– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
– Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí...
– Che altro?
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú sporgente dell’altra; e altri difetti...
– Ancora?
Eh sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino.
Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo.
Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.
– Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.
Ecco, già – le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giú per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla.
– Si vede, – voi dite, – che avevate molto tempo da perdere.
No, ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sí, anche per l’ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sí, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.
Non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui mio padre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre piú da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, anzi d’un mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi.
Ero rimasto cosí, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m’erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza piú di me. M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente piú di loro; ma andare, non sapevo dove andare.
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque – possibile? – non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che piú intimamente m’appartenevano: il naso le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo cosí misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene.
Già subito mi figurai che tutti, avendone fatta mia moglie la scoperta, dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in me.
– Mi guardi il naso? – domandai tutt’a un tratto quel giorno stesso a un amico che mi s’era accostato per parlarmi di non so che affare che forse gli stava a cuore.
– No, perché? – mi disse quello.
E io, sorridendo nervosamente:
– Mi pende verso destra, non vedi?
E glielo imposi a una ferma e attenta osservazione, come quel difetto del mio naso fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell’universo.
L’amico mi guardò in prima un po’ stordito; poi, certo sospettando che avessi cosí all’improvviso e fuor di luogo cacciato fuori il discorso del mio naso perché non stimavo degno né d’attenzione, né di risposta l’affare di cui mi parlava, diede una spallata e si mosse per lasciarmi in asso. Lo acchiappai per un braccio, e:
– No, sai, – gli dissi, – sono disposto a trattare con te codest’affare. Ma in questo momento tu devi scusarmi.
– Pensi al tuo naso?
– Non m’ero mai accorto che mi pendesse verso destra. Me n’ha fatto accorgere, questa mattina, mia moglie.
– Ah, davvero? – mi domandò allora l’amico; e gli occhi gli risero d’una incredulità ch’era anche derisione.
Restai a guardarlo come già mia moglie la mattina, cioè con un misto d’avvilimento, di stizza e di maraviglia. Anche lui dunque da un pezzo se n’era accorto? E chi sa quant’altri con lui! E io non lo sapevo e, non sapendolo, credevo d’essere per tutti un Moscarda col naso dritto, mentr’ero invece per tutti un Moscarda col naso storto; e chi sa quante volte m’era avvenuto di parlare, senz’alcun sospetto, del naso difettoso di Tizio o di Caio e quante volte perciò non avevo fatto ridere di me e pensare:
– Ma guarda un po’ questo pover’uomo che parla dei difetti del naso altrui!
Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione.
Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.
Per il momento pensai al corpo soltanto e, siccome quel mio amico seguitava a starmi davanti con quell’aria d’incredulità derisoria, per vendicarmi gli domandai se egli, dal canto suo, sapesse d’aver nel mento una fossetta che glielo divideva in due parti non del tutto eguali: una piú rilevata di qua, una piú scempia di là.
– Io? Ma che! – esclamò l’amico. – Ci ho la fossetta, lo so, ma non come tu dici.
– Entriamo là da quel barbiere, e vedrai, – gli proposi subito.
Quando l’amico, entrato dal barbiere, s’accorse con maraviglia del difetto e riconobbe ch’era vero, non volle mostrarne stizza; disse che, in fin dei conti, era una piccolezza.
Eh sí, senza dubbio, una piccolezza; vidi però, seguendolo da lontano, che si fermò una prima volta a una vetrina di bottega, e poi una seconda volta, piú là, davanti a un’altra; e piú là ancora e piú a lungo, una terza volta, allo specchio d’uno sporto per osservarsi il mento; e son sicuro che, appena rincasato, sarà corso all’armadio per far con piú agio a quell’altro specchio la nuova conoscenza di sé con quel difetto. E non ho il minimo dubbio che, per vendicarsi a sua volta, o per seguitare uno scherzo che gli parve meritasse una larga diffusione in paese, dopo aver domandato a qualche suo amico (come già io a lui) se mai avesse notato quel suo difetto al mento, qualche altro difetto avrà scoperto lui o nella fronte o nella bocca di questo suo amico, il quale, a sua volta... – ma sí! ma sí! – potrei giurare che per parecchi giorni di fila nella nobile città di Richieri io vidi (se non fu proprio tutta mia immaginazione) un numero considerevolissimo di miei concittadini passare da una vetrina di bottega all’altra e fermarsi davanti a ciascuna a osservarsi nella faccia chi uno zigomo e chi la coda d’un occhio, chi un lobo d’orecchio e chi una pinna di naso. E ancora dopo una settimana un certo tale mi s’accostò con aria smarrita per domandarmi se era vero che, ogni qual volta si metteva a parlare, contraeva inavvertitamente la pàlpebra dell’occhio sinistro.
– Sí, caro, – gli dissi a precipizio. – E io, vedi? il naso mi pende verso destra; ma lo so da me; non c’è bisogno che me lo dica tu; e le sopracciglia? ad accento circonflesso! le orecchie, qua, guarda, una piú sporgente dell’altra; e qua, le mani: piatte, eh? e la giuntura storpia di questo mignolo; e le gambe? qua, questa qua, ti pare che sia come quest’altra? no, eh? Ma lo so da me e non c’è bisogno che me lo dica tu. Statti bene.
Lo piantai lì, e via. Fatti pochi passi, mi sentii richiamare.
– Ps!
Placido placido, col dito, colui m’attirava a sé per domandarmi:
– Scusa, dopo di te, tua madre non partorí altri figliuoli?
– No: né prima né dopo, – gli risposi. – Figlio unico. Perché?
– Perché, – mi disse, – se tua madre avesse partorito un’altra volta, avrebbe avuto di certo un altro maschio.
– Ah sí? Come lo sai?
– Ecco: dicono le donne del popolo che quando a un nato i capelli terminano sulla nuca in un codiniccio come codesto che tu hai costí, sarà maschio il nato appresso.
Mi portai una mano alla nuca e con un sogghignetto frigido gli domandai:
– Ah, ci ho un... com’hai detto?
E lui:
– Codiniccio, caro, lo chiamano a Richieri.
– Oh, ma quest’è niente! – esclamai. – Me lo posso far tagliare.
Negò prima col dito, poi disse:
– Ti resta sempre il segno, caro, anche se te lo fai radere.
E questa volta mi piantò lui.
Desiderai da quel giorno ardentissimamente d’esser solo, almeno per un’ora. Ma veramente, piú che desiderio, era bisogno: bisogno acuto urgente smanioso, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperavano fino alla rabbia.
– Hai sentito, Gengè, che ha detto jeri Michelina? Quantorzo ha da parlarti d’urgenza.
– Guarda, Gengè , se a tenermi cosí la veste mi pajono le gambe.
– S’è fermata la pèndola, Gengè.
– Gengè, e la cagnolina non la porti piú fuori? Poi ti sporca i tappeti e la sgridi. Ma dovrà pure, povera bestiolina... dico... non pretenderai che... Non esce da jersera.
– Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa esser malata? Non si fa piú vedere da tre giorni, e l’ultima volta le faceva male la gola.
– È venuto il signor Firbo, Gengè. Dice che ritornerà piú tardi. Non potresti vederlo fuori? Dio, che nojoso!
Oppure la sentivo cantare:
E se mi dici di no,
caro il mio bene, doman non verrò;
doman non verrò...
doman non verrò....
Ma perché non vi chiudevate in camera, magari con due turaccioli negli orecchi?
Signori, vuol dire che non capite come volevo esser solo.
Chiudermi potevo soltanto nel mio scrittojo, ma anche lì senza poterci mettere il paletto, per non far nascere tristi sospetti in mia moglie ch’era, non dirò trista, ma sospettosissima. E se, aprendo l’uscio all’improvviso, m’avesse scoperto?
No. E poi, sarebbe stato inutile. Nel mio scrittojo non c’erano specchi. Io avevo bisogno d’uno specchio. D’altra parte, il solo pensiero che mia moglie era in casa bastava a tenermi presente a me stesso, e proprio questo io non volevo.
Per voi, esser soli, che vuol dire?
Restare in compagnia di voi stessi, senza alcun estraneo attorno.
Ah sí, v’assicuro ch’è un bel modo, codesto, d’esser soli. Vi s’apre nella memoria una cara finestretta, da cui s’affaccia sorridente, tra un vaso di garofani e un altro di gelsomini, la Titti che lavora all’uncinetto una fascia rossa di lana, oh Dio, come quella che ha al collo quel vecchio insopportabile signor Giacomino, a cui ancora non avete fatto il biglietto di raccomandazione per il presidente della Congregazione di carità, vostro buon amico, ma seccantissimo anche lui, specie se si mette a parlare delle marachelle del suo segretario particolare, il quale jeri... no, quando fu? l’altro jeri che pioveva e pareva un lago la piazza con tutto quel brillìo di stille a un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava: basta, vi ficcaste in una sala di bigliardo, dove c’era lui, il segretario del presidente della Congregazione di carità; e che risatine si faceva sotto i baffoni pelosi per la vostra disdetta allorché vi siete messo a giocare con l’amico Carlino detto Quintadecima. E poi? Che avvenne poi, uscendo dalla sala del bigliardo? Sotto un languido fanale, nella via umida deserta, un povero ubriaco malinconico tentava di cantare una vecchia canzonetta di Napoli, che tant’anni fa, quasi tutte le sere udivate cantare in quel borgo montano tra i castagni, ov’eravate andato a villeggiare per star vicino a quella cara Mimí, che poi sposò il vecchio commendator Della Venera, e morì un anno dopo. Oh, cara Mimí! Eccola, eccola a un’altra finestra che vi s’apre nella memoria...
Sí, sí, cari miei, v’assicuro che è un bel modo d’esser soli, codesto!
Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.
Vi sembra già questo un primo segno di pazzia?
Forse perché non riflettete bene.
Poteva già essere in me la pazzia, non nego, ma vi prego di credere che l’unico modo d’esser soli veramente è questo che vi dico io.
La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi.
Cosí volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter piú levarmi di torno e ch’ero io stesso: l’estraneo inseparabile da me.
Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest’uno, o il bisogno che sentivo di restar solo con esso, di mettermelo davanti per conoscerlo bene e conversare un po’ con lui, mi turbava tanto, con un senso tra di ribrezzo e di sgomento.
Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?
Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del mio naso; al taglio, se piccolo o grande, o al colore dei miei occhi; all’angustia o all’ampiezza della mia fronte, e via dicendo. Quello era il mio naso, quelli i miei occhi, quella la mia fronte: cose inseparabili da me, a cui, dedito ai miei affari, preso dalle mie idee, abbandonato ai miei sentimenti, non potevo pensare.
Ma ora pensavo:
«E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. E hanno un pajo d’occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso? Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere.»
Cosí, seguitando, sprofondai in quest’altra ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come quello d’un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto.
Io non potevo vedermi vivere.
Potei averne la prova nell’impressione dalla quale fui per cosí dire assaltato, allorché, alcuni giorni dopo, camminando e parlando col mio amico Stefano Firbo, mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via, di cui non m’ero prima accorto. Non poté durare piú d’un attimo quell’impressione, ché subito seguí quel tale arresto e finí la spontaneità e cominciò lo studio. Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando. Mi fermai. Dovevo esser molto pallido. Firbo mi domandò:
– Che hai?
– Niente, – dissi. E tra me, invaso da uno strano sgomento ch’era insieme ribrezzo, pensavo:
«Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio cosí, io, di fuori, quando - vivendo - non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non cosí, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no.»
E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io cosí come gli altri lo vedevano e conoscevano.
Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.
Quando cosí il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie.
Dirò per ora di quelle piccole che cominciai a fare in forma di pantomime, nella vispa infanzia della mia follia, davanti a tutti gli specchi di casa, guardandomi davanti e dietro per non essere scorto da mia moglie, nell’attesa smaniosa ch’ella, uscendo per qualche visita o compera, mi lasciasse solo finalmente per un buon pezzo.
Non volevo già come un commediante studiar le mie mosse, compormi la faccia all’espressione dei varii sentimenti e moti dell’animo; al contrario: volevo sorprendermi nella naturalezza dei miei atti, nelle subitanee alterazioni del volto per ogni moto dell’animo; per un’improvvisa maraviglia, ad esempio (e sbalzavo per ogni nonnulla le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli e spalancavo gli occhi e la bocca, allungando il volto come se un filo interno me lo tirasse); per un profondo cordoglio (e aggrottavo la fronte, immaginando la morte di mia moglie, e socchiudevo cupamente le pàlpebre quasi a covar quel cordoglio); per una rabbia feroce (e digrignavo i denti, pensando che qualcuno m’avesse schiaffeggiato, e arricciavo il naso, stirando la mandibola e fulminando con lo sguardo).
Ma, prima di tutto, quella maraviglia, quel cordoglio, quella rabbia erano finte, e non potevano esser vere, perché, se vere, non avrei potuto vederle, ché subito sarebbero cessate per il solo fatto ch’io le vedevo; in secondo luogo, le maraviglie da cui potevo esser preso erano tante e diversissime, e imprevedibili anche le espressioni, senza fine variabili anche secondo i momenti e le condizioni del mio animo; e cosí per tutti i cordogli e cosí per tutte le rabbie. E infine, anche ammesso che per una sola e determinata maraviglia, per un solo e determinato cordoglio, per una sola e determinata rabbia io avessi veramente assunto quelle espressioni, esse erano come le vedevo io, non già come le avrebbero vedute gli altri. L’espressione di quella mia rabbia, ad esempio, non sarebbe stata la stessa per uno che l’avesse temuta, per un altro disposto a scusarla, per un terzo disposto a riderne, e cosí via.
Ah! tanto bel senno avevo ancora per intendere tutto questo, e non poté servirmi a tirare dalla riconosciuta inattuabilità di quel mio folle proposito la conseguenza naturale di rinunciare all’impresa disperata e starmi contento a vivere per me, senza vedermi e senza darmi pensiero degli altri.
