di famiglia, senza scopo nella vita.

Oh! ma lei non deve rinunciare alle conquiste dell'avvenire, sarebbe un delitto. Io sento vibrare attraverso le sue parole un'anima calda e poetica, una coscienza pura, e tali doni non possono giacere inoperosi in un giovane di ventidue anni. Forse lei stesso si ignora, forse le circostanze non furono fino ad ora favorevoli al suo pieno sviluppo. Mi lasci credere che è così. Ma intanto non limiti l'orizzonte davantì al suo pensiero. Occorre qualche volta mirare. più in là del punto visibile per colpire nel segno.

Contro il solito mi sento oggi molto male. Non capisco che cosa possa essere, ma la penna mi cadde di mano. Volevo dirle tante cose!... Mi si oscura la vista... Addio per oggi. Le scriverò ancora presto.

Lilia .

19 maggio . Gentile incognita, la sua ultima lettera mi lascia perplesso. Ho aspettato tre giorni sperando di avere qualche notizia della sua salute, ma incomincio ad essere agitato. Come sta? Voglia dirmelo subito.

Il suo interessamento mi commuove oltre quanto mi sia possibile confessare, la dolcezza di questa corrispondenza è tale che t,Remo alla sola possibilità di perderla, sia pure per qualche tempo.

Se non può scrivermi mi mandi un cenno qualsiasi, un fiore ancora, un foglio, un filo, ma ch'io sappia, ch'io sappia!

Ippolito .

22 maggio . Signora, signora, una parola!

Ippolito .

24 maggio . Un dubbio orribile mi tormenta. Lei, ammalata non può andare alla Posta a ritirare le mie lettere, ed io dove, dove la cerco?

Ippolito .

27 maggio . Povero amico, fu proprio così! Sentendomi poco bene, decisi improvvisamente di partire per la Riviera, dove stetti tutti questi giorni in una beatitudine che mi rese ingrata ed egoista.

Tornando oggi mando subito alla Posta e le sue tre letterine mi fanno tanto piacere che mi sembra di stare ancor meglio che in Riviera. Tuttavia ho una quantità di affari accumulati che mi reclamano imperiosamente.

Pazienza ancora. Tra poco.

Lilia .

28 maggio . Grazie, mia buona fata! Passai dieci giorni in una angoscia indescrivibile, che non avrei mai immaginata prima di provarla. Queste pene peraltro ebbero il vantaggio di illuminarmi sulla falsità della nostra situazione. Ella sa chi sono io e dove sto. Io non so nulla di lei.

La supplico a credere che nessuna curiosità indiscreta mi suggerisce questa ricerca. Potrei a rigor di termine ignorare per sempre la sua essenza terrena, pago della spirituale felicità che mi arrecano le sue lettere; ma se per un caso che è già accaduto o per altri che potrebbero accadere si rompe il filo della nostra corrispondenza, che cosa faccio io per rintracciarla? È uno stato di inferiorità che mi umilia, riducendomi all'impotenza di agire proprio nel momento in cui vorrei provarle tutto il mio attaccamento. Ella mi comprende, nevvero? Sarei desolato di essere frainteso o di recarle la benchè menoma contrarietà, ma non apprezzerei al suo giusto valore il tesoro della di lei benevolenza se non provassi così acuto e torturante il timore di perderla.

Fortunata Riviera! Si vede che le mie descrizioni non l'hanno invogliata a visitare le bellezze di Bergamo, dove pure l'aria è balsamica e in questi giorni deliziosa di effluvii primaverili. Non più nella cappella Colleoni ma sugli spalti delle mura, sotto la pioggia odorosa dei fiori dei castani d'India, io penso a lei ora; i grappoli che stanno ancora sospesi ai rami nella loro forma graziosa di candelabri sembrano illuminare di una luce ideale la danza errabonda delle mie visioni.

Le bacio le mani devotamente.

Ippolito .

2 giugno . Fanciullo! Si rassicuri; qualunque cosa accada, le sue lettere verranno regolarmente ritirate dalla Posta. Attraverso un periodo singolarissimo, non mi riconosco più io stessa; credevo di essere ammalata e non è vero; pure non sono in stato normale. Che avviene in me? Poco abile a scrivere, sempre, mi trovo più che mai impacciata adesso. Mi perdoni.

Lilia .

P.S.

Supplisco all'aridità di questa lettera accludendole una striscia di stoffa dell'abito che porto oggi. È qualche cosa di me che viene a trovarla. Le fa piacere?

VII IL COLPO DI FULMINE.

- Stoffa artefatta - aveva sentenziato Rosalba - una di quelle stoffe moderne che non si capisce se siano di lana, di seta o di cotone. Se è per fare una cravatta non te la consiglierei.

Ippolito ritolse prontamente il prezioso campione dalle mani della donna che già stava sfilacciandolo per esaminarne bene la qualità.

- Il colore poi è di cattivo gusto - replicò Rosalba . Questa recisa affermazione fece persuaso Ippolito che fosse invece tutto il contrario. In verità egli non aveva mai veduto nulla di simile nè come morbidezza nè come tinta. Forse avrebbe potuto trovare un riscontro nelle ali di certe farfalle che gli erano apparse palpitanti al sole ne' caldi meriggi dell'estate; una creatura vestita così non poteva essere che una fata. Cenerentola appunto nella noce offertale dalla fata aveva rinvenuto una veste color della luna. Che fosse quella?

Egli la pose sul palmo della mano, poi sul ginocchio; indi la sollevò contro la luce e finì col passarsela delicatamente sulla guancia. Staccarsene non poteva. Era stata una idea geniale, bisognava convenirne.

Chiuso accuratamente nel taschino più misterioso del suo portafoglio, quel piccolo lembo di vestito lo seguiva dovunque: egli si sentiva quasi fiero di portarlo e ad ogni tratto lo toglieva per rimirarlo ancora, per ripetere a sè stesso che non era un sogno. Lo confrontava qualche volta di sfuggita cogli abiti delle signore che passavano sul Sentierone, ma non ne trovava mai alcuno che gli somigliasse; e neppure in Santa Maria, alla messa del mezzogiorno, dove egli vedeva delle rigide matrone vestite di nero, di grigio, di color marrone, di verde e di turchino scuro; oppure gonnelle bianche, rosa, cilestrine, verde acqua, giallo paglia appartenenti allo stuolo gaio delle fanciulle, senza trovare mai un richiamo a quella tinta ed a quel disegno. Nè, in fondo, ciò gli dispiaceva.

Cara, segreta, ignota al sol, romita,

Vive la cura che m'accende il cor.

Ripeteva volentieri questi versi uditi una volta dallo zio ,Remo . Dovevano essere di Byron, non ne era sicuro, ma li ripeteva perchè rispondevano ad un suo intimo concetto dell'amore, vago ancora e confuso, come erano incerti i suoi desideri; seme giacente sotto il niveo frigidore di un temperamento timido e di una educazione austera cui non era bastato a far sbocciare completamente l'esperienza del suo anno di volontariato.

Questo calore latente e prigioniero compiva tuttavia ad insaputa di Ippolito il naturale cammino verso la maturanza che è legge della vita. Aveva, in quel principio efflorescente di giugno, ore di inquietudine nuova e il pensiero della incognita che gli era divenuto inseparabile compagno lo prostrava come nello sforzo di una attesa dolce e snervante. Fuggiva i compagni e in generale ogni occasione che potesse distrarlo dalla soave visione interiore. Una ragazza di Borgo Canale colla quale egli aveva amoreggiato un breve tempo lo fermò un giorno in fondo ai Torni, dove comincia il Pascolo dei Tedeschi, rimproverandolo di non lasciarsi più vedere. Ippolito le guizzò di mano, ridendo, e sì pose a correre all'impazzata con mille diavoli in corpo, sconcertando la ragazza che stette ferma un poco a rimirarlo in quella sua corsa furiosa e poi alzò le spalle riprendendo la via di città.

- Ippolito - disse zio Romolo la mattina del nove giugno - ho un affaruccio a Milano per il quale sarebbe necessaria la mia presenza colà e nello stesso tempo ne ho un altro a Treviglio che mi porterà via tutto il tempo. Vuoi andare a Milano in mia vece?

Ippolito non se lo fece dire due volte. Le sue poche gite alla grande città erano sempre state così rapide che gliene restava ancora un ampio desiderio. Fece quel giorno più allegramente del solito la strada a piedi fino a Bergamo, solo che invece di salire alla funicolare si arrestò alla stazione prendendo un biglietto di andata e ritorno per Milano. Il diretto partiva alle dieci. Sarebbe tornato indietro alle quattro. Tutto sommato, sei ore di svago piacevolissimo.

Ma come fu in treno e, lasciatosi dietro la bella prealpe bergamasca avanzava rapidamente nella pianura, Ippolito non ardì dare un nome alla gioia tumultuosa che gli veniva crescendo nel petto, che accelerava il battito de' suoi polsi e non lo lasciava fermo un minuto dall'uno all'altro sportello del carrozzone.

Sapessi almeno dove sta di casa! Quando questa formula precisa gli si affacciò al pensiero il dubbio non era più possibile. Pure le sue tendenze di sognatore gli facevano preferire ancora l'incertezza vagabonda che rappresentava per lui quasi uno stato musicale dell'anima, la vera atmosfera adatta al suo temperamento; e poichè alcune note gli venivano sulle labbra si pose a solfeggiarle fra sè e sè, provando in tale sfogo una dolcezza straordinaria.

Verdello e Treviglio gli sfuggivano senza che se ne accorgesse. A Cassano mise fuori il capo per guardare l'ameno gruppo di case sulle sponde dell'Adda, ultimo sorriso del paesaggio. Con Melzo la pianura milanese si stendeva assoluta padrona dell'orizzonte; una stazione ancora e poi Milano!

Ippolito era troppo provinciale, troppo poco abituato a quella che i suoi zii chiamavano ancora "la capitale lombarda" per esimersi da una certa commozione quando il treno si fermò sotto l'ampia tettoia, e discese senza impaccio ma non senza curiosità, poichè infine era la città dove Ella abitava, dove avrebbe potuto passarle accanto, sfiorarla, udire il suono della sua voce... Ce n'era d'avanzo per metterlo in orgasmo.

Andò subito a sbrigare la faccenda della cambiale, ansioso di riservarsi alcune ore di perfetta libertà per girondolare a suo agio e vedere il Castello restaurato. Doveva però anche far colazione e siccome erano le dodici e mezzo si pose a cercare un posticino in qualche trattoria. Le tende distese sopra i tavolini di ferro del caffè Crespi, di fianco alla Galleria, gli parvero ospitali colla via dinanzi spruzzata di fresco sulla quale numerose donnine passavano sollevando leggiadramente l'orlo della gonna. Passavano anche molte fanciullette vestite di bianco, col velo bianco, coi guanti bianchi, una medaglia appuntata al petto, un libriccino in una mano e un cartoccio di dolci nell'altra; Ippolito riconobbe in esse le piccole cresimande.

Che bel mese giugno! La primavera non è finita, l'estate non è cominciata ancora. Un contadinotto sull'angolo della Cooperativa vendeva delle rose magnifiche, pavonazze; e l'aria era lucente, il cielo sereno, le finestre delle case tutte aperte, le tende dei negozi tutte calate, e il via-vai della gente continuo, ininterrotto, di una giocondità tranquilla che faceva credere a un popolo di felici.

Una signora con due fanciullette vestite di bianco venne a sedersi a un tavolino accanto a quello di Ippolito e fece portare delle acque dolci con delle paste. Le due bimbe erano raggianti. Un po' impacciate nel velo, temendo di sciuparlo si mostravano reciprocamente con gesti misurati le immagini racchiuse nei loro libri, accoccolate con una gamba sola sulle seggioline di ferro, un pasticcetto fra le dita. Parlavano e mangiavano tutt'insieme, divise fra la naturale tendenza al riso e la gravità della circostanza che imponeva loro un contegno riservato.

Ippolito pensò alla sua propria cresima fatta con grande pompa alla parrocchiale del villaggio e all'orologino d'argento che gli aveva regalato lo zio Romolo , nonchè a un manualetto di esercizi per prepararsi al Sacramento - dono questo di zio ,Remo - che portava un titolo olt,Remo do suggestivo: Il gran giorno si avvicina. Una gentile simpatia, come un ritorno all'infanzia, lo attirava verso quelle bimbe dagli sguardi ingenui e dal cicaleccio di cingallegre. Una era bruttina, l'altra così così; ma che ne sapevano esse? Il livello di una uguale ignoranza nella scienza terribile della vita le conservava ilari. Le malattie, i dolori, gli inganni stavano sospesi sulle loro teste; ma poichè ignoravano, ridevano. Fra le due quale avrebbe subito la tortura della verginità? quale la tortura della maternità? L'amore e la fortuna le attendeva o la miseria e l'abbandono?

- Fammi assaggiare il tuo dolce; ti darò un poco del mio - dicevano.

E così, così anche fra dieci anni, povere fanciulle! E la porzione di dolce che voi offrirete vi parrà sempre maggiore di quella che vi daranno in cambio.

Accorgendosi di diventare filosofo Ippolito scosse le briciole della modesta colazione e si alzò per partire.

- Signore - disse una delle bambine correndogli dietro - dimentica la sua mazza.

Egli prese la sua mazza ringraziando. Poi si avvicinò al giovane contadino che vendeva rose all'angolo della Cooperativa, ne comperò due e le gettò in grembo alle bambine.

In piazza del Duomo spese dieci minuti a girare intorno al monumento di Vittorio Emanuele, interessandosi ai particolari del bassorilievo, ai curiosi vestiti delle donne, alle divise degli zuavi, cercando di immaginarsi quel periodo di eroiche baldanze e di guerreschi entusiasmi, un po' mortificato che quella bella pagina gloriosa fosse già voltata irremissibilmente nel libro della storia, domandandosi ingenuamente che cosa aveva fruttato alla patria tanto olocausto di lagrime e tanto sangue.

Avviandosi giù per via Dante tornò a incontrare molte signore eleganti - "Lei forse?" - e ancora fanciulle vestite di bianco cogli ampi veli bianchi svolazzanti nella trasparenza dorata dell'aria, più poetiche, più leggiadre che mai quando la fascia verde degli alberi di piazza Castello pose intorno al loro candido batter d'ali una decorazione di fronde. Dove, dove sarà? In quale di queste vie, di queste immense case, di questi quartieri interminabili? Il suo piede, forse or ora, ha percosso queste pietre. Sulle vetrine di questi negozi si è posato certo il suo occhio intelligente. Quando? In questo stesso momento? Là forse allo svolto, dove Parini guarda accigliato? Tu l'avesti la tua primavera, o poeta. Ora tocca a me.

Che dolce calore nel sangue! Che elasticità nei nervi! Il piacere di vivere lo dominava tutto, così puro e così ardente che egli si sentiva portato sul dorso di un corsiero ideale. Correvano biciclette intorno a lui con slancio di freccie, ma egli correva del pari nell'impeto de' suoi desideri e delle sue forze di giovine. Ippolito non sapeva di essere bello, non se ne era mai curato, eppure lo era al punto che molte donne lo guardavano ammirate e sorprese. Quegli occhi nerissimi nel volto pallido di biondo, e le labbra porporine, e la foresta di capelli e le membra perfettamente modellate, tanti doni riuniti erano abbastanza rari per passare inosservati, tranne che a lui stesso.

Anche egli guardava le donne della sua età, inebbriandosi in quell'innocente abbandono di sguardi che forma la più ambita attrattiva del passeggio pubblico quando si hanno vent'anni o poco più; e le desiderava tutte, leggermente eccitato dalla quantità insolita, piacendogli dell'una la vita sottile, dell'altra la massa delle chiome, di una terza il sorriso colto a volo o la malizia provocatrice delle pupille, o il piccolo piede guizzante sotto la gonnella di seta; meno ancora, un nastro annodato in un certo modo, una sottana di una certa forma, lo spillo doppio appuntato dietro sulla cintura. Seguì per alcuni passi una signorina che aveva uno di codesti spilli, in forma di freccia con una opale nel mezzo; ma la udì parlare e fuggì disgustato dalla voce.

I negozi di via Dante lo attiravano ad uno ad uno. Stette fermo lungamente a osservare le porcellane di Ginori e la piccola mostra di Levante colle sue stoffe tessute a vivaci colori, le armi damaschinate, le fiale misteriose contenenti l'essenza di rosa cara alle Sultane, quelle piccole fiale lunghette cosparse di polvere d'oro dove pare esse abbiano lasciato l'impronta concava delle loro dita.

In piazza Castello deviò di alcuni passi per osservare il negozio d'arte del Grubicy, attratto da una tela dell'East, una meravigliosa trasparenza di notte lunare nella vallata dell'Avon. Oh! trovarsi in quel paesaggio con Lei!...

Eccolo davanti alla porta del Castello. Una striscia di carta incollata al muro lo avverte che il Museo del Risorgimento è chiuso per nuovi lavori in corso. Entra nel Museo Archeologico. Attraversa sale che sembrano fatte non per uomini ma per giganti. Un popolo di pietra lo guarda. Quante memorie! Gira silenziosamente intorno ai capitelli rovesciati, agli avanzi di colonne e di archi, alle statue. E queste furono le sale dei Visconti e degli Sforza! Cerca cogli occhi il posto dove il duca Galeazzo al giungere dell'inverno faceva rizzare due edicole di legno, una per lui e una per la duchessa, cospargendone il suolo di paglia per mettersi al riparo contro i rigori del freddo. Sale la scala graziosa che guida al piano superiore e si trova nel Museo Artistico, da' cui ampi finestroni entra tutta la luce e tutto il verde della piazza sottostante.

Distratto dalla varietà stessa delle bellezze Ippolito non sa più dove guardare e passa in mezzo alla raccolta delle maioliche antiche deplorando la ristrettezza del tempo che lo sospinge. Si consola pensando che potrà tornare un'altra volta ed affretta il passo volendo accontentarsi di un colpo d'occhio generale. Non può peraltro tralasciare la galleria dei quadri, in fondo alla quale vede rizzarsi elegante e superba la bella Incognita di Van Dyck. Corre anzi a quella, spinto da una lontana analogia, da una curiosità Romantica e siede sul panchettino che la previdenza del custode ha collocato davanti al celebre ritratto. Sì, è bella! Ippolito la esamina minutamente, dai capelli aerei al fine profilo, alla bocca troppo piccola quasi schiva di baci, al collo delicato, alle ammirabili mani. Non gli sfuggono nè le trine dell'abito, nè le perle del monile, nè il colore indefinibile delle fettuccie che le palpitano sul seno a guisa di farfalla imprigionata. Beate loro! - pensa Ippolito - ma si commove meno, in fondo, di quanto avrebbe creduto.

Esce dal Castello con una folla di immagini nel pensiero e mentre sta per prendere il tram della stazione, d'improvviso cambia strada e scende a piedi giù per il Corso. Nessuna riflessione, nessuna causa apparente determina questo mutamento di itinerario. Egli va all'appello misterioso del destino.

Va il giovine provinciale sul marciapiede del Corso mescendosi ai soliti passeggieri, incominciando a provare quella lieve sensazione di stordimento che assale sempre l'abitante della campagna travolto per un giorno nella inquieta onda cittadina; ma appena fuori del centro, verso i Navigli, in vista dell'arco che termina così leggiadramente il Corso sullo sfondo delle Alpi lontane, egli respira più largamente. La massa verde dei giardini a sinistra lo invita ad attraversarli in tutta la loro lunghezza, poichè appunto mettono capo alla stazione, e piega in via Palestro.

Silenzio chiaro di giornata estiva. Le poche case tranquille hanno le persiane chiuse, gli anditi spruzzati d'acqua fresca, i portoni aperti ma sonnolenti sui piccoli cortili pieni di verde dove le vecchie portinaie fanno la siesta all'ombra di un vaso di basilico, col gatto sui ginocchi. In fondo alla via verdeggia ancora la fuga degli alberi fronzuti e la Villa Reale sorge tutta bianca come la Bella dormente nel bosco.

In tali condizioni ogni rumore sì avverte subito. Ippolito si voltò allo scalpicciare pesante di un cavallo fra le ruote di un veicolo rivestite di gomma e fu appena in tempo a gettarsi contro il muro, perchè la carrozza girando sullo sterzo si era fermata rasente a una di quelle case che egli stava costeggiando. Il pericolo fu avvertito anche dalla signora che si trovava nella carrozza, la quale prima di scendere piegò vivacemente la testa verso Ippolito per modo che i loro occhi si incontrarono a brevissima distanza e si toccarono quasi nel corruscare istantaneo di una fiamma, colpiti insieme da una rivelazione e da una meraviglia!

Più ratta del baleno la bellissima creatura passò davanti a Ippolito dandogli una visione di cielo. Un suono inarticolato morì nelle sue fauci poi che aveva sentito sul suo volto l'aria smossa dalle di lei vesti e mentre spariva nell'andito aveva riconosciuto in quelle medesime vesti la stoffa e le tinte singolarissime del lieve tessuto che Ella gli aveva inviato un giorno per consolarlo...

Eppure ciò non sembrava possibile. Così bella? Così bella?

Si trovò alla stazione senza ricordare menomamente la via percorsa, pentito di non essere entrato dal portinaio, di non averla seguita, di non aver gridato il suo nome... Il suo nome? Ma se non lo sapeva neppure!...

Entrò allora come un pazzo nel caffè e si fece dare carta, penna e calamaio.

VIII. LO STESSO GIORNO, LA STESSA ORA, QUASI LE STESSE PAROLE.

(Dalla Stazione di Milano )

9 giugno , ore 3.20 . Mi dica se era Lei, or ora, in via Palestro, discesa da una carrozza. Viva o in sogno? Una parola, per carità.

Ippolito .

9 giugno , ore 3 . Era Lei, un momento fa, sulla mia porta? Lei che ho veduto e che mi vide? Sì o no: subito.

Lilia .

IX.

- .... Se è vero che il mondo è un pantano pieno di vizi non si può negare che abbia le sue vette. E là che bisogna rifugiarsi.

- Di chi è don Peppino questo pensiero morale?

- Ma... credo che sia mio.

- Forse vi ingannate. Ho letto qualche cosa di simile in Campoamor.

- Anche questo può darsi,

Tre giovinotti che ascoltavano in piedi il dialogo dei due amici si posero a ridere.

Il teatro dell'azione era il salotto di Lilia ; i due amici don Peppino e il giornalista: i tre giovinotti nuove reclute fatte nella società elegante dove, in memoria di una caricatura del Journal amusant , li avevano soprannominali Guy, Gontrand e Gaston. Da quindici giorni essi facevano la loro corte in regola alla signora del luogo, indivisibili, pensando che l'unione fa la forza, mediocremente interessati alla riuscita parziale, purchè uno riuscisse, per l'onore della triade. Ritti accanto alla finestra del balcone aspettavano che Lilia rientrasse, ma Lilia che trovavasi in buona compagnia non si curava affatto di loro. Tratto tratto uno de' tre metteva fuori la testa e vedeva sempre la medesima, cosa; vale a dire una figura bianca di donna e una figura bruna d'uomo stretti in intimo colloquio nell'angolo più ,Remo to del balcone; e la testa rientrava. Don Peppino , seduto di fianco al piano, solleticava con un dito la tastiera, ma sempre sornione, osservando quelle mosse attaccò l'aria della Carmen: "To-re-a-dor-at-teento!" La sua voce tremula accompagnando le note riuscì di un effetto irresistibile. Fu il giornalista questa volta che rise di cuore, Egli aveva sorpassato la fase acuta della gelosia ed ormeggiando fra le rappresaglie e la rassegnazione niente lo divertiva quanto lo scacco matto di un avversario.

- Perchè smettete don Peppino ? Siete un orecchiante portentoso.

- Temo che la musica di Bizet annoi questi signori.

- È volgaruccia davvero - disse uno della triade. - Non ho mai compreso il successo della Carmen se non immaginando un teatro diurno con un pubblico di droghieri e con accompagnamento di gazose stappate.

- Graziosissima! - appoggiarono gli altri due.

- Senza parlare di Josè che è un imbecille.

- Oh! oh! - interruppe don Peppino - si può discutere l'opera, ma Josè è il tipo perfetto dell'amante.

- Spagnuolo!!

- La Spagna è il paese dell'amore.

- Esempio don Juan, infatti.

- L'uno completa l'altro, signori, hanno ragione entrambi.

Don Peppino continuò il dialogo sottovoce col giornalista:

- Avete osservato che Lilia questa sera ha gli occhi delle grandi battaglie?

- Cioè?

- Quegli occhi languidi che segnano sempre una data nella sua vita; io li chiamo: ses yeux couchès... Riflettete come certe cose si dicono meglio in francese: ses yeux couchès, convenite, è tutt'altra cosa che a dire: i suoi occhi coricati.

Il giornalista parve gustare mediocremente la confidenza e con una voce che fischiò attraverso i denti chiusi soggiunse:

- Vi concedo tutta l'ammirazione che volete per le vostre sottigliezze glottologiche, ma a proposito di chi dite ciò? Non certo...

- Oh! non per essi, no. Conosco abbastanza Lilia per tenermi sicuro che ella qualifica i signori Guy, Gontrand e Gaston collo stesso aggettivo da essi regalato al mite Josè; non capisco neppure perchè li abbia ricevuti, se non forse per far piacere a qualche vecchio amico, ma se ne sbarazzerà presto, ve lo garantisco.

- E chi allora? - insistette, l'antico geloso.

- Ma! - fece don Peppino allargando le braccia e sporgendo il mento colle labbra strette.

Il giornalista girò lo sguardo intorno mormorando:

- Non vedo qui nessuno che possa mettermi sulle traccie.

- "È l'amore strano augel" - canticchiò don Peppino bonariamente mentre gli occhietti gli scintillavano di malizia.

Il balcone di Lilia si apriva sui boschetti, deserti in quell'ora e percorsi da brividi misteriosi, come se gli alberi approfittassero dell'oscurità per intrecciare le loro chiome in amoroso amplesso. Ella stava in piedi, appoggiata alla balaustra, tutta spinta in fuori col busto per sprofondarsi maggiormente nelle tenebre e nel silenzio; colla testa inclinata in atto soave, non ricordandosi nemmeno più delle persone che l'aspettavano in salotto, sembrava suggere tutta la dolcezza della ammirazione muta che palpitava al suo fianco; muta, nuova e per ciò deliziosissima. In verità non era mai accaduto a Lilia di fare una conversazione così interessante con un minor numero di parole. Forse venivano a lei nella dolce notte, per lontano atavismo, i sogni delle avole vissute nei tempi Romantici delle congiure e del mistero, quando anche l'amore si vestiva di così poetici veli?

Egli aveva detto: "Non potevo più reggere"; ella aveva risposto; "La aspettavo". E poi si erano accostati al parapetto guardando insieme la massa bruna degli alberi, mormorando ancora, tratto tratto, qualche parola che non era quella che volevano dire, nè quella che avrebbero desiderato di ascoltare, nè alcuna delle parole segrete e ardenti che salivano da quel cantuccio Romantico della vecchia Milano tutto pieno di ricordi passionali. Le lettere scambiate non permettevano loro di considerarsi quali stranieri; erano anzi esse che li legavano con una sottile catena di ricordi, di confidenze, di espansioni; eppure si conoscevano così poco che stavano a guardarsi, al dubbio riverbero delle lampade, nella stessa guisa che lo scopritore di tesori esamina un monile ritrovato.

- Possibile! Possibile! - gridava esultante il cuore di Ippolito violentemente compresso dalla sua mano, mentre colle pupille velate dalla commozione prendeva conoscenza delle mirabili bellezze di Lilia .

- Amico mio - ella disse a un tratto posandogli sul braccio l'estremità delle dita - noi siamo fuori dell'ordine. La nostra relazione è troppo singolare perchè ci sia permesso di trattarla co' modi soliti. Av,Remo molto da perdonarci l'un l'altro... Vuole?

Ippolito , turbatissimo, si sarebbe gettato ai piedi della divina creatura con un improvviso desiderio di farsi schiacciare e calpestare da lei. Disse appena: "Oh! signora!", ma con tale smarrimento negli occhi, che Lilia trasalì di gioia. "Come è giovane! - pensava. - Come è giovane!"

Ma per quanta dolcezza provassero a conversare insieme, ne provavano anche una maggiore a guardarsi tacitamente, con una intuizione sibaritica di tutti i piaceri che avevano dinanzi e della voluttà di centellinarli adagio adagio. Era già un incantamento così soave quello di trovarsi vicini, di leggersi negli occhi la reciproca ebbrezza, di misurare quasi le proprie forze e sentirsi uguali, che non volevano domandare di più all'attimo fuggente. Incominciava per essi il meraviglioso inganno: la passione che tutto tramuta, anima e sensi. Lilia la conosceva già, ma non a quel modo. Dal poco che le avevano rivelato le lettere di Ippolito e dalla sua schietta e vigorosa bellezza le veniva un profumo singolarmente eccitante di erba montana, di dittamo che nessun giardiniere aveva coltivato, che odorava di una essenza aspretta e selvaggia piena di eccitamenti nuovi; e tutto ciò che vi era in lei di buono, di nobile, di ancora puro, si raddrizzava con un violento bisogno di comunione dove lo spirito aveva, forse per la prima volta, una parte preponderante.

Qualche parola dissero ancora; parole comuni, superficiali, staccate, che volavano via nella notte, dando loro l'impressione dell'areonauta che si alleggerisce della inutile zavorra per salire più rapido e più alto.

- Mi scriverà ancora?

- Certamente.

- Non più ferma in posta?

- Non più.

- Come è tranquillo questo punto di Milano!

- Somiglia a Bergamo?

