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IL PASSAGGIO
ROMANZO
_Tutto sarà trasformato_
in qualcosa di ricco e strano
SHAKESPEARE
Firenze
R. BEMPORAD e FIGLIO, EDITORI
MCMXXI
PROPRIETÀ LETTERARIA DEGLI EDITORI R. BEMPORAD e FIGLIO
I diritti di riproduzione e traduzione son riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda
_Copyright 1920 by R. Bemporad e F.º_
427-920 — Firenze, Tipografia “L'Arte della Stampa” Succ. Landi
I
l silenzio attende. Il silenzio, la più fedele cosa
che in vita m'abbia allacciato. Più grande di me, via via ch'io crescevo
anch'esso cresceva, sempre pareva volesse ascoltarmi e tacevamo insieme, ed
ancora io mi ritrovavo uguale fra le sue braccia, senza statura, senza età,
creata dal silenzio stesso, forse, per un suo desiderio immutabile, o forse non
mai nata, larva ch'esso proteggeva.
Ancora una volta sono sola, sono lontana, e tutto intorno tace.
Lontano è chi mi ama, chi forse stanotte è pronto a sparire e mi benedice
Nelle acque ferme laggiù tra i giunchi le stelle riposano.
Perchè debbo cederti, o mio fedele?
Tu che delle inutili domande tanto ripetute fra i singhiozzi facevi entro il mio petto improvvisi guizzi di melodia, tu, s'io guardavo sino al torpore forme docili ed insensate, qualche tizzo che ardeva, qualche rama squassata al vento, un poco di parete bianca o un'allegoria di vele di ali sul mare.
Sono sola, nessun fiato fuor che il mio agita la fiamma di questa piccola lucerna.
Fuori, nel buio, qualcosa dilegua, ad ogni istante muore.
Lontane ugualmente da me la morte e la vita, s'io alfine parli.
Ma come se quest'ora tuttavia fosse la mia ultima.
Come s'io non dovessi mai più ritrovarmi nuova sotto la carezza dell'aria.
È l'ora nostra, o mio fedele, ferma come le acque là tra i giunchi dove le stelle riposano.
P
rendo la mia forza, e prendo la mia pena e la mia
ansia.
Chi mi ha fatta così forte?
Per tanto tempo ho creduto fosse un miracolo: sapevo d'avere in me elementi in
guerra, la soavità di mia madre e la violenza di mio padre, la timorosa
melanconia dell'una e la ribelle baldanza dell'altro, il desiderio di cantare a
voce sommessa per me sola e quello d'agire in mezzo al mondo, istinto di
dedizione e istinto di conquista in opposizione perpetua: in tutto ciò non
vedevo che cespite di debolezza. I miei genitori errarono
Ma, or non è molto, una notte ch'io vegliavo dopo non so quante altre, in una
stanza dove saliva il ritmo ferrigno d'un fiume in piena, e nella veglia,
giacendo immobile, guardavo fissa al fantasma d'un lungo supplizio da cui mi
strappavo allora con un più grande impulso di vita, d'improvviso un pensiero,
ch'era insieme una certezza, mi sfolgorò dinanzi nel buio. Pensiero od
immaginazione non so. Io non so se i nomi di cui mi servo per tutte le cose di
cui parlo sono i veri. Sono stati creati da altri, tutti i nomi, per sempre. Ma
quel che importa non è nominare, è mostrare le cose. Quella
La lampada della vita — le mie mani l'hanno afferrata.
Creatura mattutina, agito dolce l'aria quando il giorno sorge limpido e sulla fronte benedice e rapisce, veramente fatto di cielo.
Mattini di primavera in cui adolescente scopersi che le rame degli ulivi eran d'argento e fremevano e fervevano nel sole. Mattini dell'ultimo settembre nell'isola di rupi e di rovi così aspra come bella. E altri par che mi aspettino, su rive che ancor non conosco o fors'anche dove già passai in sere grige. Ritorni perfetti di melodie, attimi d'identità luminosa. La terra ed io siamo una sola cosa intensa che solleva l'azzurro.
Ma un altro ritmo anche torna senza mai affievolirsi. Sopra una distesa enorme di
mare in tempesta, sul fragore di bianche onde, bianche ali di gabbiani danzano.
Ansia, ala inquieta dell'anima mia!
«Signore, fammi diventare grande e brava» pregavo da bimba accanto alla mamma. Unico tempo in cui ho pregato, unica mia preghiera, ed era piuttosto una promessa, quasi un patto.
Ansia di tutto comprendere, di tutto rispettare e sormontare. Attenzione trepida
ed instancabile, religiosa vigilanza della mia umanità. Come se io fossi, invece
d'una persona, un'idea, un'idea da
Pur sono quella stessa che sorride nelle fresche aurore, simile ad una corolla sbocciata per quel dì soltanto.
Con mani amorose ho alzata la face trasmessami. Ho contemplato l'agitato mistero del mio spirito, e il lucido aspetto dell'universo, e tanti che ho pensato vivi come me, uomini e donne, ed il pulsar delle vene sulla loro fronte.
Uomini e donne sono sul mio cammino perch'io li ami.
Li amo, li sento vivere, la loro vita si aggiunge alla mia.
Che cosa io sarei senza questi incontri, senza le strade che ho percorso?
Tutto m'attendeva, e nell'ora esatta.
Tutti m'hanno dato. Tutti pareva fossero stati creati per me, per far che
divenissi
E la chimera è qui sempre.
Se scrivo, se scavo nel mio pensiero o nella mia passione, e le parole sono
stillanti
Affermo me a me stessa: null'altro, null'altro!
Oh, ma affermo tutto ciò di cui mi compongo, tutto che mi sta attorno e ch'io assorbo! Nulla va perduto. E quando anelo ad essere amata è ancora il mio amore per tutte le cose che chiede di venir riconosciuto, è il mondo che vuol esser abbracciato e cantato.
E forse nessuno ha colto su le mie labbra questo sospiro in cui io son tutto e nulla.
Avevo le guance di rosa e lunghi e tanti capelli, avevo dolce la voce e apparivo
pietosa, per questo mi hanno sorriso e per le ore d'incanto m'han benedetta.
Sempre, quando la vita si fa tremenda e crudele, sento gli uomini bestemmiarla e ricusarla. Li sento chiamarla maligna, imaginarla con un volto che ghigna nelle oscurità misteriose.
Perchè la mia infanzia non conobbe il terrore non ho mai accolto quest'idea d'un
insidioso male originario? La notte era per me fin d'allora una immensa pupilla
bruna, era la vita che si addensava perchè i figli e le figlie della terra la
fissassero senza paura, infinite costellazioni di occhi. E se la malvagità non è
nelle tenebre, non può essere neppure nei cuori degli uomini. La bimba ch'io era
vedeva talvolta intorno a sè soffrire, vedeva le cause semplici o strane di tali
sofferenze, col respiro sospeso scrutava le inesplicabili, ma nulla attribuiva
mai
Mio padre mi parlava. S'egli fosse
Ma s'io non avessi mai conosciuto mio padre?
O se lo spavento m'avesse agguantata, una sera di quella mia puerizia, per sempre alterandomi nelle chiare orbite le pupille stellanti?
Vedere il mondo con altro sguardo....
Vederlo con gli occhi di quegli a cui da fanciullo precipitò allato il fulmine. Grandi occhi verdi come l'Arno che gli ha dato il nome: e s'io gli dicevo anche solo d'un volo di rondini sul suo fiume a primavera, egli li stravolgeva tremando come ad un richiamo disperato.
E quegli che da bimbo patì tanto freddo, che da bimbo non giocò mai.... L'ho
incontrato che aveva già il volto ombrato di fini rughe, e più non sperava un
bene per sè sulla terra. Durante anni l'ho sentito felice. Posava la notte la
sua
Oh, m'intenda se la mia voce gli giunge! Intenda ch'io sono la piccola Rina che guarda lui ragazzo, che son le nostre anime fanciulle a mirarsi stupite, venute da tanto lontano l'una dall'altra.... Si son strette, con tanto tremore, ma non potevano mutare. E anche adesso, anche in questo attimo, s'io gli dico che non mai soffrendo per il suo dolore, l'ho incolpato d'essermi diverso e se penso che non così è stato di lui, se penso ch'egli ha potuto provar pietà di sè soltanto invece che d'ambedue, io chino il capo, chino il capo.
Ugualmente lontana dalla vita e dalla morte?
Ho in bocca sapore di terra.
Non conto più le sere, guardo la legna che arde, i guizzi fanno biancheggiare le pieghe della mia veste e muovere l'ombra, sulla parete, d'un ramo, fiorito dove è già primavera, ramo comprato quasi con livore, come l'uomo compra un'ora d'ebbrezza, portato quassù tra le braccia arrossendo, oh fragranza dolce, petali lievi che non voglio baciare! Ho in bocca sapore di terra.
Su l'altra parete so che oscilla il mio profilo. Così lo vide, forse così soltanto mi ricorda, chi mi disse una notte che quell'immagine ombrata resterebbe pur sempre la più incantevole mirata dai suoi occhi nella sua folle vita.
Cosa di grazia inserta, cosa riflessa, oscuro contorno, murata anima. Così mi amava.
Lui a cui avevo susurrato: «gioia dagli occhi ridi» quando la prima volta gli piacqui nella deserta luce.
Fuggente il suo riso e pur come questi guizzi aveva vigore d'elemento, sembianza d'eternità.
Come il raso delle acque se il sole tramonta fra nubi mai eguali.
Soffoco. Simili a nere onde compatte che si gonfiano e ricadono e risalgono, le visioni della mia mente attorniandomi mi fanno spasimare di vertigine. Che cos'è questo rullìo, questo rombante respiro d'un cuore che non è il mio cuore, questo mostruoso ed invisibile stantuffo che fa andare la nave mentr'io imploro che s'arresti?
Sazietà di questa distesa tempestosa, di queste infinite creste di schiuma uniformi, bavose, abissali!
Quante altre volte mi rigirai così, come in una gabbia, fra quattro pareti?
Nel mondo, e dove sole e dove nebbia. Nessuna casa è la mia, sebbene ogni stanza dov'io passi s'impregni per sempre di me.
E le fermate di notte sotto le tettoie di ferro, nomi diversi, nord o sud, uno stesso lontanar di fumi rossastri, uno stesso sgancìo netto di catene.
Le prode dei campi — quant'altri inverni? Umide, sotto uno svariar di nuvole, con querce gialle su un filo d'orizzonte o presso ombrie folte d'agrumeti. La terra è dappertutto nera, di novembre.
Accosto i miei polsi alle mie tempie.