L’idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un “mio” dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest’idea non mi diede piú requie.
Come sopportare in me quest’estraneo? quest’estraneo che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?
– Sai che ti dico, Gengè? Sono passati altri quattro giorni. Non c’è piú dubbio: Anna Rosa dev’esser malata. Andrò io a vederla.
– Dida mia, che fai? Ma ti pare! Con questo tempaccio? Manda Diego; manda Nina a domandar notizie. Vuoi rischiare di prendere un malanno? Non voglio, non voglio assolutamente.
Quando voi non volete assolutamente una cosa, che fa vostra moglie?
Dida, mia moglie, si piantò il cappellino in capo. Poi mi porse la pelliccia perché gliela reggessi.
Gongolai. Ma Dida scorse nello specchio il mio sorriso.
– Ah, ridi?
– Cara, mi vedo obbedito cosí...
E allora la pregai che, almeno, non si trattenesse tanto dalla sua amichetta, se davvero era ammalata di gola:
– Un quarto d’ora, non piú. Te ne scongiuro.
M’assicurai cosí che fino a sera non sarebbe rincasata.
Appena uscita, mi girai dalla gioja su un calcagno, stropicciandomi le mani.
«Finalmente!»
Prima volli ricompormi, aspettare che mi scomparisse dal volto ogni traccia d’ansia e di gioja e che, dentro, mi s’arrestasse ogni moto di sentimento e di pensiero, cosí che potessi condurre davanti allo specchio il mio corpo come estraneo a me e, come tale, pormelo davanti.
– Su, – dissi, – andiamo!
Andai, con gli occhi chiusi, le mani avanti, a tentoni. Quando toccai la lastra dell’armadio, ristetti ad aspettare, ancora con gli occhi chiusi, la piú assoluta calma interiore, la piú assoluta indifferenza.
Ma una maledetta voce mi diceva dentro, che era là anche lui, l’estraneo, di fronte a me, nello specchio. In attesa come me, con gli occhi chiusi.
C’era, e io non lo vedevo.
Non mi vedeva neanche lui, perché aveva, come me, gli occhi chiusi. Ma in attesa di che, lui? Di vedermi? No. Egli poteva esser veduto; non vedermi. Era per me quel che io ero per gli altri, che potevo esser veduto e non vedermi. Aprendo gli occhi però, lo avrei veduto cosí come un altro?
Qui era il punto.
M’era accaduto tante volte d’infrontar gli occhi per caso nello specchio con qualcuno che stava a guardarmi nello specchio stesso. Io nello specchio non mi vedevo ed ero veduto; cosí l’altro, non si vedeva, ma vedeva il mio viso e si vedeva guardato da me. Se mi fossi sporto a vedermi anch’io nello specchio, avrei forse potuto esser visto ancora dall’altro, ma io no, non avrei piú potuto vederlo. Non si può a un tempo vedersi e vedere che un altro sta a guardarci nello stesso specchio.
Stando a pensare cosí, sempre con gli occhi chiusi, mi domandai:
«È diverso ora il mio caso, o è lo stesso? Finché tengo gli occhi chiusi, siamo due: io qua e lui nello specchio. Debbo impedire che, aprendo gli occhi, egli diventi me e io lui. Io debbo vederlo e non essere veduto. È possibile? Subito com’io lo vedrò, egli mi vedrà, e ci riconosceremo. Ma grazie tante! Io non voglio riconoscermi; io voglio conoscere lui fuori di me. È possibile? Il mio sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d’essere veduto da me, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: quell’altro che tutti vedono e io no. Sú, dunque, calma, arresto d’ogni vita e attenzione!»
Aprii gli occhi. Che vidi?
Niente. Mi vidi. Ero io, là, aggrondato, carico del mio stesso pensiero, con un viso molto disgustato.
M’assalì una fierissima stizza e mi sorse la tentazione di tirarmi uno sputo in faccia. Mi trattenni. Spianai le rughe; cercai di smorzare l’acume dello sguardo; ed ecco, a mano a mano che lo smorzavo, la mia immagine smoriva e quasi s’allontanava da me; ma smorivo anch’io di qua e quasi cascavo; e sentii che, seguitando, mi sarei addormentato. Mi tenni con gli occhi. Cercai d’impedire che mi sentissi anch’io tenuto da quegli occhi che mi stavano di fronte; che quegli occhi, cioè, entrassero nei miei. Non vi riuscii. Io mi sentivo quegli occhi. Me li vedevo di fronte, ma li sentivo anche di qua, in me; li sentivo miei; non già fissi su me, ma in se stessi. E se per poco riuscivo a non sentirmeli, non li vedevo piú. Ahimè, era proprio cosí: io potevo vedermeli, non già vederli.
Ed ecco: come compreso di questa verità che riduceva a un giuoco il mio esperimento, a un tratto il mio volto tentò nello specchio uno squallido sorriso.
– Sta’ serio, imbecille! – gli gridai allora. – Non c’è niente da ridere!
Fu cosí istantaneo, per la spontaneità della stizza, il cangiamento dell’espressione nella mia immagine, e cosí subito seguí a questo cambiamento un’attonita apatia in essa, ch’io riuscii a vedere staccato dal mio spirito imperioso il mio corpo, là, davanti a me, nello specchio.
Ah, finalmente! Eccolo là!
Chi era?
Niente era. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in attesa che qualcuno se lo prendesse.
– Moscarda... – mormorai, dopo un lungo silenzio.
Non si mosse; rimase a guardarmi attonito.
Poteva anche chiamarsi altrimenti.
Era là, come un cane sperduto, senza padrone e senza nome, che uno poteva chiamar Flik, e un altro Flok, a piacere. Non conosceva nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore, e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le pàlpebre, e non se n’accorgeva.
Gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile, dura, pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi forati qua e là nella còrnea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; quel naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio aquilino; i baffi rossicci che nascondevano la bocca; il mento solido, un po’ rilevato:
Ecco, era cosí: lo avevano fatto cosí, di quel pelame; non dipendeva da lui essere altrimenti, avere un’altra statura, poteva sí alterare in parte il suo aspetto: radersi quei baffi, per esempio; ma adesso era cosí; col tempo sarebbe stato calvo o canuto, rugoso e floscio, sdentato; qualche sciagura avrebbe potuto anche svisarlo, fargli un occhio di vetro o una gamba di legno; ma adesso era cosí.
Chi era? Ero io? Ma poteva anche essere un altro! Chiunque poteva essere, quello lì. Poteva avere quei capelli rossigni, quelle sopracciglia ad accento circonflesso e quel naso che pendeva verso destra, non soltanto per me, ma anche per un altro che non fossi io. Perché dovevo esser io, questo, cosí?
Vivendo, io non rappresentavo a me stesso nessuna immagine di me. Perché dovevo dunque vedermi in quel corpo lì come in un’immagine di me necessaria?
Mi stava lì davanti, quasi inesistente, come un’apparizione di sogno, quell’immagine. E io potevo benissimo non conoscermi cosí. Se non mi fossi mai veduto in uno specchio, per esempio? Non avrei forse per questo seguitato ad avere dentro quella testa lì sconosciuta i miei stessi pensieri? Ma sí, e tant’altri. Che avevano da vedere i miei pensieri con quei capelli, di quel colore, i quali avrebbero potuto non esserci piú o essere bianchi o neri o biondi; e con quegli occhi lì verdastri, che avrebbero potuto anche essere neri o azzurri; e con quel naso che avrebbe potuto essere diritto o camuso? Potevo benissimo sentire anche una profonda antipatia per quel corpo lì; e la sentivo.
Eppure, io ero per tutti, sommariamente, quei capelli rossigni, quegli occhi verdastri e quel naso; tutto quel corpo lì che per me era niente; eccolo: niente! Ciascuno se lo poteva prendere, quel corpo lì, per farsene quel Moscarda che gli pareva e piaceva, oggi in un modo e domani in un altro, secondo i casi e gli umori. E anch’io... Ma sí! Lo conoscevo io forse? Che potevo conoscere di lui? Il momento in cui lo fissavo, e basta. Se non mi volevo o non mi sentivo cosí come mi vedevo, colui era anche per me un estraneo, che aveva quelle fattezze, ma avrebbe potuto averne anche altre. Passato il momento in cui lo fissavo, egli era già un altro; tanto vero che non era piú qual era stato da ragazzo, e non era ancora quale sarebbe stato da vecchio; e io oggi cercavo di riconoscerlo in quello di jeri, e cosí via. E in quella testa lì, immobile e dura, potevo mettere tutti i pensieri che volevo, accendere le piú svariate visioni: ecco: d’un bosco che nereggiava placido e misterioso sotto il lume delle stelle; di una rada solitaria, malata di nebbia, da cui salpava lenta spettrale una nave all’alba; d’una via cittadina brulicante di vita sotto un nembo sfolgorante di sole che accendeva di riflessi purpurei i volti e faceva guizzar di luci variopinte i vetri delle finestre, gli specchi, i cristalli delle botteghe. Spengevo a un tratto la visione, e quella testa restava lì di nuovo immobile e dura nell’apatico attonimento.
Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.
Ma, all’improvviso, mentre cosí pensavo, avvenne tal cosa che mi riempí di spavento piú che di stupore.
Vidi davanti a me, non per mia volontà, l’apatica attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente, arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all’indietro, contrarre le labbra in su e provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare cosí un attimo sospeso e poi crollar due volte a scatto per lo scoppio d’una coppia di sternuti.
S’era commosso da sé, per conto suo, a un filo d’aria entrato chi sa donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori della mia volontà.
– Salute! – gli dissi.
E guardai nello specchio il mio primo riso da matto.
Dunque, niente: questo. Se vi par poco! Ecco una prima lista delle riflessioni rovinose e delle terribili conclusioni derivate dall’innocente momentaneo piacere che Dida mia moglie aveva voluto prendersi. Dico, di farmi notare che il naso mi pendeva verso destra.
riflessioni:
1a - che io non ero per gli altri quel che finora avevo creduto di essere per me;
2a - che non potevo vedermi vivere;
3a - che non potendo vedermi vivere, restavo estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere; ciascuno a suo modo; e io no;
4a - che era impossibile pormi davanti questo estraneo per vederlo e conoscerlo; io potevo vedermi, non già vederlo;
5a - che il mio corpo, se lo consideravo da fuori, era per me come un’apparizione di sogno; una cosa che non sapeva di vivere e che restava lì, in attesa che qualcuno se la prendesse;
6a - che, come me lo prendevo io, questo mio corpo, per essere a volta a volta quale mi volevo e mi sentivo, cosí se lo poteva prendere qualunque altro per dargli una realtà a modo suo;
7a - che infine quel corpo per se stesso era tanto niente e tanto nessuno, che un filo d’aria poteva farlo starnutire, oggi, e domani portarselo via.
conclusioni:
Queste due per il momento:
1a - che cominciai finalmente a capire perché Dida mia moglie mi chiamava Gengè;
2a - che mi proposi di scoprire chi ero io almeno per quelli che mi stavano piú vicini, cosí detti conoscenti, e di spassarmi a scomporre dispettosamente quell’io che ero per loro.
Mi si può opporre:
« Ma come mai non ti venne in mente, povero Moscarda, che a tutti gli altri avveniva come a te, di non vedersi vivere; e che se tu non eri per gli altri quale finora t’eri creduto, allo stesso modo gli altri potevano non essere quali tu li vedevi, ecc. ecc.? »
Rispondo:
Mi venne in mente. Ma scusate, è proprio vero che sia venuto in mente anche a voi?
Ho voluto supporlo, ma non ci credo. Io credo anzi che se in realtà un tal pensiero vi venisse in mente e vi si radicasse come si radicò in me, ciascuno di voi commetterebbe le stesse pazzie che commisi io.
Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché dell’altrui giudizio non v’importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi vi rappresentate.
Che se poi qualcuno vi fa notare che il naso vi pende un pochino verso destra... no? che jeri avete detto una bugia... nemmeno? piccola piccola, via, senza conseguenze... Insomma, se qualche volta appena appena avvertite di non essere per gli altri quello stesso che per voi; che fate? (Siate sinceri). Nulla fate, o ben poco. Ritenete al piú al piú, con bella e intera sicurezza di voi stessi, che gli altri vi hanno mal compreso, mal giudicato; e basta. Se vi preme, cercherete magari di raddrizzare quel giudizio, dando schiarimenti, spiegazioni; se non vi preme, lascerete correre; scrollerete le spalle esclamando: “Oh infine, ho la mia coscienza e mi basta.”
Non è cosí?
Signori miei, scusate. Poiché vi è venuta in bocca una cosí grossa parola, permettete ch’io vi faccia entrare in mente un magro magro pensiero. Questo: che la vostra coscienza, qua, non ci ha che vedere. Non vi dirò che non val nulla, se per voi è proprio tutto; dirò, per farvi piacere, che allo stesso modo ho anch’io la mia e so che non val nulla. Sapete perché? Perché so che c’è anche la vostra. Ma sí. Tanto diversa dalla mia.
Scusatemi se parlo un momento a modo dei filosofi. Ma è forse la coscienza qualcosa d’assoluto che possa bastare a se stessa? Se fossimo soli, forse sí. Ma allora, belli miei, non ci sarebbe coscienza. Purtroppo, ci sono io, e ci siete voi. Purtroppo.
E che vuol dunque dire che avete la vostra coscienza e che vi basta? Che gli altri possono pensare di voi e giudicarvi come piace a loro, cioè ingiustamente, ché voi siete intanto sicuro e confortato di non aver fatto male?
Oh di grazia, e se non sono gli altri, chi ve la dà codesta sicurezza? codesto conforto chi ve lo dà?
Voi stesso? E come?
Ah, io lo so, come: ostinandovi a credere che se gli altri fossero stati al vostro posto e fosse loro capitato il vostro stesso caso, tutti avrebbero agito come voi, né piú né meno.