- Oh! no.

- Meno bello?

- Diverso.

Don Peppino sollevava allora dai tasti l'aria della Carmen: "Toreador attento...". Essi tacquero in un silenzio inebbriante. Ippolito vedeva attraverso la manica di velo il braccio di Lilia simile a un ramo carico di gigli e quella vista gli mozzava il respiro. Ma dopo un po' di tempo:

- Dobbiamo rientrare?

- Sono a' suoi ordini.

- La presenterò ai miei amici.

Quando essi apparvero sulla soglia del balcone come raggianti di bellezza, col pallore sul volto del nascente amore, coloro che si trovavano nel salotto provarono l'impressione di due astri sorgenti e quando Lilia ebbe pronunciato le parole sacramentali: "Un caro amico, il signor Ippolito Brembo", tutti quegli uomini trasalirono colpiti al cuore dal morso della gelosia. Si inchinarono poi freddamente, eccettuato don Peppino che tese la mano al nuovo venuto sorridendogli con una mite indulgenza paterna.

Lilia si lasciò cadere sul suo piccolo divano, improvvisamente illanguidita, tenendo la mano sollevata all'altezza degli occhi come se la improvvisa luce la offendesse.

- Brembo! - susurrò uno dei tre - chi lo conosce? C'era un cardinale di questo nome una volta...

- Sta' zitto - interruppe un altro - quello si chiamava Bembo. Lo dovresti sapere, tu che discendi da Lucrezia Borgia.

Risero tutti e tre con un piccolo sussulto nervoso adattandosi all'occhio la caramella. Indi, a bassa voce:

- Se è possibile presentarsi di sera con una cravatta di quel colore!

- E quelle scarpe!

- E i capelli, vi prego. Si parla tanto di diboscamento in Italia!

- Signori - entrò a dire il giornalista - la musica ha questo di buono che fa crescere le chiome, lo sappiamo tutti nevvero? Quel signore è organista.

- Organista?

- Organista?

- Organista?

- E perchè no? - riflettè don Peppino - Verdi pure lo è stato.

- Oh! oh! Verdi... già Verdi!

- Si parla ancora di Verdi? - domandò un signore che guardava degli albums . - La sottoscrizione per il suo monumento ha raggiunto la bella cifra di sessantanovemila e duecentotrentacinque lire.

- Sarebbe maggiore - disse Lilia mescendosi alla conversazione - se tutti quelli che palpitano alle sue melodie avessero potuto offrire un centesimo solo; ma tutti, intendiamoci, dagli studenti che si ritempravano dalla noia delle lezioni, cantando quarant'anni fa i cori dell'Ernani, alla modistina che seguiva sull'organetto l'addio alla vita di Violetta Valery. La stessa cosa si avvererebbe per il suo compatriota - soggiunse volgendosi direttamente a Ippolito . - Donizetti! E forse, nell'espressione del sentimento, Donizetti è anche più penetrante. Non crede?

Ippolito , a cui non era sfuggita la corrente di avversione che aveva destata la sua presenza, rispose a bassa voce con un monosillabo.

Il giornalista intanto confidava all'orecchio di don Peppino :

- Lo dobbiamo a voi questo regalo?

- Che idea! È la prima volta che lo vedo.

- Dove diamine sarà andata a pescarlo allora? Già ne aveva una voglia!... Ha però aspettato troppo; il suo quarto d'ora di celebrità è passato e nessuno si ricorda più del signor Ippolito Brembo.

- Lo dicono promettente assai come musicista.

- Chi lo dice? Sempre lei. Non ha la fronte abbastanza vasta per poter contenere qualche cosa.

- Aspettiamo quando sarà calvo; pot,Remo giudicare meglio - concluse don Peppino con la sua malizia senza punte simile al morso di un agnello. - Nella mia villa sul lago di Como tengo una raccolta di ritratti di tutti i maestri da Cimarosa in poi. Si potrebbe consultare.

- Non ho mai saputo che aveste una villa sul lago di Como - disse Lilia che aveva udito le ultime parole.

- Veramente è come se non l'avessi perchè non ci vado e non ci sono andato mai. Non mi piace la campagna.

- Non potreste vivere ventiquattro ore lontano dal club della Unione.

- Proprio così. Da sette anni, quando morì mia madre, la villa è rimasta chiusa. Già per sè stessa discretamente selvaggia, deve essere diventata un antro.

- Selvaggia sul lago di Como?

- Oh! lago di Como così lontano da Como che non ne avete un'idea. È laggiù, oltre Gravedona dove il lago è deserto e le montagne si ergono nude di contro al cielo in una solitudine sconfinata.

- Una descrizione che mette i brividi - gemette uno dei tre.

- Magnifica! - esclamò Ippolito quasi senza avvedersene.

Il giovanetto elegante lo guardò d'alto in basso, Scontrandosi i loro sguardi si urtarono con una mossa decisa di antipatia.

- Varese è più allegro - disse il giornalista.

- Ah! parlatemi di Varese, alla buon'ora. Là almeno vi sono strade per correre coi cavalli. Non esiste in campagna piacere maggiore. Anche don Peppino si divertirebbe quando attacco la mia charrette e quando faccio sellare il mio poney. Scommetto che vorrebbe accompagnarmi nei box con le tasche piene di zucchero.

Don Peppino crollò il capo:

- Amo le bestie, ma non troppo, perchè è notorio che si finisce sempre col prendere qualche cosa dell'oggetto amato.

Guy, Gontrand e Gaston abbozzarono un sorriso privo di convinzione intanto che Lilia , attirando Ippolito accanto al suo divano, ricominciava con lui uno di quei silenzi ardenti che già l'avevano inebbriato sul balcone. I suoi occhi carichi di languore avvolgevano il giovine in una rete di irresistibile seduzione; irresistibile eppure non volgare, perocchè nulla di volgare potesse svolgersi dalla donna eletta la cui intelligenza palpitava sempre come un'ala tesa verso un indefinibile bisogno di perfezione. Tratto tratto gettava ancora qualche parola nel crocchio degli amici, ma tenendosi muta accanto ad Ippolito e dandogli a suggere l'anima negli sguardi mostrava così visibilmente la nuova preferenza che l'aria intorno sembrava scottare. A un certo punto gli chiese con lo stesso accento col quale avrebbe potuto dire "Ti amo":

- Si annoia?

Egli ebbe l'audacia di rispondere, guardandola in viso:

- Sì

Le gote di Lilia si tinsero allora di una lieve fiamma e, strappandosi all'estasi, si alzò con un bel movimento di pantera che fece ondulare sul tappeto lo strascico aereo della sua gonna. La voce tremula di don Peppino diceva:

- Tutto basta al primo amore che è sempre un milione di fame per un centesimo di pane.

- Si parla di amore qui? - domandò Lilia avanzandosi verso il gruppo.

- Non tutti hanno la fortuna di poterlo fare - rispose don Peppino , correggendo con l'umiltà dell'accento l'impertinenza dell'allusione e soggiungendo subito con galanteria: - Potrebbe essere diversamente intorno a voi?

- Non gli credete - saltò su il giornalista: - si trattava di amore nell'arte.

- Di amore applicato all'industria.

- Alla coltivazione dei baccelli.

- All'istruzione dei pappagalli.

- Volete finirla di dire sciocchezze? Di amore ve n'è uno solo. Anche quando l'artista se ne impossessa e crea con esso il capolavoro, noi crediamo di ammirare il genio ed ammiriamo ancora l'amore.

- Bravissima! - gridò don Peppino .

Ella volse i begli occhi verso Ippolito quasi chiedendo la sua approvazione. Il giovine disse:

- Donizetti da lei citato poco fa potrebbe essere una prova luminosa del suo asserto. Il temperamento amoroso ha dato a tutta l'opera di questo maestro una penetrazione di sentimento che è difficile riscontrare in altri, se non forse in Bellini.

Lilia interruppe.

- E sappiamo che da uno strazio d'amore nacque la Favorita!

I tre facevano spallucce.

- Non v'ha dubbio - rispose don Peppino - che ciò che manca alla maggior parte dei compositori moderni quando vogliono affrontare il lavoro drammatico, è appunto questo fuoco concentrato, questa passione interna che io voglio pur chiamare amore, come dice la nostra divina Lilia , anche se altri si accontenta di chiamarla ispirazione. E credo che se venne dedicato principalmente il nome di amore al fatto che genera la vita, è non per altro che per questo. Più la cosa creata è grande e più implica nell'atto creatore una forte somma di amore. Rammento una gita fatta al Piccolo San Bernardo, in una calda giornata di agosto, e il ritorno penoso sotto il sole bruciante che ci consigliò di fermarci a mezza strada per prendere un bagno. C'era lassù uno stabilimento impiantato di fresco con tutte le comodità moderne: vestibolo grandioso, ampi corridoi, luce abbondante, campanelli elettrici, vasche di marmo, sali d'ogni qualità, termometri di tutte le grandezze... e un filo d'acqua: così poca acqua che non riuscii ad immergervi i ginocchi. Davanti a certe opere musicali di cui si vantano i pregi vi assicuro che mi viene in mente quel bagno, dove uno specialista avrebbe potuto ammirare l'impianto, ma dove il pubblico non ci si poteva bagnare.

Qualcuno osservò che don Peppino aveva dello spirito.

- Naturalmente - disse il giornalista - parlano per bocca sua tutti gli scrittori della terra! È il vero caso di dire che parla come un libro stampato. Ma concludiamo: Poichè si venne a ciò parlando di musica, non c'è alcuno che si senta di farne un po' questa sera? Oserei pregare la padrona di casa.

Lilia accennò negativamente col capo.

- Qualcuno dei signori? - ripetè volgendosi ai tre eleganti. - O il signore?

Ippolito , interpellato direttamente, si schermì, sotto le occhiate oblique della triade dalla quale fischiò in tono sommosso questo commento ironico:

- Gli occorrebbe l'organo.

Non tutti udirono, ma Ippolito sì. Egli varcò con un balzo lo spazio che lo separava dal suo rivale e chinando verso di lui il volto infiammato, lampeggiando negli occhi, gli scattò a bruciapelo la botta di risposta:

- Come a lei la frusta.

I tre si alzarono furibondi: nell'attrito fu rovesciata una sedia.

- Che avviene laggiù? - chiese Lilia .

- Un malinteso - si affrettò a dire don Peppino cui non era sfuggita la rapidissima scena.

- Ah! - protestò uno dei tre - lo chiama un malinteso?

- O se preferisce uno scherzo - continuò don Peppino col suo accento persuasivo mettendosi risolutamente in mezzo a loro. - I signori hanno voluto scherzare ed il signore raccolse l'invito. Già. Un'allusione alle loro abitudini sportive... niente altro. Uno scherzo, un semplice scherzo. Abbiamo fatto molto tardi questa sera. Mi pare che la signora abbia bisogno di riposarsi.

Lilia afferrò subito l'intenzione del suo vecchio amico e tendendo cortesemente la mano li congedò tutti, con una lunga, speciale stretta a Ippolito il quale uscì barcollando di sdegno e d'amore. In anticamera gli si avvicinò don Peppino e gli disse:

- Caro giovinotto, ho molti anni più di lei e posso darle un consiglio. Si ricordi che per ogni donna che ha la bontà di distinguerci noi dobbiamo calcolare sopra dieci uomini che ci detestano; è fatale. La prego però di non comprendermi nel numero - aggiunse sorridendo di un sorriso fine tra il filosofo e l'uomo di mondo che diede ad Ippolito la soave impressione di aver trovato un amico.

X.

ZIO ,Remo .

L'ultima domenica di giugno ,Remo , dopo di avere assistito alla santa messa nella parrocchiale del villaggio, si era chiuso in casa, a rivedere i saggi che i suoi scolaretti stavano preparando per gli esami. Fresco come una mela e fregandosi le mani il buon maestro era tutto allegro perchè gli sembrava di verificare un notevole profitto. Cari ragazzi! Le corse all'impazzata attraverso i campi, le sfide a palle di neve, il tardo arrivare alla scuola, gli uccelli di carta lanciati dalle finestre, le barchette di carta nuotanti nella catinella, i pupazzetti sui libri di testo, i codini attaccati alla nuca dei compagni, le banderuole issate sulla cattedra, questi svaghi innocenti sì ma non contemplati dalla disciplina, non avevano danneggiato menomamente il risultato dell'anno scolastico.

Cari ragazzi! Tutte le massime ottimiste che egli aveva accumulate, che teneva in serbo per consolare sè stesso e gli altri, fra cui sceglieva invariabilmente il testo per i modelli di calligrafia, gli venivano sulle labbra con una sfilata trionfante. "L'uomo nasce naturalmente buono, basta saperlo educare. L'educazione è al fanciullo quel che la rugiada alle piccole piante. Non bisogna stancarsi di spargere a larghe mani il buon seme. Ognuno di noi deve lavorare onestamente pensando che Dio lo vede", ecc. ecc.

Egli aveva allineato davanti a sè sul tavolino, in cinque mucchietti, i compiti de' suoi allievi e li mirava con compiacenza. C'era, è vero, quel Battistino Rota da cui non si riusciva a spremere nulla, e l'Aristide Pochini il quale confondeva sempre i nomi dei fiumi con quelli dei monti; ma la storia è piena di esempi di uomini celebri che sui banchi della scuola promettevano poco di buono. Le vie della Provvidenza sono infinite e non conviene disperare del giorno finchè è sera.

Ma che cosa aveva Rosalba da socchiudere ad ogni dieci minuti l'uscio della camera cacciando dentro quella sua testa da nottola?

- Rosalba , volete qualche cosa?

- Nulla. Guardavo se avete finito.

- Vi occorre che finisca dunque?

- No. Guardavo per guardare.

Alla buon'ora - pensò ,Remo . - L'occupazione è senza conseguenze. - E continuò a scegliere, ad annotare, ad ammucchiare foglietti senza preoccuparsi se l'uscio cigolasse o no. Quando credette di aver tutto in ordine asciugò diligentemente la penna, la depose attraverso al calamaio d'osso e si levò in piedi.

Così, senza accorgersene, aveva fatto venire lo due e mezzo. Diede un'occhiata fuori della finestra ai mandorli che t,Remo lavano al soffio della brezza e decise di muovere due passi prima del desinare.

Quando ebbe appena varcato l'uscio della cucina, il solo che desse adito alla casa, Rosalba gli corse dietro:

- Ricor vi che è domenica e che si pranza prima degli altri giorni.

- Va bene, lo so.

- Non fatevi attendere, chè Romolo brontola.

- Lo so, lo so.

In fondo al cortile trovossi ancora Rosalba alle calcagna. Ella biascicava rivoltando fra le mani la pezzuola da naso:

- Tutto cambia talmente a questo mondo che non si è più sicuri di quello che si fa; cambiano le persone, cambiano le abitudini: una volta si pranzava a mezzogiorno ed ora si arriva fino alle quattro; hanno cambiato finanche gli orli dei fazzoletti, che una volta si ribattevano sul rovescio ed ora si ribattono sul dritto, vantaggio della macchina.

,Remo che non la ascoltava più stava per girare il sentiero di fianco.

- ,Remo ! Che diamine! ,Remo !

- Ma che cosa volete, benedetta donna? Vi ha forse morsicato una vespa?

- È più di un'ora che cerco di parlarvi; ma già, gli uomini non capiscono mai nulla. Mi manca il fiato a furia di corrervi dietro.

,Remo si fermò di botto al colmo dello stupore.

- Se volete parlarmi perchè non lo avete già fatto?

Rosalba si lasciò andare colla schiena contro il muro affannata e scarlatta, facendosi vento col grembiule.

- Se fosse stata una cosa tanto semplice non mi sarei data questa pena e dopo tutto è per voi altri, per l'onore della vostra famiglia... perchè nessuno possa ascoltare e riferire.

,Remo incominciò a tremare per davvero. Ciò vedendo ella prese animo per entrare trionfalmente nell'argomento:

- Voi non sapete dunque nulla?

- Ma di che, in nome di Dio?

- Di Ippolito .

- Ippolito ?

- Giusto lui.

- E che cosa c'è?

La donna volle godersi con una pausa quel punto culminante della scena che aveva preparata, godersi l'ansia di ,Remo , godersi la propria, momentanea importanza. Mise le mani sui fianchi, spinse innanzi la faccia tutta stravolta:

- C'è... c'è...

Poi tutt'a un tratto, come si schiaccia una mosca in un impeto di rabbia, gli soffiò sotto il naso:

- Ha una pratica!

Il buon pedagogo arrossì, oh! ma di un rossore straordinario che salì ad investirlo fino al di sopra delle orecchie, mentre cercava inutilmente dove posare lo sguardo smarrito. Un discorso di tal fatta con una donna! con Rosalba !... E senza avere il tempo di prepararsi! Tentò due o tre volte di aprir bocca; finalmente, cedendo al suo temperamento ottimista, disse un po' rinfrancato:

- Siete poi certa?

- Ssss!! - fece Rosalba lanciando un braccio al disopra della testa.

- Sapete che il mondo, purtroppo, è pieno di cattive lingue; per ignoranza, per leggerezza, non credendo di far male il più delle volte... E come la falda di neve che ne trascina un'altra e che...

- Altro che falda di neve! È un fatto positivo. Vi immaginate perchè se ne sta a Bergamo tutti questi giorni?

- Sicuro, poverino. Ha gli ultimi esami al Conservatorio; prepara una composizione sacra...

- Sì, eh? Lo ha detto a voi, a me, a tutti, e tutti l'abbiamo bevuta!

- Rosalba , Rosalba , prima di dir male del prossimo conviene girare tre volte la lingua in bocca.

- Per me è tutto il giorno che la rigiro. Non dissi nulla a Romolo ...

- Avete fatto bene.

- ...perchè è troppo furioso e Dio sa che quarantotto ne veniva fuori. Del resto la cosa è tanto sicura che lui sta a Bergamo per andarsene quando vuole a Milano...

-~ Che c'entra Milano, adesso?

- Come, non l'ho detto? È a Milano che egli ha la... (Terminò la frase con una strizzatina d'occhi).

- Oh! Signore Iddio - gemette ,Remo invaso da un subitaneo sgomento per le proporzioni che la faccenda minacciava di prendere. - Ma come sapete voi... una donna... queste cose...

- E so di peggio. Pare che in casa di quella pratica ci sia stata una rissa e che ne debba venire un duello. Vedete in che razza di impicci è andato a cacciarsi?

- Un duello? Ippolito !

Il povero ,Remo sudava freddo. Prendendo Rosalba per un braccio la trascinò ancor più lontano dalla casa, assalito da mille timori senza nome.

- Ditemi tutto quello che sapete, sopratutto da qual parte lo sapete, se pure non è una calunnia inventata di sana pianta, il che mi sembrerebbe più probabile.

Il buon ,Remo si attaccava con una ostinazione di naufragio alla scappatoia della calunnia, ma Rosalba fu spietata:

- Toniolo di Ponte di Sotto, sapete?...

- Sì, Toniolo dal naso a spegnitoio.

- Benissimo! Egli è a Milano a fare il sarto, e va a dormire in casa di Bernardo, sapete, Bernardo lo zoppo che sta a Milano da tanti anni?

- Sì, sì.

- Ebbene, Bernardo è il portinaio di quella casa... dove abita... avete capito adesso? Lui e Toniolo hanno visto tutto.

- Ma il duello, il duello?

- Il duello si deve fare uno di questi giorni.

- Oh! Signore Iddio! - tornò a gemere ,Remo ; - pure, reagendo ancora con tutte le forze della sua anima semplice, riprese: - E se non tosse vero niente?

Questo pensiero che "non fosse vero niente" gli sorrideva con una dolcezza incomparabile. Tutto come prima: Ippolito a Bergamo per prepararsi all'esame; Rosalba accanto a' suoi fornelli; e lui, ,Remo , correggendo i compiti in quella bella domenica di giugno, con un cielo così limpido ed una brezza così soave tra le foglie dei mandorli...

Vana speranza! Rosalba bruciò la sua ultima cartuccia:

- Per essere sicuri c'è un mezzo semplicissimo. An a Bergamo, subito. Se trovate Ippolito , bene con bene: se non lo trovate, via dritto a Milano, in una contrada che si chiama Palestro... Non vi dico altro. Se fosse una contrada onesta si chiamerebbe di S. Pietro o di S. Paolo e non con questo nome turco.

,Remo implorava colle due mani tese a guisa di ventaglio verso la donna, quasi per arrestarne l'inflessibile chiacchierio.

- Esitate? Vedete un po' come sono questi uomini...

- Non esito... no... se occorre... il mio dovere innanzi tutto.

- Dunque an .

- Ma così... per una parola...

- Volete che vada io? o Romolo ?

Egli misurò l'estensione del nuovo pericolo, lo scandalo, i pettegolezzi, l'ira del fratello, tutto il putiferio che ne sarebbe nato. Chinò la testa e rispose con un gran sospiro:

- Anderò.

Si trattava di decidere quando. Rosalba pretendeva che partisse sul momento; ma a questo egli si rifiutò categoricamente adducendo che conveniva preparare Romolo con un pretesto e che anche partendo subito non avrebbe potuto andare e ritornare nello stesso giorno, ed a star fuori la notte non era nemmeno da pensarci per una quantità di ragioni.

Rosalba , avendo ottenuto l'intento principale, mostrossi docile su questo punto e lasciò che ,Remo andasse a terminare il suo passeggio sotto i mandorli, benchè l'animo di lui contristato e turbatissimo non gli permettesse più di godere l'innocente svago.

Fu ben peggio quando, il giorno dopo, addotto un impegno professionale, egli prese di buon mattino malinconicamente la via di Bergamo con una grossa mazza fra le mani il cui pomo rappresentava una testa di cane, "simbolo di fedeltà" e un cappello di paglia le cui ampie tese ombreggiavano pietosamente il suo volto stremato dalla notte insonne.

- Ricor vi - lo aveva ammonito Rosalba mescendogli nel caffè nero una goccia di acquavite per infondergli coraggio - che bisogna battere risolutamente il ferro intanto che è caldo. Questo genere di donne è terribile quando si attacca ad un giovinotto. Sono vampiri! Ricor vi, vampiri!

Trotterellando sullo stradale, ,Remo cercava di prepararsi alla partaccia che gli era stato affibbiata. Che un giovine di ventidue anni ceda agli inviti d'amore mentre tutto nel mondo e nella natura ne lo consiglia, non era in se stessa cosa peccaminosa. "No, no, - andava ripetendo con una crollatina di testa - il male non è qui. Scelga una onesta giovine e la spesi appena gli venga fatto di ottenere il posto; è giusto, è umano, è saggio. Chi di noi gliele vorrebbe impedire? Non sarebbe anzi la nostra gioia? Non sarebbe il conforto della nostra vecchiaia veder girare per la casa una fresca sposa e, più tardi, una nidiata di bamboccetti a cui insegnerei a leggere e scrivere e che verrebbero alla loro volta a fabbricarmi le barchette di carta sotto il naso? Bamboccetti e bamboccette, uno biondo, l'altro nero, l'altro castano".

Si accorse di essersi allontanato dall'argomento, sempre per quella benedetta tendenza a vedere tutto roseo, ed affrettando il passo e crollando la testa più energicamente in senso affermativo, questa volta per avviarsi con una ginnastica graduale alla grande battaglia, si rimise di fronte il problema: Una pratica a Milano. "Uhff!!" - sbuffò. Molto molto di simili affari non si intendeva... Per conto proprio, intanto, no! Ma qualche amico, qualche racconto udito di straforo, qualche lettura... Cose vecchie del resto. Anche Circe, anche Cleopatra, anche Messalina... Dice bene Rosalba : Vampiri! Bisogna atterrarli e distruggerli. Ippolito , poveraccio, che ne sa lui? Ma capirà la ragione, oh! la capirà subito; un ragazzo intelligente, buono, affezionato alla famiglia non può perdersi così da un momento all'altro. È questione di arrivare in tempo. Il peggio è quel duello. Un duello! Ma se non ha mai maneggiato altra arma fuori dello schioppo! E poi non sono forse proibiti i duelli? Dunque non si fanno. Sarebbe un triplice attentato contro la religione, contro le leggi, contro la famiglia. Ippolito non ne è capace. Egli crede in Dio, rispetta i superiori, è sempre stato un figliuolo obbediente e timorato; perchè dovrebbe battersi?...

E quella donna, a proposito, quella donna, se lo ama, non lo può permettere nemmeno lei. Bisogna dirglielo, bisogna mostrarle la responsabilità che le verrebbe da una disgrazia. Bisogna all'occorrenza minacciarla... ci sarà bene nel Codice un qualche paragrafo in questo senso. Intimorirla bisogna. Andare da lei direttamente, là, e dirle che tutto è scoperto. Questo le deve fare una grande impressione".

A tal punto del monologo ,Remo tentò di rappresentarsi press'a poco la via Palestro, che doveva essere qualche cosa come il sentiero dell'Inferno, ma un pudore improvviso gli accalorò la faccia e capì che la matassa si ingarbugliava di tutti gli sforzi che egli faceva per sgarbugliarla. In quale brutto passo era mai caduto!

Essendosi fermato un istante per riposare sopra un mucchio di ghiaia andava tamburinando colle dita la testa di cane della sua mazza in cerca di aiuto. Decise finalmente di non pensarci più finchè fosse giunto a Bergamo, vedere se Ippolito c'era e lasciarsi guidare dall'ispirazione del momento, la quale vuolsi sia sempre la migliore.

L'abitazione dell'amico, presso cui Ippolito aveva preso alloggio in quei giorni col pretesto di prepararsi insieme all'esame, sorgeva poco lungi dal Conservatorio sullo sdrucciolo solitario di San Giacomo, ed aveva un giardinetto disposto a scaglioni in vista delle mura. Fu in questo giardinetto che il buon uomo trovò la madre dell'amico occupata ad inaffiare certe sue pianticelle. Egli non sapeva, in verità, da qual parte rifarsi per interrogarla; ma ella lo tolse subito d'impaccio prevenendolo:

- Buon giorno signor ,Remo ; viene a trovare suo nipote? Bravo, si accomodi. È al Conservatorio con mio figlio; li aspetto fra poco per la colazione; la fa,Remo insieme.

,Remo trasse un respiro tanto prolungato a questa prima notizia rassicurante che la signora, ingannandosi sul significato, soggiunse:

- È una salita dura, nevvero? Pensi un po' quando non c'era la funicolare! Ma quale compenso una volta giunti quassù! Guardi che vista.

- Stupenda!

Egli avrebbe ben voluto chiedere alla madre dell'amico se Ippolito stava fermo agli studi o se faceva qualche scappata a Milano; ma fu preso da uno scrupolo. O se non c'era nulla di nulla perchè sollevare sospetti temerari? Spirava tanta pace in quella casetta! Si chinò a guardare le pianticelle:

- Sono tuberose?

- Tuberose e garofani della China.

- Vengono su bene.

- Sì, se Dio vuole. Aria e sole non mancano. Guardi tutti i giardini qui intorno, che paradiso!

,Remo girò gli occhi sul panorama: incantevole a monte, dove una catena di giardinetti si arrampicava tra le case usufruendo d'ogni più piccolo spazio di terreno per lanciare al sole ciuffi d'erbe fiorite; imponente a valle, coll'ampia distesa fra il Brembo e il Serio perdentesi all'orizzonte in una vastità di mare.

- Permetta, signor ,Remo , le è caduto un ragno sulla manica; due anzi. Volevano fare all'amore sul suo pastrano.

Tutto confuso egli tese docilmente il braccio per accogliere il buffetto che la signora diede ai due vagabondi, non senza poi passare e ripassare la mano sul posto del convegno, invaso da una certa inquietudine.

Quando i due studenti reduci dal Conservatorio fecero la loro apparizione in giardino, scavalcando il muro di cinta con delle rose in mano colte allora allora, il buon ,Remo non seppe far altro che sorridere a suo nipote tendendogli cordialmente la destra. Ma la sorpresa di Ippolito non fu lieve e non si appagò del pretesto accampato lì per lì per giustificare uno strappo così straordinario alle occupazioni ed alle abitudini del maestro del villaggio. Non poteva nemmeno sfuggirgli il contegno di ,Remo in cruda lotta fra la dolcezza naturale e l'aspro compito che si era assunto. - "C'è un guaio" - pensò il giovinotto; lontano per altro dalla verità.

Terminato il modesto asciolvere, mentre gli ospitalieri padroni avevano lasciato soli zio o nipote immaginando bene che avessero qualche cosa da dirsi, Ippolito chiese subito di che si trattava.

- Figliolo mio - esordì ,Remo messo nella condizione di chi addossato a un muro si trova il nemico davanti - bada che io non credo niente. Sono ciarle, dicerie, roba messa in giro da qualche invidioso o da qualche sfaccendato...

Fin dalle prime parole la voce segreta dell'istinto fece battere confusamente il cuore a Ippolito il quale si morse i piccoli baffi con un movimento nervoso aspettando il seguito. Ma anche ,Remo aveva sollevato sul nipote i dolci occhi rotondi sperando un aiuto o un incoraggiamento purchessia, e l'attitudine del suo volto era pietosa a segno che Ippolito finalmente disse:

- E così?

- Dicono... ma non arrabbiarti, sai, perchè se non è vero non è vero, ed io credo più a te che agli altri. Dicono che hai una relazione...

Si fermò in attesa che Ippolito protestasse, ma vedendo che non faceva altro che mordersi i baffi in silenzio, prese animo a soggiungere:

- ....a Milano...

Sempre silenzio.

- ....in via Palestro... e che c'è un duello per aria. È vero?... No? Ah! lo sapevo bene.