Mia ragione, sei qui ancora? Sì, domini ancora ogni battito e ogni rombo, meravigliosa!
Questo gesto ch'io fo ogni tanto, d'accostarmi i polsi alle tempie per
assicurarmi che non sono pazza, verrà mai il
Di là, di là dalla mia ragione, di questa pertinace mia ragione, mi aspetta forse il mio fantasma. Su una spiaggia abbagliante starà forse un giorno una che ricorderà agli altri quella ch'io fui, e non saprà più il suo nome, sognerà e non si sentirà mai sola, sognerà la testina bionda di suo figlio sotto la sua carezza, sognerà bionde luci innamorate e bionde ombre di boschi, e forse sorriderà dolce, e le palme delle mani e le dita si moveranno sopra il suo capo come ali d'oro.
Se è vero che quella spiaggia m'attende in fondo al mio destino, potrò avvertire il momento che vi verrò sbalzata?
Sono ancora, ecco, la bambina che restava la sera tante volte sveglia tardi nell'ombra, per voler accorgersi dell'istante in cui sarebbe entrata nel sonno....
C
'è una strada, fra tante che ho percorse, aperte al
mio coraggio, ch'io non ho cercate, che ho visto d'improvviso, una strada fra
tutte tracciata perch'io imparassi che cosa vuol dire camminare. Camminare,
andare innanzi avendo lasciato tutto dietro a sè, quanto di più amaro ma anche
quanto di più caro — e nessuno vi attende e nessuno vi difende. La strada sale,
ha svolte, intorno è deserto ondulato, in basso una città grande appare e
scompare. Io avevo venticinque anni. Staccata da tutta la mia esistenza
anteriore, il destino nuovo m'era ignoto.
Oh figlio, ma da quel sogno oscuro tu eri pur uscito, viva cosa di carne, figlio, passione profonda del mio sangue....
Perchè ti hanno tolto a me?
Eri mio, eri insieme con l'anima mia la sola cosa viva di quella mia tetra giovinezza; t'avevo cresciuto come crescevo me stessa, non per quei giorni, ma per altri che dovevan venire.... Figlio, e ho potuto portare in salvo fuor dell'incubo l'anima mia e non te, non te! Non hanno voluto, per quanto ti chiedessi urlando.... Sei rimasto lontano. Lontano. Rimasto per sempre il bimbo che aveva già quasi sette anni. Ho provato, creatura, ho provato a sentirti diverso, a pensare come potevano essere i tuoi occhi quando avevi otto anni, quando avevi dieci e dodici anni.... Cercavo d'imaginare la tua statura mese per mese, e il tuo sorriso e i tuoi capelli.... Ma la tua voce, figlio, non la potevo sapere. Venivi nel mio sonno, sogno d'un sogno. E nient'altro, mai più.
Un secondo destino.
Strada in salita percorsa infinite volte quella primavera, bianca nel sole, senza una voce sotto le stelle, ed io camminavo sola, scendevo alla città, risalivo alla casa presso alla pineta, e con me stessa parlavo per tutta la lunga ora.
Io sola a rispondermi.
Sola con qualcosa di saldo e di erto, ch'io però non sapevo, che restava senza figurazione, senza alcun pensato rapporto con l'immensità e la maestà intorno. Andavo. Ardendo di certezza, ardendo di volontà. Talora sul volto infocato sentivo scorrere lagrime: ma non rallentavo il passo. Talora la proda verde pareva invitarmi perchè mi gettassi bocconi singhiozzando: e non cedevo.
Primavera remota e santa. La rivivo a tratti nel mio cuore con uno stupore sempre
più profondo, ma non posso prender
Qual'era la mia nuova vera sorte? Che cosa aspettavo dalla mia resistenza?
Ma non questo mi chiedevo. M'ero sottratta ad un'esistenza vile, m'ero liberata sanguinante, dopo un combattimento durato per anni dentro di me. Per me, sì. Per portar salva nel tempo la mia coscienza, sì. Ma già mi pareva di andar nel mondo come un'innominata: una donna, fra tante donne: una persona umana nel gran flutto dell'umanità. Avevo voluto esser io, non per distinguermi ma per sentirmi degna di confondermi nel tutto: non per credere in me ma per poter credere nella vita.
E quel ch'io ora voglio qui scrivere si divincola torvamente, tenta sfuggirmi....
Anima, sii forte. Ci sono cime di ghiaccio lucenti nel sole che i miei occhi
Dissi in quel tempo che soltanto ad un interiore comando avevo ubbidito lasciando la casa dov'ero moglie e madre. Come si va ad un martirio. Ed era vero. Dissi che nessuno m'incitava all'atto terribile, e che non per amore d'un altr'uomo m'esponevo così a perdere per sempre la mia creatura: anche ciò era vero.
Ma una cosa fu taciuta, allora e più tardi nel mio libro.
Non era per amore d'un altr'uomo ch'io mi liberavo: ma io amavo un altr'uomo.
L'avevo scelto di lontano, in quell'ultimo mio anno della vita laggiù, a
testimonio di ciò che stava sorgendo in me, lucida brama di un'esistenza libera
e
E da lungi era venuta la sua risposta, un sospiro accorato, uno smarrito stupore per quei mai prima intesi accenti vivi. «Parla ancora, parla ancora....» ed era come se arrovesciasse il bel viso pallido, socchiusi gli occhi, spossato come dopo un di quei baci che sembra debbano rombare eterni nelle vene.
C'è un ramo di mandorlo in fiore sul mio tavolino: e il suo profumo di miele, la più inesprimibile dolcezza che i miei sensi attraverso le primavere abbiano attinta, e la sua grazia miracolosa dànno forse in questo momento alla mia memoria luci che nella realtà di quel tempo io non percepivo.
Mi vedo, qual'ero, penetrata di sole, e dimentico che non lo sapevo....
Dopo quel primo grido io avevo fatto
Amore, speranza di miracolo! Potenza in te dormiente, perpetua attesa del suo risveglio!
Amore, a te m'ispiravo, e non alla piccola creatura: all'idea di te,
misteriosamente
Amore, e t'imparai.
Imparai a tendere le mani alla brace infocata all'estremo orizzonte.
Imparai a desiderare, a rinunziare, a prodigarmi, senza chieder compenso mai, senza mai ricever dono che valesse il mio.
Amore, ma tu mi trovavi bella, io lo sapevo.
Tu mi facevi persuasa che ti meritavo.
Ero mai stata donna, fino allora? No, neppure partorendo, neppure nutrendo con il
mio latte mio figlio ero pervenuta a sentir in me la ragione della mia esistenza
e quella del mondo. Il mio bambino
Come una grande rosa al sole la donna s'apriva ora, e il profumo n'andava lontano.
Mettevo nella lettera la mia giornata, ogni sera nella bianca busta l'essenza mia.
La riceveva l'uomo lontano, la respirava.
S'io guardo e carezzo un volto amato, la vita si sospende in noi e intorno a noi.
S'io prendo fra le mie braccia colui
Amato, sei lontano, tutte le tue ore io non posso che figurarmele, per la mia
sete. Guarda, è il mattino, ed io sono nell'orto, con la treccia su le spalle, e
sembro la sorella di mio figlio, ma negli occhi la notte non m'ha lasciato che
orrore. Pur rido al bambino, rientro con lui in casa le braccia colme di fiori e
di verde, e nell'ombra silenziosa ci stringiamo, poi io lo faccio leggere
sillaba per sillaba, gli guido le dita a scrivere. Le ore passano, il piccolo è
stanco, va a
Amore, speranza di miracolo! Potenza in te dormiente, perpetua attesa del tuo risveglio!
Gli ulivi al sole son d'argento e fremono e fervono: grandi azzurre acque si stendono di là dalle rame brunite; e un brivido le sfiora. Il volto del mondo non è mutato da quando io avevo quindici anni e non muterà fra mille: raggiante e silenzioso mi guarda più ch'io non lo guardi; mi guarda, piccola ma sola, viva per poco ma nuova sempre.
Evocavo per l'amore la bella adolescente ch'ero stata. E improvvisa la mia necessità fu di dire, per la prima volta, come quella mia adolescenza era stata uccisa. Sogni di vergine ch'io non ebbi il tempo di sognare, nubilità che non conobbi, mia violata vita! Doveva venire l'amore perchè io comprendessi finalmente. Ma senza onta e senza livore. Nè era per suscitar pietà nell'amato che gli confidavo la feroce tristizia della sorte subita tant'anni innanzi. Non volevo esser compianta, quella sorte non m'aveva distrutta, e non m'impediva ora di denudarmi idealmente, di compiere le vere mie nozze con lo sposo degno di saper tutti i miei secreti....
Lettera nuziale, scritta in una notte di maggio, in una stanza d'albergo
solitaria, e dopo che fu scritta una vertigine
Quando mi rialzai andai alla finestra. Da una linea dolce di colli inselvati di cipressi l'alba sorgeva, argentea: un fiume scorreva verde fra tenui veli. Arno! Arno! Il vento mi passava fresco tra le ciglia, dissipava ogni senso di malore. Ero a Firenze per la prima volta, sola, per un impreveduto caso. Sarei ripartita la dimane, ansiosa di riveder mio figlio. Pur dianzi la morte forse m'aveva rasentata, in quella stanza di locanda, china su un foglio dove, se la morte mi prendeva seco, occhi estranei avrebbero scoperto, irridendo e profanando, tutto ciò ch'io ero stata.... Perchè non tremavo?
Anima mia, tutte le angosce hai conosciute ma non quella di contendere paurosamente con la tua ombra, non quella di sentirti impreparata a divenir ombra.
Sei una cosa sola, che tu viva o che tu muoia. Ad ogni istante, se anche nessun'altra nell'universo ti assista, e nessuna testimonianza ne resti, sei di te stessa sicura e puoi trapassare in pace. Sicura pur se deliri o se erri o se affranta giaci al buio. E sai di non recar con te nel mistero una stilla sola di odio verso la vita.
Solitudine silenziosa nell'ora estrema, prova estrema che forse t'attende, morte che può giungere mentre la vita ti ha chiesto qualche terribile atto e tu lo compi e nessuno fuor che te stessa può intenderti....
Nessuno mi vede, che sappia assolvermi....
Anima, tu sai patire anche questo.
Eri sola e muta quando sorgesti dal nulla, e non hai terrore se nel nulla dovessi rientrare muta e sola. Hai vissuto, sei stata fiamma, lo sei in quest'attimo che può essere il tuo ultimo — e altro non chiedi.
Ma perchè piansi la sera di quello stesso giorno, mentre andavo sotto i grandi alberi lungo il fiume, e mi giungeva suono di musica, non so più se lieta o malinconica, e la folla passava e passava di là da siepi fiorite di rose?