Bravo! Ma su che lo affermate?
Eh, so anche questo: su certi principii astratti e generali, in cui, astrattamente e generalmente, vuol dire fuori dei casi concreti e particolari della vita, si può essere tutti d’accordo (costa poco).
Ma come va che tutti intanto vi condannano o non vi approvano o anche vi deridono? È chiaro che non sanno riconoscere, come voi, quei principii generali nel caso particolare che v’è capitato, e se stessi nell’azione che avete commessa.
O a che vi basta dunque la coscienza? A sentirvi solo? No, perdio. La solitudine vi spaventa. E che fate allora? V’immaginate tante teste. Tutte come la vostra. Tante teste che sono anzi la vostra stessa. Le quali a un dato cenno, tirate da voi come per un filo invisibile, vi dicono sí e no, e no e sí; come volete voi. E questo vi conforta e vi fa sicuri.
Andate là che è un giuoco magnifico, codesto della vostra coscienza che vi basta.
Sapete invece su che poggia tutto? Ve lo dico io. Su una presunzione che Dio vi conservi sempre. La presunzione che la realtà, qual è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri.
Ci vivete dentro; ci camminate fuori, sicuri. La vedete, la toccate; e dentro anche, se vi piace, ci fumate un sigaro (la pipa? la pipa), e beatamente state a guardare le spire di fumo a poco a poco vanire nell’aria. Senza il minimo sospetto che tutta la realtà che vi sta attorno non ha per gli altri maggiore consistenza di quel fumo.
Dite di no? Guardate. Io abitavo con mia moglie la casa che mio padre s’era fatta costruire dopo la morte immatura di mia madre, per levarsi da quella dov’era vissuto con lei, piena di cocentissimi ricordi. Ero allora ragazzo, e soltanto piú tardi potei rendermi conto che proprio all’ultimo quella casa era stata lasciata da mio padre non finita e quasi aperta a chiunque volesse entrarvi.
Quell’arco di porta senza la porta che supera di tutta la cèntina da una parte e dall’altra i muri di cinta della vasta corte davanti, non finiti; con la soglia sotto distrutta e scortecciati agli spigoli i pilastri; mi fa ora pensare che mio padre lo lasciò cosí quasi in aria e vuoto, forse perché pensò che la casa, dopo la sua morte, doveva restare a me, vale a dire a tutti e a nessuno; e che le fosse inutile perciò il riparo d’una porta.
Finché visse mio padre, nessuno s’attentò a entrare in quella corte. Erano rimaste per terra tante pietre intagliate; e chi passava, vedendole, poté dapprima pensare che la fabbrica, per poco interrotta, sarebbe stata presto ripresa. Ma appena l’erba cominciò a crescere tra i ciottoli e lungo i muri, quelle pietre inutili sembrarono subito come crollate e vecchie. Col tempo, morto mio padre, divennero i sedili delle comari del vicinato, le quali, titubanti in principio, ora l’una ora l’altra, s’arrischiarono a varcare la soglia, come in cerca d’un posto riparato dove ci si potesse mettere seduti bene all’ombra e in silenzio; e poi, visto che nessuno diceva nulla, lasciarono alle loro galline la titubanza ancora per poco, e presero a considerare quella corte come loro, come loro l’acqua della cisterna che vi sorgeva in mezzo; e vi lavavano e vi stendevano i panni ad asciugare; e infine, col sole che abbarbagliava allegro da tutto quel bianco di lenzuoli e di camice svolazzanti dai cordini tesi, si scioglievano sulle spalle i capelli lustri d’olio per «cercarsi» in capo, come fanno le scimmie tra loro.
Non diedi mai a divedere né fastidio né piacere di quella loro invasione, benché m’irritasse specialmente la vista d’una vecchina sempre pigolante, dagli occhi risecchi e la gobba dietro ben segnata da un giubbino verde scolorito, e mi désse allo stomaco una lezzona grassa squarciata, con un’orrenda cioccia sempre fuori del busto e in grembo un bimbo sudicio dalla testa grossa schifosamente piena di croste di lattime tra la peluria rossiccia. Mia moglie aveva forse il suo tornaconto a lasciarle lì, perché se ne serviva a un bisogno, dando poi loro in compenso o gli avanzi di cucina o qualche abito smesso.
Acciottolata come la strada, questa corte è tutta in pendío. Mi rivedo ragazzo, uscito per le vacanze dal collegio, affacciato di sera tardi a uno dei balconi della casa allora nuova. Che pena infinita mi dava il vasto biancore illividito di tutti quei ciottoli in pendío con quella grande cisterna in mezzo, misteriosamente sonora! La ruggine s’era quasi mangiata fin d’allora la vernice rossigna del gambo di ferro che in cima regge la carrucola dove scorre la fune della secchia; e come mi sembrava triste quello sbiadito color di vernice su quel gambo di ferro che ne pareva malato! Malato fors’anche per la malinconia dei cigolíi della carrucola quando il vento, di notte, moveva la fune; e su la corte deserta era la chiarità del cielo stellato ma velato, che in quella chiarità vana, di polvere, sembrava fissato là sopra, per sempre.
Dopo la morte di mio padre, Quantorzo, incaricato di badare ai miei affari, pensò di chiudere con un tramezzo le stanze che mio padre s’era riservate per sua abitazione e di farne un quartierino da affittare. Mia moglie non s’era opposta. E in quel quartierino era venuto, poco dopo, ad abitare un vecchio silenziosissimo pensionato, sempre vestito bene, di pulita semplicità, piccolino ma con un che di marziale nell’esile personcina impettorita e anche nella faccina energica, sebbene un po’ sciupata, da colonnello a riposo. Di qua e di là, come scritti calligraficamente, aveva due esemplari occhi di pesce, e tutte segnate le guance d’una fitta trama di venuzze violette.
Non avevo mai badato a lui, né m’ero curato di sapere chi fosse, come vivesse. Parecchie volte lo avevo incontrato per le scale, e sentendomi dire con molto garbo: «Buon giorno» o «Buona sera», senz’altro m’ero fatta l’idea che quel mio vicino di casa fosse molto garbato.
Nessun sospetto mi aveva destato un suo lamento per le zanzare che lo molestavano la notte e che, a suo credere, provenivano dai grandi magazzini a destra della casa ridotti da Quantorzo, sempre dopo la morte di mio padre, a sudice rimesse d’affitto.
– Ah, già! – avevo esclamato, quella volta, in risposta al suo lamento.
Ma ricordo perfettamente che in quella mia esclamazione c’era il dispiacere, non già delle zanzare che molestavano il mio inquilino, ma di quegli ariosi puliti magazzini che da ragazzo avevo veduto costruire e dove correvo, stranamente esaltato dalla bianchezza abbarbagliante dell’intonaco e come ubriacato dall’umido della fabbrica fresca, sul mattonato rintronante, ancora tutto spruzzato di calce. Al sole ch’entrava dalle grandi finestre ferrate, bisognava chiudere gli occhi da come quei muri accecavano.
Tuttavia, quelle rimesse con quei vecchi landò d’affitto, con l’attacco a tre, per quanto impregnate di tutto il lezzo delle lettiere marcite e del nero delle risciacquature che stagnava lì davanti, mi facevano anche pensare all’allegria delle corse in carrozza, da ragazzo, quando si andava in villeggiatura, per lo stradone, tra le campagne aperte che mi parevano fatte per accogliere e diffondere la festività delle sonagliere. E in grazia di quel ricordo mi pareva si potesse sopportare la vicinanza delle rimesse; tanto piú che, anche senza questa vicinanza, era noto a tutti che a Richieri si soffriva il fastidio delle zanzare, da cui comunemente in ogni casa ci si difendeva con l’uso delle zanzariere.
Chi sa che impressione dovette fare al mio vicino di casa la vista d’un sorriso sulle mie labbra, quando egli con la faccina fiera mi gridò che non aveva mai potuto sopportare le zanzariere, perché se ne sentiva soffocare. Quel mio sorriso esprimeva di certo maraviglia e compatimento. Non poter sopportare la zanzariera, ch’io avrei seguitato sempre a usare anche se tutte le zanzare fossero sparite da Richieri, per la delizia che mi dava, tenuta alta di cielo com’io la tenevo e drizzata tutt’intorno al letto senza una piega. La camera che si vede e non si vede traverso a quella miriade di forellini del tulle lieve; il letto isolato; l’impressione d’esser come avvolto in una bianca nuvola.
Non mi feci caso di ciò che egli potesse pensare di me dopo quell’incontro. Seguitai a vederlo per le scale, e sentendomi dire come prima «Buon giorno» o «Buona sera», rimasi con l’idea ch’egli fosse molto garbato.
Vi assicuro invece ch’egli, nello stesso momento che fuori garbatamente mi diceva per le scale – Buon giorno – o – Buona sera –, dentro di sé mi faceva vivere come un perfetto imbecille perché là nella corte tolleravo quell’invasione di comari e quel puzzo ardente di lavatoio e le zanzare.
Chiaro che non avrei piú pensato: «Oh Dio com’è garbato il mio vicino di casa», se avessi potuto vedermi dentro di lui che, viceversa, mi vedeva com’io non avrei potuto vedermi mai, voglio dire da fuori, per me, ma dentro la visione che anche lui aveva poi per suo conto delle cose e degli uomini, e nella quale mi faceva vivere a suo modo: da perfetto imbecille. Non lo sapevo e seguitavo a pensare: «Oh Dio com’è garbato il mio vicino di casa».
Picchio all’uscio della vostra stanza.
State, state pure sdrajato comodamente su la vostra greppina. Io seggo qua. Dite di no?
– Perché?
Ah, è la poltrona su cui, tant’anni or sono, morí la vostra povera mamma. Scusate, non avrei dato un soldo per essa, mentre voi non la vendereste per tutto l’oro del mondo, lo credo bene. Chi la vede, intanto, nella vostra stanza cosí ben mobigliata, certo, non sapendo, si domanda con maraviglia come la possiate tenere qua, vecchia scolorita e strappata com’è.
Queste sono le vostre seggiole. E questo è un tavolino, che piú tavolino di cosí non potrebbe essere. Quella è una finestra che dà sul giardino. E là fuori, quei pini, quei cipressi.
Lo so. Ore deliziose passate in questa stanza che vi par tanto bella, con quei cipressi che si vedono là. Ma per essa intanto vi siete guastato con l’amico che prima veniva a visitarvi quasi ogni giorno e ora non solo non viene piú ma va dicendo a tutti che siete pazzo, proprio pazzo ad abitare in una casa come questa.
– Con tutti quei cipressi lì davanti in fila, – va dicendo. – Signori miei, piú di venti cipressi, che pare un camposanto.
Non se ne sa dar pace.
Voi socchiudete gli occhi; vi stringete nelle spalle; sospirate:
– Gusti!
Perché vi pare che sia propriamente questione di gusti, o d’opinioni, o d’abitudine; e non dubitate minimamente della realtà delle care cose, quale con piacere ora la vedete e la toccate.
Andate via da codesta casa; ripassate fra tre o quattr’anni a rivederla con un altro animo da questo d’oggi; vedrete che ne sarà piú di codesta cara realtà.
– Uh guarda, questa la stanza? questo il giardino?
E speriamo per amor di Dio, che non vi sia morto qualche altro parente prossimo, perché vediate anche voi come un camposanto tutti quei cari cipressi là.
Ora dite che questo si sa, che l’animo muta e che ciascuno può sbagliare.
Già storia vecchia, difatti.
Ma io non ho la pretesa di dirvi niente di nuovo. Solo vi domando:
– E perché allora, santo Dio, fate come se non si sapesse? Perché seguitate a credere che la sola realtà sia la vostra, questa d’oggi, e vi maravigliate, vi stizzite, gridate che sbaglia il vostro amico, il quale, per quanto faccia, non potrà mai avere in sé, poverino, lo stesso animo vostro? –
Lasciatemi dire un’altra cosa, e poi basta.
Non voglio offendervi. La vostra coscienza, voi dite. Non volete che sia messa in dubbio. Me n’ero scordato, scusate. Ma riconosco, riconosco che per voi stesso, dentro di voi, non siete quale io, di fuori, vi vedo. Non per cattiva volontà. Vorrei che foste almeno persuaso di questo. Voi vi conoscete, vi sentite, vi volete in un modo che non è il mio, ma il vostro; e credete ancora una volta che il vostro sia giusto e il mio sbagliato. Sarà, non nego. Ma può il vostro modo essere il mio e viceversa?
Ecco che torniamo daccapo!
Io posso credere a tutto ciò che voi mi dite. Ci credo. Vi offro una sedia: sedete; e vediamo di metterci d’accordo.
Dopo una buona oretta di conversazione, ci siamo intesi perfettamente.
Domani mi venite con le mani in faccia, gridando:
– Ma come? Che avete inteso? Non mi avevate detto cosí e cosí?
Cosí e cosí, perfettamente. Ma il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci, non ci siamo intesi affatto.
Eh, storia vecchia anche questa, si sa. E io non pretendo dir niente di nuovo. Solo torno a domandarvi:
– Ma perché allora, santo Dio, seguitate a fare come se non si sapesse? A parlarmi di voi, se sapete che per essere per me quale siete per voi stesso, e io per voi quale sono per me, ci vorrebbe che io, dentro di me, vi déssi quella stessa realtà che voi vi date, e viceversa; e questo non è possibile?
Ahimè caro, per quanto facciate, voi mi darete sempre una realtà a modo vostro, anche credendo in buona fede che sia a modo mio; e sarà, non dico; magari sarà; ma a un «modo mio» che io non so né potrò mai sapere; che saprete soltanto voi che mi vedete da fuori: dunque un «modo mio» per voi, non un «modo mio» per me.
Ci fosse fuori di noi, per voi e per me, ci fosse una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse, e uguali, immutabili. Non c’è. C’è in me e per me una realtà mia: quella che io mi do; una realtà vostra in voi e per voi: quella che voi vi date; le quali non saranno mai le stesse né per voi né per me.