- Piano, caro zio. In quello che tu dici c'è vero e c'è falso, come succede spesso.

- Ma niente di male, eh? Questo è l'importante. Il duello?...

- Il duello non si farà. Ti basta?

- C'era però?

- C'era, ma non c'è più. Uno sciocco vanesio voleva che mi battessi, infatti; ma tutto venne accomodato coll'intervento di una brava persona, un gentiluomo, un galantuomo, uno che se lo conoscessi ti piacerebbe certamente. Rallegrati dunque e non ne parliamo altro.

,Remo stava per appigliarsi giocondamente a questo consiglio che armonizzava a pieno co' suoi desideri, quando si accorse di non avere dato fondo alla questione. Anzi quello che rimaneva a decifrarsi era ancor più scabroso. Si diede qualche colpettino prima colla mano destra sulla sinistra, poi colla sinistra sulla destra, si raschiò la gola, aspirò l'aria a pieni polmoni. Improvvisamente, colle risoluzioni violente che i timidi trovano nella loro coscienza quando si tratta di un dovere da compiere, mise fuori la gran parola:

- E... la donna?

- Caro zio, poichè ti ho assicurato che non corro nessun pericolo, che importa il resto?

,Remo si sovvenne delle terribili raccomandazioni di Rosalba a proposito dei vampiri. Ciò lo rese ardito:

- Non tutti i pericoli, caro figliuolo, ci vengono dalle armi e dalle risse. Vi sono abissi tenebrosi sotto ai laghi più azzurri, veleni micidiali in grembo ai fiori maggiormente profumati. Tu sei inesperto ancora, e per questo, e perchè sei giovine, male ti puoi difendere dalle astuzie femminili che non conosci, che forse non sospetti nemmeno. Se tu vagheggi un puro sogno d'amore, perchè farne mistero? Se invece cadesti nei lacci di un'avventuriera...

- Ma chi ti ha raccontato queste frottole?

- So che vai nascostamente a Milano.

- Chi te l'ha raccontato?

- Gente che ti ha visto; ma non è ciò che importa. Chi hai a Milano? Dimmelo. Non sono più il tuo vecchio zio al quale hai sempre confidato tutto? Il tuo vecchio zio che ti ama? Voglio esserti utile in ogni modo. Se ciò a cui tendi è bene, aggiungerò le mie forze perchè tu lo raggiunga; se è male, ti sarò compagno nel combatterlo. Già tu non vuoi il male, nevvero?... Ippolito , figliolo caro... rispondi...

- Che devo mai rispondere?

- Vai a Milano?

- Ebbene, sì, vado a Milano. È questo il male?

- Ma vedi... è secondo... Intanto è male che tu vada nascostamente, facendo credere che ti fermi qui per studiare. E poi... una relazione...

- Senti, zio. Ti ho detto fin dal principio che nelle ciarle che ti hanno riferito c'è del vero e del falso. Vado a Milano a trovare una persona, una signora, un'amica carissima, e basta. Non c'è altro. Tutto ciò che la malignità o la stupidaggine possono aggiungere a questo fatto semplicissimo è spudorata calunnia.

Con uno slancio di improvviso coraggio ,Remo lanciò una domanda che da molto tempo gli bruciava la lingua:

- È maritata? perchè, vedi, il peccato sarebbe doppio...

- No.

- Una fanciulla?...

- Una signora, ti dico. Non pensare altro, intendi? Non altro. Sappi che io la venero come una Madonna; sappi che è la più buona, la più nobile, la più disinteressata di tutte le donne e che non tollererò mai sul suo conto una parola meno che rispettosa.

- Tu l'ami? - mormorò ,Remo quasi sbigottito dalle ultime parole del giovine.

- L'amo.

Il silenzio che seguì questa ferma dichiarazione fu lungo e penoso per entrambi. ,Remo arrischiò timidamente un'altra domanda:

- E lei?...

- Ah!... Non so, non so, non so!

Ippolito si cacciò le mani nei capelli, pallido e convulso.

Vedendo il suo diletto nipote in tanta agitazione zio ,Remo fu subito preso da una specie di pentimento. Era chiaro che non c'era nulla di male. Si trattava evidentemente di un amor platonico ispirato dalle virtù di una donna eccezionale, e poichè la signora era onesta, così nobile, così buona, così disinteressata, il pericolo scemava d'assai. Cosa vuol dire le male lingue! E Rosalba che parlava di vampiri!... Il bisogno che egli aveva di serenità e di pace lo sospingeva rapidamente ad accogliere il concordato che gli veniva offerto dalle dichiarazioni di Ippolito , per cui soggiunse con convinzione:

- Ad ogni modo tu agirai onestamente, nevvero? Rimettiti alla Provvidenza. Se ella ha destinato che tutto finisca bene, finirà. Sarebbe però consigliabile che tu ora abbandonassi un po' questi sogni d'amore per attendere agli esami... Se li dovessi mancare anche questa volta... rifletti.

Ippolito appariva impaziente che il dialogo terminasse: ad ogni modo non era disposto a dare maggiori spiegazioni, segretamente irritato che la sua passione fosse già conosciuta. Disse ancora alcune parole per calmare lo zio: parole vaghe, imprecise, sufficienti tuttavia perchè il sorriso rinascesse sulle labbra,e negli occhi del buon ,Remo .

- Prima di lasciarti - disse, mentre un raggio si accendeva nelle sue pupille rotonde - voglio ripeterti il consiglio di andare cauto, sia per te, sia per lei: sopratutto per lei, per la sua riputazione. Sono del parere, guarda, che appena terminati gli esami tu vada a fare un viaggetto... così, per distrarti. Il tempo intanto porterà consiglio e tutto anderà per il meglio. La Svizzera, eh?... Non ti piacerebbe vedere Ginevra? E il lago dei Quattro Cantoni?

Ad un'obbiezione di Ippolito egli replicò tutto ilare:

- Non ci pensare. Ho da parte una sommetta che destinavo all'acquisto di una fisarmonica... te la cedo volentieri. Forse non avrei nemmeno tempo di suonarla la fisarmonica. Al caso sarà per un altro anno.

Zio e nipote si abbracciarono teneramente. Sulla via del ritorno ,Remo si fregava le mani pensando che proprio le cose non erano an così male come temeva. Quanto a Rosalba , conveniva giuocare d'astuzia per sviare le sue ciarle. Egli le avrebbe detto che Ippolito studiava come un martire e che se andava tratto tratto a Milano era per fare quattro passi in Galleria, tanto per sollevarsi lo spirito.

XI.

AMORE.

Ippolito non si capacitava di avere rivelato con tanta franchezza a zio ,Remo un sentimento che non gli era ancora riuscito di confessare a se stesso. Ma era anche singolare che ,Remo glielo avesse domandato, per cui la sua risposta affermativa si perdeva in uno di quegli impulsi irragionevoli ed irragionati che sfuggono all'analisi. Non si pentiva nemmeno dello scatto spontaneo, conoscendo il candore di ,Remo e l'uso prudentissimo ch'egli avrebbe fatto della confidenza; ma, a guisa di suggello levato che apre l'adito al liquore nascosto, quella dichiarazione recisa fatta ad un altro non gli permetteva più di conservare l'inganno verso se stesso. La benda era caduta, vedeva chiaro oramai nel suo cuore.

Nato in circostanze eccezionali il suo sentimento per una donna sconosciuta, che forse non avrebbe neanche mai tentato di avvicinare, restò per i primi tempi nel limbo dei sogni, aiutato dalla lontananza e dall'indole sua poco intraprendente che ne faceva un contemplativo più che un uomo di azione. Quel soave profumo di donna giunto fino a lui in una busta immacolata, quel mistero fantasioso di due anime comunicanti senza il tramite del corpo, gli riusciva nuovo e simpatico. La sua vagabonda immaginazione di artista, imprigionata ancora tra veli, spaziava in questo mondo della chimera che riconosceva per un segreto intuito e di cui cercava, nell'ombra, i verdeggianti sentieri.

Quando però la splendida creatura gli era apparsa con tutti i fascini della più squisita femminilità, in quel primo sguardo ricambiato in cui egli aveva sentito trasalire tutte le sue viscere, la gran fiamma della passione era divampata subitamente. Vedeva in Lei l'ideale della donna, una di quelle potenti regine che con un solo sguardo trasformano un fiacco in eroe, una di quelle sante giovani, belle e ardenti, che entusiasmano, una di quelle fate che avevano sorriso alla sua immaginazione di fanciullo. Quante volte aveva sognato di conoscere uno di questi esseri straordinari, quanto tempo l'aveva cercata senza trovarla! Ed ora avrebbe voluto baciare lo strascico del suo vestito, abbracciare stretto qualche oggetto suo e aspirarne l'olezzo e piangere di gioia. Si svegliava qualche volta al mattino con l'impressione di avere avuto una improvvisa fortuna, e tutto gli sembrava bello, e cantava, e avrebbe voluto trovarsi in un luogo chiuso, romito, per pensare a Lei senza occuparsi più di nulla, per ricordare esattamente il colore de' suoi occhi, la forma delle sue labbra, la sua andatura meravigliosa. Che cosa voleva? Che cosa sperava? Non se l'era mai chiesto, ma avrebbe voluto stare con Lei eternamente.

Per quanto egli non avesse incontrato fino allora una donna così fulgidamente bella come Lilia , non era di sola bellezza che si componeva il suo fascino e quel corollario appunto di grazia e di intelligenza che accompagnava ogni suo gesto, ogni suo motto, era il gran segreto delle passioni profonde che sapeva ispirare, che si protraevano al di là del desiderio. E Ippolito al desiderio non era giunto ancora, chiuso nella torre d'avorio della sua selvaggia giovinezza a cui facevano baluardo le credenze religiose, le abitudini di famiglia, l'eredità di tradizioni patriarcali. Vederla, ascoltarne la voce, scrutare i suoi pensieri, cogliere a volo i suoi sorrisi, trattenere nella retina degli occhi la sua immagine tutta intera talchè, chiudendo le palpebre, gli sembrava di serrarla sul cuore, per lungo tempo furono queste le sue gioie.

L'impegno seriissimo dell'esame non gli permetteva di andarla a trovare durante il giorno. Non era che dopo le lezioni, col lento treno dello sedici che egli lasciava Bergamo, accontentandosi di un pranzo sommario per recarsi in quella recondita via Palestro, una delle più tranquille e delle più dimenticate nella rumorosa Milano moderna. Arrivava che erano quasi le venti; doveva accontentarsi di un'ora sola di felicità se voleva riprendere l'ultimo treno delle ventuna e venticinque che lo riconduceva a Bergamo. Ma quest'ora conquistata con tanto disagio e così rapidamente trascorsa non gli bastava più. Alla muta contemplazione dei primi tempi, che tanta dolcezza gli infondeva nel cuore, veniva sostituendosi una inquietudine, un malessere, un contare tormentoso dei minuti che fuggivano, uno scontento di sè che arrivava qualche volta ad una specie di rabbia sorda dove anche il sentimento dell'ammirazione sembrava intorbidarsi di nuove correnti occulte.

Sintomo grave del rivolgimento che stava compiendosi in lui si accorse di provare, dapprima inavvertita, poi via via crescente e indomabile, una insofferenza degli amici, degli adoratori, di tutto quel circolo prono davanti a Lilia , intento a carpirle uno sguardo, una parola; specie di Corte dove ognuno occupava un posto in ordine gerarchico e che si rinnovava di sempre fresche reclute. Il privilegio a lui concesso di intimi colloqui sul verone, quegli istanti incantevoli di voluttà e di poesia in cui più che vederla se la sentiva accanto, bianca visione, per lui, solo per lui, intanto che gli altri ciarlavano e ridevano nell'interno delle sale, quel privilegio che lo aveva reso fiero fino allora, gli acuiva adesso la disperazione di lasciarla mentre appunto tutto il suo essere vibrava del fascino di lei, e là, su quel verone, avrebbe voluto che incominciasse l'eternità.

Quante volte egli scendeva da Bergamo alta con un programma di audacia che andava svolgendo nello stretto vagone della funicolare, crescendolo lungo la strada fino a raggiungere le iperboliche proporzioni di una dichiarazione di amore!... Sì, era deciso a questo. Languiva, moriva, aveva bisogno di parlare, di dirle tutto! Ma giunto in quelle sale eleganti, sotto la luce delle lampadine elettriche sboccianti tra i fiori, di fronte alla siepe degli uomini vestiti di nero che lo guardavano d'alto in basso reprimendo per mera civiltà un sorriso ironico, tutto il suo coraggio sfumava. C'era l'oasi del balcone, è vero, ma anche là le ciarle vane, le risate importune, le apparizioni sulla soglia, il dubbio continuo di essere interrotto lo perseguitavano, avvelenandogli la preziosa brevità degli istanti concessi.

Una volta scrisse: scrisse che detestava la sua casa, la sua società, quelle visite misurate, quella gioia fuggevole, la lontananza, gli ostacoli, il mondo, tutto tutto ciò che si frapponeva tra loro due. Ma la lettera era riuscita troppo violenta; la stracciò, non fu capace di rifarla, e il giorno dopo le stette vicino muto, iroso, incomprensibile, quasi stupido, quasi villano: pazzo d'amore e di disperazione.

Lilia un po' intendeva e un po' s'arrabbiava. Abituata al dominio assoluto avrebbe preteso che anche Ippolito prendesse il suo numero nella schiera degli imploranti e si adattasse agli usi ed ai capricci che regolavano il piccolo regno. Quel bellissimo giovine così diverso dagli altri le piaceva immensamente, ma non le veniva ancora l'idea di sacrificargli le sue abitudini, quantunque a volte sentisse anche lei il tedio delle relazioni convenzionali e degli amori stereotipati. Il peggio era che nelle ore febbrili dell'attesa ognuno si fabbricava secondo il proprio desiderio lo stato d'animo che avrebbe voluto nell'altro, e non trovandolo conforme al piano immaginato si arrestava nello slancio, si perdeva nelle ipotesi, taceva, sembrava freddo, e intanto l'ora passava inesorabilmente.

Un amante di più? No, non era questo che Lilia voleva. Una relazione sentimentale nemmeno, perchè Lilia non era sentimentale; ma capiva pure che una brusca risoluzione avrebbe compromesso quell'incanto delizioso di un amore quale le era apparso lontanamente nei sogni dell'adolescenza, che non aveva incontrato mai prima d'ora, che la lasciava dubbiosa come dinanzi ad un nuovo congegno di cui non si conosce il meccanismo. Perchè Ippolito non le aveva mai chiesto di restare quando gli altri partivano? Ella avrebbe concesso sì o no, ma perchè egli non lo chiedeva?

I calori di luglio intanto erano scesi torrenziali sulla città, nè Lilia accennava a muoversi. I suoi amici non rinvenivano dalla sorpresa. Ancora a Milano in luglio? Una cosa mai vista.

- Oh! guar , - le disse una sera il giornalista: - avrei scommesso di non trovarvi più coi trentaquattro gradi che abbiamo fatto oggi.

- E dove volevate che fossi?

- Che so io! magari a Bergamo...

Lilia si morse le labbra. La situazione diventava intollerabile, e per vendicarsi della malignità del suo antico adoratore raddoppiò sull'istante le premure verso Ippolito .

Il povero giovine si sentiva impazzire sotto gli sguardi di Lilia . Fra i due tormenti dell'esame e dell'amore la sua vita passava in un continuo struggimento. Don Peppino ripeteva ogni tanto a chi lo voleva ascoltare una certa strofa pescata chi sa dove e che egli sapeva condire colla sua bonomia ambrosiana:

Amor ciarliero è gioco

Che fa molto baccano e dura poco.

Amor silente è fuoco

Che cuoce la vivanda, il piatto e il cuoco.

Ma gli alberi dei boschetti lo sapevano un loro segreto che si rimandavano dal castano al tiglio, essi che proteggevano le notti ardenti di Ippolito , poichè non gli era più possibile distaccarsi da Lilia dopo un'ora sola di colloquio ed ormai aveva preso il partito di rimanere fino all'ultimo istante. Le giornate caldissime facevano prolungare la sera nell'appartamento simpatico, elegante, tutto fiorito. Lilia non lasciava il balcone prima della mezzanotte, e quando, licenziati gli amici, in molle accappatoio, coi bei capelli sparsi, prendeva ancora una boccata d'aria fresca affacciata al davanzale, non vedeva l'appassionato amante nascosto fra gli alberi, ma forse era il desiderio di lui irrompente, frenetico, che saliva a darle sì acute vertigini?... All'alba poi, mentre ella riposava nel morbido letto, Ippolito correva a Bergamo colle occhiaie dell'insonnia nel volto pallido e colla febbre nel sangue.

Fu in questo stato di violenza che egli compose il suo saggio per l'esame, ispirato al Cantico dei Cantici, dal quale aveva preso i passi più poetici e più profondi:

"O tu che l'anima mia ama, dimmi, ove pasturi la tua greggia?

"Rosa di Saaron, giglio delle valli, giglio tra le spine, tale è l'amica mia tra le fanciulle.

"Chi è costei che sale dal deserto simile a colonna di fumo profumata di mirra e d'incenso?

"Eccoti bella, amica mia, eccoti bella! Tu sei tutta bella e non vi è difetto alcuno in te.

"Quanto son belli i tuoi amori, o sposa, o sorella mia! Le tue labbra stillano miele. Tu sei un orto serrato, una fonte chiusa.

"Lèvati, Aquilone! vieni, Austro! spirate per l'orto mio e fate che i suoi aromi stillino.

"Mettimi come un suggello sul tuo cuore, come un suggello sul tuo labbro, poichè l'amore è forte come la morte.

"O tu che dimori nei giardini, amica mia, sposa mia, i compagni attendono la tua voce. Fammela udire!"

Con Lilia parlava qualche volta de' suoi studi, ma essi erano troppo mescolati al suo amore perchè la discussione potesse svolgersi serena.

- A quando gli esami? - domandò lei.

- Dovrebbero essere in agosto, se pure non anticipano per ragioni d'igiene.

E poi? Al poi non pensavano nè l'uno nè l'altra. Era sceso su di essi il velo incantato che sottrae gli amanti a tutte le considerazioni umane. Appena Lilia resisteva ancora alla paura del ridicolo per uno squisito senso di signorilità che si sposava nel suo temperamento a un perfetto equilibrio di mente. Sentiva il peso di tutti quegli occhi aperti su di lei, di tutte quelle curiosità intente a spiarla, di tutte quelle invidie o gelosie pronte a coglierla in fallo; nello stesso tempo che l'ingenuo ardore di Ippolito la sospingeva verso una forma d'amore il più possibilmente vicina alla perfezione.

Una domenica era capitato improvvisamente a metà della giornata. Trovò Lilia sola al piano; essendo entrato, senza farsi annunziare, si fermò sulla soglia ad ascoltarla, e fu sorpreso della di lei virtuosità. Aveva un tocco che avrebbe fatto la fortuna di un pianista di professione. Glielo disse, ed ella arrossì al complimento con una modestia da educanda, levandosi in piedi di scatto. Era vestita di una sottilissima mussolina color di cielo con maniche aperte fino alla spalla, ricadenti lungo il fianco a guisa di ali in riposo, ed aveva alla cintura un mazzo di gelsomini. Ippolito credette di vedere un angelo.

Ma come parlare, come, se il sangue gli affluiva a fiotti verso il cuore e si sentiva nello stesso punto di fuoco e di gelo?

Andarono a sedere sul divanino, su quel divanino dove per abitudine non sedeva che lei e che parve a Ippolito una iniziazione alle gioie del paradiso. In qual modo osò prenderle le mani, e stringergliele, e coprirle di baci? Eppure ciò avvenne, e la memoria di quei primi baci timidi, quasi furtivi, doveva seguirlo a lungo con un prolungamento di ebbrezza nei sogni.

Finalmente si trovavano soli e quantunque non si avverasse nessuna delle scene deliranti che egli aveva tante volte immaginate, era pure una delizia sovrumana quella di sentirsela così vicina, tutta per lui, cogli occhi volti a lui solo, attenta, avida, fremente, col busto eretto e tuttavia molle a guisa di calice dischiuso. Ad ogni lieve movimento percepiva lo scricchiolìo della seta nascosta sotto i veli e gli veniva insieme dall'intimo mistero della bella persona un delicato effluvio ignoto come di fiore senza nome. Vedeva le sue mani per la prima volta o almeno gli sembrava che fosse la prima volta; certo non le aveva mai vedute così bene. Erano mani lunghette, sottili, agili, aristocratiche, dalle tinte sfumate della madreperla. Egli ne osservava le dita ad una ad una mentre ad una ad una le baciava religiosamente, con un fervore da devoto e insieme una grazia di fanciullo che faceva sorridere Lilia . Ella aveva all'anulare della sinistra una magnifica turchese oblunga circondata di brillanti. Ippolito la guardò per un istante ed ella la posò in una coppa vicina dicendo con un sorriso enigmatico:

- Potrebbe pungerla, non voglio.

All'urto lieve delle braccia i gelsomini che aveva alla cintura le caddero in grembo. Ippolito li raccolse tutto tremante, in estasi.

Fu lei che dovette avvertirlo del tempo che passava, lei padrona, sicura di sè, lei che sapeva ogni gioia protratta e rapita all'ingorda rapacità dell'attimo una promessa di voluttà future più intense.

- Fanciullo!

Così disse Lilia a Ippolito che si chinava un'ultima volta a baciarle le dita ad una ad una. Ed egli si raddrizzò cogli occhi spalancati, quasi volesse accogliere dentro alla pupilla la vaga immagine della donna sorridente nella sua gloria.

Non vide la scala, non vide la strada. Mai in tutta la vita si era sentito tanto felice. Era un delirio pazzo, sfrenato. Avrebbe voluto abbracciare tutti, fare tutti contenti e felici come lui; gridare di giubilo, cantare un inno di grazia. Chi gli avrebbe detto un giorno che si potevano gustare nel mondo simili gioie? Era dunque l'amore, era l'amore!

Il passato, l'avvenire, l'esistenza, la società, il mondo intero, che valore avevano oramai? Tutto spariva. Non restava che Lei. Chiudeva le palpebre e se la sentiva vicina col suo profumo inafferrabile che lo avvolgeva in un'onda di dolcezza, e la vedeva, terribilmente bella, nella sua linea di stelo fiorito su cui due astri si erano posati come ad un convegno di tutte le bellezze.

Sfibrato, sfinito, tentò invano quella sera di dormire. Dormire erano ore perdute per la felicità; meglio abbandonarsi ancora all'ebbrezza dei ricordi e fantasticare e affogare in quel mare di sogni. Quando l'alba entrò nella sua camera, chiese a sè stesso se non fosse vittima di una allucinazione. Aveva sognato? Perchè il cuore gli batteva così forte? Perchè il sangue sembrava tumultuare nelle sue vene? Era vero, era vero ch'ella lo amava?

Contro ogni aspettativa ricevette una lettera di Lilia il giorno dopo. Poche parole appena che gli annunciavano una assenza improvvisa, senza dire dove; ma per compensarlo gli mandava un pezzetto del nastro celeste che ella aveva alla cintura l'ultima volta che si erano visti e che odorava ancora di gelsomini.

Per quanto fosse gentile il messaggio, Ippolito sentì darsi una stretta al cuore. Che cosa era egli per quella donna? Quale vincolo li univa?... Tutta la sua gioia cadde d'un colpo. Era dunque niente altro che una illusione?... Eppure l'amava, l'amava da impazzirne, da morirne; e questo amore cresceva disperatamente di giorno in giorno, d'ora in ora, di minuto in minuto. Sentiva di non poter più vivere lontano da lei, e sentiva anche che non gli bastava più starle vicino in attitudine di amico. Gli era venuta una frenesia di abbracciarla, di stringerla al petto, quasi così facendo potesse tenerla avvinta per sempre e non lasciarla più, non staccarsene più.

Pazientò quattro giorni, poi corse a Milano. Lilia non c'era. La portinaia non sapeva nulla. Fece il giro della casa, vide le finestre tutte chiuse, chiuso il balconcino dove aveva passato tanti istanti felici: vide la panchina sotto i boschetti, testimonio delle sue notti ardenti, e gli venne un groppo alla gola, un sentimento vago di abbandono e di terrore quale deve provarlo un bambino perduto in una città sconosciuta. Roventi ed amare alcune lagrime gli inumidirono le palpebre.

Ora sì l'amore gli sì manifestava in tutta la sua potenza di Iddio crudele; l'aculeo gli era penetrato fino in fondo alle carni e lavorava profondamente. Invano faceva sforzi per scacciare coll'occupazione quel continuo tormento dell'attesa. Leggeva, pensava, scriveva; ma credeva di leggere, di pensare, di scrivere: in fondo al suo pensiero non c'era che Lei. Una sola era la ispirazione: Lei! Sempre Lei che lo circondava, lo accecava, lo inebriava, lo induceva a parlare da solo come un pazzo, a invocarla nel cuore della notte: " Lilia ! Lilia ! sono tuo. Non vi è nulla ormai al mondo che io tema, nulla che mi spaventi, nulla ch'io ricordi, nulla ch'io brami, nulla ch'io debba, nulla ch'io senta, nulla ch'io creda. Tu! Tu! Tu!"

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La sera prima dell'esame prese una forte dose di cloralio per poter riposare qualche ora.

XII.

LA PROVA.

Quando la sala del Conservatorio fu gremita del solito pubblico che assiste tutti gli anni al saggio finale e gli allievi pronti al loro posto aspettavano che venisse il loro turno, Ippolito si concentrò tutto nella gran prova. Scolaro mediocre, aveva forse presunto troppo scegliendo un tema di così alto volo quale è il Cantico dei cantici; era questa almeno l'opinione della maggior parte de' suoi condiscepoli. Egli no. Egli si sentiva calmo, grave ma calmo.

Zio ,Remo , che si era portato a Bergamo apposta per la solenne circostanza, gli aveva detto: "Dal momento che tu hai messo nel tuo lavoro tutto l'impegno di cui sei capace non devi temere di nulla. Il Signore ti aiuterà".

Il buon uomo era andato egli stesso, calmo e sereno, a collocarsi sulla balconata dove sogliono prender posto i parenti degli allievi, scegliendo il cantuccio più umile e meno in vista accanto ad una grossa matrona alla quale domandò scusa per il disturbo.

Il saggio si aperse con una suonata a quattro mani, al cembalo, eseguita da due signorine.

- Bravissime! - esclamò ,Remo quando ebbero finito. E a tutti quelli che vennero dopo, allievi di violino, di canto, d'arpa, egli ripetè invariabilmente "Bravissimo!" con una gioia profonda di maestro avvezzo all'indulgenza, persuaso che bisogna incoraggiare, che bisogna compatire. Accompagnava l'applauso con un tentennamento del capo, sorridendo, con tutta l'anima affacciata ai dolci occhi rotondi.

- Ella ha qui un figlio? - gli chiese la matrona.

Rosso rosso, ,Remo rispose:

- Figlio no; non sono ammogliato. Ho un nipote, un caro giovine che studia per organista. È l'autore della composizione che daranno nell'ultima parte del programma.

- Ippolito Brembo allora!

- Precisamente.

- L'eroe dell'incendio? - fece la matrona: - Oh! ha già un nome celebre. È un buon principio.

Lo zio gongolava, ma per modestia non voleva mostrarlo; ed anche per non mortificare la matrona, la quale doveva pure avere qualcuno fra gli allievi, figlio o nipote, che non era ancora un eroe. Man mano poi che i pezzi eseguiti lasciavano più breve il tempo prima della comparsa di Ippolito , la sua bella serenità si veniva appannando di una commozione sentimentale che lo rendeva un po' inquieto. È per questo che tamburinava, senza far rumore, sul parapetto della balconata, quasi accompagnando il ritmo della musica giù nell'ampia sala, e allungando e torcendo il collo con un movimento tra il comico e il patetico fissava ansiosamente l'uscio per il quale entravano gli allievi pensando: "Egli è là!"

Venne finalmente l'ultimo pezzo, preannunziato da un silenzio abbastanza lungo. Ippolito apparve pallido, cogli occhi che sembravano ancor più neri su quel pallore.

- Bello! - bisbigliò qualche fanciulla all'orecchio della compagna.

Egli sedette all'organo senza guardare nessuno, ma fin dalle prime note un'alta figura femminile, chiusa in veli bianchi, si rizzò contro la parete di fianco a lui. Ippolito non poteva scorgerne il volto protetto dal velo e dalla oscurità della sala in quel punto, eppure trasalì..., perchè l'aveva riconosciuta.

"O tu che l'anima mia ama" - intuonò la voce profonda dell'organo con una accentuazione così appassionata che parve agli astanti di udire lo spasimo di una voce umana. Tutte le sue forze centuplicate da quella apparizione vibravano con una foga insolita, sorprendendo gli allievi e i maestri che non vi erano preparati, sorprendendo lo stesso pubblico delle mamme e dei dilettanti avvezzi alle interpretazioni corrette ma accademiche dei saggi per esame.

Un brivido corse per la sala quando le note svolsero la frase: "Chi è costei che sale dal deserto simile a colonna di fumo profumata di mirra e d'incenso?"

Ippolito non si era mosso. Le sue mani scorrenti sulla tastiera sembravano incatenare a quella tutto il suo essere. Eppure egli sentiva senza vederla la bianca figura che palpitava a pochi passi da lui, ne indovinava la linea elegante sotto il vapore spumoso di veli. "Chi è costei che sale dal deserto" non era più una domanda nelle sue note potenti. Egli lo sapeva, egli lo affermava con un un tremito di gioia: "Eccoti bella, amica mia, eccoti bella!"