Povero mio petto scosso da singulti silenziosi, ritmo che mi giungeva col vento,
sera che scendeva sulla primavera, pietà immensa, pietà immensa e desolata,
abbandono d'ogni volontaria fierezza, pianto nella sera sulla mia sperduta
miseria, sulla realtà infima del mio solitario anelito,
E ancor oggi, tanto tempo è che il nostro amore è morto, tanto tempo è che tu stesso, Felice, sei morto, sei bianca polvere nel tuo cimitero di montagna, io piango in cuore se penso che non venisti dopo quella mia confessione crudele a cercarmi.
Parve, sì, per un istante, che ti promettessi a me, turbinando nel tuo spirito ammirazione e fede. Ma poi, subito dopo, tacesti. E per mesi restai senza più una tua parola. Restai, atterrita dallo sgomento che in te intuivo, spasimante per la tua impotenza a tradurre in verità di vita l'imagine che di me t'avevo data, di me, di te e dell'amore.
Quel mattino di settembre in cui alfine arrivasti improvviso, e io ti avvolsi in
Da lontano mi avevi trovata grande, ma bisognava che tu mirassi il mio acceso volto ed i miei occhi radianti per sentirti avvinto: così è, così è.
«Perdonami» io mormorai, non quel giorno ma più tardi, la prima volta che ci baciammo, «Perdonami» ripetevo ogni poco, ma tu non sentivi, ebbro di gioia.
Io stessa non sapevo perchè quella parola mi salisse dal profondo. Forse più che a te chiedevo grazia a me.
Anche il tuo viso era chiaro e fiamme erano nei tuoi capelli e bello per la prima
volta trovai l'ardore virile — fervente luce d'estate sembrava vaporare dal tuo
giovine e snello corpo mentre godeva d'abbracciarmi, poi la voluttà distendendo
sul tuo sorriso una gravità mortale
Ti finsi la felicità che non provavo, o semplicemente tacqui? O avevo sul viso il riflesso dell'ebbrezza tua? Forse non mi chiedesti nulla. Mi ringraziavi sommesso e superbo. Come se io ti avessi dato soltanto allora la prova del mio amore, soltanto coll'allacciare alle tue le mie membra.
Vita, a ciascun velo che la mia mano da te distacca tu resti ancor avvolta da un
altro velo, e i miei occhi nelle grandi orbite sotto il grande arco della fronte
si fanno più e più profondi, tentando ogni volta di vedere senza lacerarti che
cosa tu sei, ogni volta inutilmente, vita,
Egli mi ringraziava. Io gli chiedevo perdono. Eravamo giovani, entrambi di natura candida, figli dell'alpe, figli del sogno. Esprimevamo irresistibilmente, ciascuno per sè, la propria nuda verità in quel mormorio quasi inavvertito fra bacio e bacio. Eravamo fanciulli candidi.
Non si parlò di rifare il destino.
C'era sole per i giardini dove camminammo, assorto ciascuno in sè pur tenendoci per mano, prima di lasciarci.
Dolce era la sua mano, dolce il volgersi del suo sguardo azzurro verso il mio. Era nella bionda luce creato fra le piante e le acque per accompagnarmi in quella mia ora con mite silenzio.
Forse non altro era l'amore.
Da sola, da sola prendere il timone della mia sorte!
Assumere, chiara, grave, tutta la coscienza della mia intima libertà, inalienabile libertà.
Da sola giudicarmi, da sola tendere l'orecchio al comando interno, da sola ubbidire.
Anche se l'amore fosse altro, fosse quale l'ho contemplato in me meraviglioso di virtù, c'è qualcosa ch'esso non attinge, non attingerà mai, nodo fondo del mio essere, fibre di sogno, fibre segrete, corde di volontà invisibili fra la mia prima e la mia ultima giornata....
Ascóltati nella tua sostanza, donna, ch'è tua soltanto: fa' di udire quel ch'essa
per sè richiede, tu sola lo puoi, nessuno
Parla tremenda.
Tu l'intendi.
Ricordati.
Ricordati, per tutto il tempo avvenire.
E se nella tua ultima giornata, dopo migliaia e migliaia di giornate inesorabili, tu giacessi esangue in un deserto, invoca la morte se vuoi, ma ancora ricordati d'aver ascoltata la tua legge nell'ora lontana, e non rinnegarla chiudendo gli occhi.
M
entali imagini, lampi d'intimi simboli, parole che
furono visioni, squarci d'orizzonti, richiami, richiami, densità di coscienza,
violenza silenziosa onde l'anima è tratta nel tempo lontano, nei luoghi lontani,
tensione della vita verso ciò che fu, verso la verità che è nelle morte ore
vissute, spasimo, vertigine, strazio e voluttà delle fibre bramose struggendosi
di creare!
Casa solinga presso la pineta, ginestre per gli ondulati declivi verso Roma,
distesa di terreno a ponente coltivata tutta
Se il vento qualche mattino mette un poco di fretta alle nuvole, la donna che passa sotto i pini crede udire il pianto del mare.
Fra i cespugli del Palatino, presso una piccola statua femminile che ha il capo mozzato, un pomeriggio io dico piano, tremante e sicura insieme: «Un'unica norma per vivere vedo ben fissa, la sincerità».
Sincerità.
E tuttavia....
Ma se io parlassi dell'amore che ho provato e che ancora mi resta per il giovine
lontano, non crederebbero tutti ch'io son partita di laggiù per lui? E sarebbe
Tutta la responsabilità dell'atto che ho compiuto è mia.
La primavera trascorre, la ricchezza delle ginestre se ne sta solinga per i declivi, come la splendente saggezza sotto il cielo. Nessuno sale a coglierne una grande corona per recarla alta fra le braccia al proprio rifugio d'ombra.
Com'era il mondo prima del verbo? E come sarà quando il verbo si dissolverà
Perchè quando m'accompagno a qualche uomo ho questo bisogno di scioglierne in limpidità l'animo?
Nodo di tormento oscuro, sonnambolico tedio insensato è nelle parole che odo, stanche, e nulla esse m'insegnano. Ma nello sguardo di chi mi parla, se un poco s'arresta su me, si diffonde lo stupore....
Occhi virili, laghi turbati! Neri o turchini o d'oro, turbati s'io li fisso, pallidi laghi, con i miei sereni!
Manca a tutti costoro una piccola cosa, ch'è forse il segreto della mia forza: la semplicità. Così penso. Il valore della vita sfugge loro. Hanno una blanda o aspra sete d'oblio, non hanno volontà di esistere, di stringere l'esistenza al petto per comunicarle il proprio ardore. C'è caldo nei vostri cuori, come nel mio?
«Rina, — mi scrive Felice — ho paura.»
«Difenditi» io gli rispondo, e il sole per intendermi mentre attraverso le grandi piazze, e le fontane e le case e i passanti mi formano intorno alone — «abbi l'orgoglio d'amarmi meglio d'ogni altro....». Ridico a me stessa le parole che gli mando, come per cercarne il senso più vero.
Spazi d'oro.
E un giorno colgo un accento singolare nella voce d'un amico, d'uno dei pochi che han rispettato, senza giudicare, ciò ch'io ho fatto. M'è accanto per via, mi guarda mormorando: «Una donna. Una donna libera». Piccolo di statura, ha nella persona qualcosa di una pianta che stia svincolandosi da una roccia. Prosegue a parlare, c'è come una timorosa speranza in questa sua voce: «Chi sa, le nostre strade in quali modi si svolgeranno». Ripete: «Strano, strano». Come può trascolorar rapido un viso, come nessun fantastico paese sotto i cieli o sotto i mari! E che cos'è questa inattesa in me necessità di coraggio? Coraggio per l'imminenza della sorte, per ciò che non sai, Rina, ma ch'è decretato? E costui, che così poco ti conosce, afferma che sei libera.
Perchè Felice non è qui? Ora che finalmente mi ama! Perchè non mi possiede maggiormente? Legge egli, che trema, nella propria anima? Che cosa vi vede, di là d'ogni angoscia?
Lo chiamo, lo scrollo: «Dimmi una volta tu la parola sicura, la sentenza serena. Lo puoi, per questo te lo chiedo. La bilancia deve pareggiarsi, tu devi restituirmi in un sol tratto la sostanza di volontà e di fermezza ch'io ti ho dato a poco a poco....».
Febbre e follia di verità, o mio cuore puro, mio cuore d'aurora!
Poter cantare la creatura tutta viva, tutta chiara ch'io era!
Non son più quella, da tanti anni. Ma quella che ero splendeva come un'immortale.
O mio cuore d'aurora!
Affanno sconosciuto, fra voci d'acque e d'uccelli e di bimbi, un giorno a Tivoli, tra il fogliame di perla forato su la pianura e sul lontano lampeggìo di Roma, affanno muto, e stupore frattanto per tutti i sensi, e nel volto dell'uomo che m'è accanto, ombrato di fini rughe, un sorriso ansioso per ciò ch'egli vede negli occhi miei, sgomento e tenerezza indicibili, di cui egli crede e non può penetrare l'essenza, sorrisi e sguardi seguiti come musiche, poi repentino il silenzio, e due mani che si tendono, un lungo momento si stringono.
Lontano il giovine che ho tanto amato soffre. L'amo ancora, l'amo ancora. Il suo
amore è quasi un mio figliolo, un fiore nato dal mio desiderio di vita e di
verità. Ma perchè non ne ho mai parlato a quest'altro uomo col quale pur da mesi
m'accompagno come una piccola sorella, come una trepida incitatrice alla
felicità? Sospetta costui ciò che realmente io sono? Ho taciuto per timidezza,
ho taciuto per pudore, per un istinto di segreto. Ah, Felice! Il nostro amore
mette attorno a me una magnetica persuasione, a nessun vivente mai ne ho detto
sillaba, basta si senta nella mia dolcezza come si sente nel miele il fiore e
nel fiore il sole. Andrea se n'è lasciato avvolgere, ignaro, senza nulla
formulare neppure a sè stesso.... Andrea, ch'è nostro maggiore. L'ho creduto
sereno. La
Nella casa presso la pineta, nella grande stanza a ponente, sul letto dove ha
soffocato tanti gridi per il suo dolore di
Ha risposto Andrea:
«Ho il petto gonfio d'un orgoglio immenso: non mi son mai sentito amare così da una persona, contro tutta sè stessa».
Orgoglio, strazio, rassegnazione, attesa.
«E anch'io vi amo. Ma non moverò un dito per conquistarvi. Voi verrete».