E allora?
Allora, amico mio, bisogna consolarci con questo: che non è piú vera la mia che la vostra, e che durano un momento cosí la vostra come la mia.
Vi gira un po’ il capo? Dunque dunque... concludiamo.
V. Fissazioni.
Ecco, dunque, volevo venire a questo, che non dovete dirlo piú, non lo dovete dire che avete la vostra coscienza e che vi basta.
Quando avete agito cosí? Jeri, oggi, un minuto fa? E ora? Ah, ora voi stesso siete disposto ad ammettere che forse avreste agito altrimenti. E perché? Oh Dio, voi impallidite. Riconoscete forse anche voi ora, che un minuto fa voi eravate un altro.
Ma sí, ma sí, mio caro, pensateci bene: un minuto fa, prima che vi capitasse questo caso, voi eravate un altro; non solo, ma voi eravate anche cento altri, centomila altri. E non c’è da farne, credete a me, nessuna maraviglia. Vedete piuttosto se vi sembra di poter essere cosí sicuro che di qui a domani sarete quel che assumete di essere oggi.
Caro mio, la verità è questa: che sono tutte fissazioni. Oggi vi fissate in un modo e domani in un altro.
Vi dirò poi come e perché.
Avete mai veduto costruire una casa? Io, tante, qua a Richieri. E ho pensato:
«Ma guarda un po’ l’uomo, che è capace di fare! Mutila la montagna; ne cava pietre; le squadra; le dispone le une sulle altre e, che è che non è, quello che era un pezzo di montagna è diventato una casa.»
– Io – dice la montagna – sono montagna e non mi muovo.
Non ti muovi, cara? E guarda là quei carri tirati da buoi. Sono carichi di te, di pietre tue. Ti portano in carretta, cara mia! Credi di startene costí? E già mezza sei due miglia lontano, nella pianura. Dove? Ma in quelle case là, non ti vedi? una gialla, una rossa, una bianca; a due, a tre, a quattro piani.
E i tuoi faggi, i tuoi noci, i tuoi abeti?
Eccoli qua, a casa mia. Vedi come li abbiamo lavorati bene? Chi li riconoscerebbe piú in queste sedie, in questi armadi; in questi scaffali?
Tu montagna. sei tanto piú grande dell’uomo; anche tu faggio, e tu noce e tu abete; ma l’uomo è una bestiolina piccola, sí, che ha però in sé qualche cosa che voi non avete.
A star sempre in piedi, vale a dire ritta su due zampe soltanto, si stancava; a sdraiarsi per terra come le altre bestie non stava comoda e si faceva male, anche perché, perduto il pelo, la pelle eh! la pelle le è diventata piú fina. Vide allora l’albero e pensò che se ne poteva trar fuori qualche cosa per sedere piú comodamente. E poi sentí che non era comodo neppure il legno nudo e lo imbottí; scorticò le bestie soggette, altre ne tosò e vestí il legno di cuoio e tra il cuoio e il legno mise la lana; ci si sdraiò sopra, beato:
– Ah, come si sta bene cosí!
Il cardellino canta nella gabbietta sospesa tra le tende al palchetto della finestra. Sente forse la primavera che s’approssima? Ahimè, forse la sente anch’esso l’antico ramo del noce da cui fu tratta la mia seggiola, che al canto del cardellino ora scrícchiola.
Forse s’intendono, con quel canto e con questo scricchiolìo, l’uccello imprigionato e il noce ridotto seggiola.
Pare a voi che non c’entri questo discorso della casa, perché adesso la vedete come è, la vostra casa, tra le altre che formano la città. Vi vedete attorno i vostri mobili che sono quali voi secondo il vostro gusto e i vostri mezzi li avete voluti per i comodi vostri. Ed essi vi spirano attorno il dolce conforto familiare, animati come sono da tutti i vostri ricordi; non piú cose, ma quasi intime parti di voi stessi, nelle quali potete toccarla e sentirla quella che vi sembra la realtà sicura della vostra esistenza.
Siano di faggio o di noce o d’abete, i vostri mobili sono, come i ricordi della vostra intimità domestica, insaporati di quel particolare alito che cova in ogni casa e che dà alla nostra vita quasi un odore che piú s’avverte quando ci vien meno, appena cioè, entrando in un’altra casa, vi avvertiamo un alito diverso. E vi secca, lo vedo, ch’io v’abbia richiamato ai faggi, ai noci, agli abeti della montagna.
Come se già cominciaste a compenetrarvi un poco della mia pazzia, subito, d’ogni cosa che vi dico, vi adombrate; domandate:
– Perché? Che c’entra questo?
No, via, non abbiate paura che vi guasti i mobili, la pace, l’amore della casa.
Aria! aria! Lasciamo la casa, lasciamo la città. Non dico che possiate fidarvi molto di me; ma, via, non temete. Fin dove la strada con quelle case sbocca nella campagna potete seguirmi.
Sí, strada, questa. Temete sul serio che possa dirvi di no? Strada strada. Strada brecciata; e attenti alle scaglie. E quelli sono fanali. Venite avanti sicuri.
Ah, quei monti azzurri lontani! Dico «azzurri»; anche voi dite «azzurri», non è vero? D’accordo. E questo qua vicino, col bosco di castagni: castagni, no? vedete, vedete come c’intendiamo? della famiglia delle cupulifere, d’alto fusto. Castagno marrone. Che vasta pianura davanti («verde» eh? per voi e per me «verde» diciamo cosí, che c’intendiamo a maraviglia); e in quei prati là, guardate guardate che bruciare di rossi papaveri al sole! – Ah, come? cappottini rossi di bimbi? – Già, che cieco! Cappottini di lana rossa, avete ragione. M’eran sembrati papaveri. E codesta vostra cravatta pure rossa... Che gioja in questa vana frescura, azzurra e verde, d’aria chiara di sole! Vi levate il cappellaccio grigio di feltro? Siete già sudato? Eh, bello grasso, voi, Dio vi benedica! Se vedeste i quadratini bianchi e neri dei calzoni sul vostro deretano... Giù, giù la giacca! Pare troppo.
La campagna! Che altra pace, eh? Vi sentite sciogliere. Sí; ma se mi sapeste dire dov’è? Dico la pace. No, non temete non temete! Vi sembra propriamente che ci sia pace qua? Intendiamoci, per carità! Non rompiamo il nostro perfetto accordo. Io qua vedo soltanto, con licenza vostra, ciò che avverto in me in questo momento, un’immensa stupidità, che rende la vostra faccia, e certo anche la mia, di beati idioti, ma che noi pure attribuiamo alla terra e alle piante, le quali ci sembra che vivano per vivere, cosí soltanto come in questa stupidità possono vivere.
Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace. Non vi pare? E sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti or ora dalla città; cioè, sí, da un mondo costruito: case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive piú cosí per vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensí per qualche cosa che non c’è e che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un valore che qua almeno in parte, riuscite a perdere, o di cui riconoscete l’affliggente vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia. Capisco, capisco. Rilascio di nervi. Accorato bisogno d’abbandonarvi. Vi sentite sciogliere, vi abbandonate.
Ah, non aver piú coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi piú neanche del proprio nome! Sdraiati qua sull’erba, con le mani intrecciate alla nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole; udire il vento che fa lassú, tra i castagni del bosco, come un fragor di mare.
Nuvole e vento.
Che avete detto? Ahimè, ahimè. Nuvole? Vento? E non vi sembra già tutto, avvertire e riconoscere che quelle che veleggiano luminose per la sterminata azzurra vacuità sono nuvole? Sa forse d’essere la nuvola? Né sanno di lei l’albero e la pietra, che ignorano anche se stessi; e sono soli.
Avvertendo e riconoscendo la nuvola, voi potete, cari miei, pensare anche alla vicenda dell’acqua (e perché no?) che divien nuvola per divenir poi acqua di nuovo. Bella cosa, sí. E basta a spiegarvi questa vicenda un povero professoruccio di fisica. Ma a spiegarvi il perché del perché?
Sentite, sentite: su nel bosco dei castagni, picchi d’accetta. Giù nella cava, picchi di piccone.
Mutilare la montagna, atterrare alberi per costruire case. Là, nella vecchia città, altre case. Stenti, affanni, fatiche d’ogni sorta; perché? Ma per arrivare a un comignolo, signori miei; e per fare uscir poi da questo comignolo un po’ di fumo, subito disperso nella vanità dello spazio.
E come quel fumo, ogni pensiero, ogni memoria degli uomini.
Siamo in campagna qua; il languore ci ha sciolto le membra; è naturale che illusioni e disinganni, dolori e gioie, speranze e desiderii ci appajano vani e transitorii, di fronte al sentimento che spira dalle cose che restano e sopravanzano ad essi, impassibili. Basta guardare là quelle alte montagne oltre valle, lontane lontane, sfumanti all’orizzonte, lievi nel tramonto, entro rosei vapori.
Ecco: sdrajato, voi buttate all’aria il cappellaccio di feltro: diventate quasi tragico; esclamate:
– Oh ambizioni degli uomini!
Già. Per esempio, che grida di vittoria perché l’uomo, come quel vostro cappellaccio, s’è messo a volare, a far l’uccellino! Ecco intanto qua un vero uccellino come vola. L’avete visto? La facilità piú schietta e lieve, che s’accompagna spontanea a un trillo di gioja. Pensare adesso al goffo apparecchio rombante e allo sgomento, all’ansia, all’angoscia mortale dell’uomo che vuol fare l’uccellino! Qua un frullo e un trillo; là un motore strepitoso e puzzolente, e la morte davanti. Il motore si guasta; il motore s’arresta; addio uccellino!
– Uomo, – dite voi, sdrajati qua sull’erba, – lascia di volare! Perché vuoi volare? E quando hai volato?
Bravi. Lo dite qua, per ora, questo; perché siete in campagna, sdrajati sull’erba. Alzatevi, rientrate in città e, appena rientrati, lo intenderete subito perché l’uomo voglia volare. Qua, cari miei, avete veduto l’uccellino vero, che vola davvero, e avete smarrito il senso e il valore delle ali finte e del volo meccanico. Lo riacquisterete subito là, dove tutto è finto e meccanico, riduzione e costruzione: un altro mondo nel mondo: mondo manifatturato, combinato, congegnato; mondo d’artificio, di stortura, d’adattamento, di finzione, di vanità; mondo che ha senso e valore soltanto per l’uomo che ne è l’artefice.
Via, via, aspettate che vi dia una mano per tirarvi sú. Siete grasso, voi. Aspettate: su la schiena v’è rimasto qualche filo d’erba... Ecco andiamo via.
Guardatemi ora questi alberi che scortano di qua e di là, in fila lungo i marciapiedi, questo nostro Corso di Porta Vecchia, che aria smarrita, poveri alberi cittadini, tosati e pettinati!
Probabilmente non pensano, gli alberi; le bestie, probabilmente, non ragionano. Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e potessero parlare, chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra, facciamo crescere in mezzo alla città! Pare che chiedano, nel vedersi cosí specchiati in queste vetrine di botteghe, che stiano a farci qua, tra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestío della vita cittadina. Piantati da tanti anni, sono rimasti miseri e squallidi alberelli. Orecchi, non mostrano d’averne. Ma chi sa, forse gli alberi, per crescere, hanno bisogno di silenzio.
Siete mai stati nella piazzetta dell’Olivella, fuori le mura? al conventino antico dei Trinitarii bianchi? Che aria di sogno e d’abbandono, quella piazzetta, e che silenzio strano, quando dalle tegole nere e muschiose di quel convento vecchio, s’affaccia bambino, azzurro azzurro, il riso della mattina!
Ebbene, ogni anno la terra, lì, nella sua stupida materna ingenuità, cerca d’approfittare di quel silenzio. Forse crede che lì non sia piú città; che gli uomini abbiano disertato quella piazzetta; e tenta di riprendersela, allungando zitta zitta, pian pianino, di tra il selciato, tanti fili d’erba. Nulla è piú fresco e tenero di quegli esili timidi fili d’erba di cui verzica in breve tutta la piazzetta. Ma ahimè non durano piú d’un mese. È città lì; e non è permesso ai fili d’erba di spuntare. Vengono ogni anno quattro o cinque spazzini; s’accosciano in terra e con certi loro ferruzzi li strappano via.
Io vidi l’altr’anno, lì, due uccellini che, udendo lo stridore di quei ferruzzi sui grigi scabri quadratini del selciato, volavano dalla siepe alla grondaia del Convento, di qua alla siepe di nuovo, e scotevano il capino e guardavano di traverso, quasi chiedessero, angosciati, che cosa stéssero a fare quegli uomini là.
– E non lo vedete, uccellini? – io dissi loro. – Non lo vedete che fanno? Fanno la barba a questo vecchio selciato.
Scapparono via inorriditi quei due uccellini.
Beati loro che hanno le ali e possono scappare! Quant’altre bestie non possono, e sono prese e imprigionate e addomesticate in città e anche nelle campagne; e com’è triste la loro forzata obbedienza agli strani bisogni degli uomini! Che ne capiscono? Tirano il carro, tirano l’aratro.
Ma forse anch’esse le bestie, le piante e tutte le cose, hanno poi un senso e un valore per sé, che l’uomo non può intendere, chiuso com’è in quelli che egli per conto suo dà alle une e alle altre, e che la natura spesso, dal canto suo mostra di non riconoscere e d’ignorare.
Ci vorrebbe un po’ piú d’intesa tra l’uomo e la natura. Troppo spesso la natura si diverte a buttare all’aria tutte le nostre ingegnose costruzioni. Cicloni, terremoti... Ma l’uomo non si dà per vinto. Ricostruisce, ricostruisce, bestiolina pervicace. E tutto è per lui materia di ricostruzione. Perché ha in sé quella tal cosa che non si sa che sia, per cui deve per forza costruire, trasformare a modo suo la materia che gli offre la natura ignara, forse, e, almeno quando vuole, paziente. Ma si contentasse soltanto delle cose, di cui, fino a prova contraria, non si conosce che abbiano in sé facoltà di sentire lo strazio a causa dei nostri adattamenti e delle nostre costruzioni! Nossignori. L’uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.
Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch’io possa conoscervi, se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? È forse questa forma la cosa stessa? Sí, tanto per me, quanto per voi; ma non cosí per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo.
Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.
Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà. E perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d’un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione.
Fermezza di volontà, dunque. Costanza nei sentimenti. Tenetevi forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non andare incontro a queste ingrate sorprese.
Ma che belle costruzioni vengono fuori!
– No no, bello mio, statti zitto! Vuoi che non sappia quel che ti piace e quel che non ti piace? Conosco bene i tuoi gusti, io, e come tu la pensi.
Quante volte non m’aveva detto cosí Dida mia moglie? E io, imbecille, non ci avevo fatto mai caso.
Ma sfido ch’ella conosceva quel suo Gengè piú che non lo conoscessi io! Se l’era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il fantoccio ero io.
Sopraffazione? Sostituzione?
Ma che!
Per sopraffare uno, bisogna che questo uno esista; e per sostituirlo, bisogna che esista ugualmente e che si possa prendere per le spalle e strappare indietro per mettere un altro al suo posto.
Dida mia moglie non m’aveva né sopraffatto né sostituito. Sarebbe sembrata a lei al contrario una sopraffazione e una sostituzione, se io, ribellandomi e armando comunque una volontà d’essere a mio modo, mi fossi tolto dai piedi quel Suo Gengè.
Perché quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei non esistevo affatto, non ero mai esistito.
La realtà mia era per lei in quel suo Gengè che ella s’era formato, che aveva pensieri sentimenti e gusti che non eran i miei e che io non avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio di diventar subito un altro che ella non avrebbe piú riconosciuto, un estraneo che ella non avrebbe piú potuto né comprendere né amare.
Purtroppo non avevo mai saputo dare una qualche forma alla mia vita; non mi ero mai voluto fermamente in un modo mio proprio e particolare, sia per non avere mai incontrato ostacoli che suscitassero in me la volontà di resistere e di affermarmi comunque davanti agli altri e a me stesso, sia per questo mio animo disposto a pensare e sentire anche il contrario di ciò che poc’anzi pensava e sentiva, cioè a scomporre e a disgregare in me con assidue e spesso opposte riflessioni ogni formazione mentale e sentimentale; sia infine per la mia natura cosí inchinevole a cedere, ad abbandonarsi alla discrezione altrui, non tanto per debolezza, quanto per noncuranza e anticipata rassegnazione ai dispiaceri che me ne potessero venire.
Ed ecco, intanto, che me n’era venuto! Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io, non essendo io propriamente nessuno per me; tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà.
Gengè, sí, l’aveva, per mia moglie Dida. Ma non potevo in nessun modo consolarmene perché v’assicuro che difficilmente potrebbe immaginarsi una creatura piú sciocca di questo caro Gengè di mia moglie Dida.
E il bello, intanto, era questo: che non era mica senza difetti per lei quel suo Gengè. Ma ella glieli compativa tutti! Tante cose di lui non le piacevano, perché non se l’era costruito in tutto a suo modo, secondo il suo gusto e il suo capriccio: no.
Ma a modo di chi allora?
Non certo a modo mio, perché io, ripeto, non riuscivo davvero a riconoscere per miei i pensieri, i sentimenti, i gusti che ella attribuiva al suo Gengè. Si vede dunque chiaramente che glieli attribuiva perché, secondo lei, Gengè aveva quei gusti e pensava e sentiva cosí, a modo suo, c’è poco da dire, propriamente suo, secondo la sua realtà che non era affatto la mia.
La vedevo piangere qualche volta per certe amarezze ch’egli, Gengè, le cagionava. Egli, sissignori! E se le domandavo:
Ma perché, cara?
Mi rispondeva:
– Ah, me lo domandi? Ah, non ti basta quello che m’hai detto or ora?
– Io?
– Tu, tu, sí!
– Ma quando mai? Che cosa?
Trasecolavo.
Era manifesto che il senso che io davo alle mie parole era un senso per me; quello che poi esse assumevano per lei, quali parole di Gengè, era tutt’altro. Certe parole che, dette da me o da un altro, non le avrebbero dato dolore, dette da Gengè, la facevano piangere, perché in bocca di Gengè assumevano chi sa quale altro valore; e la facevano piangere, sissignori.
Io dunque parlavo per me solo. Ella parlava col suo Gengè. E questi le rispondeva per bocca mia in un modo che a me restava al tutto ignoto. E non è credibile, come diventassero sciocche, false, senza costrutto tutte le cose ch’io le dicevo e che ella mi ripeteva.
– Ma come? – le domandavo. – Io ho detto cosí?
– Sí, Gengè mio, proprio cosí!
Ecco: erano di Gengè suo quelle sciocchezze; ma non erano sciocchezze: tutt’altro! Era il modo di pensare di Gengè, quello.
E io, ah come lo avrei schiaffeggiato, bastonato, sbranato! Ma non lo potevo toccare. Perché, non ostanti i dispiaceri che le cagionava, le sciocchezze che diceva, Gengè era molto amato da mia moglie Dida; rispondeva per lei, cosí com’era, all’ideale del buon marito, a cui qualche lieve difetto si perdona in grazia di tant’altre buone qualità.
Se io non volevo che Dida mia moglie andasse a cercare in un altro il suo ideale, non dovevo toccare quel suo Gengè.
In principio pensavo che forse i miei sentimenti erano troppo complicati; i miei pensieri, troppo astrusi; i miei gusti, troppo insoliti; e che perciò mia moglie, spesso, non intendendoli, li travisava. Pensavo, insomma, che le mie idee e i miei sentimenti non potessero capire, se non cosí ridotti e rimpiccoliti, nel cervellino e nel coricino di lei; e che i miei gusti non si potessero accordare con la sua semplicità.
Ma che! ma che! Non li travisava lei, non li rimpiccoliva lei i miei pensieri e i miei sentimenti. No, no. Cosí travisati, cosí rimpiccoliti come le arrivavano dalla bocca di Gengè, mia moglie Dida li stimava sciocchi; anche lei, capite?
E chi dunque li travisava e li rimpiccoliva cosí? Ma la realtà di Gengè, signori miei! Gengè, quale ella se l’era foggiato, non poteva avere se non di quei pensieri, di quei sentimenti, di quei gusti. Sciocchino ma carino. Ah sí, tanto carino per lei! Lo amava cosí: carino sciocchino. E lo amava davvero.
Potrei recar tante prove. Basterà quest’una: la prima che mi viene a mente.
Dida, da ragazza, si pettinava in un certo modo che piaceva non soltanto a lei, ma anche a me, moltissimo. Appena sposata, cangiò pettinatura. Per lasciarla fare a suo modo io non le dissi che questa nuova pettinatura non mi piaceva affatto. Quand’ecco, una mattina, m’apparve all’improvviso, in accappatoio, col pettine ancora in mano, acconciata al modo antico e tutt’accesa in volto.
– Gengè! – mi gridò, spalancando l’uscio, mostrandosi e rompendo in una risata.
Io restai ammirato, quasi abbagliato.
– Oh, – esclamai, – finalmente!
Ma subito ella si cacciò le mani nei capelli, ne trasse le forcinelle e disfece in un attimo la pettinatura.
– Va’ là! – mi disse. – Ho voluto farti uno scherzo. So bene, signorino, che non ti piaccio pettinata cosí!
Protestai, di scatto:
– Ma chi te l’ha detto, Dida mia? Io ti giuro, anzi, che...
Mi tappò la bocca con la mano. –
– Va’ là! – ripeté. – Tu me lo dici per farmi piacere. Ma io non debbo piacere a me, caro mio. Vuoi che non sappia come piaccio meglio al mio Gengè?
E scappò via.
Capite? Era certa certissima che al suo Gengè piaceva meglio pettinata in quell’altro modo, e si pettinava in quell’altro modo che non piaceva né a lei né a me. Ma piaceva al suo Gengè; e lei si sacrificava. Vi par poco? Non sono veri e proprii sacrifici, questi, per una donna?
Tanto lo amava!
E io – ora che tutto alla fine mi s’era chiarito – cominciai a divenire terribilmente geloso – non di me stesso, vi prego di credere: voi avete voglia di ridere! – non di me stesso, signori, ma di uno che non ero io, di un imbecille che s’era cacciato tra me e mia moglie; non come un’ombra vana, no, – vi prego di credere – perché egli anzi rendeva me ombra vana, me, me, appropriandosi del mio corpo per farsi amare da lei.
Considerate bene. Non baciava forse mia moglie, su le mie labbra, uno che non ero io? Su le mie labbra? No! Che mie! In quanto erano mie, propriamente mie le labbra ch’ella baciava? Aveva ella forse tra le braccia il mio corpo? Ma in quanto realmente poteva esser mio, quel corpo, in quanto realmente appartenere a me, se non ero io colui ch’ella abbracciava e amava?
Considerate bene. Non vi sentireste traditi da vostra moglie con la piú raffinata delle perfidie, se poteste conoscere che ella, stringendovi tra le braccia, assapora e si gode per mezzo del vostro corpo l’amplesso d’un altro che lei ha in mente e nel cuore?
Ebbene, in che era diverso dal mio questo caso? Il mio caso era anche peggiore! Perché, in quello, vostra moglie – scusate – nel vostro amplesso si finge soltanto l’amplesso d’un altro; mentre, nel mio caso, mia moglie si stringeva tra le braccia la realtà di uno che non ero io!
Ed era tanto realtà quest’uno, che quando io alla fine, esasperato, lo volli distruggere imponendo, invece della sua, una mia realtà, mia moglie, che non era stata mai mia moglie ma la moglie di colui, si ritrovò subito, inorridita, come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò di non potermi piú amare, di non poter piú convivere con me neanche un minuto e scappò via.
Sissignori, come vedrete, scappò via.
Ma voglio dirvi prima, almeno in succinto, le pazzie che cominciai a fare per scoprire tutti quegli altri Moscarda che vivevano nei miei piú vicini conoscenti, e distruggerli a uno a uno.
Pazzie per forza. Perché, non avendo mai pensato finora a costruire di me stesso un Moscarda che consistesse ai miei occhi e per mio conto in un modo d’essere che mi paresse da distinguere come a me proprio e particolare, s’intende che non mi era possibile agire con una qualche logica coerenza. Dovevo a volta a volta dimostrarmi il contrario di quel che ero o supponevo d’essere in questo e in quello dei miei conoscenti, dopo essermi sforzato di comprendere la realtà che m’avevano data: meschina, per forza, labile, volubile e quasi inconsistente.
Però ecco: un certo aspetto, un certo senso, un certo valore dovevo pur averlo per gli altri, oltre che per le mie fattezze fuori della veduta mia e della mia estimativa, anche per tante cose a cui finora non avevo mai pensato.
Pensarci e sentire un impeto di feroce ribellione fu tutt’uno.
Il nome, sia: brutto fino alla crudeltà. Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante.
Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro; e io non bollavo ogni volta di quel mio nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno – staccato – che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda.
Parlavo con un amico: niente di strano: mi rispondeva; lo vedevo gestire; aveva la sua solita voce, riconoscevo i suoi soliti gesti; e anch’egli, standomi a sentire se gli parlavo, riconosceva la mia voce e i miei gesti. Nulla di strano, sí, ma finché io non pensavo che il tono che aveva per me la voce del mio amico non era affatto lo stesso di quella ch’egli si conosceva, perché forse il tono della sua voce egli non se lo conosceva nemmeno, essendo quella, per lui, la sua voce; e che il suo aspetto era quale io lo vedevo, cioè quello che gli davo io, guardandolo da fuori, mentre lui, parlando, non aveva davanti alla mente, certo, nessuna immagine di se stesso, neppur quella che si dava e si riconosceva guardandosi allo specchio.
Oh Dio, e che avveniva allora di me? avveniva lo stesso della mia voce? del mio aspetto? Io non ero piú un indistinto io che parlava e guardava gli altri, ma uno che gli altri invece guardavano, fuori di loro, e che aveva un tono di voce e un aspetto ch’io non mi conoscevo. Ero per il mio amico quello che egli era per me: un corpo impenetrabile che gli stava davanti e ch’egli si rappresentava con lineamenti a lui ben noti, i quali per me non significavano nulla; tanto vero che non ci pensavo nemmeno, parlando, né potevo vedermeli né saper come fossero; mentre per lui erano tutto, in quanto gli rappresentavano me quale ero per lui, uno tra tanti: Moscarda. Possibile? E Moscarda era tutto ciò che esso diceva e faceva in quel mondo a me ignoto; Moscarda era anche la mia ombra; Moscarda se lo vedevano mangiare; Moscarda, se lo vedevano fumare; Moscarda, se andava a spasso; Moscarda, se si soffiava il naso.
Non lo sapevo, non ci pensavo, ma nel mio aspetto, cioè in quello che essi mi davano, in ogni mia parola che sonava per loro con una voce ch’io non potevo sapere, in ogni mio atto interpretato da ciascuno a suo modo, sempre c’erano per gli altri impliciti il mio nome e il mio corpo.
Se non che, ormai, per quanto potesse parermi stupido e odioso essere bollato cosí per sempre e non potermi dare un altro nome, tanti altri a piacere, che s’accordassero a volta a volta col vario atteggiarsi de’ miei sentimenti e delle mie azioni; pure ormai, ripeto, abituato com’ero a portar quello fin dalla nascita, potevo non farne gran caso, e pensare che io infine non ero quel nome; che quel nome era per gli altri un modo di chiamarmi, non bello ma che avrebbe potuto tuttavia essere anche piú brutto. Non c’era forse un Sardo a Richieri che si chiamava Porcu? Sí.