Una delicata fioritura di note, simile ai misteri che si comunicano i nidi affondati nei boschi quando sorge su di essi l'aurora, interpretò la descrizione degli amori soavi come il miele nei dolci orti chiusi ove le fonti mormorano sommessamente. Si aveva l'impressione di udire il fruscìo delle ali fra gli alti steli t,Remo lanti e il lento aprirsi delle rose sui cespugli languidi.

- Stupendo! - disse un signore seduto davanti a zio ,Remo : - Solamente, questa non è musica sacra.

,Remo , che fin dai primi accordi non sapeva più in che mondo si trovasse, avrebbe voluto attaccar discorso con quel signore, ma, d'altra parte, la tema di disturbare fece sì che stesse pago a riguardare le vivaci approvazioni della matrona i cui occhi si atteggiavano ad una ineffabile espressione di rapimento.

Battagliera come uno squillo di tromba, la musica commentava ora le parole: "Lèvati, Aquilone! vieni, Austro!" Tutta la sala ne era scossa. I mantici dell'organo si sollevavano con un respiro da gigante e le arcate della volta apparivano anguste alla maestosa solennità della ispirazione che si levava sempre più alto. Quel filo diaccio che vibra nelle reni in certi momenti indescrivibili, che mozza il fiato e sospende i battiti del cuore, era l'impressione che provavano tutti.

Gli allievi del Conservatorio, in piedi, ascoltavano con attenzione intensa ed appassionata sentendo ognuno vibrare in quelle note i propri sogni: sogni di giovinezza, sogni d'arte, sogni d'amore e di gloria. Lo schietto entusiasmo de' suoi compagni, frenato dal silenzio d'obbligo, giungeva pure a Ippolito indistinto e sottile, suscitandogli i primi palpiti d'orgoglio.

Ed era a Lei che Ippolito dedicava il suo trionfo, alla bianca figura di cui non scorgeva tutto il viso, ma con la quale comunicava per un segreto fluido magnetico. Quando colorì la frase: "Mettimi come un suggello sul tuo cuore, poichè l'amore è forte come la morte", la figura bianca ebbe un sussulto che si ripercosse in tutti i suoi nervi. Egli attaccò il finale con un vero delirio di passione e l'ultima nota non aveva ancor finito di vibrare che tutto il pubblico era già in piedi, inebriato, esaltato.

Nessuno ricordava un simile successo in quell'aula, perchè non trattavasi di un successo di scuola nè di insegnamento, nulla che somigliasse in alcun modo all'Accademia; si sarebbe forse discusso più tardi se quella fosse o non fosse musica religiosa, ma intanto il cuore del pubblico era stato ricercato e scosso come avviene solo quando il cuore di un artista lo solleva nei vortici della propria passione e gli comunica il suo ardore. Ancora una volta l'arte, la sublime benefattrice, raccogliendo un palpito vero lo imprimeva nel torpido cuore della folla aprendole le soglie dell'ideale.

Un battimano frenetico richiamò Ippolito che si era dileguato rapidamente. Dopo alcuni istanti riapparve col volto illuminato da un raggio così straordinario che tutte le donne presenti si sentirono impallidire. Egli non guardò che una sola, e questa volta i loro occhi, attraverso il bianco velo, si incontrarono in uno sguardo di fiamma.

- Ma sa che è un gran bel giovine suo nipote! - esclamò la matrona congiungendo le mani.

- Grazie: è sano - rispose ,Remo , cui tremavano le labbra per la commozione.

- E non mi ha l'aria di voler andare a suonar l'organo in chiesa, - aggiunse il signore che aveva già fatto una osservazione consimile: - No, perbacco! C'è stoffa di drammaturgo lì dentro. Scommetto che fra qualche anno il mondo sentirà parlare di questo Ippolito Brembo.

- Troppa indulgenza, troppa bontà! - si schermì ancora ,Remo nella sua invincibile modestia.

Ma per quanto fosse agguerrito contro il peccato della superbia, il brav'uomo sentiva pure le clamorose accoglienze fatte a Ippolito e quel batter delle palme l'una contro l'altra gli produceva un certo effetto singolare di tenerezza per cui gli venivano i lucciconi grossi come nocciuole.

- È una bella soddisfazione, - replicò la matrona appoggiando per simpatia il fazzoletto sugli occhi.

Giù, nella sala, le persone che non avevano visto bene il giovane trionfatore salivano in piedi sulle sedie, non stancandosi mai di richiamarlo. Liberato da costoro, gli allievi lo circondarono, chiassosi, vociferanti, assediandolo di domande. Ippolito rispondeva a tante dimostrazioni con brevi sorrisi, con qualche parola; ma la sua anima era altrove. Facendosi strada un po' colla preghiera, un po' colla violenza, raggiunse la corrente della folla che usciva lentamente dal portone. Nella stretta via una carrozza da nolo aspettava e verso quella si diresse la bianca apparizione che Ippolito inseguiva. Stava appunto per salire quando egli la raggiunse.

- Grazie! - mormorò con una voce che tremava d'amore.

Ella nulla disse, ma con un invito nello sguardo gli accennò il posto in carrozza vicino a lei.

Smarrito, inebriato, Ippolito stava forse per ubbidirla; quando si accorse di cento occhi fissi su di loro e fra quelli vide le pupille estatiche di zio ,Remo . Si inchinò allora profondamente.

- Alla stazione! - ordinò ella al cocchiere. E sparve.

Ma la curiosità eccitata si offrì da se stessa in pascolo delle congetture.

- Chi è quella bella creatura?

- È la contessa Colleoni.

- Ma che! È una forestiera.

- Una della colonia protestante.

- No, non si è mai vista in Bergamo.

- Mi pare la marchesa Belli.

- La marchesa è più vecchia. E poi sarebbe qui colla sua carrozza, non con una vettura da nolo.

Zio ,Remo non ascoltava queste ciarle per lui indifferenti. Aveva visto Ippolito mentre salutava rispettosamente la signora; ma il fatto, in quel momento, non gli parve di grande importanza. Appena la carrozza ebbe svoltato l'angolo, mosse direttamente incontro a suo nipote e gettandogli le braccia al collo lo baciò su ambedue le guance sonoramente. L'agitazione alla quale lo trovò in preda era troppo naturale perchè potesse destargli alcun sospetto. Non era egli stesso tutto tremante e commosso?

- Ippolito , caro figliolo, la benedizione di Dio è proprio scesa su di noi. Fatti animo. I giorni cattivi sono passati; ora che hai trovato la tua strada non ti resta che percorrerla sempre dritto. Che musica ispirata! Io non me ne intendo molto e non oserei giudicare, ma vedevo anche l'effetto che faceva sugli altri. E l'esecuzione! Santa Cecilia pregava certo per te. Bravo, bravo Ippolito mio...!

Ippolito , dopo di avere ricambiato i baci dello zio, se ne stava perplesso in mezzo alla strada, guardando in apparenza gli ultimi gruppi della folla che si andava sciogliendo, ma dando furtive occhiate al suo orologio.

- Hai finito qui, nevvero?

- Sì, credo.

- Allora andiamo a casa insieme. E Romolo che non brontolerà questa volta!... E Rosalba ? Povera Rosalba , ha il sangue un po' inacidito, ma non è cattiva. Festa oggi, festa!

Si erano avviati lentamente sul Mercato delle scarpe; Ippolito distratto, ,Remo guardandosi in giro se vedeva degli amici, delle persone di conoscenza, salutando per il primo ogni viso che non gli riuscisse del tutto nuovo, con un bisogno di espansione in cui sfogava l'esuberanza della sua gioia.

Il carrozzino della funicolare li trasportò in pochi minuti nella città bassa.

- Senti, - disse improvvisamente Ippolito , - io devo fare una corsa alla stazione per salutare un amico che parte. Mi aspetti al Caffè Centrale?

- Volentieri - rispose lo zio col suo più bel sorriso: - Già sarà questione di poco tempo; per via di Romolo : sai che è un po' impaziente...

- Mezz'ora, zio, non di più.

Ippolito divorò più che non percorse il viale della stazione, portato dai mille desideri che i suoi vent'anni gli sollevavano intorno in quel giorno bellissimo della sua vita. ,Remo sedette a un tavolino del Caffè Centrale ordinando una tazza di birra.

Dopo le commozioni al Conservatorio il buon maestro trovò piacevole la semi-oscurità del caffè riparato da grosse tende di tela, coi tavolini pressochè deserti in quell'ora e i piccoli divani accantonati sotto le alte specchiere. Scelse, secondo il solito, il posto meno in vista, e bevendo a piccoli tratti la sua birra pensava che decisamente, se vi sono al mondo ore penose non mancano per compenso quelle della felicità. Una mosca ronzava intorno al suo bicchiere ed egli la mandava lontano senz'ira con un lieve movimento del fazzoletto, guardandosi dal farle male. "Poverina, ha diritto di vivere anch'essa!"

Il cameriere vedendo quell'avventore pacifico gli portò i giornali locali: La Gazzetta di Bergamo e il Giopì. Ma ,Remo si trovava in uno stato d'animo ideale che gli sarebbe parso di guastare con le misere questionelle della politica. Preferì dar fine alla sua birra, guardando alternativamente i rosoni del soffitto, le cornici degli specchi e le rare persone che passavano in quell'ora sul Sentierone, vedendo attraverso ognuna di queste cose il suo proprio nipote, Ippolito , quale era poco prima, seduto all'organo e traendo quei suoni divini che facevano andare in visibilio l'uditorio. Si provò anche a ripetere qualcuno dei motivi della composizione così tra sè e sè, senza dare nell'occhio, ma questo era più difficile.

La mezz'ora intanto era trascorsa. ,Remo pagò la birra e attese. Gli dispiaceva quel ritardo, non tanto per sè quanto per Romolo , che non poteva soffrire la mancanza di puntualità all'ora del desinare. E la strada da percorrere era lunga!

Per essere più pronto si portò sula soglia del caffè, tenendo le pupille rivolte all'Arco dal quale Ippolito doveva rientrare in città. Così passò un'altra mezz'ora.

- Non capisco, - ruminava il buon uomo, le cui idee erano sempre molto semplici: - alla stazione ci si va in meno di dieci minuti. Il tempo di dire all'amico: "Addio, buon viaggio; zio ,Remo mi aspetta": ed ecco fatto. Non vorrei gli fosse capitata una disgrazia....

Nello stesso tempo che il suo placido viso stava per rannuvolarsi, un signore entrando nel caffè gli battè amichevolmente sulla spalla chiamandolo a nome.

- Che miracolo al Centrale!

- Un miracolo davvero, - rispose ,Remo , riconoscendo un vecchio amico che non vedeva quasi mai per la differenza delle loro condizioni, della vita, delle consuetudini che li tenevano lontani.

- Esci o entri?

- Aspetto qualcuno... Ippolito ... mio nipote.

- E non puoi aspettare dentro, dove si sta meglio, con questo caldo?

- Gli è che...

- Andiamo, via, dopo tanto tempo che non ci incontriamo! Che cosa fai a Bergamo? Ti credevo mummificato nel tuo villaggio. Bevi con me un bicchierino di Marsala.

- Ho già preso una tazza di birra.

- Benone. Il Marsala sopra la birra è indicatissimo.

- Ho paura che il vino mi riscaldi.

- Che pregiudizio! Quando il sole entra in leone bibit bibit cum pistone.

Al latino maccheronico dell'amico, ,Remo rispose internamente con un'altra sentenza: Semel in anno licet insanire, e si acconciò al disordine del vino di Marsala.

- Si può sapere quale buon vento ti ha condotto fra noi?

L'interrogazione diede agio a ,Remo di raccontare per filo e per segno il successo del nipote, nel quale argomento si addentrò con tanta compiacenza che alle due mezz'ore già trascorse se ne aggiunse una terza.

- Questo bisognerebbe beverlo alla salute di tuo nipote, - disse l'amico versando un altro bicchiere - alla sua carriera! al suo avvenire!

Come era possibile rifiutare? ,Remo non lo tentò neppure, quantunque non ne avesse mai preso in vita sua più che due dita alla volta. Ma il ritardo di Ippolito , intanto che lo zio beveva alla sua salute, diventava sempre più incomprensibile.

Partito l'amico, riconosciuto sull'orologio proprio e su quello del caffè che più di un'ora era trascorsa, il brav'uomo ebbe l'ispirazione di muovere incontro al disertore, e così, passo passo, guardando a destra ed a sinistra acciò non gli sfuggisse, prese lentamente il viale della stazione.

Il sole calava sull'orizzonte. Le vie e i negozi che avevano sonnecchiato fino allora nell'afa del pomeriggio si destavano a nuova vita. Una brezza soave veniva dalle Prealpi a smorzare gli ardori di quella calda giornata. Proprio allora Romolo doveva essere seduto a capo di tavola, col pugno serrato, il braccio ad arco, bestemmiando contro gli assenti.

E sul piazzale della stazione Ippolito non c'era; non c'era nell'atrio; non nelle sale d'aspetto; non sotto la tettoia. Non c'era, insomma.

,Remo , cui i due bicchieri di Marsala avevano aumentato l'ottimismo corroborandolo con una certa dose di audacia, interrogò l'un via l'altro tutto il personale della stazione cercando notizia di suo nipote. Invano. Troppa gente va e viene da una stazione perchè se ne possa occupare.

Appunto era partito da poco il diretto per Milano che aveva ingombrato le sale di viaggiatori e se al momento si trovavano vuote ciò si spiegava col fatto che per due ore non partiva più nessun treno.

Queste delucidazioni, in apparenza molto chiare, lasciarono ,Remo più perplesso di prima.

O dove era allora Ippolito ?

A capo chino, vedendo avvicinarsi una complicazione di avvenimenti in stridente contrasto colla letizia a cui aveva aperto l'animo, non volendo pensare che fosse morto o ferito, eppure tornando suo malgrado a una ipotesi tragica, rifece il viale della stazione verso la città. Passando davanti al lavoratore di marmi che offre al pubblico da tanti anni la sua triste merce di cippi funerari e di croci, ,Remo distolse gli occhi sospirando. Tra le massime che egli insegnava a' suoi scolaretti non vi era anche quella che Dio permette il dolore accanto alla gioia affinchè non dimentichiamo di pensare alla eterna salute?

Ma che cosa doveva fare adesso? Dove cercare Ippolito ? Dove appostarlo? Gli venne in mente di tornare al Caffè Centrale, caso mai si fossero incontrati senza vedersi e, invertendo le parti, suo nipote fosse là ad attenderlo. Il sentimento di soggezione che stava per impadronirsi di lui all'idea di doversi ripresentare nello stesso caffè gli fu per buona sorte alleviato subito dal cameriere che gli venne,incontro ossequioso e sorridente:

- È lei il signore che attendeva il signor Ippolito Brembo?

Indeciso se dovesse rallegrarsi o tacere, ,Remo rispose con voce strozzata:

- Sono io.

- Ho una lettera per lei. La portò un facchino della stazione.

La lettera conteneva queste sole parole scritte a matita: "Non spaventarti, caro zio, non togliermi il tuo affetto se oggi non ritorno a casa. Ti darò poi la spiegazione a voce narrandoti tutto. Intanto perdonami e fammi perdonare. - Ippolito ".

,Remo lesse, rilesse, inarcò le ciglia, battè sul tavolino i polpastrelli delle dita, trasse un altro profondo sospiro e si persuase che per il momento non c'era proprio altro a fare tranne che prendere da solo la strada dell'ovile. Ciò che fece subito.

Era però un caso singolarissimo. Già tutta la giornata era stata singolare: il saggio al Conservatorio, quella musica, il successo strepitoso, gli applausi e poi... e poi... Male non voleva pensare assolutamente. Dal momento che aveva scritto non c'era da inquietarsi. Ma che cosa avrebbe detto a Romolo ? Questo era il punto difficile. Per suo conto, dopo il terrore di una disgrazia, non gli pareva vero di saperlo vivo e sano. - Scappatelle di gioventù! - disse a se stesso con un sorriso quasi birichino. Invece di un amico saranno stati sette od otto; lo avranno circondato, stordito, che so io! Per ottenere la pace si sarà deciso di andare a pranzo con loro; un rifiuto, in seguito al trionfo d'oggi, poteva sembrare superbia. Dunque, pranzo, brindisi, qualche bicchierino di più...

A tal punto del monologo l'onesto pedagogo si sovvenne di avere egli stesso ceduto in quel giorno al bicchierino; e sorrise di nuovo, bonariamente, con una punta di malizia dove rilucevano le ultime gocce del vino di marsala. Bagattelle! Bagattelle!

Con tale grido e roteando leggermente la canna si presentò sulla soglia della cucina dove la servetta rimase a bocca aperta a contemplarlo.

La faccenda camminò meno liscia, anzi si guastò addirittura, quando dovette annunciare a Romolo che tornava solo. Come non bastasse il ritardo, anche solo doveva essere? E dove si trovava, poi, Ippolito ? A questa domanda categorica ,Remo non poteva rispondere in verun modo, ma si ingegnò a descrivere l'aspetto del Conservatorio riboccante di gente, il successo della composizione, gli applausi, l'entusiasmo, la gloria futura...

- Dov'è Ippolito ? - ruggiva il colosso al colmo del malumore.

Ricondotto al passo, fatale come un bambino davanti alla medicina amara, ,Remo dovette rassegnarsi a narrare per filo e per segno lo svolgimento dell'avventura tra le bestemmie di Romolo e le esclamazioni ironiche di Rosalba .

- Ma lo hai visto, tu, questo amico? - domandò Romolo .

- No, non l'ho veduto.

- Siete usciti insieme dal Conservatorio? Ha parlato con qualcuno?

- Insieme proprio no, ma quasi. Egli era davanti a me e si fermò a salutare una signora.

- Una signora? - garrì subito Rosalba - Chi era?

- Questo non so. Una signora vestita di bianco, in carrozza.

- Bella? Giovane?

,Remo si fermò un istante a raccapezzare le idee e poi rispose con una esplosione ammirativa nella quale il suo spirito travagliato parve rifugiarsi come in una oasi di pace:

- Un sole!

Rosalba allora uscì fuori nella più stridula risata che potesse offendere un cuore sensibile, e mentre ,Remo , mortificato, non sapeva in qual modo interpretarla, vi aggiunse questo corollario:

- Ecco l'amico. Bisogna proprio essere uomini, e avere studiato, e insegnare agli altri sui libri stampati per non comprendere mai nulla della vita.

- Sarebbe a dire? - balbettò ,Remo .

- Dico che un giovanotto non svapora così da un momento all'altro senza che ci sia di mezzo una donna. Non l'avete ancora capita? Era Lei!

Ma non contenta di vincere, Rosalba volle aggiungere il calcio dell'asino e disse col suo accento più spregiativo:

- Il vampiro!!

- Oh! vampiro poi no - protestò lo spirito cavalleresco di ,Remo : - è troppo bella.

XIII.

ORE FELICI.

Lilia aveva detto a don Peppino : "Vendetemi, affittatemi o prestatemi quella vostra vecchia casa in fondo al lago: mi occorre subito". Don Peppino aveva risposto inchinandosi alla signora col garbo di un paladino antico: "È a vostra disposizione". E fu così che pochi giorni dopo questo contratto punto difficile Lilia e Ippolito prendevano posto sul battello a vapore che salpava da Como in uno splendido mattino di agosto.

Appoggiati al parapetto dell'ultima piattaforma, le spalle ai curiosi, i due felici si sprofondavano in un bagno d'azzurro sospesi tra acqua e cielo, assolutamente immemori dell'universo. Che importava loro delle splendide ville sparse sulle due rive? dei crocchi eleganti convenuti intorno agli scali più alla moda? Appena se i loro occhi fissandosi sopra qualche sandolino solitario facevan loro desiderare l'intimità di quel piccolo nido a flor d'acqua. Allora Ippolito diceva;

- Anche noi, nevvero?...

E la risposta di Lilia , che stava col braccio nel suo braccio, era una stretta più forte e più tenera.

Quella specie di fuga che aveva tutte le dolcezze di un viaggio di nozze dopo il mese snervante trascorso - lui col martoro degli esami, lei nella noia della città spopolata - li riempiva di una ebbrezza giovanile e innocente che aggiungeva vigore a quell'altra ebbrezza della passione ricambiata. Per Lilia era il rinnovamento più fresco e più puro di altri amori; ma per Ippolito era il primo amore, il fiore unico che profuma tutta l'esistenza, che ne decide quasi sempre il corso. Nessuna immagine poteva meglio rispondere al suo stato d'animo di quel battello vigoroso solcante i flutti di un magnifico lago sotto un cielo d'estate senza nubi. Ed egli era felice della felicità immensa che consiste nel dimenticare tutto il creato, e la vita, e la morte, per dare le più intime vibrazioni dell'essere alla voce occulta che dai misteri dell'avvenire ci chiama a sè. Momento divino nell'esistenza di chi è destinato a perire.

Per quanto cercassero di nascondersi formavano fra tutti e due una coppia troppo rara al piacere degli occhi perchè i passeggieri non li avessero presi di mira fin dal loro primo apparire a bordo. Per un capriccio di Lilia che Ippolito aveva accettato senza discutere, vestivano entrambi un leggero abito di lana bianca con una cravatta celeste e un cappello canottiero di paglia bianca fasciato di celeste. Così giovani, così belli, questa eccentricità che tuttavia non usciva dalle norme del buon gusto li faceva meglio ammirare. Tutti li prendevano per due sposini forestieri. Solo un signore che conosceva Lilia , che ne era da lungo tempo tacito ed ignoto ammiratore, si domandava con sorpresa come facesse la deliziosa donna a dimostrare quel giorno sedici anni appena; e insieme al suo desiderio saliva, verso i due felici, da ognuna delle persone che si trovavano sul battello il palpito immutabile che nei cuori umani traccia due solchi ben distinti secondo il diverso modo di sentire; l'ammirazione o l'invidia,

- Ti amo, ti amo! - mormorava Ippolito cingendo colla mano impaziente la sottil vita di Lilia .

Uscendo dal bacino di Como, mentre il battello lambiva la terrazza di un giardino, un profumo acuto e voluttuoso fece sollevare a Ippolito le nari frementi.

- È l' olea fragrans , - disse Lilia , - il profumo speciale di questo lago. - E mostrò a Ippolito che non lo conosceva il fiorellino bianco aggruppato sugli alberelli dal lucido verde di smeraldo.

- Soave profumo! - mormorò il giovine seguendo con occhio di rimpianto gli alberelli che sparivano insieme alla riva.

- Ne trove,Remo ancora - aggiunse Lilia : - il lago ne è pieno.

Una nuova scoperta intanto colpiva Ippolito . Erano tutti quei nomi di donna scritti sulle ville, sulle piccole case, dovunque sporgesse la fronte di un tetto; nomi dolci, misteriosi, che apparivano a un tratto sul fondo bianco o roseo della facciata e subito sparivano inabissandosi tra il fitto fogliame, lasciando nella mente una curiosità vaga di bellezze nascoste, di amori rinchiusi...

- Oh! amarsi, qui, per sempre! Per sempre, Lilia !

Ella non rispose subito, chinandosi a toccare l'acqua colla punta dell'ombrellino, quasi volesse scrivere sulla mobile superficie un motto noto a lei solo, ma poi, sollevando la testa, sorrise al giovine amante.

Egli guardava l'orecchio di Lilia , piccolo, delicato, di una trasparenza rosea di perla orientale, provando il furioso desiderio di baciarlo; ma non osava. Sfiorò allora colle dita il velo bianco che cingeva il di lei cappello, col pretesto di accomodarlo, per sentire il fresco tepore di quell'orecchio; ed ella non cessava di sorridere colla bocca e cogli occhi, trascinata dallo stesso desiderio, sfidandolo quasi per accrescere l'intensità dell'ebbrezza che li dominava. E veramente, a guisa di ebbro che si appoggia al primo albero che incontra per non cadere, Ippolito tese il braccio verso un gruppo di case grige e nere appollaiate in aspetto di gufo, sulle asprezze della roccia;

- Nesso - fece Lilia .

Forse un raggio di sole passò in quell'istante fra i capelli di Lilia rendendoli più brillanti, forse fu una pozzetta nuova che si incavò nella sua guancia o una attitudine di eleganza raffinata e di civetteria profonda che diede le vertigini a Ippolito . Colla mano che teneva la bella vitina se la strinse improvvisamente contro il petto e il bacio, sospeso fino allora nell'aria scottante, cadde.

Una fanciulla brutta li stava guardando colle pupille imbambolate...

- Andiamo! - fece ancora Lilia , mettendo nell'accento una nota di severità quasi materna come l'hanno spesso le donne quando sentono tremare nella loro piccola mano la volontà di un uomo.

- È un supplizio, - mormorò Ippolito .

Ella si mosse, languidamente, colla sua maestà di giovane dea:

- Chi mi ama mi segua.

Scesero nel salotto deserto, dove lo specchio riflettendo la figura di Lilia parve animarlo ad un tratto e diffondervi una sùbita eleganza.

- Si sta meglio qui. Fuori c'è troppa luce.

Gli occhi neri di Ippolito scintillarono alla dolce bugia mentre rispondeva:

- Sì, si sta meglio.

Sedettero sul divano circolare, accanto, all'entrata; così coloro che passavano non li potevano vedere. Avevano davanti un tavolino, dietro la minuscola finestretta che dava sul lago, intorno nessuno. Con un po' di fantasia giunsero a credersi soli in un loro salotto, tanto la volgarità del ritrovo pubblico e degli oggetti comuni a tutti spariva, si idealizzava in quell'onda ardente dove la più piccola sensazione aveva un polso di febbre. E parlavano poco, a monosillabi, con una assenza assoluta di pensiero, sentendo che non era il momento di dir tutto e che era inutile parlare fuori di quel loro stato d'animo che trovava la maggior perfezione nel silenzio.

Stavano vicini vicini sullo stretto divano, le mani intrecciate, toccandosi colla spalla e col ginocchio attraverso il morbido tessuto della lana bianca che cedeva così dolcemente alla pressione. Guardando dal finestrino vedevano passare ancora ciuffi di olea fragrans e nomi di donna scritti sulle ville, luccicanti al sole tra il barbaglio dei vetri e del metallo dorato, oppure nascosti fra colonne d'edera quali giovani ninfe pudiche. Da una tenda sollevata, dallo sporto di un terrazzo appariva talvolta la visione di una chioma disciolta, di un braccio nudo o lo svolazzo di una sottana agitata nell'aria, e la visione fuggiva, rapida, lasciandosi dietro un solco di mistero.

Passata la punta di Balbianello, a sinistra, nel giardino di una grande casa colle persiane verdi, una giovinetta vestita di rosa passeggiava con un libro in mano. I due innamorati guardarono la leggiadra figurina e senza comunicarselo ebbero la stessa domanda in fondo al cuore: - Sarà ella mai felice come noi?

A Tremezzo, Lilia cercò collo sguardo un'altra casa dove aveva villeggiato un anno coi suoi genitori, quand'era bambina, e fu sorpresa di non provare la menoma commozione; aveva pensato dapprima di mostrarla a Ippolito , ma giudicò che non ne valesse la pena. Tutto ciò che esisteva prima del loro amore, esisteva veramente?

La maestosa ampiezza del lago in vista di Bellagio li avvinse ancora per un istante tenendoli stretti davanti al finestrino, ma il tepore dell'omero di Lilia dava troppo alla testa del giovine, a cui ogni attenzione concessa agli oggetti esterni parve un furto fatto all'amore e da quel'istante non si mossero più, non guardarono più nulla, assorbiti, annientati nell'esuberanza della gioia di vivere.

Quando discesero a una delle ultime stazioni del lago avevano l'aria di uscire da un sogno. Un uomo metà domestico metà campagnolo, più campagnolo forse, ma che per la circostanza si era messo i suoi abiti migliori, li stava aspettando e si annunciò subito per il custode della villa. Lilia , che fu la prima a rimettersi dall'amoroso stordimento, gli domandò dove fosse questa villa.

- Eccola là!

Si vedeva subito, bianca di un bianco carnicino, eretta ad una certa altezza sopra il lago e circondata da un fitto viluppo di alberi d'ogni specie.

- Dieci minuti di strada, - disse l'uomo precedendoli sopra un sentiero di erbe e di sassi che saliva sul fianco della montagna. Le rive del lago in quel punto ampie, quasi severe, si distendevano ad anfiteatro accogliendo rare abitazioni collocate a molta distanza fra di loro. Non era più l'aspetto gaio e civettuolo del bacino di Como, ma veramente quella solitudine Romantica descritta una volta da don Peppino .

- Siamo finalmente fuori del mondo! - esclamò Lilia correndo e battendo, le mani: - Smanio di vedere il nostro rustico nido.

- Qui - disse l'uomo, arrestandosi dinanzi ad un piccolo cancello di ferro dietro al quale saliva una lunga scala erbosa tracciata nel vivo sasso, perdentesi nella massa degli alberi.

- Qui? Curiosa entrata per una villa, ma graziosissima dopo tutto. Sembra di andare in un bosco. Vedi tu qualche cosa che rassomigli ad una villa, Ippolito ?

Ippolito non vedeva altro che la snella persona di lei la quale sembrava volare su per la scala; la raggiunse con un salto. Allora Lilia si pose a correre più veloce ed egli a inseguirla, finchè giunsero in cima colle guance infiammate e gli occhi scintillanti del nuovo piacere.

Un fabbricato largo e basso, non molto simmetrico ma dall'apparenza comoda e signorile, stava dinanzi a loro, coi muri di un bianco carnicino, il tetto di embrici all'antica e i fumaioli in forma di torre. Ippolito cercò istintivamente un nome sul frontone.

- Il nome non c'è, - disse Lilia : - tanto meglio. Sarei stata un po' gelosa.