Poi, sommesso, ansante:
«No, no, sia come voi deciderete. Voi non potete sbagliare. È la prima volta che
mi trovo dinanzi a una donna che è forse più grande di me, e non ne ho
umiliazione, ma un senso di dolcezza infinita. Non vi chiedo nulla, forse non
desidero nulla. Vi guardo agire. Ciò che farete sarà bello, anche se non
risponderà alla vostra vera legge. E sopratutto
Felicità, cosa divina: come una divinità cosa dura e severa!
Come lo splendore del sole, come il silenzio d'un filo d'erba, come una lontananza oceanica, divina e terribile cosa a sostenere!
La donna singhiozza.
Non ha un solo istante d'esitazione, di dubbio, d'ombra.
È nel cavo d'una mano.
Sonno ch'io vegliai, giovinezza che contemplai assopirsi lene sul mio petto dopo
una notte di spasimo supremo,
Chi fece il sogno di due amanti che riposassero così, l'uno vegliando su l'altro, dopo aver detto addio al loro amore piangendo?
In qual notte, al fiato di quale immensa passione, di là dal firmamento?
Invisibile, Insaziabile, Volontà, Verità, Forza, qualunque fosse il suo nome,
come l'adorai dopo averla ubbidita! Così quale l'avevo sentita, io medesima ero
stata piena di ferocia e piena di pietà, esecutrice e consolatrice, ebbra e
lucida, specchio e fantasma, e le ore come onde a marea avean cantato
alterne.... Le ore avean mescolato gemiti disperati e sguardi raggianti, orrore
e vittoria, i suoi gridi
Sonno ch'io vegliai. Il mare cantava. Immobile io adoravo e piangevo. Una mia lagrima gli cadde sulla fronte; egli riaperse gli occhi e disse: «È calda come sangue. M'hai segnato per sempre. Ti benedico».
L
'umiltà m'avvolse.
Profonda come le ombre violette nella valle coronata da nubi d'argento.
Io son nata a mezzo agosto in Piemonte. Ma forse in cielo in quel mio primo mattino stavano sospese grandi fantasime bianche, e nella lontana campagna d'Assisi, dove mia madre era passata da sposa, nella chiara conca di paese dove vorrei morire, forse tutta la soavità della terra si vestiva di viola.
Umiltà, senso di donna, veramente senso materno. Cima dell'essere che si è
espresso in tutta la sua potenza e s'è
«Son vostra» scrissi ad Andrea. «Ma fate di non ingannarvi, amatemi nella verità, qualunque sia».
L'ora estiva sfavillava. Come oggi, a nessuna sorella avrei voluto augurare sorte uguale alla mia, che tuttavia con nessuna avrei voluto cambiare.
Poi una sera, l'una accanto all'altro per la prima volta dopo la confessione, egli mi disse: «Ho sentito stanotte che mia madre, se ci fosse ancora, sarebbe contenta». Mi disse: «Sei bella. Intendi? Sei tutta bella». Mi chiese: «Scriverai a lui di questa giornata?». Al mio reciso, un poco rauco: «No, questo non lo riguarda più», le sue piccole pupille brune sorrisero un attimo crudeli.
Ricorda egli? Nel cavo della sua mano
Esser per lui un momento di riposo.... Può il genio averne? La terra rotea. Fra miriadi di punti luminosi il mio sguardo d'amante non può trattenerlo che per un attimo. Esser per i suoi vaganti occhi una minuta scintilla, una stellina senza nome, silenziosa.... Quando sono stata accesa? Quali larghe zone iridescenti mi scopre egli intorno?
Estate, stagione colma, e il mio volto di rosa in preghiera, preghiera di grazie.
Panieri di pesche, fragranze e colori, brusio di piccole faccende al mattino per
Chiara, Letizia, Vittoria. Ed un giorno, sul rovescio d'un dei foglietti dov'io nella notturna pace della pineta gli susurravo delle mie estasi, egli scrisse: «Sibilla». Nome di mistero, che doveva restarmi, nome del mio destino fiero ed altero, nome che non ho mai amato ma che ho portato come un dono periglioso, Sibilla, fiorito inconsapevole di sua durata quando un solo ancora m'ascoltava.
«Tu sei più un'ammiratrice che un'amante della vita» doveva dirmi molt'anni di poi un giovine definitore, ed io stupita assentire.
Ma in quell'estate d'oro uno solo ancora m'ascoltava, uno solo ancora credeva di conoscermi.
In tutto il mondo egli soltanto per
Rondini stridevano in cielo, vette di eucalipti rosseggiavano, fontane nel vento
dilatate c'investivano. Terrazze di caffè, sotterranee trattorie, polvere degli
sterrati oltre mura, ciuffi di castagni sulle cime albane in vista dei minuscoli
laghi, glauchi occhi, e dell'incandescente filo di mare all'orizzonte.... Ero
vestita di mussola bianca ed egli mi ripeteva: «sorridi». Tutti i temi di quello
che fu il nostro canto s'accennarono. Mi mise in mano volumi e ancora volumi.
Analogie singolari mi richiamavano l'infanzia, l'educazione paterna. Per esse
forse con brivido tanto lucido descrivevo la bimba ch'ero stata? Ad una
selvaggia venivo paragonata, una selvaggia che adoperasse con sicuro istinto i
più delicati strumenti della civiltà. Già al principio della nostra
«Sorridi»!
Con il sapore del mio bacio ingenuo e del mio sorriso io gli trasmettevo fede. Trepida attendevo un dono più grande del mio.
«Mia creatura» mi diceva, e pur talora si dissolveva come un bimbo fra le braccia
della madre al buio, oh quanto umano, col terrore e il rancore del bimbo
scampato all'incubo.... Povero, povero caro! A mia volta lo chiamavo per nome,
in spasimoso impeto aderendo a
Gioia, eri come un dipinto che sbocciato dalle mie dita io venerassi.
Lo intese Felice il giorno che ci rivedemmo, e fu l'ultima volta che ci
rivedemmo, il giorno ch'egli mi trovò accanto al letto di Andrea ed il
pomeriggio era mite; Andrea posava convalescente fra i bianchi cuscini dopo
settimane di malattia. La malattia s'era abbattuta pesante nella stanza del mio
secondo battesimo, m'aveva dato in balìa totale la carne e i nervi del mio
amico, forse non per altro era
Vespero di settembre, in cui non vissi il mio dolore! Quegli che s'allontanava
disperato e persuaso non fu seguito neppure dal mio pensiero silenzioso.
M'afferrò il gorgo d'un'altra sofferenza, lo stupore per l'improvviso tormento
fosco di colui che fra i guanciali pareva voler inabissarsi, nascondeva la
fronte, mi mostrava soltanto le spalle e le mani contratte. Morbo fin allora
sconosciuto, che respirai, atroce gelosia del passato, fame di spettri! E
rantolava: «Egli è bello, devi averlo amato più di me....». Ah uomo, uomo!
Venivo da un limbo dove i moti irriflessi dell'istinto m'avevan per tanta parte
della mia giovinezza colmata di disgusto; ora credendomi balzata nella sfera dei
viventi, nel dominio d'un dei pochi che sanno o cercan di sapere perchè son
Ali di ciclami, ali di conchiglie. Foreste dall'ombra bionda, dune lunari. In un giorno di tempesta, senza traccia in cielo di colore, scorsi d'improvviso il più vago iride in un breve lembo di schiuma lasciato da un'onda sulla rena. Specchio istantaneo del celato sole, evanescente imagine dell'invisibile.
Brage infuocate all'estremo orizzonte, in tramonti d'ogni stagione, per le mie mani, amore!
E il fondo della stanza s'irradia, la
Un ponte.
«Per te» dicevo all'effigie di mio figlio. Ma non era per lui soltanto e già mormoravo: «Se egli non m'intenderà, questo che faccio non sarà tuttavia vano».
Vedo quel tempo, di là dal ponte. Tutto ciò che non scrivevo: l'alito autunnale,
l'affiorar dei colchici, il deserto a losanghe staccionate, le agnella che
nascevano fra le greggi nomadi. Certe ore sospese, quasi riverse nello spazio,
la terra invadendo il cielo. Il ritmo che sovrasta, me inconsapevole, tutte le
mie energie: che, certo, prometteva di palesarmisi, fosse pur fra dieci anni,
prometteva di non smarrirsi se anche non gli
S
ette anni. Un albero di folto fogliame.
Le foglie, giorni, ore, attimi, han bevuta la luce, tutta, si son lasciate, tutte, penetrar dall'aria. Nulla che non sia stato in pienezza sentito e consumato.
Che cos'è la nostalgia? Richiamo desolato di emozioni interrotte, stroncate, di
cose intravedute e non possedute, di luoghi e di età a cui non potemmo darci
interi. Io non ho nostalgia della mia perfetta infanzia, l'ho della mia
adolescenza trafugatami. I mesi in cui allevai il mio bimbo, se in mente li
rivivo, appassionati
Non scagliar pietre, giovinezza senza peccato!
Libero, non più tremante, egli conosceva per la prima volta in vita il calmo senso del possesso. Una donna era sua, gli apparteneva, si consumava per essergli ancor più in balìa. Una volta mi spiegò: «Ti amo, vedi, come da noi si ama il proprio pezzo di terra».
Vi son migliaia di foglietti che io non voglio rileggere, d'allora, inchiostri
impalliditi, matite svanienti, vi sono, in pacchi alla rinfusa nel mio fardello
d'errabonda, migliaia di note ch'io prendevo null'altro che per necessità di
riconoscermi,
Per il riposo che mai conobbi durante una notte intera, durante un'ora diurna intera.
Ventilavano senza pietà per me tutte le mie energie a ristorar la fronte
dell'uomo che volevo benedicesse così
Dio.
No, non lo nominavo.
Ma — una catena di cuspidi è la vita.
In monti s'elevano i costruttivi giorni che il dolore sfidarono, il dolore laggiù nel piano, il dolore, mare, oceano, acqua stagnante o tempestosa.
Cime bianche, vertici di lunghi anni, ridenti vertici nel sole!
Non nominavo in quel tempo Iddio.
Ma — rinuncia ad ogni tangibile giustizia: al mio figlio stesso; aspirazione ad
uscir da me, da quella mia così atrocemente conquistata coscienza dalla forma di
vita quasi santa che ancor mi pareva troppo facile, vile; l'avvenire, in
millenni, che in certi attimi ineffabilmente credevo d'aver già sorvolato:
moltiplicazione, ideale estensione di brividi nel tempo; chi, chi musicava di
note
Religioso culmine — ma non sapevo di toccarlo.