– Signor Porcu...
E non rispondeva mica con un grugnito.
– Eccomi, a servirla...
Pulito pulito e sorridente rispondeva. Tanto che uno quasi si vergognava di doverlo chiamare cosí.
Lasciamo dunque il nome, e lasciamo anche le fattezze, benché pure – ora che davanti allo specchio mi s’era duramente chiarita la necessità di non poter dare a me stesso un’immagine di me diversa da quella con cui mi rappresentavo – anche queste fattezze sentivo estranee alla mia volontà e contrarie dispettosamente a qualunque desiderio potesse nascermi d’averne altre, che non fossero queste, cioè questi capelli cosí, di questo colore, questi occhi cosí, verdastri, e questo naso e questa bocca; lasciamo, dico, anche le fattezze, perché alla fin fine dovevo riconoscere che avrebbero potuto essere anche mostruose e avrei dovuto tenermele e rassegnarmi a esse, volendo vivere; non erano, e dunque via, dopo tutto, potevo anche accontentarmene.
Ma le condizioni? dico le condizioni mie che non dipendevano da me? le condizioni che mi determinavano, fuori di me, fuori d’ogni mia volontà? le condizioni della mia nascita, della mia famiglia? Non me l’ero mai poste davanti, io, per valutarle come potevano valutarle gli altri, ciascuno a suo modo, s’intende, con una sua particolar bilancia, a peso d’invidia, a peso d’odio o di sdegno o che so io.
M’ero creduto finora un uomo nella vita. Un uomo, cosí, e basta. Nella vita. Come se in tutto mi fossi fatto da me. Ma come quel corpo non me l’ero fatto io, come non me l’ero dato io quel nome, e nella vita ero stato messo da altri senza mia volontà; cosí, senza mia volontà, tant’altre cose m’erano venute sopra dentro intorno, da altri; tant’altre cose m’erano state fatte, date da altri, a cui effettivamente io non avevo mai pensato, mai dato immagine, l’immagine strana, nemica, con cui mi s’avventavano adesso.
La storia della mia famiglia! La storia della mia famiglia nel mio paese: non ci pensavo; ma era in me, questa storia, per gli altri; io ero uno, l’ultimo di questa famiglia; e ne avevo in me, nel corpo, lo stampo e chi sa in quante abitudini d’atti e di pensieri, a cui non avevo mai riflettuto, ma che gli altri riconoscevano chiaramente in me, nel mio modo di camminare, di ridere, di salutare. Mi credevo un uomo nella vita, un uomo qualunque, che vivesse cosí alla giornata una scioperata vita in fondo, benché piena di curiosi pensieri vagabondi; e no, e no: potevo essere per me uno qualunque, ma per gli altri no; per gli altri avevo tante sommarie determinazioni, ch’io non m’ero date né fatte e a cui non avevo mai badato; e quel mio poter credermi un uomo qualunque voglio dire quel mio stesso ozio, che credevo proprio mio, non era neanche mio per gli altri: m’era stato dato da mio padre, dipendeva dalla ricchezza di mio padre; ed era un ozio feroce, perché mio padre...
Ah, che scoperta! Mio padre... La vita di mio padre...
M’apparve. Alto, grasso, calvo. E nei limpidi quasi vitrei occhi azzurrini il solito sorriso gli brillava per me, d’una strana tenerezza, ch’era un po’ compatimento, un po’ derisione anche, ma affettuosa, come se in fondo gli piacesse ch’io fossi tale da meritarmela, quella sua derisione, considerandomi quasi un lusso di bontà che impunemente egli si potesse permettere.
Se non che, questo sorriso, nella barba folta, cosí rossa e cosí fortemente radicata che gli scoloriva le gote, questo sorriso sotto i grossi baffi un po’ ingialliti nel mezzo, era a tradimento, ora, una specie di ghigno muto e frigido, lì nascosto; a cui non avevo mai badato. E quella tenerezza per me, affiorando e brillando negli occhi da quel ghigno nascosto, m’appariva ora orribilmente maliziosa: tante cose mi svelava a un tratto che mi fendevano di brividi la schiena. Ed ecco lo sguardo di quegli occhi vitrei mi teneva, mi teneva affascinato per impedirmi di pensare a queste cose, di cui pure era fatta la sua tenerezza per me, ma che pure erano orribili.
– Ma se tu eri e sei ancora uno sciocco... sí, un povero ingenuo sventato, che te ne vai appresso ai tuoi pensieri, senza mai fermarne uno per fermarti; e mai un proposito non ti sorge, che tu non ti ci metta a girare attorno, e tanto te lo guardi che infine ti ci addormenti, e il giorno appresso apri gli occhi, te lo vedi davanti e non sai piú come ti sia potuto sorgere se jeri c’era quest’aria e questo sole; per forza, vedi, io ti dovevo voler bene cosí. Le mani? che mi guardi? ah, questi peli rossi qua, anche sul dorso delle dita? gli anelli... troppi? e questa grossa spilla alla cravatta, e anche la catena dell’orologio... Troppo oro? che mi guardi?
Vedevo stranamente la mia angoscia distrarsi con sforzo da quegli occhi, da tutto quell’oro e affiggersi in certe venicciuole azzurrognole che gli trasparivano serpeggianti su su per la pallida fronte con pena, sul lucido cranio contornato dai capelli rossi, rossi come i miei – cioè, i miei come i suoi – e che miei dunque, se cosí chiaramente m’erano venuti da lui? E quel lucido cranio a poco a poco, ecco, mi svaniva davanti come ingoiato nel vano dell’aria.
Mio padre!
Nel vano, ora, un silenzio esterrefatto, grave di tutte le cose insensate e informi, che stanno nell’inerzia mute e impenetrabili allo spirito.
Fu un attimo, ma l’eternità. Vi sentii dentro tutto lo sgomento delle necessità cieche, delle cose che non si possono mutare: la prigione del tempo; il nascere ora, e non prima e non poi; il nome e il corpo che ci è dato; la catena delle cause; il seme gettato da quell’uomo: mio padre senza volerlo; il mio venire al mondo, da quel seme; involontario frutto di quell’uomo; legato a quel ramo; espresso da quelle radici.
Vidi allora per la prima volta mio padre come non lo avevo mai veduto: fuori, nella sua vita; ma non com’era per sé, come in sé si sentiva, ch’io non potevo saperlo; ma come estraneo a me del tutto, nella realtà che, tal quale egli ora m’appariva, potevo supporre gli dessero gli altri.
A tutti i figli sarà forse avvenuto. Notare com’alcunché d’osceno che ci mortifica, laddove è il padre per noi che si rispetta. Notare, dico, che gli altri non dànno e non possono dare a questo padre quella stessa realtà che noi gli diamo. Scoprire com’egli vive ed è uomo fuori di noi, per sé, nelle sue relazioni con gli altri, se questi altri, parlando con lui o spingendolo a parlare, a ridere, a guardare, per un momento si dimentichino che noi siamo presenti, e cosí ci lascino intravedere l’uomo ch’essi conoscono in lui, l’uomo ch’egli è per loro. Un altro. E come? Non si può sapere. Subito nostro padre ha fatto un cenno, con la mano o con gli occhi, che ci siamo noi. E quel piccolo cenno furtivo, ecco, ci ha scavato in un attimo un abisso dentro. Quello che ci stava tanto vicino, eccolo balzato lontano e intravisto là come un estraneo. E sentiamo la nostra vita come lacerata tutta, meno che in un punto per cui resta attaccata ancora a quell’uomo. E questo punto è vergognoso. La nostra nascita staccata, recisa da lui, come un caso comune, forse previsto, ma involontario nella vita di quell’estraneo, prova d’un gesto, frutto d’un atto, alcunché insomma che ora, sí, ci fa vergogna, ci suscita sdegno e quasi odio. E se non propriamente odio, un certo acuto dispetto notiamo anche negli occhi di nostro padre, che in quell’attimo si sono scontrati nei nostri. Siamo per lui, lì ritti in piedi, e con due vigili occhi ostili, ciò che egli dallo sfogo d’un suo momentaneo bisogno o piacere, non si aspettava: quel seme gettato ch’egli non sapeva, ritto ora in piedi e con due occhi fuoruscenti di lumaca che guardano a tentoni e giudicano e gl’impediscono d’essere ancora in tutto a piacer suo, libero, un altro anche rispetto a noi.
Non l’avevo mai finora staccato cosí da me mio padre. Sempre l’avevo pensato, ricordato come padre, qual era per me; ben poco veramente, ché morta giovanissima mia madre, fui messo in un collegio lontano da Richieri, e poi in un altro, e poi in un terzo ove rimasi fino ai diciott’anni, e andai poi all’università e vi passai per sei anni da un ordine di studii all’altro, senza cavare un pratico profitto da nessuno; ragion per cui alla fine fui richiamato a Richieri e subito, non so se in premio o per castigo, ammogliato. Due anni dopo mio padre morí senza lasciarmi di sé, del suo affetto altro ricordo piú vivo che quel sorriso di tenerezza, che era – com’ho detto – un po’ compatimento, un po’ derisione.
Ma ciò che era stato per sé? Moriva ora, mio padre, del tutto. Ciò che era stato per gli altri... E cosí poco per me! E gli veniva anche dagli altri, certo, dalla realtà che gli altri gli davano e ch’egli sospettava, quel sorriso per me... Ora l’intendevo e ne intendevo il perché, orribilmente.
– Che cos’è tuo padre? – mi avevano tante volte domandato in collegio i miei compagni.
E io:
– Banchiere.
Perché mio padre, per me, era banchiere.
Se vostro padre fosse boja, come si tradurrebbe nella vostra famiglia questo titolo per accordarlo con l’amore che voi avete per lui e ch’egli ha per voi? oh, egli tanto tanto buono per voi, oh, io lo so, non c’è bisogno che me lo diciate; me lo immagino perfettamente l’amore d’un tal padre per il suo figliuolo, la tremante delicatezza delle sue grosse mani nell’abbottonargli la camicina bianca attorno al collo. E poi, feroci domani, all’alba, quelle sue mani, sul palco. Perché anche un banchiere, me lo immagino perfettamente, passa dal dieci al venti e dal venti al quaranta per cento, man mano che cresce in paese con la disistima altrui la fama della sua usura, la quale peserà domani come un’onta sul suo figliuolo che ora non sa e si svaga dietro a strani pensieri, povero lusso di bontà, che davvero se lo meritava, ve lo dico io, quel sorriso di tenerezza, mezzo compatimento e mezzo derisione.
Con gli occhi pieni dell’orrore di questa scoperta, ma velato l’orrore da un avvilimento, da una tristezza che pur mi atteggiavano le labbra a un sorriso vano, nel sospetto che nessuno potesse crederli e ammetterli in me davvero, io allora mi presentai davanti a Dida mia moglie.
Se ne stava – ricordo – in una stanza luminosa, vestita di bianco e tutta avvolta entro un fulgore di sole, a disporre nel grande armadio laccato bianco e dorato a tre luci i suoi nuovi abiti primaverili.
Facendo uno sforzo, acre d’onta segreta, per trovarmi in gola una voce che non paresse troppo strana, le domandai:
– Tu lo sai, eh Dida, qual è la mia professione?
Dida, con una gruccia in mano da cui pendeva un abito di velo color isabella, si voltò a guardarmi dapprima, come se non mi riconoscesse. Stordita, ripeté:
– La tua professione?
E dovetti riassaporar l’agro di quell’onta per riprendere, quasi da un dilaceramento del mio spirito, la domanda che ne pendeva. Ma questa volta mi si sfece in bocca:
– Già, – dissi – che cosa faccio io?
Dida, allora, stette un poco a mirarmi, poi scoppiò in una gran risata:
– Ma che dici, Gengè?
Si fracassò d’un tratto allo scoppio di quella risata il mio orrore, l’incubo di quelle necessità cieche in cui il mio spirito, nella profondità delle sue indagini, s’era urtato poc’anzi, rabbrividendo.
Ah, ecco – un usurajo, per gli altri; uno stupido qua, per Dida mia moglie. Gengè io ero; uno qua, nell’animo e davanti agli occhi di mia moglie; e chi sa quant’altri Gengè, fuori, nell’animo o solamente negli occhi della gente di Richieri. Non si trattava del mio spirito, che si sentiva dentro di me libero e immune, nella sua intimità originaria, di tutte quelle considerazioni delle cose che m’erano venute, che mi erano state fatte e date dagli altri, e principalmente di questa del danaro e della professione di mio padre.
No? E di chi si trattava dunque? Se potevo non riconoscer mia questa realtà spregevole che mi davano gli altri, ahimè dovevo pur riconoscere che se anche me ne fossi data una, io, per me, questa non sarebbe stata piú vera, come realtà, di quella che mi davano gli altri, di quella in cui gli altri mi facevano consistere con quel corpo che ora, davanti a mia moglie, non poteva neanch’esso parermi mio, giacché se l’era appropriato quel Gengè suo, che or ora aveva detto una nuova sciocchezza per cui tanto ella aveva riso. Voler sapere la sua professione E che non si sapeva?
– Lusso di bontà... – feci, quasi tra me, staccando la voce da un silenzio che mi parve fuori della vita, perché, ombra davanti a mia moglie, non sapevo piú donde io – io come io – le parlassi.
– Che dici? – ripeté lei, dalla solidità certa della sua vita, con quell’abito color isabella sul braccio.
E com’io non risposi, mi venne avanti, mi prese per le braccia e mi soffiò sugli occhi, come a cancellarvi uno sguardo che non era piú di Gengè, di quel Gengè il quale ella sapeva che al pari di lei doveva fingere di non conoscere come in paese si traducesse il nome della professione di mio padre.