- C'è l' olea fragrans ! - gridò Ippolito con accento di trionfo.

- Ed è l'importante, - aggiunse Lilia con gravità.

Fioriva l'olea in quantità straordinaria. Ippolito ne prese d'assalto una pianticella e ne colse tanta da infiorare tutta l'amata.

- "Eccoti bella, amica mia, eccoti bella!" Le rose di Saaron non potrebbero olezzare più di questi fiori. Senti? Senti? È il profumo del nostro amore.

Lilia assentì con uno sguardo dolcissimo. Così incoronati e festanti entrarono nel vestibolo dove una donna stava ad aspettarli in attitudine serena.

- Mia moglie, - disse il custode.

Ippolito provò un momento di imbarazzo e volse a Lilia un tacito sguardo.

- Caro cugino, questi saranno i nostri nuovi amici, - soggiunse Lilia con naturalezza.

Egli le fu grato di aver trovato così prontamente il ripiego della parentela per potersi dare un contegno davanti a quel Filemone ed a quella Bauci, ma le susurrò piano all'orecchio:

- Crederanno?

- Oh! di questo non mi importa affatto. Mi basta di aver dato loro l'imbeccata. Dunque, siamo cugini, non dimenticarlo; e, in ogni caso pensa che l'amore fra cugini è permesso.

- I signori avranno appetito - chiese la donna.

- Perbacco! - disse Ippolito : - Me ne ero scordato. Ho una fame rabbiosa. Ma voi che cosa avete da darci?

- Il padrone ci ha ordinato di preparare una refezione per lor signori; come s'è potuto... compatiranno... siamo lontani dall'abitato. Quando c'era la povera contessa faceva venir tutto da Milano.

- Bene! bene! - interruppe Lilia ; - regole,Remo queste faccende in seguito. Intanto portate quello che c'è. Non sa,Remo schizzinosi, nevvero cuginetto? A rigor di termine io mi accontenterei di una tazza di latte e di due pesche.

- Speriamo vi sia dell'altro, - espresse Ippolito con una specie di apprensione che dava la misura del suo appetito giovanile e che fece ridere insieme Lilia e la moglie del custode.

Sembrava oramai che si fossero sempre conosciuti.

- Mio marito li condurrà nelle loro camere intanto che io dò una occhiata in cucina. Del resto, tutto è pronto.

Una bella scala di marmo a destra del vestibolo guidava al piano superiore dove sopra una galleria all'uso delle vecchie case veneziane si aprivano quasi tutte le camere. - Se la signora crede di prendere questa, è la camera della povera contessa - disse il custode, - altrimenti vi è la camera di don Peppino e quelle dei forestieri. Non abbiamo preparato prima perchè l'ordine del padrone era di lasciare a loro la scelta.

- Oh! - fece Lilia prontamente - ci bastano le camere dei forestieri. Eccone una assai carina.

Era un sentimento delicato che le faceva rispettare l'intimità dei padroni della villa; ma non perdette nulla nel cambio, perchè l'alloggio da lei scelto si apriva sul giardino con una balconata cinta di rampicanti ed aveva al di sopra delle pareti, ricoperte di una fresca tappezzeria a fogliami, un curioso volto affrescato dove, sullo sfondo di un cielo pallidamente azzurro alcuni amorini stendevano a guisa di padiglione un velo bianco trapunto.

- Se non starò qui come in paradiso, la colpa sarà tutta mia.

Ippolito alzando gli occhi al soffitto provò un leggero movimento di gelosia verso gli amorini, ma tuttavia disse che era stupendo. E siccome si trovavano in quel periodo delizioso della passione, quando ci si intende senza parlare o la parola che si dice è immancabilmente quella che l'altro vorrebbe dire, si sorrisero di nascosto con una muta intesa.

Un rapido gesto liberò Lilia dei guanti e del cappello, intanto che Ippolito si sceglieva una camera vicina dove in luogo degli amorini correva sulle pareti una caccia sfrenata.

- Vieni a vedere, Lilia .

Ella andò; e di ogni piccola cosa insieme osservata come di una grande scoperta godettero e risero giocondamente, sentendo stringersi di minuto in minuto il nodo che li avvinceva, provando la strana sensazione di essere una persona sola.

- Lilia ?

- Ippolito ?

Sì, erano essi, felici in modo inenarrabile. E il mondo sembrava non accorgersene, il cielo restava immoto, l'aria tranquilla: i cacciatori vestiti di rosso, sulla parete, galoppavano accanto alle loro dame dalla gonna azzurra, chi sa da quanti anni, forse un secolo!

- La colazione è servita, - annunciò la moglie del custode affacciandosi sulla soglia.

- Hai osservato, cugina, la posa antica di quella donna? Ella tiene le braccia ripiegate sul grembo in atto placido, la mano destra appoggiata mollemente sul gomito sinistro, la mano sinistra sul gomito destro. Ciò non si vede più se non nei quadri. E come guarda mite e serena!

- Che nome avete? - le chiese Lilia .

- Mansueta, ma la signora contessa mi chiamava Mansa, ed anche don Peppino quando veniva fuori da giovane mi chiamava Mansa; mia madre è stata la sua nutrice. Gli piaceva allora a star qui; poi si è annoiato; ma è naturale, un signore!

Sorrideva dolcemente, la donna, nel suo volto onesto solcato, da poche rughe a cui facevan lume due chiare pupille intelligenti e buone.

La sala da pranzo era molto gaia, coi mobili laccati in color verdino tenero, la dispensa a grandi vetrate dietro le quali occhieggiavano i vecchi piatti di Faenza; tutto in giro pendevano quadri di uccelli, di frutta, di fiori, quasi un invito al tripudio della mensa, la quale sorgeva nel mezzo ricoperta da una fine tovaglia a disegni antiquati, lucida e morbida, con un lontano odore di spigo rimastole dalla lunga permanenza nel guardaroba.

- Compatiranno..., - disse ancora Mansa.

- Questa casa è deliziosa. Non mi sarei mai immaginata di trovare in provincia tanta grazia elegante e originale.

- È appunto in provincia - replicò vivacemente Ippolito : - solo in provincia che è possibile di incontrare ancora una certa originalità. Le grandi città del progresso si assomigliano tutte come caserme. Io mi sento qui in patria.

Sedettero lietamente al desco, vicini vicini come già avevano fatto nel salotto del battello, e poichè Mansa si era allontanata, lasciandoli soli, essi compirono quel loro primo pasto con tutta la solennità di un rito, tenendosi per la mano, mordendo nello stesso frutto e accostandosi al medesimo bicchiere, non senza scambiare qualche volta le labbra per la coppa.

- Dimmi che mi ami.

- Ti amo.

- Dillo ancora.

- Ti amo.

Alla affermazione recisa, accompagnata da uno sguardo del quale conosceva oramai tutta l'ebbrezza, Ippolito si chetava; ma per poco. Era dentro di lui un vulcano tumultuante, un appassionato bisogno di baci e di amplessi.

Dopo che Mansa ebbe loro servito un eccellente caffè entro certe tazzettine trasparenti come l'ambra, i due amanti uscirono in giardino seguiti dallo sguardo senza malizia della buona donna, la quale sembrava felice di vedere finalmente qualcuno nella vecchia casa abbandonata e con la inconsapevole filosofia del suo temperamento ottimista non chiedeva di più all'attimo che passa. Ella aveva inoltre il dono prezioso e raro dell'ammirazione per tutto ciò che è bello, sia pure nell'ordine fisico o nell'ordine morale. Il solo aspetto di quelle due creature belle la rallegrava.

- Mi pare che se la intendano molto questi cugini, - osservò il custode, gattone vecchio pratico del mondo.

- Che vuoi! è la loro età, - rispose Mansa: - abbiamo fatto così anche noi. Ciascuno alla sua volta, non è vero?

Il giardino, trascurato da otto anni, presentava l'aspetto di una foresta. Fu un piacere nuovo per Lilia l'inoltrarsi sui sentieri di cui restava appena traccia, sotto gli alberi fronzuti, fra cespugli fantastici di ortensie che approfittando liberamente dello spazio allargavano all'ombra i loro gracili corimbi dalle tinte di porcellana, mentre nelle radure dove meglio batteva il sole l' olea fragrans rizzava le bianche stellucce il cui profumo dava a Ippolito una vertigine di voluttà.

- Vi sono anche delle rose, - disse Lilia giulivamente procedendo alla scoperta.

- Rose, rose, rose! - gridò Ippolito raggiungendola.

Una specie di cupola verde tutta fiorita di rose stava in cima ad un piccolo rialzo, ma il sentiero che vi conduceva era così intricato che Ippolito dovette rompere parecchi rami per potervi penetrare, facendo fuggire i ragni che vi avevano disteso le più argentee e vaporose tele che si potessero immaginare.

- Trine di Bruxelles! - disse ancora Ippolito sollevandone una col dito.

Lilia abbozzò il sorriso indulgente che hanno le donne quando gli uomini pronunciano una parola del loro dizionario femminile.

Anche questi piccoli incidenti vestivano agli occhi dei due felici un sapore misterioso, come se tutto ciò che dicessero o facessero avesse un legame invisibile col desiderio unico che li infiammava e come se ogni sillaba, per quanto apparentemente insignificante, perchè pronunciata da quelle labbra, e per ciò solo, volesse dire: amore.

- Oh! il delizioso boschetto! - esclamò Lilia penetrando sotto la fitta vôlta di fronde dove la luce stessa appariva verde e dove dondolavano, pendenti, i rosei boccioli delle rose dischiusi a guisa di lampade discrete nel loro dolce colore di fiamma coperta da un velo.

L'ammirazione di Ippolito restò muta. Egli trasse un lungo respiro in cui parvero filtrare tutte le voluttà della terra.

Una rosa più sporgente delle altre sfiorò la fronte del giovane, lasciandogli una lieve incisione di spina. Nell'allontanarla con la mano Ippolito sentì distintamente una voce dentro di sè che diceva: "Io sono colei che punge". Si toccò la fronte e vide una stilla di sangue; ma nel medesimo tempo la bocca di Lilia appoggiavasi molle e tenace sulla ferita e tutto ciò che era senso di realtà sparve dai suoi occhi. L'ebbrezza lo dominava intero, in quella alcova formata dalla natura per l'amore, nel meriggio d'agosto incombente sulla campagna, tra il profumo vicino delle rose e quello poco lontano dell' olea fragrans che accompagnava, orchestra invisibile, il prorompere della passione vittoriosa.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

XIV.

ZENITH.

Un oblio assoluto di quanto era stato la sua esistenza fino allora continuò a dominare sullo giornate d' Ippolito . Neppure un pensiero della sua casa e della sua famiglia, meno ancora del suo avvenire, interrompeva l'ardente duetto di amore. Tutto ciò che non fosse Lilia non esisteva per lui.

Talora gli sembrava di amarla come una fanciulla che dovesse far sua; abbracciandola provava una sensazione piena di poesia; gli pareva di essere entrambi molto giovani ed appena sulla soglia di una felicità misteriosa e lontana. Talora invece, inginocchiato ai di lei piedi si sentiva piccino piccino, umile, debole, e se ella sorridendo, lo chiamava fanciullo, una improvvisa tenerezza gli faceva groppo in gola suscitandogli l'immagine dell'affetto materno che non aveva provato mai, e gli sorgeva in petto una calma, una sicurezza nuova, come se quell'amore dovesse proteggerlo e difenderlo contro ogni sciagura. In altri momenti parlando e scherzando insieme si illudeva di averla sempre conosciuta e che fosse per lui un'amica, una sorella, una gaia compagna a cui poter confidare ogni segreto pensiero; e gli appariva pure talvolta nell'aspetto di una meravigliosa principessa la quale, corteggiata da mille e mille sudditi, li ingannasse tutti per venire incognita a recargli i suoi baci.

Ma tutti questi amori si fondevano in uno solo, potente, irresistibile. Quando, stretto fra le sue braccia, sentiva di essere riamato così, e nella flessibilità di quel corpo di giunco, attraverso l'urto della materia coglieva l'abbandono completo dell'anima, il ruggito dell'uomo che primo conobbe il divino mistero scuoteva il suo petto di giovine.

Le metamorfosi di Lilia , i molteplici aspetti della sua femminilità e della sua intelligenza facevano trovare sempre breve il tempo trascorso presso a lei. Dopo lunghe ore d'amore Ippolito aveva l'impressione di non averle dimostrato nemmeno la più piccola parte della sua passione, di quella passione strana, ardente, assorbente, che mirava ad accogliere in sè tutti i sentimenti, tutti gli affetti; passione fatta di simpatia, di gratitudine, di ammirazione, di fascino ma sopratutto di occulto destino in cui egli vedeva realizzati i sogni più pazzi della prima gioventù. Due bellezze, due giovinezze, due intelligenze, e un solo palpito, un eguale delirio! Ma perchè ad onta di ciò le sue manifestazioni riuscivano di tanto inferiori al fuoco che le aveva ispirate? Lampi e bagliori profondi illuminavano le loro ebbrezze eppure lo bruciava dentro ben altra fiamma. Egli si torceva contro l'impotenza della carne ad esprimere tutto ciò che sentiva; Provava l'avidità e il martirio del cercatore di tesori chino sull'immenso oceano che travolge ne' suoi gorghi le perle.

Ali! ali! Con questa smania nel sangue Ippolito percorreva gli intricati meandri del vecchio giardino porgendo orecchio ai fremiti della selva, agli indistinti susurri dei nidi e raggiunta la parte più elevata del giardino dai ruderi cadenti di un terrazzo contemplava la superficie del lago nei molteplici aspetti che le conferiva l'ora, la luce, la nuvola che passa. Disteso al mattino colla leggerezza trasparente di un velo nuziale si faceva gradatamente più denso, con marezzature verdi e azzurre di broccato, con lunghi nastri aggrovigliati che sparivano improvvisamente per far sorgere al loro posto uno scintillio di brillanti; e man mano che le ombre dei monti si allungavano sembravano respingere al confine le tinte tenere morenti nell'ora del tramonto, mentre le rive vicine si ammantavano di cupi velluti.

Avvezzo alla contemplazione della natura, Ippolito la associava alle più intime sensazioni. A' suoi occhi nulla era isolato di ciò che palpita nell'universo: egli intendeva il grido giulivo del germoglio che rompe la terra e il lamento della foglia che cade; egli soffriva la malinconia dei fiori strappati prima della maturanza, dei nidi deserti, delle piante sterili, dei rami morti. Da un letto d'erbe, colla fronte levata al cielo, percepiva nel punto nero quasi invisibile librato ad altezze vertiginose il volo dell'aquilotto selvaggio, ed egli balzava in piedi tutto fremente, coi polsi che gli martellavano per un inconsulto desiderio di ascesa. Oh! levarsi alto sulla terra per vederla tutta, per abbracciarla tutta! Levarsi in un amore che potesse stringere tutti gli amori e toccare le soglie dell'immortalità!

Mirabile cosa. La passione che si era destata in lui e che tutto lo assorbiva, invece di sminuire sembrava crescere la sua forza d'amore, sembrava svolgere dai più occulti recessi del suolo una personalità nuova più potente e più complessa. Avrebbe voluto fare qualche cosa di grande e che fosse nello stesso tempo di una dolcezza infinita, come un tempio, come un altare; meglio ancora, come un roveto perenne dove bruciasse tra colonne di fuoco un incenso di vita.

Lilia assisteva curiosa e meravigliata a questa fioritura di un'anima sotto il sole dell'amore. La sua commozione però non assomigliava a quella di Ippolito . Fin dove era possibile arrivare coll'intelligenza ella lo seguiva, e la sua facoltà di assimilazione era tale che in certi momenti la fusione appariva perfetta. Comprendeva i suoi pallori e i suoi fremiti, ma non poteva impallidire e fremere ella stessa, perchè in altro modo sentiva e vedeva la vita. Congiunti nell'ardore di un amplesso dove il desiderio e il piacere erano uguali, Lilia sentiva che al di là di quelle labbra virili una sensazione ignota le sfuggiva di continuo, batteva un'ala ch'ella non giungeva ad afferrare. Raddoppiava allora la foga dei baci e gli chiedeva ansiosa: "Sei mio? Sei mio?" al che egli non sapeva rispondere se non stringendola freneticamente contro il suo cuore.

Così eccitati percorrevano i viali folti di erbe selvatiche dove gli scarpini di Lilia non riuscivano sempre a districarsi dai rovi; e quando il sentiero era troppo malagevole egli la portava, raggiante di piacere e di orgoglio, sentendo il bel corpo piegare sulla sua spalla. Il boschetto delle rose li accoglieva nelle ore più calde. Essi vi avevano praticato uno spazio libero rizzandovi un'amaca trovata alla villa, nella quale Lilia faceva la siesta col braccio passato intorno al collo di Ippolito - quel braccio che usciva così bianco e morbido dalle maniche aperte che ella soleva portare negli abiti di casa, ricadenti lungo il fianco a guisa di ali in riposo - e nella gioia di trovarsi tanto vicini e tanto felici rifacevano la storia del loro amore.

Lilia rivendicava il diritto di anzianità avendolo amato per la prima, solo per udirne parlare. Ippolito diceva di averla amata sempre, di averla amata in tutte le cose belle, ne' suoi sogni e nella sua arte. Narrava la commozione delle lettere che riceveva e il primo dolore che gli cagionò con quella del dodici aprile, asciutta e crudele. Ricordava?

Sì, Lilia ricordava. L'amante dal quale si era staccata e che la inseguiva ancora colla sua gelosia sospettosa, fiutando il rivale, non si era fatto scrupolo di denigrarlo spietatamente in un giornale da lui diretto. Non era forse giunto a stampare per disgustarla che il giovane eroe dell'incendio sarebbe rimasto storpio, cieco e cretino? Ma come spiegare tutto ciò a Ippolito ?... Ella disse invece:

- Anche tu sei stato crudele qualche volta.

Ippolito assaporò tutta la dolcezza del rimprovero e improvvisamente, guardandola fissa, le chiese:

- Dove eri, in maggio, quando ti scrissi tre lettere senza ottenere risposta?

Lilia abbassò le palpebre con un attimo di esitazione, ma si riprese subito accarezzando i folti e biondi capelli del giovine:

- In Riviera, te lo dissi.

- E perchè vi passasti giorni tanto lieti?

- Perchè sentivo che mi avresti amata, - rispose questa volta Lilia sollevandogli in volto le stelle de' suoi occhi; e la verità palese era così sfolgorante che la piccola menzogna nascosta non apparve.

- E quel giorno, quel giorno che ti vidi! Ti riconobbi subito.

- Anch'io.

- Non potevi essere che tu

- E tu!

Ippolito ebbe un brivido rammentando gli spasimi di desiderio che seguirono e le notti passate sulla panchina dei Boschetti, sotto le sue finestre.

Più stretto, più stretto ancora, colle labbra sulle labbra dell'amata, l'innamorato disse:

- Se non mi avessi amato sarei morto. Non ucciso, sai? morto. Morto della morte naturale che era per me la mancanza del tuo amore. Se tu sapessi che cosa è stato il tuo amore! L'hai sentita la sua voce nel Cantico dei cantici?

Commossa, Lilia tornò a baciarlo con una specie di timore sacro. Suggellava ella forse su quella fronte l'impronta del genio?

Il bisogno di fondersi, di immedesimarsi, di formare una persona sola diveniva sempre più imperioso. La scoperta di alcune piccole affinità nei gusti e nelle opinioni ribadiva il loro anelito di unione perfetta. Perchè non sarebbero giunti a pensare insieme, a soffrire insieme anche materialmente? Già Lilia si era punta nel boschetto delle rose ed essi acquistarono la certezza che la ferita venisse dalla stessa spina che aveva punto Ippolito . E poichè una notte sognarono entrambi lo stesso sogno, e una volta stando a guardare il lago che si oscurava per prossima tempesta trasalirono nello stesso momento come se una mano invisibile li avesse toccati, e sovente ancora davanti a certe impressioni della natura o del loro amore lo stesso motivo musicale sorgeva dalle loro labbra, tutto li induceva alla suprema illusione dell'unità che è l'anelito più alto cui possano giungere gli amanti.

Avevano esplorato tutto il giardino conquistando i posti migliori secondo l'ora della giornata. Consacrando ai meriggi soleggiati il fitto bosco delle rose raggiungevano l'antico terrazzo, quando il sole stava per coricarsi dietro le montagne, ed era come se uscissero da una alcova voluttuosa per muovere incontro alla purità di sensazioni più complesse e più varie. Serbava il terrazzo avanzi magnifici di una balaustra di marmo, dove pure rimaneva qualche statua mezzo sepolta sotto l'edera quasi ammantando la propria nudità, ed aprivasi per due lati sulla ampiezza del lago dinanzi all'anfiteatro tracciato dalla catena che oltre Gera chiude la Valtellina e la Svizzera. Qui sostavano bevendo avidamente le prime frescure della brezza vespertina, con uno sguardo di commiserazione al battello che portava verso le città popolate quel misero branco di umani cui era sconosciuta l'ebbrezza della passione amorosa protetta dalla solitudine e dal silenzio.

Era l'ora della conversazione propriamente detta. Il luogo si prestava a simulare un salotto nelle pareti riccamente lavorate della balaustra, nei decori delle statue, nei tappeti di velluto muscoso, nei sedili che tra i marmi infranti assumevano aspetti variati e bizzarri non privi di una austera eleganza. Qui Lilia ritrovava il suo spirito, la sua arguzia mondana, e tacendo per poco la voce dei sensi, addestrava Ippolito al piacere raffinato dello scambio delle idee non mai così sensibile come quando avviene fra un uomo ed una donna entrambi intelligenti. Ed era allora che Ippolito sentiva anche maggiore l'ammirazione e la gratitudine per Lilia , la quale potendo aspirare alle più grandi conquiste si era data a lui, povero e sconosciuto, consentendo a vivere lontana dal teatro delle sue glorie, dagli amici e dagli ammiratori che le formavano intorno una specie di regno.

Fu in quel luogo, seduto accanto a lei sopra un divanino di musco, simile a quello del salotto di Milano ove per la prima volta le aveva baciate le mani, che Ippolito le riprese quelle care mani baciandole dito per dito con umile devozione. Incontrando la grossa turchese dell'anello che Lilia portava sempre all'anulare della destra, le chiese, tanto era bella, se fosse una gemma di famiglia.

- No, - rispose Lilia : - è un dono.

Senza sapere perchè, per un segreto istinto forse, Ippolito soggiunse:

- È magnifico questo anello, ma ha troppi brillanti, non mi piace. Dovresti levarlo.

- L'ho già levato un'altra volta, - disse Lilia sorridendo: - per lasciare maggior posto ai tuoi baci.

- Lèvalo per sempre..., - scongiurò lui.

- Fanciullo!

Così disse Lilia , mostrando di sorvolare su quel capriccio da innamorato, ma l'anello non apparve più sulla sua bianca mano. Nei dì seguenti, trovandola libera, Ippolito gliene fu tanto riconoscente che Lilia si rammaricò di non avere con sè altri gioielli per fargliene il sacrificio.

- Io non posso donartene alcuno, - esclamò improvvisamente Ippolito , con una tinta di malinconia: - ma se potessi, non vorrei che fosse uno di questi gioielli privi di ispirazione e di significato. Cosa voglion dire tante pietruzze allineate simmetricamente dove solo appare la grossa somma di colui che le ha comperate? A vedere le gemme che si fabbricano ora, così volgari nel loro disprezzo dell'idea creatrice, non si può a meno di pensare che tanto varebbe infilare sopra uno spillo o cucire intorno a una catena un pacco di banconote.

Risero insieme del paragone e Lilia disse che un giorno o l'altro egli le avrebbe composto un diadema di stelle.

- Di stelle?

- Sì, quando sarai celebre.

La fronte di Ippolito si oscurò di una lieve preoccupazione per questo accenno ad un avvenire che il suo amore gli impediva di guardare in faccia.

- Io sarò fiera di te, - soggiunse Lilia gravemente.

- Mi ameresti di più se fossi celebre?

- Ti ho già amato per questo.

- Oh la mia celebrità di una notte! Vedi quanto durò.

- Ma qui c'è dell'altro, - disse Lilia appoggiandogli un dito sulla fronte.

- Credi? (il cuore gli batteva più celere).

- Ne sono sicura.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Da quindici giorni si trovavano alla villa senza che venisse loro in mente di uscire. Il giardino, vasto e delizioso nella sua fioritura incolta, bastava alle brevi passeggiate ed alle lunghe soste degli amanti; ma guardando il lago oltre il terrazzo furono ripresi dal desiderio di andare in barca che già li aveva tentati. Una darsena in cattivo stato giaceva alla riva nelle dipendenze della villa, abbandonata e priva di barca. Fecero venire un sandolino e cominciarono a esercitarsi in qualche breve gita, prima col barcaiolo, poi soli.

Benchè volgesse la fine di agosto, il caldo persisteva opprimente. "Se ci fosse luna - dicevano - si anderebbe di sera." E la luna venne, la meravigliosa luna di agosto, lucente e piena.

La sera in cui apparve, sorgendo infocata dalla crosta dei monti quasi miracolo che per rinnovarsi di volte non muta suo incanto, la loro gioia non ebbe limiti.

Scesero alla riva correndo giù per gli scaglioni vestiti d'erba dove i loro passi risuonavano in una quiete altissima. Slegarono il sandolino e vi presero posto dirigendolo verso Menaggio. Bassa ancora, la luna non illuminava che una parte del lago, lasciando l'altra in una mezza oscurità fra la quale il sandolino guizzava leggero, ombra nell'ombra; nè si scorgevano altre imbarcazioni se non una vela bianca da lontano guidante alla deriva due zattere cariche di merce.

- Io non sapevo che fosse così dolce andare in barca, - disse Ippolito puntando i remi con grande lentezza affinchè il movimento non turbasse la soavità dell'ora.

Rispose Lilia :

- Dolce è sopratutto il lago, più del fiume, più del mare. Direi che il lago è più amoroso... perchè poi non so, è una mia impressione.

- È vero. Il suo abbraccio è più stretto di quello del mare, più intimo di quello del fiume. Non senti tu il respiro di queste montagne curve su di noi come buoni e fedeli colossi alla custodia di un luogo sacro? E sono ben chiuse le cortine della nostra alcova, Lilia ! Guarda che splendidi arazzi verdi e azzurri su cui la luna intesse fili d'argento! Quale reggia può vantarne di più sontuosi?

- E questo tappeto di perle steso dietro a noi, non si direbbe il manto di una fata?

- Il tuo manto. E quei topazi che brillano laggiù, io so bene che si chiamano i fanali dei grandi alberghi di Bellagio, ma non sembrano a te la cintura luminosa di una dea?

- O piuttosto cuori appesi, ardenti cuori votivi intorno a un'altare?... - disse Lilia timidamente.

- Sì, sì! - gridò Ippolito entusiasmato: - cuori votivi; i cuori di tutti gli amanti che vissero e sospirarono su questo lago, fra questa cortina di monti in una notte come questa. -

Stava per soggiungere: "amandosi come noi"; ma gli parve assurdo. Chi mai avrebbe potuto amare in quel modo? La persuasione di un amore superiore a tutti gli amori doveva necessariamente imporsi alla sua anima di artista, e Lilia , benchè non nuova al miraggio, vi si abbandonava pur essa, stretta al fianco del giovine e bello innamorato, nella realtà palpitante dei loro baci.

Passavano sulla sponda i paeselli e le ville da' cui terrazzi veniva a on il profumo dell'olea e dalle cui finestre illuminate ed aperte uscivano voci, risa e suoni, mentre la barca scivolava tacitamente non ancora raggiunta dalla luna, ma già prossima, in una penombra azzurra lievemente dorata. Il bacino della Tremezzina si trovava dinanzi a loro.

- Tieni il largo, - susurrò Lilia vedendo alcune persone affacciate ad un terrazzo.

Ippolito fece meglio: guidando il sandolino rasente la riva dove l'ombra era più fitta per il riflesso di alti tigli e di sicomori sporgenti, guizzarono sotto al terrazzo colla gioia birichina di due scolaretti, eludendo la curiosità di coloro che avevano subodorato nella barca errante un dolce mistero.

In quel tratto di lago le abitazioni si seguono ininterrotte e la luna che era sorta per intero ne rischiarava minutamente i più piccoli particolari, accarezzando ogni contorno con un taglio netto che faceva spiccare il rilievo delle case, degli alberi, fin dei menomi cespugli sopra un cielo chiaro senza nubi del colore di una pallida ametista. La riva di contro invece ergevasi nuda e deserta e fra le due rive il raggio della luna piena tracciava in mezzo all'acqua un sentiero di luce.

Il desiderio di attraversare il lago sopra quella magica via venne ad entrambi contemporaneamente. Oh! dolce vogare! Entrarono nella striscia luminosa che li avvolse subito nella sua aureola facendo spiccare con riflessi di perla l'abito bianco di Lilia . Ma niuno poteva riconoscerli oramai. Il sandolino fendeva lo onde con una linea dritta e sicura, lasciandosi lontane, sempre più lontane, le ville della Tremezzina fino a confondersi nelle macchie degli alberi ed a sparire completamente.

Giunto nel mezzo del lago Ippolito depose i remi. Eccoli veramente soli fra i due silenzi del cielo e dell'abisso!

Il pensiero della morte che stava sotto di loro attraversò per un attimo la mente del giovine. Così vicini ne erano che avendo Lilia abbandonato la mano fuori della sponda a scherzare coll'aequa egli diè un sussulto. Un movimento brusco sarebbe bastato a capovolgere la leggera imbarcazione e pochi minuti a travolgerli sotto i gorghi profondissimi e infidi. Egli cinse con un braccio la vita di Lilia . Tacevano.