Pur commisi allora il peccato di cui mi sono confessata, il solo forse concreto peccato della mia vita. Andrea m'indusse e non m'opposi. Asportò egli dal mio libro le pagine dove io diceva il mio amore per Felice. Ed io lasciai amputare così quella che voleva, che gridava esser opera di verità. Come un altro qualunque dei tagli operati sul manoscritto, come su un qualunque lavoro letterario. Uncinò i margini con parole sue. Dov'era la piccola gagliarda che si chiamava Rina, che da sola dopo tanta tribolata umiliazione aveva un giorno intrepidamente agito e s'era assolta? Ribattezzata, ripiantata. L'uomo ha un così ingenuo istinto di coltivatore!
E l'altra persona offesa? Che cosa avrebbe detto Felice alla comparsa del libro?
Lagrime che più non piango, creature perdute, selve oscure immobili nel tempo....
Parole da dire, anima mia. Parole che dici, quando il minuto ti coglie, fra miriadi, e poi senti che la morte non avrebbe potuto chiuderti la bocca senza che tu le avessi dette.
Fra la morte e la sorte, misterioso patto! T'amano le due sorelle in ugual misura.
Ali intorno alla mia fronte, meditabondo respiro, forza, elemento.
Campi lavorati dalla mia passione, e acque, e rupi, certezze, sgomenti, inni.
Visioni che diventan parole.
Accostamenti, come nella vita, impresentibili.
Non lesse il mio libro Felice.
Morì chiamandomi ancora Rina.
Non s'uccise, morì, in due giorni, dopo due anni dal nostro distacco, per non so qual male fulmineo, senza nessuno accanto, forse senza credere di morire.
M'ha chiamata? Non l'ho sentito, non l'ho riveduto. M'ha detto la cosa un mattino Andrea, adagio. E adagio ho rantolato no, no, che non doveva esser vero.
No al destino, Rina?
Ma io avevo differito, differito.... Per non dar dolore a quest'altr'uomo non
avevo mai più scritto all'abbandonato, m'era mancata la forza di andar in fondo
alla mia speranza, di creare, di alitare una fraternità umorosa dopo l'amore,
dopo
E non sono io qui, e tanto tempo è, Felice, che sei bianca polvere nel tuo cimitero di montagna, non sono io qui, brivido ancora, pensiero di te ancora?
Altri ho amato, dopo quegli stesso per cui t'ho sacrificato, altri più
saldamente, con più fiera disperazione. Ma per nessuno forse avrò mai
quest'accento che forse era tuo, cuore elegiaco, cuore che prima degli altri
tremasti ti smarristi ascoltandomi. Quel mattino che ti seppi
Lontananze verdi azzurre corse d'ombre d'argento, vi furono occhi che non vi vedranno più.
Oro levante dal mare, cornici di ghiaccio verso sera incandescenti, solchi di voli: in quello sguardo mai più.
Si sarebbero stancate le sue pupille? Adolescenti eterne son le apparenze.
O la beltà della terra mai si corrompe per ciò soltanto, che non tutti gli umani specchi si appannano, che taluno si frange quand'è più terso?
Còlte nel sonno, còlte in battaglia, ignare o ribelli o pronte, di giovinezze tronche son soffusi gli orizzonti, di giovinezze che non maturarono, non si sfecero, senza figli senza opere, e i tramonti per ciò solo forse nei cieli han tutti sempre magie d'aurore.
Un filo di canto, un filo di canto che mi dica di essenze senza nome, di essenze solamente, senza spiegazione!
L
e stagioni si seguono, ritornano identiche, c'è
qualcosa che cresce, qualcosa con leggi che paion diverse, oscure — e quanto
vivrà se intorno ebbe, mentre si formava, tanta mutabilità di cieli?
Fibre di donna sanno la lentezza solitaria del tempo che inturgida un grembo, ma agli innumerevoli attimi ritmati dal duplice cuore c'è un termine fisso. Chi invece potrà dirmi se quest'opera mia sarà compiuta fra un anno o fra altri dieci, essa che dovrà poi intangibile restare, opera mia, polvere stellare?
E la traversa il vento, odor di pane caldo, odor di muricciuoli muscosi, odor di trucioli sotto la pialla. L'investe, essa sospesa come veramente disgregati atomi, il vento di volontà strane.
Incominciata credendo ugualmente lontane quelle che invece rombano rombano, che folgorando lacerano l'aria. Creazione incominciata come si prega, attimo brividente della concezione, come per il figlio, e tutto il resto è più soltanto travaglio, travagliata sorte.
Morte e vita folgorano.
Tocco del sole al rintocco di mezzogiorno sui muri sulle altane sugli orti delle case tante che a mezzo il giorno m'ebbero. Vento di sera su le palpebre, sulle ciglia degli occhi che han pianto dianzi, vento dolce.
Travaglio, tormento, e fresche solitarie perle. Case ferme, nuvole fluenti.
Una pagina di bravura: scritta come fu vissuta: con dura volontà, e così poco per me! Ch'io ho in cuore tutt'altro, che par trabocchi e non posso ancora assolvere.
Compatta, stagliata bravura.
Bimba, mi separavo nettamente dal gioco per il còmpito, come un corpo stillante
dall'onda s'avvolge nella rena. Poi fra gli operai di mio padre, centinaia,
nell'ansito enorme dei forni — è rimasto nel mio sguardo un poco della vampa e
dell'incandescenza della materia fusa? — mi sentivo innestata pulsante in
quell'attività, a gara quasi con il cervello di chi la dirigeva e con i muscoli
degli altri. Ho allineato cifre, diritta ho sorvegliato le opere manuali, ho
portato per ischerzo dei pesi sulle braccia che qualche anno dopo reggevano il
mio piccino. Figlia di padroni. Tanta forza da spendere, tanta
Compattezza, assai tempo più tardi, di povere necessità, quasi inavvertite aggiunte esterne al dolore fedele: la misura del soldo, il cibo preparato con le mie mani, la vana tentazione d'un frutto o d'un poco di profumo: il lavoro per quel soldo, fatica greve di spogliar giornali di sfogliar riviste, occhi su bozze d'estranei, pennino che traduce volumi e volumi, stolidità, mesi, anni....
Le cime delle mie dita son come petali tuttavia.
Apologia di Socrate, scoperta una sera, compenso d'infinite biografie cenciose!
Vidi passare carovane. Continuano il loro andare, certo.
Donne in sale d'ospedale mi porsero i loro piccoli, migliaia di donne, poveri lineamenti duri, aride labbra. In ore mattutine ch'erano talune terse e fragranti miseramente migliaia di piccole membra nude mi si mostrarono, e le loro condanne.
Vidi luridi sacchi d'indigenza, nei fondi e nei sobborghi, ch'erano stati figli di popolo, avevano indifferentemente lavorato e rubato, ora fuorusciti di galera impassibili s'ammucchiavano.
Intorno alla città lo spazio s'apriva interminabile per la fuga. Grandi ombre al
suolo. Suolo dell'Agro Romano, erano gli intenti cirri nel cielo d'oro. Tutte le
forme apparivano per stamparsi così brune a terra, nomadi bassorilievi. E il
bruno
Fu un'estate, od un inverno, non so. Vidi quella maestà deserta avvallarsi come certi sguardi: e insospettate, nei campi d'ombra dove l'umano pareva remoto, bruire vite. Cose di creta, ancora o di già? M'interrogavano: «Donde vieni? Come sei bianca!».
(Dolore, dolore d'oggi e di sempre, non ti vinco, sei presente. Le imagini che richiamo nulla tolgono nè aggiungono al sapore di terra che ho in bocca. Ma, nata signora, e guerriera, scrivo, con la stessa mano che leggera ha portato ieri un tralcio di rose al giovine ferito che m'ignora. L'ha baciata egli con senso strano, e bello era il tralcio fra quel sommesso stupore e il mio sorriso di lontano).
«Donde vieni?»
Indicai Roma, come un giardino di
Una singhiozzante letizia, un attimo, può creare una rude legge di anni.
Mio divenne tutto il terreno di chi una volta aveva colonizzato il mondo: più mio che se a cavallo a galoppo lo percorressi sconfinato dall'adolescenza: dominio aureolato; e accanto a me videro giungere quanti con Andrea trascinai; dai villaggi di paglia e di mota e dalle imprevedute caverne, dubbiosi s'affacciarono all'arrivo della nuova gente, dei maestri, dei libri: il suolo più e più s'avvallava, verso mare, verso monte, o tutto polvere o tutto acquitrino, luccicava febbrile, mi risollevava in viso grandi occhi di rugiada, certe albe che un'improvvisa melodia chiomata di pini s'accordava al volo alto d'un'allodola.
Risero e piansero i più vecchi imparando
Terree dita tremanti che apprendevano una ormai vana per loro scienza, come una musica soltanto ormai.
E quivi era la giustizia: nella realtà e nella tenuità di quella gioia, loro e mia.
Parvi arruolata per sempre fra coloro ch'han l'esistenza riempiuta così, fondano scuole ed ospizi, si scambiano patetiche visite, fidano in un ordinato avvenire sociale.
Un fantasma sopraggiunge, ha il passo scalzo, ha un caro gesto.
Francesco, santo della mia valle.
Se ancora questa mente lo riceve, vadano ancora sempre trascurate le bige ironie.
Come se posta io alla sua sinistra avesse egli, quando chi sa, cancellato le braccia in modo di croce, messo la mano diritta sul mio capo, e dettomi con dolce riso, come al suo Bernardo: «andando e stando».
Andando e stando, amore.
Gioia di dare, gioia di ricevere, senza saper nulla del domani, senza nulla attendere.
Dov'era sostanza grigia di roccia, uguale e tutta bruciante, ecco freschi rivoli, colorati giochi.
Con Francesco si son rese sensibili le primavere d'Italia. Le mura si son dipinte. Per le lande s'è cantato. Oh Siena, oh Ravenna!
Mistica libertà, sapienza spaziale della mia terra, realtà insolvibile ed universa.
Andando e stando.
Fu in quel tempo che il mio povero libro ramingò per il mondo.
E c'è una zona torbida — ho detto che lo difendevo? — scisso da me il mio valore, e la cifra oscura dibattuta, aspramente: io senza quasi più respiro, che pur m'ero spogliata per immergermi nuova nelle acque e nei venti. Zona torbida, che chiamarono quasi gloriosa, zona amara, sapore ingrato.
Le donne, quelle che scrivevano, perchè non comprendevano?
Non ho dimenticato. Ma siano perdonate. Piansi su loro.
Dove giungeva senza data, ivi soltanto viveva.
Posterità. Pagine lette con certezza di spirito, messaggio di lontano, nome non
importa se mai prima udito, parola che s'inserisce per sempre. Io son forse già
Passavano uomini fieri, uomini scaltri, uomini semplici.
Mi consideravano in silenzio nella mia inaudita fedeltà all'amico povero e deforme.