Ma non ero peggio di mio padre, io? Ah! Mio padre almeno lavorava... Ma io! Che facevo io? Il buon figliuolo feroce. Il buon figliuolo che parlava di cose aliene (bizzarre anche): della scoperta del naso che mi pendeva verso destra: oppure dell’altra faccia della luna; mentre la cosí detta banca di mio padre, per opera dei due fidati amici Firbo e Quantorzo, seguitava a lavorare, prosperava. C’erano anche socii minori, nella banca, e anche i due fidati amici vi erano – come si dice – cointeressati, e tutto andava a gonfie vele senza ch’io me n’impicciassi punto, voluto bene da tutti quei consocii, da Quantorzo, come un figliuolo, da Firbo come un fratello; i quali tutti sapevano che con me era inutile parlar d’affari e che bastava di tanto in tanto chiamarmi a firmare; firmavo e quest’era tutto. Non tutto, perché anche di tanto in tanto qualcuno veniva a pregarmi d’accompagnarlo a Firbo o a Quantorzo con un bigliettino di raccomandazione; già! e io allora gli scoprivo sul mento una fossetta che glielo divideva in due parti non perfettamente uguali, una piú rilevata di qua, una piú scempia di là.
Come non m’avevano finora accoppato? Eh, non m’accoppavano, signori, perché, com’io non m’ero finora staccato da me per vedermi, e vivevo come un cieco nelle condizioni in cui ero stato messo, senza considerare quali fossero, perché in esse ero nato e cresciuto e m’erano perciò naturali; cosí anche per gli altri era naturale ch’io fossi cosí; mi conoscevano cosí; non potevano pensarmi altrimenti, e tutti potevano ormai guardarmi quasi senz’odio e anche sorridere a questo buon figliuolo feroce.
Tutti?
Mi sentii a un tratto confitti nell’anima due paja d’occhi come quattro pugnali avvelenati: gli occhi di Marco di Dio e di sua moglie Diamante, che incontravo ogni giorno sulla mia strada, rincasando.
Marco di Dio e sua moglie Diamante ebbero la ventura d’essere (se ben ricordo) le prime mie vittime. Voglio dire, le prime designate all’esperimento della distruzione d’un Moscarda.
Ma con qual diritto ne parlo? con qual diritto do qui aspetto e voce ad altri fuori di me? Che ne so io? Come posso parlarne? Li vedo da fuori, e naturalmente quali sono per me cioè in una forma nella quale certo essi non si riconoscerebbero. E non faccio dunque agli altri lo stesso torto di cui tanto mi lamento io?
Sí, certo; ma con la piccola differenza delle fissazioni, di cui ho già parlato in principio; di quel certo modo in cui ciascuno si vuole, costruendosi cosí o cosí, secondo come si vede e sinceramente crede di essere, non solo per sé, ma anche per gli altri. Presunzione, comunque, di cui bisogna pagar la pena.
Ma voi, lo so, non vi volete ancora arrendere ed esclamate:
E i fatti? Oh, perdio, e non ci sono i dati di fatto?
– Sí, che ci sono.
Nascere è un fatto. Nascere in un tempo anziché in un altro, ve l’ho già detto; e da questo o da quel padre, e in questa o quella condizione; nascere maschio o femmina; in Lapponia o nel centro dell’Africa; e bello o brutto; con la gobba o senza gobba: fatti. E anche se perdete un occhio, è un fatto e potete anche perderli tutti e due, e se siete pittore è il peggior fatto che vi possa capitare.
Tempo, spazio: necessità. Sorte, fortuna, casi: trappole tutte della vita. Volete essere? C’è questo. In astratto non si è. Bisogna che s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, cosí o cosí. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser cosí e di non poter piú essere altrimenti. Quello sbiobbo là, pare una burla, uno scherzo compatibile sí e no per un minuto solo e poi basta; poi dritto, su, svelto, agile, alto.... ma che! sempre cosí, per tutta la vita che è una sola; e bisogna che si rassegni a passarla tutta tutta cosí.
E come le forme, gli atti.
Quando un atto è compiuto, è quello; non si cangia piú. Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che poi si senta e si ritrovi negli atti compiuti, ciò che ha fatto, resta: come una prigione per lui. Se avete preso moglie, o anche materialmente, se avete rubato e siete stato scoperto; se avete ucciso, come spire e tentacoli vi avviluppano le conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra, attorno, come un’aria densa, irrespirabile, la responsabilità che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non previste, vi siete assunta. E come potete piú liberarvi?
Già. Ma che intendete dire con questo? Che gli atti come le forme determinano la realtà mia o la vostra? E come? perché? Che siano una prigione, nessuno può negare. Ma se volete affermar questo soltanto, state in guardia che non affermate nulla contro di me, perché io dico appunto e sostengo anzi questo, che sono una prigione e la piú ingiusta che si possa immaginare.
Mi pareva, santo Dio, d’avervelo dimostrato! Conosco Tizio. Secondo la conoscenza che ne ho, gli do una realtà: per me. Ma Tizio lo conoscete anche voi, e certo quello che conoscete voi non è quello stesso che conosco io perché ciascuno di noi lo conosce a suo modo e gli dà a suo modo una realtà. Ora anche per se stesso Tizio ha tante realtà per quanti di noi conosce, perché in un modo si conosce con me e in un altro con voi e con un terzo, con un quarto e via dicendo. Il che vuol dire che Tizio è realmente uno con me, uno con voi, un altro con un terzo, un altro con un quarto e via dicendo, pur avendo l’illusione anche lui, anzi lui specialmente, d’esser uno per tutti. Il guajo è questo; o lo scherzo, se vi piace meglio chiamarlo cosí. Compiamo un atto. Crediamo in buona fede d’esser tutti in quell’atto. Ci accorgiamo purtroppo che non è cosí, e che l’atto è invece sempre e solamente dell’uno dei tanti che siamo o che possiamo essere, quando, per un caso sciaguratissimo, all’improvviso vi restiamo come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi a esso, alla gogna, per un’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell’atto solo.
– Ma io sono anche questo, e quest’altro, e poi quest’altro! – ci mettiamo a gridare.
Tanti, eh già; tanti ch’erano fuori dell’atto di quell’uno, e che non avevano nulla o ben poco da vedere con esso. Non solo; ma quell’uno stesso, cioè quella realtà che in un momento ci siamo data e che in quel momento ha compiuto l’atto, spesso poco dopo è sparito del tutto; tanto vero che il ricordo dell’atto resta in noi, se pure resta, come un sogno angoscioso, inesplicabile. Un altro, dieci altri, tutti quegli altri che noi siamo o possiamo essere, sorgono a uno a uno in noi a domandarci come abbiamo potuto far questo; e non ce lo sappiamo piú spiegare.
Realtà passate.
Se i fatti non son tanto gravi, queste realtà passate le chiamiamo inganni. Sí, va bene; perché veramente ogni realtà è un inganno. Proprio quell’inganno per cui ora dico a voi che n’avete un altro davanti.
– Voi sbagliate!
Siamo molto superficiali, io e voi. Non andiamo ben addentro allo scherzo, che è piú profondo e radicale, cari miei. E consiste in questo: che l’essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze ch’esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l’essere in quella forma e in quell’atto ci appare.
E ci deve sembrare per forza che gli altri hanno sbagliato; che una data forma, un dato atto non è questo e non è cosí. Ma inevitabilmente, poco dopo, se ci spostiamo d’un punto, ci accorgiamo che abbiamo sbagliato anche noi, e che non è questo e non è cosí; sicché alla fine siamo costretti a riconoscere che non sarà mai né questo né cosí in nessun modo stabile e sicuro; ma ora in un modo ora in un altro, che tutti a un certo punto ci parranno sbagliati, o tutti veri, che è lo stesso; perché una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi é destinata a scoprire l’illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita.
Vi pare che l’abbia presa troppo alta? E caliamo un poco. La palla è elastica; ma per rimbalzare bisogna che tocchi terra. Tocchiamo terra e facciamola rivenire alla mano.
Di quali fatti volete parlare? Del fatto che io sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale nella nobile città di Richieri, nella casa in via tale, numero tale, dal signor Tal dei Tali e dalla signora Tal dei Tali; battezzato nella chiesa madre di giorni sei; mandato a scuola d’anni sei; ammogliato d’anni ventitré; alto di statura un metro e sessantotto; rosso di pelo, ecc. ecc.?
Sono i miei connotati. Dati di fatto, dite voi. E vorreste desumerne la mia realtà? Ma questi stessi dati che per sé non dicono nulla, credete che importino una valutazione uguale per tutti? E quand’anche mi rappresentassero intero e preciso, dove mi rappresenterebbero? in quale realtà?
Nella vostra, che non è quella d’un altro: e poi d’un altro; e poi d’un altro. C’è forse una realtà sola, una per tutti? Ma se abbiamo visto che non ce n’è una neanche per ciascuno di noi, poiché in noi stessi la nostra cangia di continuo! E allora?
Ecco qua, terra terra. Siete in cinque? Venite con me.
Questa è la casa in cui sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale. Ebbene, dal fatto che topograficamente e per l’altezza e la lunghezza e il numero delle finestre poste qua sul davanti questa casa è la stessa per tutti; dal fatto che io per tutti voi cinque vi sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale, rosso di pelo e alto ora un metro e sessantotto, segue forse che voi tutti e cinque diate la stessa realtà a questa casa e a me? A voi che abitate una catapecchia, questa casa sembra un bel palazzo; a voi che avete un certo gusto artistico, sembra una volgarissima casa; voi che passate malvolentieri per la via dov’essa sorge perché vi ricorda un triste episodio della vostra vita, la guardate in cagnesco; voi, invece, con occhio affettuoso perché – lo so – qua dirimpetto abitava la vostra povera mamma che fu buona amica della mia.
E io che vi sono nato? Oh Dio! Quand’anche per tutt’e cinque voialtri in questa casa, che è una e cinque, fosse nato l’anno tale, il mese tale, il giorno tale un imbecille, credete che sia lo stesso imbecille per tutti? Sarò per l’uno imbecille perché lascio Quantorzo direttore della banca e Firbo consulente legale, cioè proprio per la ragione per cui mi stima avvedutissimo l’altro, che crede invece di veder lampante la mia imbecillità nel fatto che conduco a spasso ogni giorno la cagnolina di mia moglie, e cosí via.
Cinque imbecilli. Uno in ciascuno. Cinque imbecilli che vi stanno davanti, come li vedete da fuori, in me che sono uno e cinque come la casa, tutti con questo nome di Mostarda, niente per sé, neanche uno, se serve a disegnar cinque differenti imbecilli che, sí, tutt’e cinque si volteranno se chiamate: Moscarda! – ma ciascuno con quell’aspetto che voi gli date; cinque aspetti; se rido, cinque sorrisi, e via dicendo.
E non sarà per voi, ogni atto ch’io compia, l’atto d’uno di questi cinque? E potrà essere lo stesso, quest’atto, se i cinque sono differenti? Ciascuno di voi lo interpreterà, gli darà senso e valore a seconda della realtà che m’ha data.
Uno dirà:
– Moscarda ha fatto questo.
L’altro dirà:
– Ma che, questo! Ha fatto ben altro!
E il terzo:
– Per me ha fatto benissimo. Doveva fare cosí!
Il quarto:
– Ma che cosí e cosí! Ha fatto malissimo. Doveva fare invece...
E il quinto:
– Che doveva fare? Ma se non ha fatto niente!
E sarete capaci d’azzuffarvi per ciò che Moscarda ha fatto o non ha fatto, per ciò che doveva o non doveva fare, senza voler capire che il Moscarda dell’uno non è il Moscarda dell’altro; credendo di parlare d’un Moscarda solo, che è proprio uno, sí, quello che vi sta davanti cosí e cosí, come voi lo vedete, come voi lo toccate; mentre parlate di cinque Moscarda; perché anche gli altri quattro ne hanno uno davanti. Uno per ciascuno, che è quello solo, cosí e cosí, come ciascuno lo vede e lo tocca. Cinque; e sei, se il povero Moscarda si vede e si tocca uno anche per sé; uno e nessuno, ahimè, come egli si vede e si tocca, se gli altri cinque lo vedono e lo toccano altrimenti.
Tuttavia mi sforzerò di darvi, non dubitate, quella realtà che voi credete d’avere; cioè a dire, di volervi in me come voi vi volete. Non è possibile, ormai lo sappiamo bene, giacché, per quanti sforzi io faccia di rappresentarvi a modo vostro, sarà sempre «un modo vostro» soltanto per me, non «un modo vostro» per voi e per gli altri.
Ma scusate: se per voi io non ho altra realtà fuori di quella che voi mi date, e sono pronto a riconoscere e ad ammettere ch’essa non è meno vera di quella che potrei darmi io; che essa anzi per voi è la sola vera (e Dio sa che cos’è codesta realtà che voi mi date!); vorreste lamentarvi adesso di quella che vi darò io, con tutta la buona volontà di rappresentarvi quanto piú mi sarà possibile a modo vostro?
Non presumo che siate come vi rappresento io. Ho affermato già che non siete neppure quell’uno che vi rappresentate a voi stesso, ma tanti a un tempo, secondo tutte le vostre possibilità d’essere, e i casi, le relazioni e le circostanze. E dunque, che torto vi fo io? Me lo fate voi il torto, credendo ch’io non abbia o non possa avere altra realtà fuori di codesta che mi date voi; la quale è vostra soltanto, credete: una vostra idea, quella che vi siete fatta di me, una possibilità d’essere come voi la sentite, come a voi pare, come la riconoscete in voi possibile; giacché di ciò che possa essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso.
E sono contento che or ora, mentre stavate a leggere questo mio libretto col sorriso un po’ canzonatorio che fin da principio ha accompagnato la vostra lettura, due visite, una dentro l’altra, siano venute improvvisamente a dimostrarvi quant’era sciocco quel vostro sorriso.