Quali divinazioni ha il cuore in certi momenti di estasi suprema, allor che sembrano diradarsi le tenebre della vita materiale e sorgere quasi un nuovo senso profetico dell'al di là? Perchè gli amanti si fan muti sulla soglia maggiore della felicità? Perchè tremano? Perchè impallidiscono? Perchè un mistero sacro si oscura su di loro quando ogni mistero sembra squarciato? Perchè, fondendo la carne e il sangue, dagli spasimi stessi della voluttà nasce un così pauroso terrore del nulla?

Tacevano, e più stretto facevasi il loro amplesso fino alla soffocazione, fino al dolore.

- Io ti voglio tutta, per sempre, - mormorò alla fine Ippolito .

Il raggio della luna li avvolgeva come in una apoteosi, come in un sogno.

- Giura che mi amerai sempre, - insistette.

Ella sospirò senza togliere la bocca dalla bocca di lui.

- Giura.

- Perchè chiedi dei giuramenti? Ti amo. Non lo senti che ti amo?

Parve a Ippolito che un pianto lontano singhiozzasse nell'ardente bacio che accompagnò queste parole, e traendosela tutta sul petto provò un così acuto bisogno di lei e insieme una sensazione così disperata dei limiti imposti all'uomo, che una improvvisa stanchezza lo assalse sentendosi passare accanto l'ala della morte.

- Più di così, sai, più di così non si può amare!

Pallidi e smarriti guardarono il lago che si sprofondava sotto di essi quasi ne uscisse una misteriosa tentazione.

- Ho freddo, - mormorò Lilia .

Ma non era il freddo che la faceva tremare mentre avvinghiata al collo di Ippolito confondevano i battiti dei loro cuori. Egli tuttavia riafferrò i remi per raggiungere la sponda opposta prima che scemasse la luna.

Quando toccarono terra col sandolino furono presi dal desiderio di muovere alcuni passi sulla riva. Uscivano da una commozione troppo intensa perchè non si imponesse loro quale necessità di reazione l'attività del moto, e poichè, il boschivo della sponda li attraeva co' suoi tremuli alberelli illuminati dal raggio lunare, essi vi si internarono un poco tenendosi abbracciati, colpiti da quella nuova specie di silenzio, diverso dal silenzio del lago ma ugualmente malinconico e profondo.

- Che spiaggia deserta!

- Se la morte ci assalisse nessuno dei nostri gridi potrebbe raggiungere orecchio d'uomo.

Ancora alitavano intorno ad essi pensieri di morte, ma Ippolito soggiunse con ardore:

- Noi non dobbiamo morire.

- No, no - disse Lilia : - è tanto bella la vita!

E veramente, come se l'evocazione della tomba avesse acuito il loro amore, raddoppiarono gli slanci appassionati. Tuttavia Ippolito pensò ancora che pochi momenti prima, sospesi sull'abisso, essi avevano colto il palpito sup,Remo che congiunge in un solo anelito amore e morte, e che più in là non si può andare.

I giuochi di luce nelle rame leggiere protese sul cielo, le fitte ombre dei rami più densi che facevano pensare a fantastici recessi, la linea bizzarra di un albero, un fruscio, un susurro, la forma stessa dei loro corpi proiettata sull'arena e che correva dinanzi a loro, tutto li interessava e li divertiva in quell'intima unione dell'essere per cui ricevendo ciascuno la porzione dell'altro si sentiva vivere due volte.

- Ascolta, l'usignuolo.

Si fermarono in una radura battuta in pieno dalla luna, tendendo l'orecchio al dolce cantore. Ai loro piedi il capelvenere aggrovigliava l'ideale leggerezza delle sue foglie in una trina che sembrava d'argento e l'intero paesaggio riceveva dalla luce siderea quella particolare espressione di incanto che è propria della notte lunare.

Non sapevano risolversi a tornare indietro, poi che ogni senso della realtà li aveva abbandonati, sì che essi procedevano inconsci ed immemori.

I blandi rintocchi di un orologio li destarono dal sogno e questa voce quasi umana, mentre si credevano fuori del mondo, li fece trasalire.

- È il campanile di Lèzzeno, - disse Lillà.

- Lèzzeno?

- Un disgraziato paesello perduto su questa riva. Lo chiamano il paese della mala fortuna: d'inverno senza sole, d'estate senza luna.

Ippolito contò dodici ore seguendo l'eco dell'ultimo rintocco che andò a frangersi sull'ampia distesa del lago.

- Come dormiranno tranquilli gli abitanti di Lèzzeno!

Pronunciando queste parole Ippolito ebbe una rapida visione del paesello nativo, ma subito sparve travolta dal riso cristallino di Lilia :

- Se ci vedessero direbbero che siamo pazzi!

- Pazzi, sì, pazzi d'amore.

Errarono ancora per un po' di tempo finchè raggiunto il sandolino che li aspettava alla riva Lilia volle entrarvi per riposare.

- Dormirai qui stanotte - disse Ippolito coprendola con lo scialle bianco che ella aveva portato con sè: - Ti cullerò con le più tenere canzoni mentre guiderò la barca dolcemente per non svegliarti.

- Ma non ho sonno, amor mio. Mi basta di stare coricata accanto a te guardandoti.

Egli gettò un piccolo grido intanto che Lilia piegava la testa sul cuscino della barca.

- Che vedo? Un brillante fra i tuoi capelli! Oh! come scintilla!... No, non è un brillante, è una lucciola; un brillante vivo. Non toccarla, ti sta tanto bene! Ecco una gemma di cui non sono geloso e che non è volgare.

Lilia , docile, tornò a posare la bella testa sul cuscino godendo della gioia infantile di Ippolito nel rimirare il singolar gioiello che mandava bagliori verdognoli tra il volume morbido delle di lei chiome.

Il sandolino riprese lentamente, assai lentamente la via del ritorno, ripassando sotto le ville chiuse, sotto le finestre mute, in un silenzio profondo e solenne che rendeva ancor più affascinante quel gran chiarore lunare diffuso sulla terra addormentata. I due amanti, quasi immobili in fondo alla barca, in preda a un languore stanco, si abbandonavano al ritmo voluttuoso dell'onda aspirando tratto tratto ad occhi chiusi il profumo dell'olea che dai torrazzi si spandeva nell'aria pura della notte.

XV.

Ni.

Avevano esplorata tutta la casa, il giardino non conservava più per essi alcuni segreto. Ad ogni albero, ad ogni sedile, ad ogni cespuglio era stato affidato il ricordo di un istante felice. Finchè durò il plenilunio passarono le notti sul lago, spingendosi fino ai boschi di Balbianello, ebbri d'amore e di solitudine; ma in settembre le notti si fecero più brevi e più umide, mentre le giornate meravigliose di freschezza li invitavano alle passeggiate sui monti.

Un mattino, intanto che Ippolito già pronto aspettava Lilia a' piedi della scala, vide entrare un uomo con una gran cesta sulle spalle. Mansa che lo seguiva a pochi passi ricevette la cesta con molte precauzioni, facendogliela scendere adagio adagio dalle spalle e posandola sopra una tavola. - Cos'è? - chiese Ippolito distrattamente.

- La biancheria della signora.

- La biancheria?

- Sì. Qui nessuno sarebbe capace di stirare queste meraviglie. La signora le manda a Milano dalla sua cameriera.

Il fatto, in se stesso molto semplice, lasciò Ippolito pensieroso. Egli aveva sempre considerata l'eleganza di Lilia come qualche cosa di indivisibile dalla bella persona, e nella sua semplicità di provinciale la aveva ammirata senza chiedere altro.

Mansa fece saltare destramente le cordicelle che tenevano chiusa la cesta e ne balzò fuori una spuma di trine percorsa da nastri celesti, il colore prediletto di Lilia , che Ippolito conosceva molto bene.

- Oh! la bella biancheria! - fece Mansa togliendo un accappatoio con tutta delicatezza e portandolo sulle braccia tese, trattenendo il respiro.

Ella aveva l'ammirazione pura. Nessun sentimento volgare intorbidava il piacere che la sua vista riceveva dagli oggetti belli.

- Anche la povera contessa, buon'anima, possedeva trine magnifiche, - mormorò allontanandosi in punta di piedi col prezioso fardello.

- È arrivata la mia cesta? - gridò Lilia mentre scendeva dalle scale coi guanti e con l'ombrellino in mano.

Fu Ippolito che le rispose metà scherzando metà sul serio, dicendole che era troppo elegante, che gli faceva paura, che non si sentiva degno di tante raffinatezze, che temeva di perderla.

Lilia crollava il capo.

- Non è vero che io sono un contadinello al tuo confronto?

- Non so che cosa tu sia. So che ti amo e che mai, capisci, mai ho amato come amo ora, come amo te. Sei contento?

Ippolito acconsentì superficialmente. In fondo al cuore una lama sottile lo aveva toccato e gliene rimaneva una sensazione di freddo che però scomparve quasi subito nel sorriso aperto della campagna e nella dolcezza dei baci di Lilia .

Splendida era la campagna nelle prime brezze nunziatrici dell'autunno e splendido amante Ippolito che ne aveva ricevuto dalla natura tutti i doni, per i quali Lilia gli conferì il titolo di "maestro in amore". Singolare maestranza fatta unicamente di istinto a cui aggiungeva sapore squisito la ingenuità stessa di colui che si trovava maestro senza saperlo.

Simili a due giovani conquistatori essi allargavano ogni giorno il loro regno allontanandosi dalla villa, visitando i piccoli paesi dei dintorni, facendo qualche ascensione "per portare in alto il loro amore", diceva Lilia . E sulla montagna come sul lago procedevano immemori dell'universo, in una spensieratezza divina, in un oblìo confinante con l'estasi del nirvana. Solo qualche forosetta che guidava le mucche ai pascoli o che portava latte ai villaggi fermandosi a guardarli curiosamente li riconduceva alla realtà dell'esistenza.

- Povere ragazze! - disse una volta Lilia .

- Perchè le compiangi? Se hanno anch'esse il loro innamorato saranno felici al pari di noi.

Lilia non rispose. I loro pensieri in quel momento erano troppo lontani. A che discutere quando è il tempo dei baci?

Un'altra volta attraversando un piccolo paese incontrarono un corteo nuziale che entrava nella chiesa. La sposa davanti, colle donne, era bellina e, caso raro ormai, portava ancora la raggiera d'argento all'antica usanza brianzuola.

- Entriamo a vedere? - disse Ippolito .

- Che mai? - obbiettò Lilia con visibile repulsione: - Ci fa,Remo pigiare per nulla.

Più tardi essendosi seduti a riposare in un prato, mentre Lilia tagliava l'aria con una verghetta di nòcciolo, Ippolito si pose ad ascoltare con attenzione il suono delle campane che annunciavano la fine della cerimonia. Lilia si accorse che egli vi pensava ancora. Improvvisamente Ippolito domandò:

- Perchè un giorno mi hai detto che non hai mai amato come ora?

- Perchè è la verità.

- Questo dunque vuol dire che hai già amato.

Lilia alzò le spalle. Davvero era troppo ingenuo.

- Ti ho mai fatto credere che tu fossi il mio primo amore?

Aveva ragione. Ippolito divenne muto ed ella provò una specie di malessere, una sensazione manchevole, come se si fosse rotta una molla nel congegno armonico dei loro cuori. Per la prima volta ristettero dal dirsi tutto quello che pensavano. Fu un attimo quasi inavvertito perchè ripresero subito il dolce conversare e risero e scherzarono e si amarono per il resto della giornata; ma questo non impedì che vi fosse tra loro un argomento che ognuno dei due si studiava di schivare. Non erano più soli, poichè il passato di Lilia rizzavasi fra loro due.

Nel pomeriggio, Lilia era stanca e non volle uscire dalla sua camera, Ippolito andò a fare un giro in giardino, meravigliato di trovare aperta una porticina nel fondo che aveva sempre vista coperta d'edera e che credeva fuori d'uso. Al di là della porticina, sopra uno spianato verde, si slanciavano in alto sorrette da piccoli pali le eleganti colonnine dei fagiuoli; ai loro piedi il pomodoro correva quasi in cerca di un appoggio pe' suoi frutti maturi; il finocchio tremava al vento vaporoso e leggero come una piuma; il rosmarino, la salvia, tutta la fioritura dell'orto apparve a' suoi occhi di campagnuolo che ne ricevettero una impressione grata, quasi di ricordo nativo. L'orto era ampio, diviso da un lungo viale a capo del quale scorgevasi una casetta rustica e tutto intorno aveva alberi fruttiferi carichi delle loro dovizie.

Come mai Ippolito non si era accorto prima di questa simpatica vicinanza? Ma senza stare a pensarvi troppo egli varcò la porticina, inoltrandosi lentamente sul viale di mezzo abbellito da alcuni vasi di limoni fiorenti nella acutezza sana del loro profumo. Ne colse una foglia e si pose a masticarla. Altre piantine minuscole germogliavano negli stessi vasi di limoni: porcellane, geraniuzzi, cappuccine, colla sicurezza spavalda di piccoli nani protetti da giganti, rivelando nel loro assetto una cura minuziosa e paziente. E tutto l'orto portava questa impronta di amore, di lavoro, di vita semplice, di operosità feconda. Gli esili alberelli delle pesche piegavano sotto il peso dei frutti rosei e rotondi come guance giovani sulle quali il sole di settembre posi i suoi dolci morsi. Era nell'aria una quiete altissima. Ippolito avanzava sempre con grande lentezza provando il singolare piacere che dà la campagna in certe ore: piacere di sentirsi vivere indipendentemente da ogni altra sensazione, quasi una forza passiva nel grembo della natura.

Ma quale raro fiore dondolava lievemente il calice rosso in mezzo ad una aiuola di prezzemolo?... Due peri nodosi insieme abbracciati ne mascheravano ad Ippolito la visione precisa: pure quel vivo rosso che sembrava palpitare tra i rami lo attrasse irresistibilmente. Girò l'aiuola di fianco e si trovò innanzi ritto un personaggio alto appunto come un rosaio che fosse ancora novellino e non avesse che un solo flore scarlatto.

All'improvviso apparire di Ippolito il personaggio non parve sgomentarsi affatto, nè intimidirsi, nè dare alcun segno di stupore. In piedi sul tappeto frastagliato del prezzemolo, nella porpora del suo grembiulino, guardando lo straniero con occhio limpido e sicuro, sembrava un piccolo re nel suo legittimo regno. E come Ippolito gli fu presso sorridendo gli tese la manina, ma con tale gesto dignitoso che il giovine non potè più rattenere una esclamazione di meraviglia.

- Oh soave bambino! Chi sei? Come ti chiami? Che fai qui?

Subito non rispose. Evidentemente la sua opinione sullo straniero non era ancora formata, o forse lo preoccupava maggiormente una fragola che teneva con due dita e che infatti passò, appena appena, per l'orlo della sua boccuccia. Dopo qualche istante sollevando ancora gli occhi chiari in volto a Ippolito pronunciò distintamente questa sillaba:

- Ni.

"Ni?.... Ecco una parola che deve avere un valore grandissimo", pensò Ippolito : "ma che vorrà mai dire?"

In quel mentre una giovanissima donna se ne veniva correndo dalla casa in fondo al viale e il bambino pronunciò ancora: "Mamma".

- La presentazione è fatta! - esclamò Ippolito sorridendo alla nuova venuta: - Che caro bambino! - Improvvisamente si ricordò di avere veduto altrove quella fronte prominente e quei capelli color di rame pallido, ma dove? Al momento non seppe rammentarlo, solo più tardi gli venne in mente il piccolo Gesù che sta in braccio ad una Madonna di Guido Reni in una chiesa di Bologna.

La donna se lo prese tosto in braccio baciandolo e domandandogli se aveva salutato il signore.

- Per verità qualche cosa mi ha detto, ma non sono sicuro di avere compreso. Disse Ni.

- Oh! sempre. È il nome che si è dato lui stesso. Quando gli domandano come si chiama, risponde Ni.

- Tanto vale Ni quanto Paolo o Giovanni; ma come va che non lo vidi prima d'ora questo signore Ni? La porta del giardino era chiusa nei giorni passati.

- Oggi l'ha aperta mio suocero per portare terra nel giardino della villa.

- E chi è vostro suocero?

- Il custode.

Intanto che scambiavano queste parole sopravvenne Mansa, la suocera e nonna, la quale a sua volta si prese in braccio il bambino scoccandogli baci sonori; ed era tutt'insieme, tra quadro e cornice, una scenetta così gustosa che Ippolito se ne staccò a malincuore provando un bizzarro sentimento che somigliava a nostalgia.

A tavola parlò dell'incontro con Lilia . Ella fu sulle prime un po' meravigliata del suo entusiasmo, ma se ne lasciò trascinare tanto che il giorno appresso andarono insieme alla ricerca di Ni, il quale passava la giornata nell'orto e vi faceva la siesta all'ombra dei limoni.

Ni era un bambino curiosissimo. Non bello precisamente nel significato che si suol dare alla bellezza infantile, sarebbe forse uscito senza premi da un concorso; ma era impossibile vederlo senza fermarsi a guardarlo, e guardandolo non restare cattivati dalla straordinaria espressione del suo volto cui non davan risalto le solite attrattive dei riccioli biondi e dei grandi occhi azzurri o neri, ma che vibrava per una forza interna di intellettualità. Sulla sua testina molto piccola i capelli radi color di rame pallido sembravano cingere di un casco la fronte prominente dove le pupille aguzze gettavano bagliori di lama attraverso l'iride grigia, simile un po' all'acqua dei fossati scorrenti sotto i salici; e quando quei bagliori scintillavano, l'iride grigia si agitava tutta proprio come un'acqua, e benchè gli occhi fossero piccoli, sembravano grandi per la gran luce che vi si accendeva, ed erano questi meravigliosi occhi volta a volta severi, indagatori, profondi, eppure così candidi e fidenti che sembravano non temere nulla e si aprivano senza paura verso gli uomini e verso le cose. Con un nasino pari ad un chicco di melagrana e con lineamenti tutti da miniatura, non era in lui nessuna apparenza di gracilità; era, al contrario, agile e forte, con una sveltezza nei movimenti da libero capriuolo, e le manine lievi, simili a piume d'angelo quando volevano accarezzare, tendevano nella lotta una nervatura sottile e resistente che si disegnava vigorosa sotto il raso della pelle.

Intanto che Lilia lo faceva giuocare provocandone le risate argentine Ippolito lo fissava così estatico che alla fine Ni se ne accorse e tenne egli pure le pupille fisse in quelle del suo contemplatore finchè vedendovisi riflesso come in uno specchio prese di tal gioco grandissimo diletto e non voleva più finire.

- Tutto è nuovo per lui, - disse Ippolito : - non altrimenti il primo uomo dovette guardare le origini del mondo. Ogni bambino che nasce è un mondo che ricomincia.

Lilia assentì chinando la fronte soave sulla quale tuttavia Ippolito credette di scorgere un segno di stanchezza. E stanco era il movimento della sua bella mano protesa a sorreggere il bambino. Con stupore, tenerezza e malinconia insieme Ippolito vide una ruga, una piccolissima ruga sul volto amato... Perchè? Quale lagrima vi si nascondeva, quale dolore che egli ignorava? Era veramente sua quella donna? La conosceva egli? La possedeva tutta? O non era la straniera incontrata per un momento appena sul suo cammino?

Il suo amore entrava in una fase di inquietudine e di dubbi facendosi più ardente e più tormentoso. Da quella notte in cui, sospesi sopra l'abisso del lago, uniti nel brivido della morte e della voluttà avevano compreso che non si poteva andare più oltre, essi erano rimasti come chiusi nella sfera della passione e nella impossibilità di crescere la fiamma dei loro cuori ruggiva impotente. Dopo di avere baciato il bambino Ippolito tese le labbra a Lilia , ma egli aveva negli occhi una luce nuova che fece impallidire la donna.

Allora Ippolito non dubitò più che la presenza del piccino dispiacesse a Lilia . - Era forse gelosa? - Ne ebbe un sussulto di gioia sembrandogli una maggior prova d'amore; però non le chiese i giorni seguenti di andare a vederlo. Vi si recava solo nelle ore che Lilia occupavasi nella sua camera o a dare ordini in casa. Ma Ni entrava oramai nei discorsi famigliari; Mansa (la nonna, la donna dal gesto antico) lo nominava cento volte al giorno e parlando di lui si illuminava tutta con un ritorno improvviso di giovinezza. Lilia prestava pure attenzione ai suoi discorsi semplici, assennati, al racconto sobrio delle sue sventure, fra cui la morte tragica di un figlio ventenne annegato nel lago che ella stessa aveva estratto cadavere e recato a terra sulle proprie braccia, e di una bimba che le era morta consunta, e ancora... ancora... senza enfasi, senza recriminazioni, senza rivolte, austera e dolce. Ascoltandola Lilia pensava a Rispha custode dei cadaveri de' suoi cinque figli. Mansa per altro ne aveva serbato uno, un figliolo intelligente che le condusse in casa una fanciulla dei monti buona e pura e dalla loro unione era nato il piccolo prodigio che si chiamava Ni.

Lilia leggeva nell'animo di Ippolito l'impressione che gli facevano questi quadri di una vita semplice e forte, e più ancora l'inconscia simpatia che gli destava l'idillio dei giovani sposi benedetto da quell'amore di bimbo. Non era gelosa, no, ma rifletteva e qualche volta si faceva melanconica.

La porticina dell'orto dischiusa improvvisamente dinanzi al sogno aveva posto sotto i loro occhi la realtà della vita e mentre Ippolito credeva di non scorgervi altro se non la leggiadria di una nuova visione, l'istinto sagace di Lilia le faceva presentire il pericolo. - Pensa - le aveva detto Ippolito un giorno - questo bambino non sa che deve morire! Parole profonde di dolore umano, alle quali Lilia aggiungeva: Non sa che cosa sia l'amore! Per questo Ni era tanto felice.

Oltre alla sua professione di bimbo felice Ni faceva presagire un temperamento da filosofo. Signore di tutte le farfalle, formiche, bruchi, moscerini che si trovavano nel suo regno aveva pure a sua disposizione una quantità di sassolini, di sabbia, di foglie, di fuscelli, intorno ai quali si metteva a lavorare con certi suoi criteri architettonici non sempre conformi alle leggi di gravità, così che i fabbricati crollavano sotto le sue manine prima ancora di essere eretti; ma egli non si sgomentava perciò e rotto un fuscello ne cercava un altro e se non lo trovava la rassegnazione veniva subito.

Ni era acrobata. Non vi era nell'orto monticello o rilievo qualsiasi sul quale non avesse tentato di arrampicarsi, dando prova di una elasticità sorprendente che lo aiutava sopratutto nelle cadute, quando ruzzolando per terra con tutte e quattro le zampine in aria rialzavasi prontamente senza piangere, si strofinava la parte ammaccata od anche un'altra che vi corrispondesse presso a poco e tornava all'assalto. Ni era esploratore. Si avventurava tutto solo nel bosco dei fagiuoli, smarrendo qualche volta la via ma ritrovandola sempre, affrontando ostacoli di rami rovesciati, di buche nel terreno, di cupolette di talpa che lo facevano incespicare ma non retrocedere; e non gli mancavano incontri terrificanti di grossi ragni che gli sbarravano colla loro tela tutto il sentiero; di lucertole guizzantigli fra le gambine, di qualche gatto selvatico balzante con tanto impeto da far traballare il bosco, sì che i baccelli maturi gli cadevano sul nasino lasciandolo intontito per qualche istante.

Ni era sopratutto mago. Avvicinandosi a lui tutti i volti sorridevano, tutti si mostravano buoni e compiacenti. Le fronti più gravi, anche quella del nonno custode attraversata da miriadi di rughe, si spianavano, si lisciavano tutte per fregarsi sui capelli colore di rame pallido.

Lilia al pari degli altri sorrideva al bambino e quando lo incontrava per caso nei dintorni della villa fermavasi ad accarezzarlo, invitata quasi da lui che le si poneva davanti con quegli occhi pieni di fiducia e di attesa; ma se Ippolito diceva di non comprendere la vita se non congiunta così a un anello nel futuro (e lo diceva spesso), ella avvertiva in se stessa quella medesima impressione di ferita che già aveva provato altre volte, che non scompariva neppure totalmente sotto l'onda dei baci e che le dava per qualche istante un'attitudine di rigidezza. Non era ancora l'ostacolo, ma l'ostacolo si preparava.

XVI

IL TEMPO SI GUASTA

Accanto alla sala da pranzo, così gaia coi bei mobili laccati di verde e con le ampie vetrate, si apriva il salotto simpatico anch'esso nella sua intonazione vecchiotta, con un lungo piano a coda, una caminiera ornata di candelabri, un lampadario di vetro a faccette e un grandissimo paravento di stoffa damascata contro il quale se ne stava come dentro a una bussola la poltrona della contessa e nella poltrona Lilia , vestita di grigio, con un libro in mano.

Ippolito , in piedi accanto alla finestra, guardava il cielo che stava coprendosi di nubi. A un tratto, per un movimento troppo rapido, fece cadere dal tavolino sotto alla finestra un piccolo oggetto.

- Il tuo suggello, - disse raccattandolo. - Hai scritto questa mattina?

- Sì, ho scritto.

Ippolito voltava e rivoltava fra le dita il leggiadro ninnolo d'argento su cui era impressa la prima sillaba del motto di Lilia : Se.

- Vuol piovere, - osservò Lilia posando il libro sui ginocchi.

- Lo temo.

- È venuto il tempo di rovistare nella biblioteca della contessa. Sapessi quanti libri ho trovato di Balzac, di Chateaubriand, di Musset, tutti autori vecchiotti che conoscevo di nome ma dei quali non avevo mai letta una sola parola.

- E il volume che hai in mano?

Non era questo che Ippolito voleva dire. Egli voleva dire: "A chi hai scritto oggi?" ma siccome per un bizzarro sentimento di timidità gli uscì invece l'altra domanda, Lilia rispose:

- Ah! questo è un autore italiano. È Guerrazzi. Se devo essere schietta ti confesso che non capisco come mai si dimentichino tante belle pagine, mentre...

- Lo porti sempre con te il tuo suggello? - interruppe Ippolito ,

- Sempre.

- "Se bene o male io stessa mi contento", Se bene o male... Chi ti ha suggerito questa motto?

- Nessuno. L'ho scelto da me, in un libro,

- Ti sembra tanto bello?

- Ignoro se sia bello, Lo sento conforme a me.

- Indifferente al bene o al male?...

- Che cosa è il bene? Che cosa è il male? Ippolito mio, ho paura delle discussioni. Amiamoci finchè è la buona stagione. Ho fatto accordare il piano, sai? Vuoi provarlo?

- Se uscissimo invece, intanto che non piove?

- Come ti piace.

Balzando in piedi, amabile, sorridente, corse nell'atrio a staccare dall'attaccapanni il suo canottiero grigio con la fascia bianca. Intanto che se lo accomodava dinanzi ad una vecchia specchiera arrugginita Ippolito la precedette di alcuni passi e passando presso l'uscio di cucina udì il custode che diceva a sua moglie:

- Le lettere d'America, per tua norma, hanno il francobollo diverso dai nostri. Quella che arrivò ieri per la signora era una lettera d'America.

- Ecco la lettera a cui ella ha risposto, - pensò Ippolito - e appena ricevuta!... Le premeva assai. Chi conosce ella mai in America?

Fecero una lunga passeggiata. Lilia era allegra, vivace. Ippolito pensieroso. A un certo punto della strada egli si fermò guardando le montagne in fondo al lago.

- La Valtellina... La Svizzera... Chi sa che bei monti!

- Non hai mai varcato: le Alpi?

- Mai. E tu?

- Oh! io!... - fece Lilia con un sorriso per cui Ippolito , senza sapere il perchè, si sentì stringere il cuore.

A un tratto domandò:

- Sei stata in America?

- In America non ancora.

- Ande,Remo insieme.

- Non credo. Non è paese per gli innamorati.

- Ah! ah! - esclamò Ippolito preso da improvvisa gaiezza: - non è paese per gli innamorati! Dillo ancora. Dillo che gli innamorati si trovano solamente qui...

Procedevano stretti come nei primi giorni del loro amore, non ancora sazi di sentirsi vicini, cercando, tentando nuove sensazioni.

- Senti, mia vita, io non so se tutti gli uomini che amano una donna provino tutto ciò che io provo, ma è certo che se una parte sola di coloro che dicono di amare sentisse il fuoco che mi divora, la smania che mi strugge, io credo che il mondo non si conserverebbe così com'è nemmeno un giorno.

- Forse, - mormorò Lilia facendosi a sua volta pensosa.

- E alcune volte, vedi, non so s'io debba dirtelo... vorrei pregarti di uccidermi. Mi sembra che non possa attendermi gioia maggiore di quella di morire nelle tute braccia, soffocato da' tuoi baci. Se mi vuoi bene davvero dovresti uccidermi con un bacio.

- Sempre queste idee di morte! - esclamò Lilia crollando il capo.

- Mi sembra di essere in un cerchio di ferro dal quale la morte sola mi debba liberare.

Tacquero per un pezzo, andando lentamente sulla riva del lago commosso da un forte vento che ne increspava le onde mentre il cielo si copriva di nubi.

- È questo il cerchio di ferro? - disse Lilia alla fine ponendogli un braccio intorno al collo.