Uno solo, una volta — aveva una voce che vibrava intensa e bellissima,
nessun'altra sentii mai così sospesa nell'aria
Dov'è, com'è la sua voce ancora, che non l'ho mai più udita? Che cos'è questa lucidità del mio ricordo, questa brezza ch'io se voglio sommuovo a tanta distanza di tempo, parole che dinanzi a me sola, allora, s'alzarono nella sera, e chi le pronunciò, se dovrà qui incontrarle, non saprà forse più che furon sue?
Carovane, tante.
Lunghe righe equivalenti.
Vanno, e non è vero che la terra rotea, tutto è rettilineo, non c'è vortice,
tutto è separato sebben s'equivalga, carovane, tante, scalpiccìo sordo,
magnetismo pesante, e soltanto a notte, quando s'accendono le fiaccole nel
momentaneo
Com'era intento lo sguardo, palpebre abbassate, di Psiche il giorno che l'interrogai.
Avevo navigato per molte ore con l'ansia unica di rivederla. Meravigliando in me stessa che mi soccorresse il ricordo di un marmo in quel ritorno ch'io facevo da paesi distrutti, gli occhi pesi di tanto spavento altrui, esausta in ogni membra e nel cuore.
La nave riportandomi traeva per sempre con me a riva frantumi di visione: una
strada di ferro e di selce smossa,
Palpebre abbassate, lucente seno, Psiche ascoltò.
Le ero dinanzi, e l'ansia permaneva. Le ero dinanzi come cosa ivi spinta da una lontananza maggiore di quella che supponessi. Già la nave andavo obliando e le terre sconvolte — e l'ansia cresceva. Una passione, una desolazione più segrete. Sentivo tornare sui mari la calma, le rovine sui lidi già coprirsi di verdura, e nuovi flagelli prepararsi, guerre divampare fra l'umana gente provvisoria....
Psiche, Psiche!
Quel suo torso, spezzato e perfetto quale l'avevo agognato, splendeva. Sommersa ogni memoria di mito. Ma forma di consapevolezza ineffabile, ecco la statua ricreava per me l'atmosfera di concentrato spasimo ond'era sorta.
Così mi rispondeva.
Una invisibile polla di viva acqua ci trasmutava l'una nell'altra. Ella ritornò per qualche attimo materia scalpellata, alitata: io mi sentii composta in linee sovrane, virtù e genio espressi musicalmente, fuor della storia e d'ogni speranza...
(Debbo morire. Finchè avessi saputo portar in me sola il ricordo di quell'istante sarei stata immortale. La divinità ci tocca, non esita ad entrare in noi, perchè conosce che non possiamo non staccarci da ciò che di più grande ci fu donato. Peso insostenibile di ciò che fu più lieve e ci rapì ogni gravame, peso da gettare poi che debbo morire, anima, rivelata bellezza!).
H
o io timore? Non l'ebbi allora.
Invoco, che mi serbino il loro bene, le donne dolci e pure che ho sulla terra: il
volto roseo accorato della mia sorella, nata ultima di mia madre e di mio padre,
che ha bimbe ora uguali a quella ch'ell'era, a quella che ancora in certi sonni
buoni riveggo e vezzeggio, cara tenerezza: il volto d'un'amica giovinetta, il
quale fa quando m'appare che armonia ritorni, anche nell'ore più aspre, tanto è
immagine ed essenza di musa, tanto io credo ch'ella intenda e sollevi la vita:
Cominciò puerilmente come cominciava la primavera: voci d'alati sul poggio mi destavano all'alba, vibravano nuove; mai le mutazioni nel cielo di marzo m'avevan tanto commossa; ingenua e indocile una forza nell'aria pareva ad ogni ora pregarmi e nascondersi.
La favola era bionda. Un color caldo si moveva su tutte le cose. Qualcuno giungendo ogni giorno mi riempiva di fiori il grembo, diceva: «vieni», mi conduceva correndo all'argine vivo e silenzioso del fiume. Cantava. Due punti d'oro negli occhi, una piega violenta e luminosa nei capelli.
Innamoramento, voce dal lento volo!
Baci sulle mie mani, lunghi. E le sue dita immerse nelle mie trecce, profonde come vento nelle radici.
Più vicino! Più vicino!
Trasfigurato è il mondo. Regnano le silfidi. Mi preme così la bocca con la bocca, in questo brivido vasto d'innocenza, oh luci d'oro, una che è donna come me, e fanciulla.
Una.
Iddio non mi mise in petto timore.
Iddio ha sempre voluto nel suo terribile cuore chiamarmi leale.
Iddio, che unico sopporta i miei pianti, i miei gridi laceranti, la miseria e la
devastazione che sul mio viso talora balenano
La mia voce non vale — chè non posso accordarla su cembali risonanti su cembali
squillanti nè su arpa o cetra — ad attestare che per ogni mio ardimento ebbi
tanta gloria di felicità quant'ebbi di pena. Vale invece questo stesso viso,
quand'è asciutto di lagrime, il mio aspetto, ch'io conobbi il sole e ne fui
penetrata e seppi le grandi contentezze, vale questo liscio di rosa sotto l'ala
d'argento dei densi capelli. Un piacere forte, d'alta prateria, prova chi mi
vede. Gli anni lontani e ieri ancora, tacitamente, m'hanno smaltata. Per questo
che su me riluce, potere mattutino, come su una qualunque genzianella
pulviscolata di ghiaccio,
«Tu non puoi sapere» diceva la creatura dagli occhi d'oro.
Ella supponeva a sè stessa un maschio cuore; e foggiata s'era veramente a strana
ambiguità, sul nativo indizio forse del timbro di voce, forse della tagliente
sagoma. S'era foggiata ed agiva. Con volontà d'uomo o d'angelo ribelle, con
forza quasi di dannato — ma io, nessuno potrà mai giudicare se più demente o più
veggente, ero toccata invece da ciò che in lei permaneva d'identico alla mia
sostanza. Tentavo persuaderla dal mio canto: «Tu non sai». «Non sai quanto il
tuo amore sia diverso, per quanto tu faccia, dall'amore che gli uomini possono
darmi. Com'è leggera la tua carezza! Non mi penetri ma mi accosti — come
Ci movevamo in una immensa campana di vetro abbagliante, la vicendevole iniziazione ci dava chiari occhi eroici.
Imparai, amore, che il tuo mistero non è nella legge che perpetua le speci.
Più alto, indifferente, estatico.
Io bacio una creatura perchè ho gioia di saperla bella sotto il cielo, perchè mi
E quella era il simbolo della fanciullezza e della corsa e della rapitrice eco.
Come una in fasce può far ch'io l'adori per le sue aperte manine, meravigliate meraviglie, o una presso che centenaria, sola e lontana, che non sa e non chiede.
Ebbi orrore della viltà mentale d'ogni vivente intorno. E la sentii insieme fatale, piansi, avevo gli anni di chi pianse nell'orto di Getsemani, la passione gravò, l'oro della fiaba si sfrangiò in porpora.
Sangue, angoscia gorgogliante, sangue, chi mi salverà?
E le vene pesanti, brucianti, invocan sollievo.
Nessuna cosa più santa di una nudità che arde e rabbrividisce e si tende come il manto delle stagioni.
Fammi morire!
Fammi morire, chiunque tu sia, è l'ora che la mia carne non può oltre sopportare,
l'ora che si preparava ma che non attendevo — fermentano fra macerie i cadaveri,
una statua risplende per faro — fammi morire, chiunque tu sia, l'indicibile è
questa necessità che tu mi ricopra, oh calore, oh tremore, vicino, più vicino!
Hai ragione anche se t'inganni, ha ragione chiunque, sia greve o lieve la sua
mano, cogliendomi in quest'ora mi sottometta e mi consoli, nudità contro nudità,
brivido sterile e vasto, ch'è l'ora, i sensi finalmente son disciolti, godono
essi e spasimano non più asserviti
Più su d'ogni rupe, ali sospese a saluto.
Oblio e follia si nomano dov'è la terra e il suo travaglio: dov'io stessa
m'affanno, figlia di donna, e che questi nati lucidamente s'ammettano, invano, e
mi stempro in vane lacrime, e le valli e i laghi non si riempiono tuttavia, mi
stendo e m'avvinghio crudelmente sino a desiderare di mai più vedere a sera gli
astri sereni, sino a strider di ribrezzo se una messe per me, di gigli mi piova
intorno alle carni, gelida messe ch'era alta nel sole per la gioia di tutti e di
nessuno. Oblio e follia in terra. Dov'è crepitìo di secca legna fra alari, dove
son foreste e
Terra, come sei bella! Le sere che mi appari impenetrabile, con la tua scia
infinitamente delicata e nello stesso istante infinitamente violenta, parola
senza sillabe, le sere che il tuo colore ottenebrandosi in valli e laghi irride,
oh squisitamente,
Baci vuole la terra, plaga disamata.
Canti vuole di felice lievità e di forte carità.
Dioniso! Dioniso!
M
a — siamo poveri.
La forma grande d'un cipresso che s'alza da una riva d'acqua e taglia il monte a mezzo già brunito e a mezzo ancor rosato, svettando nell'aperto del cielo, non vale.
Siamo poveri, siamo vili, ed è fatale.
La passione purpurea si striò livida.
Divenimmo tre cose sciagurate, io e la fanciulla maschia e l'uomo che per anni ed anni m'aveva dato la dolcezza di farlo beato.
Tre pietà, tre incomprensioni.
Com'era la mia voce quando gridavo ad Andrea: «Spezzami, gettami via!»?
Quando gridavo: «Chiudi le finestre, non voglio vedere le stelle!».
Essi si guardavano talora con un guizzo di complicità; si odiavano ma si trovavano complici dinanzi al mio forsennato cuore.
Costernati sentivano la realtà del mio doppio delirio del mio doppio strazio: la potenza dell'animo che se ne avvolgeva; poi un qualche aspetto del mio viso, un lineamento, nulla, un'attesa indicibile delle vene, li riconduceva a negare — ah l'orrore per me di quell'identità d'accento! «No, dicevano, non puoi amarci entrambi, è un mostruoso assurdo, sei da tenere nel cavo d'una mano»....
Andrea!
M'intenda, se la mia voce gli giunge.
Tutto in ombra egli era.
Con le spalle curve, che parevano attestare che tutto lo sforzo avevano già fatto ond'erano capaci.
La morte gli vidi guardare e repugnare, la forza astrale, il segno silenzioso.
Ciò solo che fa grande il fatto d'esser liberi: la più inaudita libertà sente l'arco del cielo per confine, qualcosa ancora sopra di sè da adorare, segno silenzioso.
Ch'è in ogni aroma e isola gli istanti di vita intera.
Isolamento, stupore, incanto di tutti gli istanti mortali rapidi eterni.
Ricordavo la crudeltà ardente con cui i suoi occhi avevano fissato lo spazio
quando avevo detto di Felice che gli ritoglievo la mia vita. E non s'erano
dunque mai quelle stesse pupille posate su qualche fiorato alberello in un
febbraio precoce o su qualche roseto sperduto nella
Un riso anche labile mi pullulava segreto dall'anima, desolato più d'ogni singhiozzo, mi staccava mi lontanava, velato spiritato riso, mentre i due che amavo si contendevano quello che pareva non dovesse più mai stagnare, mio impudico pianto.
M'amavano essi?
Non alla mia stregua. Lo affermo giustizia facendomi come sul patibolo.
E m'hanno persa perchè innanzi io li perdetti. Entrambi.
Sulla terra che è tanto bella, tanto che anche i sepolcri vi s'innalzano con spiragli di luce, il mio lamento si esalava senza speranza:
«Vogliatemi bene: Vi faccio soffrire, lo so. Come una cosa vissuta, una cosa
annosa. Che vi ha preceduti, che vi
Mi risollevavo. Non era vero, non ero stanca.
Ma poter strozzare il male che mi serra la gola! Prima che s'intenebrino le cose.
Credevamo, nevvero? nel bene.
In sogno la notte parlavo a mia madre. Concitata, ma la tenerezza mi fondeva il cuore. Ah, la sua assorta rigidità!
«Mamma, sei mai stata china sur un letto, con la tua guancia contro una guancia di bimbo o di uomo, finchè il bimbo o l'uomo siasi addormentato con calmo respiro?».
Fiumane limacciose, salci riversi, vento giallastro. C'è una bontà nascosta nelle vene del mondo?
Ora sapevo. E quelli che avevo amati roventemente per un mistero di fede, creduti sopra ogni altra virilità ed ogni altra fanciullezza ricchi di germi, guardati avidi se mai qualche nuovo mito da loro si staccasse celeste, ora vedevo, ora sapevo, erano non dagli altri ma da me diversi, ora vedevo, ora sapevo.
Da me diversi. Dalla mia sostanza ingenua. Dalla mia trasparenza. Che li aveva
attratti. Che ancora li sommoveva nel suo rutilamento miracoloso. Non potevano
odiarmi, non potevano uccidermi. Li soverchiavo, tentavano arginare la piena
delle certezze mie, nate con me, scatenando quello che avevano in sè stessi di
più remotamente oscuro, invano. E innumerevoli volte, in quel seguito allucinato
di giorni e di notti, colme dell'anima mia del mio balbettìo del mio
Poi i lineamenti si distendevano, taceva ogni voce. Guancia contro guancia, materno ritrovamento, protezione sul misericordioso sonno.
Così stanno, per sempre: composti: un lene soffio accorato, mio, su essi dormienti o pellegrini.
Così in conche d'ulivi i venti posano e ali chetamente radon le fronde.
Così quella ch'io fui per Andrea e quella che fui per la donna di cui non dico il nome, rimane per sempre, cosa bianca, grumo di pietà, è là per sempre, salva dalle furie ella che s'era alle furie abbandonata bianca, è là, io la vedo ora, preludiante cosa, l'aria attorno è sommessa e dolce.
L'hanno premuta, carne di cerbiatta. Le hanno colto in biondi sentieri more asprigne. L'hanno respinta. Lungi, coi capelli madidi sulle tempie, l'una è andata per selve rosseggianti al tramonto chiamandola chiamandola, s'è gettata a terra, ha creduto sentir emergere dal pinastro tappeto la forma adorata, per sempre lungi. L'altro, oh l'altro, nella sua scorza più chiuso....
Selve, selve incenerite su cime d'isole: tutti quanti gli stravolti aspetti della bellezza: risa di dementi, canti di forzati: selvaggia vita, irreduttibile ferocia, vita che morde che strangola, vita dei flutti e dei vulcani, nasconditrice di giustizia!
Nascosto, remoto ogni perchè.
Perchè mio figlio, ch'era mio nel tempo lontano come nessun figlio mai fu di madre, perchè mi venne tolto, non morto ma con tutte le sue salde ossa, con i suoi occhi aperti, e la bocca mutata che mi rinnega, che dice che più non mi vuole?
E come per lui, che non cerco più, ch'è più solo ricordo di strazio nelle fibre, morbo nelle mie scafate fibre quando di tutt'altro esse soffrono, così per l'uomo che non volle tenermi sorella, che mi respinse dalla sua ombra.
Rispondono forze che non hanno nomi, voci d'immenso volume, alte, ma
Ma rispondono. Sono.
Le odo, più non posso chiedere.
L'anima che s'è avventurata e perduta, la mia, la sollevano la sprofondano. Quasi aroma anch'ella. Centro, raggio, non so, non sanno.
O forse polline.
Dove, dove mi poserò?
E la volontà infocata che in me chiamai d'amore a questo tendeva? Il balzo fu maggior della mira. Non ci son nomi più.
Era amore. Con quanto tremore di tocco! Con quanto furore di dono!
Chi ora feconderò?
Gravi di sole eterno son gli aromi.
U
na notte, a Cogne, bianca come le nevi delle montagne
mirate il giorno innanzi.
Fra le strette pareti di legno eco di torrenti.
Profetica notte.
Anni da venire, misteriosi, con movenze libere, con intensi riposi. Prossimi o
lontanissimi da venire, però miei. Non il desiderio li suscitava, ma,
stranamente, quel vuoto insonne, quella lenta attesa d'alba quali fantasmi
chiedenti d'incidersi nella memoria. Le cime di ghiaccio mirate nel sole, e il
cammino per giungervi,
Anni da venire. Segnati inverosimilmente da ritornelli di risa, risa schiette come certe galoppate di carminio traverso la nuvolaglia nei cieli marini, improvvise. Tanti paesi, tanti volti. Di bimbi, di vecchi, di amanti, di stanchi. E viole innumerevoli ai miei piedi, per quando nessuno mi vedrà, per me. «Sarai perfetta ogni volta che vorrai esserlo per te sola». Anima che Eraclito chiamava umida! Chi le darà dunque il tono che la morte le ha ricusato? La solitudine con tutti i suoi fragranti capelli?
Ah dolce, dolce levarsi, muovere incontro al tripudio dei prati di smalto, dolce su la fronte la fascia raggiante del mattino, in alto!
Ah forte, forte l'andar della Dora, verde schiumante tra ripe di rocce! E in alto il suo lago, il bel Combal, per un poco ne arresta il vergine tumulto e con cheto mistero l'assorbe, le insegna il sapore profondo della terra.
Ah puro, puro nella sera l'erto altare di ghiaccio, e le sette stelle in alto!
Puro d'odio il mio cuore.
E, senza più veli, l'idea dell'umano dolore.
Credetti, come già dinanzi al torso di Psiche, di poter contemplarla immota.
Parlo di me come d'una senza nome nè terra.
Non ho memoria di me, ne ho la visione.
Valgo se vi sollevo come fossi un atto silenzioso, una silenziosa ora densa che trabocca carezze spasimose, e la stretta vi lascia stupore e forza, gli spazi s'incupiscono scintillano, tacita alata la persuasione li corre.
Ridisceso il corso della verde fiumana, cui giacevano a lato tanti tronchi di
betulle come nudi di ninfe snelle,
Le nubi rimarono tra loro, serrate.
Sul mio volto il colore perdette lume.
Quanta libidine di bruttura, ebete libidine, giù fra la gente nel piano! Non sanno imaginare raggi, non sanno intendere le realtà altere, le vaste sincere innocenze, pestano pestano il suolo, sentono unicamente quella poca polvere cui interi aderiscono.
Qualcosa di definitivo accadde, se ben sordamente.
Il mondo da cui già un tempo m'ero staccata e che poi m'aveva, con obliqui lenti modi, ritessuto intorno le sue parvenze protettrici, ora d'improvviso mormorava vedendomi novamente transfuga, mormorava e s'indignava.
Ma questa volta il patto di libertà era senza remissione. Non sarei mai più
rientrata
Se il giudizio del mondo più non ti attinge, anima, che cos'è quest'anelito ancora d'intendere d'intendere e questa speranza pur sempre d'imbatterti in autorità che tu possa venerare?
Vuoi continuare a credere negli individui, e sì, esistono, ma pur i migliori, i
Dicono i grandi viandanti di riconoscere paesi a guardarne il cielo.
E quando d'improvviso tu ritrovi per le strade della vita gli uomini che il tuo
Donna di fede.
Più d'uno fu verso te — e verso sè? — spietato. Ti disse: «Va' con le tue gambe, cammina, tu sai andar sola, va'». Più d'uno che aveva avuto sorrisi incantati al tocco della tua voce, e la gioia era stata bella nei vostri sguardi, la sola cosa che ancor esistesse di là dal nodo unico di fuoco.
«Parti. Lavora».
Il viatico, sì. Quello che non si dà alle altre. Il saluto.
Vi fu chi ti coperse la fronte, su la
Ma tu stessa un inverno in una città di nebbia nera — il freddo bussando metteva intorno ai tuoi occhi ombre mai ancor viste — non ti sgomentasti dinanzi allo specchio? La vita che non avevi temuto trasformava il tuo viso, ch'era stato di rosa, in pietra e vi lasciava da grande artefice un brivido d'eternità.
Gridasti verso chi peccava di paura. Col petto che ti doleva gridasti che non eri
tu la tradita, ma che tradito era l'amore. Sapevi la silenziosa ed impotente
realtà di chi fuggiva quel tuo aspetto di volontà e di luce e quel tuo
insostenibile sguardo. L'uno tornava alle femmine che con rosse labbra dicono
motti turpi — non ti mostrò scritte le parole di una, e ti parve d'assistere
costretta? e pure vi circondavano statue,
Doni ch'io non ebbi, sagacia, astuzia, abilità! Virtù sottili che mi mancate! Talora giungo sino a desiderarvi, a scrutare se mai vi veda inerti nella mia sostanza, se mai con la forza stessa delle mie passioni che non voglion rassegnarsi io vi possa suscitare al loro soccorso, per la loro vittoria. Ingenuità suprema, o mia anima esule da non sai quali più ariosi lidi, anima che hai ali ma non armi, o destinata a librarti sopra le tue sconfitte!
Nessuno ha mai sacrificato nulla per me.
Piccola che si chiamava Rina. Come se io avessi ancora il suo volto e il suo puro
presentimento d'adolescente, libera
Forse. A chi mi chiedeva, acre e misero, se dunque volevo il suo sangue, «forse» fu la risposta.