Ippolito non rispose nulla. Tenne fermo il braccio, e la dolce mano che gli arrivava all'altezza della bocca baciò devotamente, appassionatamente come soleva, dito per dito.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Secondo la minaccia le piogge vennero, insistenti, continue. Il lago scomparve sotto un velo di nebbia, il giardino si fece impraticabile. I due innamorati non uscivano quasi più dalla villa. Certo la libreria fu loro in quei giorni di grande aiuto, ma Lilia si meravigliava che Ippolito non toccasse mai il piano. Ella sì, suonava per ore ed ore, accompagnandosi talvolta col canto, e Ippolito la stava ad ascoltare nella poltrona della contessa con la fronte fra le mani.

Solo alla sera, quando la pioggia sembrava diminuire un po', si ravvolgevano nei mantelli calzando grosse scarpe, quasi col piacere infantile di un travestimento, e scendevano a passeggiare sulla riva cogliendo i brividi paurosi dell'oscurità e della solitudine che davano maggior sapore all'incontro tiepido delle labbra.

Ma anche allora Ippolito era perseguitato da una ignota smania, da un desiderio pazzo e crudele di soffrire e di far soffrire. La prima volta che fu assalito da tale morbosa tentazione credette di essere ammalato, d'una di quelle malattie profonde che si preparano con una lunga incubazione. L'aveva stretta così forte da farle male veramente e il grido di dolore di lei non lo aveva commosso. "Forse impazzisco", pensò Ippolito .

Un'altra volta, sorprendendola dinanzi allo specchio colle braccia alzate a provare una nuova foggia di acconciare i capelli, le andò presso con tale impeto che Lilia se ne spaventò.

- Sei troppo bella, - disse egli smarrito e confuso: - perchè vuoi farti più bella ancora? Io ti vorrei brutta, deforme, ma mia, mia per sempre.

- Se fossi brutta non mi ameresti, - rispose Lilia scostandolo con dolcezza.

- Non ti amerei? Ah! non ti amerei... Dio! Dio!

Fuggì colle mani nei capelli e pochi giorni dopo le fece una scena di gelosia a proposito di un nome d'uomo che trovò scritto nelle pagine del di lei taccuino. Poi le domandò scusa gettandosi ai suoi ginocchi, pallidissimo, colle lagrime che gli tremavano sotto le palpebre.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Pioveva, pioveva sempre, disperatamente, con una specie di frenesia.

Non tanto per il freddo quanto per l'umidità insopportabile facevano accendere il caminetto del salotto e tirato il paravento vi si chiudevano, alla sera, in una intimità piena di calore e di luce, guardando la fiamma che saliva alta dai ceppi di pino inghirlandati di ginestra, scoppiettando su per la cappa da tanti anni deserta con un gridìo amorevole quasi eco di vita lontana.

- Quante cose mi dice la fiamma! - mormorava Ippolito attizzandola con una cura che svelava una lunga abitudine.

- Sì, è bella, - confermava Lilia : - e per me quasi nuova. Le stufe e i caloriferi ci hanno tolta questa bellezza.

- Io invece non mi scaldai mai in altro modo.

- La tua infanzia deve essere stata tanto diversa dalla mia!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Una sera, in cui più aspra soffiava la tramontana e la si udiva sibilare tra gli alberi del giardino contorcendoli, a guisa di dannati, Lilia precisò la sua inchiesta:

- Parlami della tua infanzia.

- Non la conosci un poco?

- Parlamene ancora, Tu non sei stato un bambino felice. Chi ti amava quando avevi cinque anni?

- Nessuno.

- E quando ne avevi dieci?

- Nessuno.

- E quindici?...

- Nessuno. Cioè...

Ippolito si interruppe. Una cara, buona, onesta faccia di vecchio gli si affacciò di colpo con una espressione così triste che gli parve di sentirsi stringere il cuore.

- Non vorrei essere ingrato; qualcuno mi amava.

- Tuo zio ,Remo ?

Ippolito le fu riconoscente di avere indovinato.

- Sì, zio ,Remo , ma nessun altro.

- Nessuna donna prima di me?

- Nessuna donna prima di te.

Egli si fermò un istante ad ascoltare la pioggia che batteva sui vetri della finestra.

- In questa stagione era intorno al camino di cucina che si riuniva la mia famiglia dopo pranzo. Io mi rannicchiavo insieme al gatto sul gradino del focolare e tenevo così poco posto che finivano col dimenticarmi. Il fuoco con tutte le sue varianti di fiamma, di bragia, di cenere, esercitava un fascino straordinario sulla mia immaginazione. I folletti che si alternavano colle streghe nelle vecchie fole raccontate da Rosalba salivano e scendevano dalla cappa del camino; aspettavo sempre di vederne qualcuno. Nulla mi piaceva tanto come le piccole scintille che si spengono improvvisamente sui tizzi anneriti e che noi chiamavamo: le monachine che vanno a dormire. È incredibile ciò che può passare nella mente di un fanciullo! Io credo che tutto ciò che egli diventerà in seguito sta già scritto nel suo piccolo cranio, ma è ben difficile leggervi, ed egli non si comprende ancora...

Gli occhi di Lilia grandi ed aperti ricevevano come dentro a una conca lo zampillo del suo pensiero. La pioggia batteva sempre sui vetri della finestra, il silenzio fuori era profondo, il piccolo cerchio del paravento così tiepido e così intimo! Ippolito continuò:

- Ti ho cercata tanto, sai, quando i primi raggi della giovinezza vennero a scaldarmi il sangue. Hai mai amato, tu, senza sapere chi? Io sì. Io ti cercavo, e non trovandoti amavo l'aria dove un giorno avresti respirato, i fiori che avresti còlti... Ti sembro un po' pazzo?

- No, no, povero amore, povero bambino! Come avrei voluto conoscerti allora... Oh, se ci fossimo conosciuti allora!

Un rammarico straziante risuonò nella voce di Lilia mentre pronunciava queste parole. Ippolito mormorò con accento sommesso, quasi di sospiro;

- Dove eri tu allora?

- Dove ero?... Dopo, dopo ti parlerò di me. Dimmi la tua vita, dimmela tutta.

- La mia vita è qui tutta, in un sogno!

Le ore suonarono con tocco tremulo di ottuagenario alla pendola che si trovava sul caminetto fra i due candelabri di bronzo.

- Ecco una voce della mia infanzia! - esclamò Ippolito : - Io li conosco questi suoni stanchi. Nella mia camera avevo undici pendole vecchie che accompagnavano tutte le fantasticherie delle mie notti insonni. È su questa orchestra che feci i primi studi musicali.

- Erano buona gente, però, i tuoi?

- Buonissimi.

- E semplici?

- Oh! semplici poi in un modo incredibile. Ti ho descritti i miei zii, ma figurati che un mio cugino a nove anni non aveva ancor vista la luna, perchè in casa sua c'era l'abitudine di andare a letto prima che sorgesse. E le sue sorelle, che erano cinque, avevano due soli cappelli che facevan il servizio cumulativo per tutte nelle rare occasioni in cui si recavano, non mai più di due alla volta, a Bergamo. Queste fanciulle rimasero tutte zitelle. Erano così timorose e schive che trovandosi alla presenza di persone dell'altro sesso tenevano le mani sotto al grembiule per evitare il pericolo di doverle offrire nel momento dei saluti. Una sola, Paolina, si fidanzò col farmacista del paese, ma prima delle nozze costui scherzando con un'arma da fuoco si uccise. Ella ricamò allora coi propri capelli...

- Ah! sì, mi ricordo. Dillo, dillo ancora.

- Ricamò un salice piangente chino sopra una tomba...

- E sulla tomba dei versi... Dilli.

- Piangi pure, o salcio amico, sul destin di Fortunato. - È un conforto al cor piagato il tuo pensile dolor.

Lilia si raccolse tutta, coi ginocchi, la testa e le mani insieme, in un gruppo silenzioso e stette così alcuni momenti. Poi si levò di scatto come spinta da una molla e si diede a percorrere il salotto a passi concitati. Quando ritornò presso al suo innamorato aveva il volto sofferente per intensa commozione. Invece di riprendere il posto di prima sedette sui ginocchi di Ippolito e gettandogli le braccia al collo gli mormorò piano:

- Vuoi sentire come ho passato io l'infanzia? Sono nata, anzitutto, sotto un baldacchino di raso, fra tappeti persiani, e il mio corredino costò mille e cinquecento lire.

- Io, il primo giubbetto che portai fu tagliato fuori da una sottana di flanella di mia nonna: - disse Ippolito umilmente.

- La prima vestina che io ricordo invece era di pizzo di Malines con trasparente di seta rosa.

- Era dunque molto ricco tuo padre?

- Non so. In casa nostra il denaro andava e veniva nello stesso modo fantastico; sembrava un giuoco di bussolotti. Mio padre aveva molto ingegno, mia madre una grande bellezza. Mio padre teneva uno studio di avvocato, mia madre un salotto elegante. Con tre persone di servizio mio padre si lagnava del disordine del suo guardarobe e una volta vidi mia madre girare in camicia tutto l'appartamento per trovare una camicia di ricambio. Io ebbi di buonissima ora una governante francese che mi piaceva e alla quale volevo molto bene. Avevo imparato da lei la storiella: Arlequin tient sa boutique e la recitavo nel salotto di mia madre fra acclamazioni entusiastiche, quando un giorno un orribile battibecco avvenne tra la governante e i miei genitori; mia madre avendola sorpresa insieme a mio padre le aveva dato uno schiaffo; tu intendi il resto...

Lilia , affannata da una recitazione precipitosa, si fermò un istante a pigliar fiato.

- C'era corte bandita in casa mia. Pranzi, ricevimenti continui. Avendomi un amico regalato una fontana automatica con zampillo perenne, mio padre la tenne in movimento tutta una sera alimentandola con vino di Champagne. Nello stesso tempo il fornaio veniva a fare delle scenate perchè non gli si pagava il pane.

- E chi aveva cura di te?

- Chi vuoi che l'avesse? Mio padre non lo vedevo neppure tutti i giorni; mia madre ora mi baciava, ora mi sgridava; ora mi voleva vicina a sè rimpinzandomi di dolciumi, ora mi cacciava a spasso colla governante raccomandandole di star fuori a lungo.

- L'avevi dunque ancora una governante?

- Ne ebbi a dozzine! Esse non stavano in casa più di due o tre mesi. Quando credevo di essermene affezionata una, sopravveniva uno schiaffo di mia madre... e si tornava da capo.

- Sempre così?

- Sempre così.

- E - disse Ippolito grave e pensoso - quando fosti una giovinetta?

Lilia non rispose subito. Ippolito soggiunse:

- La tua cultura non è di quelle che si raccolgono a strascichi.

- Ciò che tu chiami la mia cultura è il frutto della mia osservazione e di un felice intuito. È vero che mi posero anche in collegio, il primo della città, naturalmente.

- E quando fosti una giovinetta?

- Quando fui una giovinetta mi ripresero in casa. Trovai quattro servitori in luogo di tre, un equipaggio e una camera da letto che mio padre aveva fatto venire da Parigi per offrirmela, copiata sullo stile di quella che aveva Maria Antonietta al Trianon.

- Come passavi allora le tue giornate?

- Facevo molta musica.

- Sola?

- Avevo un maestro.

Fu il tono della voce? Fu un rossore improvviso? Fu la divinazione dell'amore?... Ippolito trasalì.

- Giovine?

- Giovine.

Ippolito si morse le labbra a sangue. Nel silenzio che seguì, il lene mormorio della pioggia sembrava un pianto. A che interrogare? Ella tremava col petto contro il suo petto. A che interrogare?

- I tuoi genitori morirono presto? - disse Ippolito dopo un po' di tempo allontanandola con un movimento dolce che gli permise di vederla meglio, quasi fosse una donna nuova o che egli credesse di trovarla mutata in volto.

- Mio padre morì lasciandoci un cumulo di debiti. Non dimenticherò mai il disordine e il terrore di quelle giornate. Tutta la mobilia fu venduta. Vidi uomini che non conoscevo minacciare mia madre della prigione. Si parlò di mettermi in un ritiro. Un giorno pranzammo con due biscotti e mezza bottiglia di vino di Madera. Mia madre aveva ancora i suoi diamanti, ma i servitori che avanzavano annate intere di servizio glieli strapparono di dosso coprendola di contumelie. Mi ricordo che piansi il dì che mi portarono via il mio piano e che la nostra cameriera mi disse con un sorriso cattivo: "Adesso anderà a servire anche lei". Ella intanto aveva gonfiato il suo baule di tovaglioli di Fiandra.

- E poi? - fece Ippolito interrompendo una nuova pausa.

- Poi non so cosa avvenne. Mia madre ed io andammo a Parigi. Il lusso ritornò nella nostra casa per cui smisi subito di dare alcune lezioni di piano che avevo io stessa sollecitate. E basta nevvero? basta!

Lilia si passò una mano sugli occhi. Nè smanie, nè rimproveri, nè rimpianti. Disse ancora con una lieve sfumatura di tristezza contenuta: - Ecco la spiegazione del mio motto. Nessuno m'insegnò che cosa è il male. Io stessa non l'ho cercato; mi accontento che il male, se è male, non nuoccia ad altri. Anche questo principio nessuno me lo ha insegnato.

- Non hai mai avuto il desiderio di una famiglia tua, di figli tuoi? di un'altra vita più pura, più tranquilla?

- No, - rispose Lilia candidamente.

- Se tu fossi nata nel mio paese, nella mia famiglia, che cosa avresti fatto? Tu disprezzi certamente la povertà degli ideali che circondarono la mia infanzia...

- No - disse Lilia per la seconda volta: - Non solo non li disprezzo, ma li comprendo. Probabilmente se fossi nata nel tuo paese e nella tua famiglia avrei ricamato anch'io come tua cugina Paolina un salice piangente coi miei capelli. Non sono senza cuore, credi, ma ho la ragione fredda e la scuola della vita non è stata propizia allo sviluppo della mia sentimentalità.

Adesso Ippolito vedeva con una precisione cruda di pezzo anatomico tutto ciò che lo separava da quella donna. Si possono distruggere venti, trent'anni di una esistenza? L'amore solo compie questo miracolo; ma quanto durano i miracoli? e quanto l'amore?

Oh! egli l'amava disperatamente; eppure il sentimento di essere uno straniero presso a lei, quel sentimento che già da parecchi giorni gli rodeva l'anima, aveva acquistato nelle confidenze di quella sera una solidità di fatto compiuto, inesorabile. Perchè ella continuerebbe ad amarlo? Tanto ricca, tanto bella, abituata agli incanti del lusso e del miraggio mondano, aveva potuto per uno sforzo della sua intelligenza elastica; forse anche per una curiosità compassionevole, avvicinarsi a lui così povero, così meschino; ma era quella l'idealità dell'amore da lui sognato? Che cosa insorgeva dentro di lui, quale istinto ribelle, quale straordinaria veggenza a suggerirgli che tutto era illusione e delirio dei sensi? Altra, ben altra cosa doveva essere l'amore per appagare appieno l'anima sua.

Come soffriva! Perchè non era morto la prima notte che erano stati sul lago, quando la morte gli era apparsa così vicina e così dolce? Ella pure sarebbe morta allora con lui nello splendore della sua bellezza e di un amplesso divino.

La guardava, immaginandola nelle bianche vesti di quella notte, distesa sul fondo della barca, le molli chiome sciolte sotto la furia dei suoi baci, la pallida guancia lucente nel raggio della luna, rigata ancora dalle lagrime della voluttà...

- Ippolito ! - ella fece sciogliendosi dalle sue braccia, grave ma serena.

Egli pensò come sarebbe stato facile ucciderla, con quella vita sottile, con quel collo sottile... la resistenza di un fiore spiccato dallo stelo!

- Vieni a vedere, non piove più.

Stettero colle fronti appoggiate ai cristalli della finestra, guardando nel giardino la massa bruna degli alberi goccianti a stille a stille la pioggia raccolta, e dietro agli alberi, in fondo, una striscia più chiara al posto del lago, una semplice sfumatura.

- Il battello! - fece Lilia .

Lontano, nella notte nera, i sei fanali apparvero coi loro occhi smisurati di mostro marino a fior d'acqua; dalle commessure dei cristalli entrava nel salotto un'aria fredda come un brivido.

- Chi viaggerà mai a quest'ora?

Era sempre Lilia che parlava. Ippolito se la sentiva appoggiata alla spalla ed al braccio, un po' tremante, morbida, infantile. L'avanzarsi del battello in quel silenzio, in quel buio, aveva qualche cosa di misterioso e di fatale. Ma egli non pensava alle persone che vi potevano essere; in quella forma incerta movente verso il suo destino vedeva niente altro che un simbolo. La distesa del lago insensibile, la muta sentinella dei monti, le ville chiuse, i paesi dormenti, la riva deserta, gli alberi goccianti a stille a stille e il battello che si avanzava lentamente... lentamente...

Quando fu proprio dirimpetto (si avvertiva nel silenzio altissimo attenuato dalla distanza il rullio dell'elica), i fanali brillarono di luce diretta, due verdi, quattro gialli. Brillarono un istante, descrissero una curva, gettarono ancora un fascio di luce, sparvero! L'ultimo battello della giornata si allontanava nella notte nera, verso l'orizzonte nero...

I due amanti stretti contro i cristalli, lo seguirono a lungo colle pupille immote e tremanti, quasi si staccasse da loro una parte della loro

vita.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

XVII.

IN QUAL MODO DON Peppino DISIMPEGNA UN'AMBASCIATA.

Divina Lilia ,

Non dovrei scrivere oggi perchè mi trovo sotto l'impressione di un fatto atrocemente bizzarro. Figuratevi che nel golfo di Quarnero venne ucciso un pescecane nel cui ventre si trovarono un paio di calzoni e due stivali. Mi direte che alla mia età dovrei pur sapere che il pescecane mangia l'uomo. E avete ragione, come sempre; ma sentire che lo ha digerito mentre le scarpe ed i calzoni resistettero all'azione chimica del suo stomaco, abbiate pazienza, ciò mi affligge e mi umilia.

Fra le considerazioni malinconiche suggeritemi da tale avventura va notato che da qualche tempo mi credevo agguerrito contro la morte prematura, avendo condensato in tre regole principali il segreto della salute: Primo, respirare bene, tenendo chiusa la bocca, largo il torace, busto eretto per emettere così l'aria cattiva che si trova nei polmoni e che attossica lentamente il sangue; poi immettere l'aria pura con lunghe profonde aspirazioni. Si vuole che tale sistema rinforzando l'intero organismo giovi anche contro la caduta dei capelli... ma lasciamo andare. La seconda regola consiste in una applicazione scrupolosa della massima di Voltaire: Nulla di troppo in qualsiasi genere. A buon intenditor poche parole, perchè gli abusi conducono alla arteriosclerosi, il quale nomaccio, per risparmiarvi o divina Lilia la fatica di cercare sul dizionario, vuol dire indurimento delle vene. Terza regola infine, una benintesa ginnastica per conservare agilità alle membra, vigoria ai muscoli ed equilibrio fra gli umori. Ma a che serve tuttociò se il primo pescecane in cui vi imbattete...

Oh! Dio, ho paura di somigliare ai postiglioni del buon tempo antico che facevano troppo scoppiettare la frusta al momento della partenza. Non crediate almeno che l'abbia fatto apposta! Un filosofo ha detto che l'albero cresce per via di sillogismi; invidio la terra che ha tanti sillogismi a sua disposizione mentre io non ne trovo uno solo per mandare avanti questa lettera in modo degno della squisita creatura a cui è diretta. Del resto, mi succede sempre così: sono tanto sciocco quando non ho nulla nel cuore e lo sono pure quando è troppo pieno... Per carità non affrettatevi a trarne una conclusione, altrimenti il sillogismo lo mettereste voi a tutto mio danno.

Sono stato all'Esposizione artistica pensando che vi farebbe piacere di saperne qualche cosa. Non c'è nulla, cara amica, nulla. Troppi alterano il vero scopo dell'arte coltivando il campo più gretto di essa, quale è l'esecuzione, dimenticando di studiare il cuore umano e le diverse passioni che lo agitano. E vi sono eziandio quelli che si immaginano che basti avere un pensiero mattacchione o strambo per fare un buon quadro. Ho incontrato laggiù X, uno dei vostri centomila innamorati, il quale, in attesa del divorzio spera sempre di farvi accettare la metà del suo cuore e del suo giornale. Io gli ho rammentato mister Wilss che viene regolarmente tutti gli anni da Filadelfia a mettere ai vostri piedi il suo cuore tutto intero e i suoi milioni e l'ho esortato a non illudersi troppo. Che ne dite, mia regina? Non parlo di me che sono il più devoto dei vostri servitori.

In verità non so che diavolo m'abbia oggi; non mi riesce di raccapezzare le idee. Non vi ho detto nulla, nevvero? eppure ho tante cose da narrarvi. Un ufficiale mio amico aveva un can barbone addestrato a portare il paniere delle provviste. Accadde una volta che se lo lasciasse sfuggire di bocca rovesciando per terra il contenuto che si trovò essere per combinazione due o tre dozzine di gamberi vivi. La sorpresa del cane non fu piccola quando vide andare in giro la mercanzia del suo padrone, ed armeggiando or con l'una or con l'altra zampa tentava di ripigliarla, ma non riusciva ad altro che a farsi pungere senza ricondurre neppur uno dei fuorusciti al paniere.

Così è. Ho rovesciato anch'io il mio paniere e i pensieri scappano un po' qua un po' là, molti di essi a ritroso per fatale analogia! Basta, abbiate pazienza, che cercherò dal mio canto di trovare un po' di coraggio, e chi sa che pian pianino non si arrivi. Tanto, la giornata è pessima. Le nebbie di novembre sono già cominciate. Che tempo fa sul lago?

A proposito: stavo ieri nella mia camera rileggendo i pensieri di Rivarol, quando mi venne introdotto un ometto... Pazienza, vi ripeto, pazienza. Se lo aveste visto che cara fisonomia di galantuomo, che occhi ingenui pur attraverso un velo di lagrime... Sulle prime pensai quello che certamente pensate anche voi in questo momento; ma non si trattava di ciò. L'ometto (vi giuro che bisogna volergli bene per forza) mi disse che Egli è la speranza più fulgida della famiglia e la sua sola consolazione, povero vecchio, che prometteva tanto dopo quello splendido esame, che lo aspettano, che c'è a Bergamo il posto pronto, che se tarda ancora lo offriranno ad un altro... No, non potete immaginarvi quale eloquenza si sprigioni da un volto che soffre e che pare vi dica con una fede profonda nella fratellanza umana: Tu puoi aiutarmi!

L'amore, lo so benissimo, è l'ala che Dio ha dato all'uomo per salire. È l'architetto dell'universo. Ed è anche il più piccolo e il più potente degli Iddii mitologici. Diana di Poitier, che alla morte del marito aveva assunto per divisa una freccia uscente da una tomba col motto: Restèe seule elle vit en lui, quando fu la favorita in titolo di Enrico II scelse quest'altro motto: Omnes victorem vici. Il piccolo Iddio, crescendo, aveva muttato opinione. Sono cose che si vedono tutti i giorni.

Del resto giudicate voi. Solo vi ripeto che quell'ometto nella sua semplicità grandiosa mi ha fatto una impressione vivissima e gli ho promesso... Ecco, ecco che i gamberi pungono. Lilia , cara amica, scappo come avrà fatto probabilmente il can barbone e lascio ai vostri piedi il mio paniere rovesciato.

DON Peppino

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Seduta nella poltrona bassa della contessa, davanti a un grigio mattino di novembre, Lilia meditava cogli occhi fissi sugli alberi del giardino non più verdeggianti come un tempo ma rari di foglie e di colore bruno; e alternava l'attenzione concessa agli alberi con lente occhiate ad uno specchietto ovale abbandonato sul tavolino della vecchia contessa, accanto a un fermacarte reggente la figura coricata di una ninfa.

L'equilibrio che era la dote spiccatissima della sua bellezza fisica trovava un riscontro nell'anima aperta ad ogni sentimento e di nessuno schiava. L'eccesso non esisteva per lei; tutto ciò che non era armonico la urtava come una stonatura o come una tinta di cattivo gusto. Sincera, non aveva mai mentito nè a sè nè ad altri. Libera, nel significato più assoluto, seguiva la logica naturale del suo temperamento e di una coscienza che provava difficilmente le oscillazioni del dubbio. Per questo la lettera del vecchio amico non l'aveva sorpresa; era anzi venuta in aiuto alle sue proprie riflessioni e la conclusione doveva scaturirne limpida, senza reticenze.

- Per me e per lui, - mormorò a fior di labbra tentando con l'indice la gota davanti allo specchietto: - È necessario.

Un'ombra si interpose tra la finestra e gli alberi. Era Mansa che attraversava il giardino tenendo in braccio il figliuoletto della sua nuora, Lilia la chiamò dirigendole la parola al disopra della finestra. La donna allora depose a terra il piccolo Ni e rimase ad ascoltare con la sua calma sicura, le braccia appoggiate all'ampio grembo materno, con un sorriso buono dischiuso fra poche rughe composte quasi non si arrischiassero ad invadere quel volto di serenità antica. Ni le saltellava intorno come un pulcino ed ella senza guardarlo lo vedeva e gli sorrideva.

- Mansa, - disse Lilia ad un tratto. - voi non avete mai pianto?

- Oh! signora, come sarebbe possibile? Ho pianto tanto quando morirono i miei figliuoli, e altre volte ancora, tante volte!

- Sembrate così felice ora...

- Mi accontento.

- Si guarisce dunque?

- Di tutto si guarisce; e poi si ammala e si guarisce ancora. Facciamo tutti così, poveri e ricchi, sapienti e ignoranti. Io penso che le condizioni sono diverse, ma la vita è sempre quella e bisogna viverla.

- Bisogna viverla, - ripetè Lilia nel suo interno, mentre Ni prendeva la rincorsa sul viale e Mansa con dolcezza lo chiamava: Ni! Ni!

Come era soavemente malinconico quel mattino di novembre! Le nebbie di cui parlava don Peppino non erano giunte fin là e non vi sarebbero giunte forse mai, ma alitava pure sulla spiaggia ridente un soffio del gelo vicino; il lago più deserto, gli alberi meno densi, gli insetti morti o rintanati. Lilia ebbe un leggero brivido stringendosi nella vestaglia di morbida flanella del colore delle rose morte. Si guardò ancora nello specchietto ovale della contessa e ancora fuori della finestra, e sospirò.

Ippolito sopravvenne in quel punto, eccitato da una lunga corsa, con le guance fresche, l'occhio acceso. Aveva visto la neve sulle montagne della Valtellina e questo spettacolo lo riconduceva alla sua non lontana adolescenza, quando la prima neve gli offriva le maggiori distrazioni al paese natio e che Rosalba diceva: "Bisogna mettere da parte le tre mele per guarire i geloni: una da mangiarsi in dicembre, l'altra in gennaio, l'altra in febbraio". Entrò nel salotto quasi correndo, e si fermò davanti a Lilia gettandole sui ginocchi un ramoscello di gaggie.

- Invece dell'olea, - disse,

Ella, raccogliendo i fiori, si alzò per abbracciare l'amico e intanto la lettera che era scivolata dietro la poltrona cadde a terra. Ippolito fece per metterla sul tavolino.

- Tienila. La leggerai poi.

- Ma è per te.

- Non importa. Leggila.

Nel salotto vicino li attendeva la colazione. Ippolito guardò le prime parole della lettera, guardò la firma, sorrise, si pose la lettera in tasca e offerse il braccio a Lilia .

Lilia restava sempre mesta. Il terribile dono di vedere chiaro davanti a sè le metteva in luce tutte le sinuosità del pericolo e l'asprezza della lotta che stava per combattere. E una stanchezza inusitata l'assaliva dopo un così lungo periodo di pace, una repulsione a combattere ancora, un profondo ineluttabile bisogno di riposo. Ma comprendeva egli ciò? No, non lo comprendeva.

Questa era la tristezza maggiore. In qual modo levargli la benda dagli occhi? Come dirgli che tutto era stato un sogno? Ciò che in lei era tristezza non diventerebbe per lui disperazione? Tanto era giovane! Tanto inesperto! Oh! egli non aveva mai amato prima, egli non sapeva le dure leggi che governano il più soave dei sentimenti! Un abisso li divideva... ed egli non lo sospettava neppure.

Sul finire della colazione Mansa portò in tavola un piatto di noci.

- Se fossero ciliege! - esclamò Ippolito . - Questa primavera, Lilia , questa primavera ande,Remo noi stessi a coglierle da quell'albero in fondo all'orto.

Ma che cosa sperava? Che cosa credeva? Lilia volle abbozzare un sorriso che le riuscì forzato e Ippolito naturalmente lo interpretò in un senso opposto al vero.

Poi Lilia sali nella sua camera e Ippolito rimase in salotto a sfogliare vecchi libri. Lesse qualche poema di Ossian, ma gli parve freddo. Non così egli avrebbe scritto versi se fosse stato poeta. Fuoco! Fuoco! Fuoco! Stava gridando questa parola tutto solo nel mezzo del salotto quando Lilia riapparve e gli domandò scherzando se c'era qualche nuovo incendio da spegnere. Parlarono così per successione di idee del suo paesello, di Bergamo, di una medaglia al merito civile che gli era stata decretata ma che non era giunta ancora.

- E che ne sappiamo noi se è giunta? - esclamò Lilia . - È molto tempo che non ricevi notizie di casa tua?

Ippolito dovette confessare a se stesso (non le disse però) che aveva lasciato senza risposta parecchie lettere di suo zio ,Remo e una violentissima dello zio Romolo . Quest'ultima lo aveva anzi disgustato al punto da coinvolgere nel suo sdegnoso silenzio anche l'anima candida di ,Remo che non lo meritava davvero, che gli aveva pure mandato del denaro perchè potesse fare buona figura "in casa degli ospiti". Rispose asciutto:

- Sì, molto tempo.

- È forse per questo che...

- Che cosa?

- Non hai letto la lettera di don Peppino ?

Anche quella ci voleva! Ebbene, no, non l'aveva letta. La trasse in fretta dalla tasca dove era rimasta tutto quel tempo completamente dimenticata e si pose a scorrerla con indifferenza. Si fece serio all'ultima pagina e terminò cacciando una esclamazione dispettosa.

- Che ne dici? - domandò Lilia .

- Che vuoi che dica!?

Lilia se ne stava nel vano della finestra, ritta, colle spalle volte a Ippolito , guardando con ostinazione il paesaggio esterno. Senza cambiare positura mormorò:

- Dovresti scrivere a tuo zio per rassicurarlo.

- Rassicurarlo di che?

Lilia grattò leggermente coll'unghia una macchiolina sul cristallo; si udì il piccolo rumore muto e il colpo secco ch'ella vi diede poi prima di pronunciare la risposta. Venne alla fine, un po' tremula, quasi fioca:

- Non possiamo restar qui in eterno.

Egli diede un balzo e la prese per l'alto delle braccia immergendole uno sguardo fino in fondo alle pupille.

- E dunque?

Ansimarono l'uno di fronte all'altro, pallidi, torturati, paurosi eppure decisi. Gli sguardi si incontrarono perdutamente. Qualche cosa in vero si franse da quell'istante nelle loro anime.

- Senti.

Lilia aveva detto: "senti", lasciandosi cadere sulla poltrona, trascinando con sè l'amante che le si inginocchiò dinanzi. Ma parve che in quello sforzo si fosse momentaneamente esaurita perchè rimase colle mani appoggiate sulle spalle di Ippolito , muta; forse sentiva che parlando avrebbe pianto; e non voleva piangere.

- Lilia ? Lilia ?

Nella voce di Ippolito bassa e supplichevole c'erano singulti, c'erano lagrime, c'eran voluttà e speranze, c'erano dolci tirannie ed umili dedizioni e squilli di vittoria; c'era tutta la sua passione schietta, giovanile, impetuosa, ignara.

- Lilia , che vuoi dirmi?

Oh! il rapido volgere degli istanti su quel dramma intimo di due cuori! Ella levò le palpebre sul fanciullo inginocchiato, suo, così suo che avrebbe potuto annientarlo con un semplice cenno della sua volontà, e tanta onnipotenza invece di inebriarla la penetrava di una tristezza sempre più profonda.

- Ippolito , dobbiamo separarci.

Erano quelle veramente le parole pronunciate da Lilia , le parole che l'aria avea trasmesse, che le pareti tutte intorno avevano raccolte, le parole mostruose e sacrileghe? Quelle? E nessuno protestava, ed egli stesso, l'ardente innamorato, giaceva come percosso da fulmine? Giaceva immobile colla fronte sui ginocchi di Lilia .

In questa apparenza di morte risorse il coraggio della donna. Ella incominciò ad accarezzargli blandamente i capelli con una tenerezza che indulgeva al di lui dolore, con una sapienza di mano esperta che fascia le ferite da lei stessa procacciate. E continuò a parlare, dapprima lentamente, a frasi interrotte:

- Fanciullo mio, mio povero amico...

Più indovinato che inteso cadde fra i suoi ginocchi questo lamento:

- Non mi ami più.

- No, Ippolito , non è vero. Ti amo sempre, ma bisogna essere ragionevoli, posso io disporre della tua vita, puoi tu stesso sacrificarmela quando una intera famiglia riposa su di te, quando l'arte ti chiama, quando l'avvenire ti aspetta e devi tu stesso muovere a conquistarlo? Serba nella tua memoria questi mesi d'amore. Serba l'immagine mia come quella di una donna che ti ha sinceramente amato, che resterà la più devota, la più sicura delle tue amiche.

- Basta, - interruppe Ippolito alzandosi colle palpebre rosse e la faccia stravolta: - io amo e tu ragioni!

Una nuova ironia fischiava nel suo accento mentre a passi concitati percorreva il salotto.

- Ragiono perchè ho più esperienza di te.

- Certamente. Adescando e abbandonando mille amanti hai pur dovuto impararla l'arte di impossessarti di un'anima vergine, di avvincerla alla tua bellezza, di succhiarla nel pieno rigoglio delle sue forze e di disfartene quando la noia o altre esche te lo consigliano.

Fin dalle prime parole Lilia si era fatta pallida.

All'ultimo insulto non potè reggere e poichè già malinconica ed abbattuta aveva frenato a stento le lagrime, non si contenne più e ruppe in singhiozzi col capo fra le palme. Ippolito , al colmo dell'eccitazione, ne sentiva gli strappi ripercossi nel petto delicato, e lungi dal commuoverlo quei singhiozzi esaltavano l'erotismo della sua disperazione. Finalmente, finalmente la vedeva soffrire! Ma soffriva davvero? E perchè soffriva? Se era lei stessa che domandava la fine? Impostura, commedia, teatralità.

Egli sì, soffriva. Egli sì, sentiva squarciarsi il petto non da un singhiozzo ma da mille vipere che lo attanagliavano, che gli sbranavano il cuore, le viscere, tutto. Egli sì, moriva nell'amore di quella donna, la prima, la sola, la tanto a lungo attesa e invocata! Pensava egli forse alla famiglia, all'arte, all'avvenire, egli che amava di quell'amore che tutto assorbe, che trascina sentimenti, vincoli, affetti, doveri, che arriva fino al suicidio, fino al delitto?

Che cosa lo separava dal delitto se non la materiale volgarità dell'atto? Forse che nel suo animo non era già compiuto? Sul collo sottile di Lilia , su quel collo che usciva pari ad uno stelo dall'abito del colore di una morta rosa, non si torcevano già furibonde le sue mani? Non la vedeva egli piegare sotto la stretta disperata? Non la udiva gemere? Non sentiva il bel corpo cadere inerme e per sempre sotto il fatale amplesso?

Ma perchè taceva ora? Accasciata sulla poltrona, col volto tuttavia celato tra le palme, sembrava impietrita. I soavi capelli nella piena luce della finestra fulgevano, aureola di bellezza rigogliosa intorno alla fronte, e nella attitudine china lasciavano scorgere sul pendio della nuca una fioritura di giovani ciocche nascenti, quasi tenere nel loro incerto ondeggiamento di peluria infantile. Le spalle e le braccia volgenti verso terra presentavano la linea spezzata di un rosaio sotto la tempesta; perfino le mani, nella loro attitudine di ali raccolte a velare il dolore ed a farlo pudico, avevano la grazia toccante della fragilità. Che poco spazio occupava! Come era indifesa! Come erano piccoli i suoi piedi uscenti dalla rosea gonna! Si ricordò che una volta per la puntura di una vespa quasi sveniva.

Tutto ricordò: le care lettere, i fiori, la meravigliosa apparizione in carrozza, i colloqui sul verone, la gelosia dei rivali, e quel giorno della prova al Conservatorio dove l'aveva sentita prima ancora di vederla; e la fuga, e il viaggio, e l'estasi delle notti passate sul lago, tutti i baci, tutti i deliri di quei tre mesi di folle amore.

Quante dolci parole portate via dalla brezza, portate via dal vento! Parole disperse, parole perdute, parole che non torneranno mai più!

Ecco perchè ella taceva. Ed era così immobile, dopo avere tanto singhiozzato, come se proprio le parole fossero morte accanto all'amore che stava per morire. Ma era pur lei la donna adorata, la bellissima, l'irresistibile! Da quel muto simulacro femmineo egli ben sapeva quali scintille potevano accendere i suoi baci! Egli sapeva la trasformazione raggiante del viso e come il sangue correva rapido al cuore, come le mani tremavano avvinte al suo collo, come pulsavano le arterie, come scottavano le labbra, egli sapeva!.... egli sapeva! Addormentatosi bambino a' suoi piedi s'era svegliato uomo con mille desideri nuovi, rinascenti, appagati eppure insoddisfatti, e s'era creduto felice mentre tanta infelicità piombava su di lui.

Ogni nozione di tempo, di luogo, di spazio, ogni criterio, ogni riflessione, ogni memoria che non fosse del suo amore, sembrava averlo abbandonato per sempre. Forse qualche istante di pazzia si trova nell'esistenza di tutti gli uomini che sentono fortemente; forse l'eccesso del dolore e l'eccesso del piacere conducendo ai limiti estremi della vita ne asportano la volontà gettandola nei gorghi misteriosi del nulla. In quell'ora di atroce sofferenza, vicina per intensità di vibrazione all'ora di voluttà trascorsa la prima notte sul lago, Ippolito misurò ancora una volta i ceppi che limitano ai mortali la visione dell'infinito: ancora una volta il freddo della morte lo toccò in fronte.

- Uccidimi, uccidimi qui. Fa che non mi rialzi più, che non veda, che non senta più, che l'ultimo soffio mio spiri in un tuo bacio!

Era caduto di nuovo ai ginocchi di Lilia , nascondendovi disperatamente il volto, annientandosi nel suo grembo.

E piansero! Piansero insieme alternando sospiri e parole d'amore, baci e promesse, riconoscendo l'impossibilità di separarsi, con una furia di vincersi l'un l'altro nell'ardore della passione, facendosi male e godendo di quel castigo della carne quasi per esso dovesse salire più alta la fiamma ideale. Fu una ebbrezza nuova, dolce e tormentosa, la più profonda, la più completa di tutte quelle provate. Pari ai due alberelli scossi dalla bufera si alzarono tuttora tremanti e irrorati di lagrime, sostenendosi a vicenda, meravigliati di ritrovarsi giovani ed esuberanti di vita dopo tanto schianto dei loro cuori.

Tutto era così calmo intorno ad essi! Il salotto co' suoi mobili antichi, colla poltrona coperta da un vecchio ricamo sul quale erano sorvolate le dita della contessa morta prima che i fiorellini del trapunto perdessero i loro colori, prima che il filo di seta si rompesse, prima che la pendola sul caminetto in mezzo ai due candelabri di bronzo cessasse di suonare le ore. Calmo il paesaggio che si scorgeva dalla finestra, malinconico ma calmo, cogli alberi del giardino un po' sfrondati, un po' pallidi sul fondo grigio del cielo e colla fascia del lago in fondo di un colore attenuato simile a un nastro di mezzo lutto.

Un ultimo sospiro sollevò il seno di Lilia .

- Mi ami? - gemelle Ippolito , tanto vicino al di lei orecchio che l'aria non ripercosse alcun suono.

Ma nel mentre colla mano accarezzava la molle chioma di lei allentata nell'uragano del pianto e dei baci, tutta la chioma si sciolse e Lilia cingendone con improvviso abbandono il collo dell'innamorato vi soffocò la bocca e la parola.

XVIII.

SULL'ALA DEL GENIO.

Al tempo delle lunghe passeggiate sui monti, nella floridezza del settembre, essi avevano osservato lungo il ciglione un albero malamente piegato dalla bufera i cui rami erano sottili e le foglie palliducce tuttochè sembrasse ancor vivo. E ad una osservazione di Lilia Ippolito aveva risposto toccando le radici: "Il male è qui; quest'albero dovrà morire per quante fronde lo coronino ancora."

Non era così del loro amore? Colla foga di un temperamento eccessivo Ippolito dandosi intero aveva creduto che ella pure gli sacrificasse tutto; un'anima come la sua, una volta confessata a sè stessa, doveva avere il coraggio di andare sino alla fine affrontando qualsiasi conseguenza. L'amore che ragiona non è più amore, la passione che riflette e che calcola non è più passione. Gli esseri superiori che amano veramente non hanno nè esitazioni nè rimpianti, nè rimorsi. Così egli amava! Era cecità? Era pazzia? Ebbene, senza cecità e senza pazzia non vi è amore.

Tutto ciò Ippolito disse colla violenza che era entrata oramai in quasi tutti i loro colloqui, che alterava la dolcezza dei loro rapporti e li teneva nell'ansia continua di chi cammina sopra un filo teso. Ai teneri languori succedevano scene di disperazione. Ippolito che l'aveva amata prima senza speranza, che l'avrebbe forse adorata per sempre in silenzio senza chiederle nulla, tacendo, quando si sentì riamato non ebbe più freni e si abbandonò a deliri, a frenesie cui non avrebbe mai creduto di poter arrivare, di quei deliri, di quelle frenesie che il mondo ignora o di cui ride; ma lui si sentiva uomo, si sentiva felice e non sapeva, non voleva saper altro se non che lei era giovane e bella e aveva dimenticato tutto il resto.

Che valore potevano assumere le osservazioni di Lilia sulla acerba giovinezza di lui, sui suoi vincoli di famiglia, sulla diversità della loro educazione, dei loro istinti, dello loro abitudini? Ella aveva compreso che in fondo al cuore di Ippolito c'era un bisogno di purezza e di vita semplice il quale, se pure momentaneamente soffocato, sarebbe risorto inesorabile e ad entrambi fatale. Gli parlava dell'avvenire con sicurezza veggente, ma da tutti i ragionamenti di Lilia Ippolito traeva una sola conclusione che lo esasperava: "Ella guarisce ed io no".

Ella guarisce! Ma lo aveva pure amato sinceramente, senza ipocrisie. Era venuta, lei, a offrirgli i tesori della sua bellezza, della sua intelligenza, di un amore quale non gli sarebbe stato permesso di sognare neppure nei più accesi deliri della fantasia; per lui si era eclissata dalla sua aureola di luce, dal suo trono dominatore; era venuta con lui a dividere la semplice vita della passione che null'altro chiede al mondo; regina di un dominio senza confini, aveva acconsentito a un tramutamento di tutte le sue abitudini per passare ignorata al suo fianco quattro mesi di oblìo completo. Quali promesse gli aveva fatte? Nessuna. Quale giuramento li legava, quale obbligo, quale fede? Lilia era stata franca, spontanea, generosa, leale. Davanti ad una onesta disamina dei fatti i suoi rimproveri vestivano una forma di ingordigia volgare che doveva dispiacere a lui stesso. Tutta la sua generosità d'uomo gli mostrava il dovere di una riconoscenza completa, senza recriminazioni e senza piagnistei. Egli doveva ringraziare l'Eletta che lo aveva beneficato dei suoi favori, chinare il capo e sparire, portando con sè la memoria indelebile delle gioie avute.

Ma com'era possibile ciò se egli l'amava disperatamente ancora? Ancora, mentre lei guariva! E perchè guariva? Questo voleva sapere: È dunque un inganno l'ora divina che sembra fondere due anime in una sola, e le anime restano disgiunte anche quando le labbra si sono unite nel bacio più fervido? Che vogliono dire allora quei pallori, quei fremiti, quel gelo di morte che sorprende gli amanti nell'estasi dell'amplesso? Perchè l'aveva egli sentita tutta sua, non più persona ma cosa, tutta sua nell'abbandono est,Remo della volontà, e il trepido cuore sotto la sua mano aveva quasi cessato di battere e l'iride dello sguardo fuggente sotto le palpebre sembrava rinnegare tutti i tesori della terra per lui, per lui, se ora poteva parlargli con tanta serenità della loro prossima dipartita?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Fu un mattino, appena alzati, dopo di avere spedito un telegramma a Filadelfia, che Lilia gli annunciò l'irrevocabile decreto delle separazione. Ippolito non sapeva, non seppe mai il tenore di quel fatale biglietto portato alla prossima stazione telegrafica dalla mano inconscia del custode; ma da questo fatto e dal contegno risoluto di Lilia e da un intimo personale senso di terrore preannunciante la sventura, egli comprese che la fine era giunta.

Quante lagrime nel lago! Quanti gridi nelle foglie divelte dai rami, turbinanti sulle balze lungo il pendio delle montagne non più ridenti sotto il loro manto estivo ma coi fianchi scoperti che mostravano le secolari cicatrici delle lotte coll'acqua e col vento! O bei giardini dove più non olezzava l' olea fragrans , o terrazzi sporgenti, o boschi, o sentieri, o grotte erbose testimoni di tanta felicità perduta.

Tutto il giorno Ippolito percorse con una furia pazzesca i dintorni della villa, ora accusando Lilia del più nero tradimento, ora accusando sè stesso di ingratitudine, ma disperato sempre e in preda a un indicibile martirio. Al pensiero di perdere l'adorata donna se ne congiungeva un altro anche più tormentoso, non formulato con precisione di parole ma pur terribile nel suo fluttuare geloso di presentimento...

Andava, andava, andava, senza trovare requie, ora esaltato e delirante, ora in preda allo sconforto, inciampando nelle pietre che non vedeva con un traballamento da ubriaco, dato il capo nudo e il collo all'aria fredda di tramontana che trovava nelle sue membra una insensibilità di macigno. Avrebbe voluto farsi male o fare del male, uccidersi o uccidere, pur che uscisse dal suo corpo quel demone che lo investiva e potesse alla fine trovare un istante di sollievo anche a costo dell'annientamento.

Quando fece ritorno alla villa, girando dietro la casa del custode, vide Ni ritto sulla soglia ammantato nel suo contegno più fiero e più risoluto. Egli rispondeva con una scala crescente di "no" agli inviti di Mansa che voleva mutargli il grembiulino. L'apparizione del bimbo, come sempre, ebbe il potere di attrarre lo sguardo di Ippolito che ne risentì una improvvisa tenerezza dolente e quasi compassione, non sapeva bene se per sè stesso o per quel bimbo che nulla sapeva della vita.

- No - ripetè ancora una volta il piccolo uomo per la difesa della propria libertà.

Allora Mansa senza sprecare altro fiato lo prese sotto le ascelle, lo sollevò in alto, gli tolse il grembiulino ad onta de' suoi strilli e gliene rimise uno pulito deponendolo poi di nuovo sulla soglia dove era prima. Vinto, dalla forza, un gran dolore, come di onta ricevuta, alterò i lineamenti del bimbo che si gettò in terra a guisa di protesta mordendo il suolo, mentre ne' suoi occhi del colore di un'acqua corrente sotto i salici tremarono due piccole lagrime.

- Dunque - pensò Ippolito - la vita incomincia anche per lui tirannica e crudele. A due anni appena conosce le catene. Egli sa ormai che deve piegare. Piegare agli uomini, al destino, alle leggi, al volere dei più forti, alla pietà dei più deboli, alla verità o all'errore. Questa è la vita. Piangi, piangi, piccolo Ni, mordi la terra, urla, protesta... Troverai sempre qualcuno o qualche cosa che ti vincerà.

Entrò in casa in preda ad una malinconia profonda sotto la quale si raccolsero momentaneamente come dentro a un velo pudico le sue smanie tempestose. Incontrò Lilia ai piedi della scala. Anch'ella era uscita e rientrava allora. Aveva il suo abito grigio e sotto la veletta bianca i bellissimi occhi apparivano arrossati... Dal pianto? dal freddo? Una volta Ippolito non avrebbe esitato sulla interpretazione; ma ora, ironico e dubbioso, ripeteva a sè stesso: - Dal pianto o dal freddo? - Dolcemente ella disse:

- Ti ho cercato... ti venni incontro...

- Grazie, sono stanco; credo di avere un po' d'emicrania.

Ippolito non sapeva precisamente quel che si dicesse, ma non era preparato ancora a trovarsi con Lilia . Istintivamente sentiva il bisogno di essere solo. Ella comprese e salì alle camere superiori.

Anche per lei c'era stata lotta; certo meno violenta, meno appassionata, poichè avviene del dolore umano come delle malattie che la prima volta scoppiano con veemenza e poi vanno di volta in volta acclimatandosi con forme sempre più benigne. Inoltre Lilia non subiva alcun disinganno, essendole noto fin dai primordi che quella relazione non poteva essere duratura più di un sogno, più di un raggio, più di un fiore - l'ultimo forse - colto nel bizzarro giardino della sua vita. Eppure si staccava a malincuore dall'innamorato giovane. Quando mai aveva conosciuta un'anima così vibrante, un così squisito intuito di tutte le finezze amorose, una intelligenza così aperta al sentimento puro della bellezza? Abituata agli omaggi ella sapeva che non troverebbe mai più una adorazione così ardente e così ingenua. Non le aveva egli, in un momento di follia, proposto di sposarla? Racchiudeva tale immagine di vita futura una visione triste e grottesca insieme, e fu appunto ripensandoci che Lilia si sentiva presa di grande pietà per Ippolito . Povero fanciullo, che cosa farebbe? L'uragano che passava ora sul suo giovine capo non poteva lasciarlo intatto; quella passione doveva imprimere nella sua esistenza una traccia incancellabile. Lilia lo sapeva, lo vedeva, paventando e sperando per lui con un'alternativa di tenerezza e di ansia quasi materne.

Passeggiava in su e in giù dalla sua camera illudendo la trepidazione del cuore con alcuni preparativi di partenza, ripiegando un nastro, chiudendo un cofanetto, alla luce incerta del giorno che stava per morire. D'improvviso si arrestò tendendo l'orecchio. Un suono flebile, una specie di gemito l'aveva colpita, nè le riusciva discernere sulle prime d'onde venisse, tanto era inusitato. Poi le parve di comprendere: balzò alla finestra, l'aperse e allora salirono distinte fino a lei le note del piano: ma erano note bassissime, simili a sospiri, simili a lagrime cadute sugli avorî che ne rimanevano appena scossi.

- Ippolito !

Il caro nome le era sfuggito dalle labbra mentre appoggiata al davanzale ascoltava avidamente. In tutto il tempo che si trovavano alla villa mai Ippolito aveva toccato il piano. Nessun pensiero, nessun desiderio che non fosse quello del loro amore lo aveva tentato mai. Ed ora quale angelo lo guidava alle soglie dell'armonia perchè egli vi sfogasse tutto il suo pianto? Ecco, ecco. Veniva lento, proprio come se rare gocce sforzassero le porte chiuse delle palpebre irrigando di scarso umore la carne bruciata dalla gran passione. Che soavità, che freschezza in quelle prime lagrime! Quale giovanile trasparenza di rugiada! E crescevano fitte, sempre più fitte, dilagando con uno scrosciare di cateratta dove tutti i gridi della terra sembravano trovare un'eco. L'improvvisazione era viva, calda; vi scorreva dentro a guisa di filo d'oro una vena di dolcezza incomparabile, come una preghiera che si levasse dalla vittima sofferente per il suo carnefice, come una parola d'amore ancora in mezzo ai muggiti della disperazione. Era ben quella l'anima di Ippolito soave e ardente, tenera e generosa, la sua forte, la sua grande anima di artista!

Lilia chiuse rapidamente la finestra e scese le scale. Sul ballatoio incontrò Mansa che veniva a chiederle se voleva i lumi di sopra.

- No - rispose Lilia senza fermarsi, - e il signore?

- Il signore non mi ha neppure risposto quando glieli ho offerti. Dio benedetto! Suona in modo da far piangere.

Lilia penetrò con passo leggero nel salotto dove già si addensavano le ombre. Ippolito non la vide. Continuava a svolgere le note sul tema di un lamento dove sembravano rivivere a tratti le visioni felici del passato. Con un grido che potè appena frenare Lilia riconobbe lo spunto del Cantico dei Cantici: "O tu che l'anima mia ama!" e la musica ardente, appassionata, voluttuosa, descrisse con poche battute i misteri che si comunicano i nidi affondati nei boschi quando sorge su di essi l'aurora, gli amori soavi come il miele nei dolci orti chiusi dove le fonti mormorano sommessamente, dove ali invisibili frusciano tra gli alti steli e lente si aprono le rose nel mistero dei cespugli. La rievocazione era così nitida che Lilia credette ancora di udire le acclamazioni del pubblico, nella sala del Conservatorio, sorpreso e scosso dal vigore dell'ispirazione. Ma il ricordo, appena tòcco, scomparve sopraffatto da un torrente di note vertiginose in cui il motivo si allargava sorgendo alla elevatezza concettosa della sintesi; e non erano più gridi, non più lagrime, non più lamenti; solo un palpitare d'ala ferita e un ritornello lento, lontano, come di singhiozzi soffocati.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Non ci si vedeva quasi più nel salotto. Lilia , a tentoni, raggiunse il piano. Ippolito la sentì venire e rimase colle mani irrigidite sui tasti mentre ella gli circondava la testa adducendola con dolce violenza a riposare sul proprio seno. Poche gocce di sudore rendevano madida la fronte del giovine. Ella le asciugò pietosamente in silenzio.

- Lilia ...

- Amore!

Alcuni suoni inarticolati uscirono a stento dalle labbra di Ippolito , e Lilia , nello stesso modo che si acqueta un bambino, lo andava accarezzando e mormorava piano dei "sì" che non rispondendo a nulla di concreto sembravano pure allearsi al di lui dolore e farsene compagni. A un tratto, curvandosi con un movimento alieno da ogni sensualità, gli appoggiò la bocca sulle palpebre.

- Queste lagrime - disse - si convertiranno in serti di gloria. Perchè tu sai amare è tua la vittoria del poeta, perchè tu sai piangere sarà tuo il cuore delle moltitudini.

- Io volli solamente il tuo, - mormorò Ippolito .

- Ah! esso non è che un povero cuore! - esclamò la donna con uno slancio di umiltà sincera: - Ben altra è la tua missione, Ippolito . Trattieni le tue lagrime, povero amico. Tu le devi portare nel mondo, in mezzo agli uomini che non le conoscono e che le chiameranno poesia; ma questa poesia sgorgata da un cuore sanguinante sanerà molte ferite. Tu non sai quanti soffrono per la mancanza di comunicazione con un'anima sorella perchè cercando anche fra quelli che sembrano i bardi e i custodi della sacra fiamma non trovano che fredda erudizione e calcolo di vanità. Ma tu perchè ami e perchè piangi avrai qualche cosa da dire a' tuoi simili, tu scenderai nei loro cuori, siederai in mezzo a loro e parlando de' tuoi affanni essi crederanno di vedere i propri e ti ameranno per questo.

- Che m'importa se non ho più te?

Con una gravità profetica Lilia rispose:

- Io devo morire e la tua gloria sarà immortale.

- Che m'importa? - ripetè Ippolito .

Quietamente Lilia soggiunse:

- Noi avremmo cessato di amarci un giorno forse maledicendoci. Invece ci separe,Remo con tanto desiderio ancora; tu metterai il nostro amore nelle tue opere future e ciò che era destinato a perire vivrà nei secoli.

- Vanità!... - mormorò ancora Ippolito .

- No, - disse Lilia col calore della convinzione - amore eterno! L'amore deve creare qualche cosa per raggiungere veramente il suo scopo.

La mano di Ippolito errante sulla tastiera traeva accordi spezzati.

- L'amore: - riprese Lilia con un filo di voce: - l'amore quale tu lo sognasti doveva essere l'incontro di due creature giovani e pure... Taci, taci, non protestare! Io lo so. Vorrei avere quindici anni e un casto fiore da offrirti...

- Lilia ...

- Forse - continuò ella senza avvertire l'interruzione, - avremmo potuto essere felici. Bada, dico forse. Ad ogni modo la mia fierezza si sarebbe acchetata nell'olocausto di tutta me stessa. Così, vedi, non ora, ma più tardi...

Non compì il suo pensiero. Lasciandosi scivolare lungo la persona del giovine lo abbracciò alle spalle e rimase appoggiata a lui colla tenerezza incorporea di chi stringe un simulacro. Ippolito sentiva che ella era nella verità. Uccidendo il loro amore lo salvava dal disfacimento e dalla putrefazione. Ella amava meno, ma era perciò la più forte. L'opera del giustiziere faceva appena tremare la sua piccola mano.

Un sentimento virile di emulazione si fece strada nel cuore di Ippolito . Voleva bensì soffrire, piangere, morire anche, ma non essere vile, non essere inferiore a lei. Sotto il nuovo impulso una nuova onda di armonie fiorì sui tasti ricercati dalle sue dita nervose che sembravamo animare l'avorio, che fremevano al suo contatto come persone vive.

Onde meravigliose di suoni si sparsero così intorno ai due amanti, nell'ambiente chiuso del salotto, fra te tenebre sempre crescenti.

- Egli è forte - pensò Lilia con un sussulto di orgoglio: - Egli riuscirà! Chi udendo fra qualche anno queste melodie divine, sospetterà neppure che esse nacquero dallo schianto di due cuori, in una sera buia, nel deserto di questa riva e di questo lago? Domanderanno: "Dove ha studiato? Chi lo istruì nell'arte dei suoni? A quale scuola appartiene?" Nessuno saprà rispondere, ma tutti piangeranno con lui! O amore, amore, amore...

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

L'oscurità della notte era scesa completa. Dalla camera attigua, dove i servitori si erano arrischiati ad accendere un lume, veniva il riflesso di una luce blanda appena percettibile nella quale il profilo dei due amanti emergeva con un contorno di sogno.

Nessuna parola fu pronunciata più!

Dalle spalle di Ippolito le mani di Lilia le erano cadute lungo i fianchi mentre soffocava le parole e il respiro per non interrompere la foga di quella ispirazione e se ne stava, lei regina di incanti, nell'offuscamento delle tenebre prona al suolo, lei trionfatrice del senso, avvinta al fascino della bellezza occulta. E tutte le sue ebbrezze passate le parvero cenere in confronto alla transumanazione di quell'ora.

Tacita intanto la grande rivale, la Consolatrice, si avanzava stendendo fra i due amanti le sue ali invisibili, sollevando con esse il povero cuore che l'amore aveva straziato, portandolo più alto, sempre più alto, dove lo chiamava la pietà del suo destino, dove l'arte assorbe le lagrime dell'amore e le tramuta in gloria.

FINE.