Selvaggia?
In lucido rapimento vivo, come scrivo.
E se la tua tempra, uomo, è affine alla mia per gentilezza o per generosa follia,
ma logora mentr'io sfido ogni usura, non vuoi che mi avventi feroce contro
quella tua lamentosa parola? Tu ripeti: «Troppo tardi». Snodo le mie trecce e
con esse sferzo la chimera perpetua. Ti s'aprirono
Io servo la vita con la mia agonia più di te che sogguardi rabbrividendo.
Più cara d'ogni altra alla vita la parola che le solleva contro implacato l'amore.
Implacato se anche ogni volta io risorga.
Con le mani giunte, stesa a terra, sempre mi trova l'ora, imprevedibile improvvisa, che mi sento alleggerire di tutta la mia volontà e anche di tutta la mia speranza, l'ora che le mie labbra in un soffio pronunziano: «così sia». Con le mani giunte, o forze segrete dell'universo, avendo fatto tutto quanto era in mio potere ed oltre.
Vengo soccorsa allora da cose che par rivaleggino con quel mio stato di lievità,
con quel mio respiro che appena s'ode: dalle più tenui, petali, aromi, ombre di
voli. Per mezzo talora di genti rozze ed
Riprendo stupita il mio passo, d'ogni mio tempo, rapido agile saldo. Qualcuno per
via mi dice: «cent'anni cent'anni di vita felice!». Perchè questa mia grazia che
si fa più e più sicura, questa trasparenza dell'anima appena io l'alzo sopra la
crudezza della sorte? Un vecchio contadino
Sì, forse avrei potuto divenire la donna forte dell'antico Testamento.
Invece cammino nel mondo cercando l'espressione d'un fantasma o ripetendo sommessa a me stessa il motivo felice di qualche mia pagina d'angoscia.
Se m'incontrassi, piangerei, forse.
Lontana è la pietra coperta di musco e di polline di pino, nella foresta
dall'ombra bionda dove, stendendomi una volta, sentii comandare repentinamente
da me a me: «Fermati, ferma un minuto, un minuto basta per attestar che hai
vissuto». Lontani i tanti rifugi che mi cercai. Li credevo rifugi, isole, vigne
del Signore in mezzo al mare, e la vita
Deserte roseoazzurre le sere scendono su la mia libertà.
Passano vele, allegorie, passano canzoni. Le rupi dentate lambono il cielo e lo fanno più chiaro.
«Sera, sera dolce e mia!».
Quegli che lontano sospirò di me così dopo avermi respinta, stava dinanzi al suo mare come uno squallido verso dell'Ecclesiaste, stava con occhi che or non vedono più, i più febbrili e cupi che m'abbiano fissata, occhi per il getto totale della vita mia....
Per lui, che il giorno primo che ci parlammo m'afferrò, mi singhiozzò l'anima
sua, si torse sotto il cielo come una fiamma supplicandomi di strapparlo alla
donna che da tanto l'inviliva, io diedi ben addio a qualcosa che sarebbe stata
quasi la felicità, la ridiedi a Dio. Un fanciullo m'amava, migrante arcangelo,
in vertigine di luce spada bella, e lo vidi
Le sere scendono su la mia libertà.
Io violava con il mio amore il dolore dell'uomo. Io aggiungeva al suo dio il mio.
Quando, attraverso gli evi, l'uomo ha detto d'agognare all'eterno femminino,
auto-inganno è stato. Il maggiore ed il più bello di quanti gli si sian formati
nella coscienza. Che può far egli d'una integrante forza creativa, egli già così
gravato e tormentato?
Spazi ineffabili!
Addietro restano tutte le cose che si riprodurranno, le dure cose, le appassionate, le urlanti.
Tornerò ad esse, irresistibilmente tornerò, e ad esse moverà incontro con dolente fierezza il vergine fino a ieri, dalla voce di cristallo, che non mi tratterrà.
Disgiunti, spiriti reduci per sempre entrambi.
Più che mai i tristi uomini compiuti diranno alla mia apparizione: «Troppo tardi». Diranno: «T'abbiamo troppo attesa. Or ci vendicheremo su te per tutto ciò che non ricevemmo dalle altre». Anche soggiungeranno, come stanca elemosina: «Dovevi nascer maschio, saresti stata o un santo o un castigo d'Iddio....».
Ed ecco dorsi di monti brulli, ampie linee semplici, valichi e valichi, stagioni che indugiano e stagioni precoci. Ecco pianeggianti giardini, fontane, magnolie in fiore, e anche grigi sogni di pietra, castelli grigi tra rami spogli stillanti di pioggia contro il sole come portentose ragnatele. Ecco fiumi su cui navigano insensibilmente grandi ninfee di ghiaccio. E strade, strade, strade.
Fatiche e tedio nelle rughe del mondo, e immensa grottesca stoltizia.
Poter sanarle, suscitarvi espressioni gagliarde, generosità e pensiero!
È tale l'impetuosa fantasia ch'io sospetto quasi sian suoi frutti quei beni che vedo di quando in quando alzarsi come vapori o stendersi come campi di lino azzurro, suoi frutti, invenzioni del desiderio, quegli atti e quegli affetti che inattesi e delicati mi si palesano, sorridenti di fresca arguzia o soffusi d'alta intuizione, amicizie, austere fraternità, rapporti pieni di timidezza e d'abbandono e altri in cui son regina, in cui impongo sensi di grandezza, oh semplicemente perchè sono umana, e raccolgo meraviglie di devozione, pianti d'anime veraci, baci sulla mia mano taciti veloci, parole brevi di accordo, beni, beni!
Come fossero discesi dal genio, dall'antico coro tragico o da un canto
leopardiano. Come fossero dolci arcate di
«Signore, fammi diventare grande e brava» pregavo da bimba.
Vengono i profondi compensi, le stellate ghirlande, a me fuggitiva, a me per le selvagge vie.
In primeve forme, nitide, per me sola suscitate.
Gioie per sempre.
Vengono come le rinascenze dopo i più sparuti e bruti cicli.
Assolta, riconsacrata, la semplicità eroica dell'essere femineo, senza nome nè età, va libera ardita ridente.
Squillanti incontri di bei volti maschi, ferma bellezza di fisionomie imprevedute, sussulto segreto all'istantaneo avvertimento del desiderio virile, sussulto così simile al brivido mortale della voluttà, istinto di fuga, ansito d'esser rincorsa, stupita violenza di magìa, uomo e donna, piante di foresta a un sol vento sorprese e squassate.
Torsi d'atleti armoniosi, vive forme sante come immortali bronzi.
Intende taluno che accarezzo — per un'ora, per mille, per un innumerato tempo
quale nei sogni — intende ch'io reco in quell'atto lo stesso illuminato cuore
delle mie più solitarie contemplazioni? Vi sono spiagge dove nessuno prima di me
s'è soffermato ad alzare un suo inno: e c'è questo corpo perfetto d'Adamo il cui
valore me soltanto veramente conquide, con la sua sicura rispondenza
Tutta io mi sento fiore immersa nella lussuriante natura. Per un'ora, per mille, in un innumerato tempo....
Potenza divina di gaudio sotto il cielo, divino splendore dei motivi di gaudio!
Portentosa bilancia se la memoria è onesta!
Ch'io superbamente lo affermi.
Per tutte le cose orrende che ho veduto e saputo, io che ho pagato per tante
donne, io su cui l'uomo s'è vendicato di tante. Per le lividure finanche che il
mentecatto lasciò su le mie membra bianche, ch'io guardava bruciante attonita,
ed egli sghignazzava stridulo
Portentosa bilancia se la memoria è onesta!
Uscii un giorno da un carcere, dove tra le sbarre un viso sciagurato m'invocava,
sovrano viso che mi chiedeva perdono, caro ahi caro viso ritrovato e per sempre
riperduto. Più tremenda la mia solitudine mi parve di quella stessa prigione
dove si gemeva e dove almeno qualche carceriere assisteva. L'aria lucida, il bel
settembre, la gloria candida d'una montagna all'orizzonte, ed io sullo spiazzo,
tra il frusciare dei platani, al limitare della cittaduzza ignota, io con
nessuno, libera di morire, libera di vivere,
C
ielo nella prima ora del giorno e nella prima ora
della sera uguale, candore lucente in cui m'incido e a cui m'affido, perlacea
lievità intorno alla mia fronte.
È sera o alba?
In questa trasparenza, in questa incandescenza di cielo, la mia forma di donna ha un trasalimento, oh che non turba la soave immobilità dell'ora....
Un prodigio si è compiuto nel lungo spazio che forse fu notte e forse meriggio.
Compiuto insensibilmente, quand'io stavo in passione e in meditazione, animata
Mormoravo nelle tregue:
«Se v'assomiglio, fratelli, soffro!»
«Se v'assomiglio, voi non m'amate!»
«Se v'assomiglio, a che son nata?»
Caratteri d'eternità erano nella vicenda.
Peritura la mia forza, gli occhi avrebbero potuto appannarsi, qualche morbo penetrarmi; ma no, io non ero Filottete — e mai dunque sarebbe paga la nascosta giustizia, quella che mi generò in sogno?
Conche sonore di venti fremevano, alte conche d'allegrezza o d'angoscia.
Mi aggiungevo con le mie parole immolatrici alle cose della terra, alle opere,
Lungo, ah lungo passaggio dalla larva al mito!
E la realtà del mio essere, e la libertà creduta e perseguita, e questa mia turgida età?
Trasalgono le fibre materne.
Chiaro è il mondo, con volto riconoscente. Imprevedibile un segno si palesa, un timbro, una movenza, un irriproducibile accento.
Io!
Mentre rispondevo alla temeraria attesa del silenzio, e credevo tutta così consumare nel sacrilego racconto, prodigiosamente accanto alle parole violatrici, altre, fruscianti, si modulavano in me, trepidando s'elevavano, brevi, danzanti, quasi figlie d'una mia scarca anima....
Danzando mi scoprivano esse la grazia di ciò che m'è più alieno o feroce, e il valore dell'attimo più lieve e più nudo, e la santità degli incolmabili abissi.
Danzando gettavano ponti, oh sguardi di lontano, oh bracieri di rose in cielo!
Ritmo,
Rorida potenza sorta in me, per sovrapporsi a me, per sopravvivermi!
Occhi stellati aperti su la divinità candida dell'aria!
Poesia, più cara d'ogni benedetta lagrima se anche in tuo prisma appaia il mio andare rasente la morte!
Cosa di perla anche la morte, compenetrata di luce.
Con sommesso respiro mi riavvicino a tutto che in purità tace, mi riconfondo con l'arcano sorriso della bontà.