Siete ancora sconcertato – vi vedo – irritato, mortificato della pessima figura che avete fatto col vostro vecchio amico, mandato via poco dopo sopravvenuto il nuovo, con una scusa meschina, perché non resistevate piú a vedervelo davanti, a sentirlo parlare e ridere in presenza di quell’altro. Ma come? mandarlo via cosí, se poco prima che quest’altro arrivasse, vi compiacevate tanto a parlare e ridere con lui?
Mandato via. Chi? Il vostro amico? Credete sul serio d’aver mandato via lui?
Rifletteteci un poco.
Il vostro vecchio amico, in sé e per sé, non aveva nessuna ragione d’esser mandato via, sopravvenendo il nuovo. I due, tra loro, non si conoscevano affatto, li avete presentati voi l’uno all’altro; e potevano insieme trattenersi una mezz’oretta nel vostro salotto a chiacchierare del piú e del meno. Nessun imbarazzo né per l’uno né per l’altro.
L’imbarazzo l’avete provato voi, e tanto piú vivo e intollerabile, quanto piú, anzi, vedevate quei due a poco a poco acconciarsi tra loro a fare accordo insieme. L’avete subito rotto quell’accordo. Perché? Ma perché voi (non volete ancora capirlo?) voi, all’improvviso, cioè all’arrivo del vostro nuovo amico, vi siete scoperto due, uno cosí dall’altro diverso, che per forza a un certo punto, non resistendo piú, avete dovuto mandarne via uno. Non il vostro vecchio amico, no, avete mandato via voi stesso, quell’uno che siete per il vostro vecchio amico, perché lo avete sentito tutt’altro da quello che siete, o volete essere, per il nuovo.
Incompatibili non erano tra loro quei due, estranei l’uno all’altro, garbatissimi entrambi e fatti fors’anche per intendersi a maraviglia; ma i due voi che all’improvviso avete scoperto in voi stesso. Non avete potuto tollerare che le cose dell’uno fossero mescolate con quelle dell’altro, non avendo esse propriamente nulla di comune tra loro. Nulla, nulla, giacché voi per il vostro vecchio amico avete una realtà e un’altra per il nuovo, cosí diverse in tutto da avvertire voi stesso che rivolgendovi all’uno, l’altro sarebbe rimasto a guardarvi sbalordito; non vi avrebbe piú riconosciuto; avrebbe esclamato tra sé:
« Ma come? è questo? è cosí? »
E nell’imbarazzo insostenibile di trovarvi, cosí, due, contemporaneamente, avete cercato una scusa meschina per liberarvi, non d’uno di loro, ma d’uno dei due che quei due vi costringevano a essere a un tempo.
Su su, tornate a leggere questo mio libretto, senza piú sorridere come avete fatto finora.
Credete pure che, se qualche dispiacere ha potuto recarvi l’esperienza or ora fatta, quest’è niente, mio caro, perché voi non siete due soltanto, ma chi sa quanti, senza saperlo, e credendovi sempre uno.
Andiamo avanti.
Dico «erano», ma forse sono in vita ancora. Dove? Qua ancora, forse, che potrei vederli domani. Ma qua, dove? Non ho piú mondo per me; nulla posso sapere del loro, dov’essi si fingono d’essere. So di certo che vanno per via, se domani li incontro per via. Potrei domandare a lui:
– Tu sei Marco di Dio?
E lui mi risponderebbe:
– Sí. Marco di Dio. –
– E cammini per questa via?
– Sí. Per questa via.
– E codesta è tua moglie Diamante?
– Sí. Mia moglie Diamante.
– E questa via si chiama cosí e cosí?
– Cosí e cosí. E ha tante case, tante traverse, tanti lampioni, ecc. ecc.
Come in una grammatica d’Orlendorf.
Ebbene, questo mi bastava allora, come adesso a voi, per stabilire la realtà di Marco di Dio e di sua moglie Diamante e della via per cui potrei ancora incontrarli, come allora li incontravo. Quando? Oh, non molti anni fa. Che bella precisione di spazio e di tempo! La via, cinque anni fa.
L’eternità s’è sprofondata per me, non tra questi cinque anni solamente, ma tra un minuto e l’altro. E il mondo in cui vivevo allora mi pare piú lontano della piú lontana stella del cielo.
Marco di Dio e sua moglie Diamante mi sembravano due sciagurati, a cui però la miseria, se da un canto pareva avesse persuaso essere inutile ormai che si lavassero la faccia ogni mattina, certo dall’altro poi persuadeva ancora di non lasciare nessun mezzo intentato, non già per guadagnare quel poco ogni giorno che bastasse almeno a sfamarli, ma per diventare dall’oggi al domani milionarii: mi-lio-na-ri-i come diceva lui sillabando, con gli occhi truci, sbarrati.
Ridevo allora, e tutti con me ridevano nel sentirgli dire cosí. Ora ne provo raccapriccio, considerando che potevo riderne solo perché non m’era ancora avvenuto di dubitare di quella corroborante provvidenzialissima cosa che si chiama la regolarità delle esperienze; per cui potevo stimare un sogno buffo che si potesse diventare milionari dall’oggi al domani. Ma se questo, ch’è stato già dimostrato un sottilissimo filo, voglio dire della regolarità delle esperienze, si fosse spezzato in me? se per il ripetersi di due o tre volte avesse acquistato invece regolarità per me questo sogno buffo? Anche a me allora sarebbe riuscito impossibile dubitare che realmente si possa da un giorno all’altro diventare milionarii. Quanti conservano la beata regolarità delle esperienze non possono immaginare quali cose possono essere reali o verosimili per chi viva fuori d’ogni regola, come appunto quell’uomo lì.
Si credeva inventore.
E un inventore, signori miei, un bel giorno, apre gli occhi, inventa una cosa, e là: diventa milionario!
Tanti ancora lo ricordano come un selvaggio, appena venuto dalla campagna a Richieri. Ricordano che fu accolto allora nello studio d’uno dei nostri piú reputati artisti, ora morto; e che in poco tempo vi aveva imparato a lavorare con molta perizia il marmo. Se non che il maestro, un giorno, volle prenderlo a modello per un suo gruppo che, esposto in gesso in una mostra d’arte, divenne famoso sotto il titolo Satiro e fanciullo.
Aveva potuto l’artista tradurre senza danno nella creta una visione fantastica, non certo castigata ma bellissima, e compiacersene e averne lode.
Il delitto era nella creta.
Non sospettò il maestro che in quel suo scolaro potesse sorgere la tentazione di tradurre a sua volta quella visione fantastica, dalla creta ov’era lodevolmente fissata per sempre, in un movimento momentaneo e non piú lodevole, mentre, oppresso dall’afa d’un pomeriggio estivo, sudava nello studio a sbozzare nel marmo quel gruppo.
Il fanciullo vero non volle avere la sorridente docilità che il finto dava a vedere nella creta; gridò ajuto; accorse gente; e Marco di Dio fu sorpreso in un atto che era della bestia sorta in lui d’improvviso in quel momento d’afa.
Ora, siamo giusti: bestia, sí; schifosissima, in quell’atto; ma per tanti altri atti onestamente attestati, non era piú forse Marco di Dio anche quel buon giovine che il suo maestro dichiarò d’aver sempre conosciuto nel suo sbozzatore?
So che offendo con questa domanda la vostra moralità. Difatti mi rispondete che se in Marco di Dio poté sorgere una tale tentazione è segno evidente ch’egli non era quel buon giovine che il suo maestro diceva. Potrei farvi osservare intanto, che di simili tentazioni (e anche di piú turpi) sono pur piene le vite dei santi. I santi le attribuivano alle demonia e con l’aiuto di Dio, potevano vincerle. Cosí anche i freni che abitualmente imponete a voi stessi impediscono di solito a quelle tentazioni di nascere in voi, o che in voi scappi fuori all’improvviso il ladro o l’assassino. L’oppressione dell’afa d’un pomeriggio estivo non è mai riuscita a liquefare la crosta della vostra abituale probità né ad accendere in voi momentaneamente la bestia originaria. Potete condannare.
Ma se io ora mi metto a parlarvi di Giulio Cesare, la cui gloria imperiale vi riempie di tanta ammirazione?
– Volgarità! – esclamate. – Non era piú, allora, Giulio Cesare. Lo ammiriamo là dove Giulio Cesare era veramente lui.
Benissimo. Lui. Ma vedete? Se Giulio Cesare era lui soltanto là dove voi l’ammirate, quando non era piú là, dov’era? chi era? Nessuno? uno qualunque? e chi?
Bisognerà domandarlo a Calpurnia sua moglie, o a Nicomede re di Bitinia.
Batti e batti, alla fine v’è entrato in mente anche questo: che Giulio Cesare, uno, non esisteva. Esisteva, sí, un Giulio Cesare qual egli, in tanta parte della sua vita, si rappresentava; questo aveva senza dubbio un valore incomparabilmente piú grande degli altri; non però quanto a realtà, vi prego di credere perché non meno reale di questo Giulio Cesare imperiale era quel lezioso fastidioso tutto raso e discinto e infedelissimo di sua moglie Calpurnia: o quello impudicissimo di Nicomede re di Bitinia.
Il guajo è questo, sempre, signori: che dovevano tutti quanti esser chiamati con quel nome solo di Giulio Cesare, e che in un solo corpo di sesso maschile dovevano coabitare tanti e anche una femmina; la quale, volendo esser femmina e non trovandone il modo in quel corpo maschile, dove e come poté, innaturalmente lo fu, e impudicissima e anche piú volte recidiva.
Il satiro in quel povero Marco di Dio scappò fuori, a buon conto, una volta sola e tentato da quel gruppo del suo maestro. Sorpreso in quell’atto d’un momento, fu condannato per sempre. Non trovò nessuno che volesse avere considerazione di lui; e, uscito dal carcere, si diede ad almanaccare i piú bislacchi disegni per sollevarsi dall’ignominiosa miseria in cui era caduto, a braccetto con una donna, la quale un bel giorno era venuta a lui, nessuno sapeva come né da che parte.
Diceva da una decina d’anni che sarebbe partito per l’Inghilterra la settimana ventura. Ma erano forse passati per lui questi dieci anni? Erano passati per coloro che glielo sentivano dire. Egli era sempre deciso a partire per l’Inghilterra la settimana ventura. E studiava l’inglese. O almeno, da anni teneva sotto il braccio una grammatica inglese, aperta e ripiegata sempre allo stesso punto, sicché quelle due pagine dell’apertura con lo strusciare del braccio e il sudicio della giacca erano ridotte ormai illeggibili, mentre le seguenti erano rimaste incredibilmente pulite. Ma fin dove era il sudicio egli sapeva. E di tratto in tratto, andando per via, rivolgeva di sorpresa, aggrondato, qualche domanda alla moglie, come a saggiarne la prontezza e la maturità:
Is Jane a happy child? –
E la moglie rispondeva pronta e seria:
– Yes, Jane is a happy child.–
Perché anche la moglie la settimana ventura sarebbe partita per l’Inghilterra con lui.
Era uno sgomento, e insieme una pietà, questo spettacolo d’una donna, com’egli fosse riuscito ad attirarla, e farla vivere da cagna fedele in quel suo sogno buffo, di diventar milionario dall’oggi al domani con un’invenzione, per esempio, di «cessi inodori per paesi senz’acqua nelle case». Ridete? La loro serietà era cosí truce per questo; dico, perché tutti ne ridevano. Era anzi feroce. E tanto piú feroce diventava quanto piú crescevano, attorno ad essa, le risa.
E ormai erano arrivati a tal punto, che se qualcuno per caso si fermava ad ascoltare i loro disegni senza riderne, essi, anziché compiacersene, gli lanciavano oblique occhiatacce, non pur di sospetto, anche d’odio. Perché la derisione degli altri era ormai l’aria in cui quel loro sogno respirava. Tolta la derisione, rischiavano di soffocare.
Mi spiego perciò come per loro il peggior nemico fosse stato mio padre.
Non si permetteva infatti solamente con me mio padre quel lusso di bontà di cui ho parlato piú sú. Si compiaceva anche d’agevolare, con munificenza che non si stancava, e ridendo di quel suo particolar sorriso, le stolide illusioni di certuni che, come Marco di Dio, venivano a piangere davanti a lui la loro infelicità di non aver tanto da ridurre a effetto i loro disegni, il loro sogno: la ricchezza!
– Quanto? – domandava mio padre.
Oh, poco. Perché era sempre poco ciò che bastava a costoro per diventar ricchi: mi-lio-na-ri-i. E mio padre dava.
– Ma come! dicevi che ci voleva cosí poco...
– Già. Non avevo calcolato bene. Ma adesso, proprio...
– Quanto?
– Oh, poco!
E mio padre dava, dava. Ma poi, a un certo punto, basta. E quelli allora, com’è facile intendere, non gli restavano grati del non aver voluto godere beffardamente fin all’ultimo della loro totale disillusione e del potere attribuire a lui invece, senza rimorso, il fallimento, sul meglio, delle loro illusioni. E nessuno con piú accanimento di costoro si vendicava chiamando mio padre usurajo.
Il piú accanito di tutti era stato questo Marco di Dio. Il quale ora, morto mio padre, rovesciava su me, e non senza ragione, il suo odio feroce. Non senza ragione, perché anch’io, quasi a mia insaputa, seguitavo a beneficarlo. Lo tenevo alloggiato in una catapecchia di mia proprietà, di cui né Firbo né Quantorzo gli avevano mai richiesto la pigione. Ora questa catapecchia appunto mi diede il mezzo di tentare su lui il mio primo esperimento.
Totale, perché bastò muovere in me appena appena, cosí per giuoco, la volontà di rappresentarmi diverso a uno dei centomila in cui vivevo, perché s’alterassero in centomila modi diversi tutte le altre mie realtà.
E per forza questo giuoco, se considerate bene, doveva fruttarmi la pazzia. O per dir meglio, quest’orrore: la coscienza della pazzia, fresca e chiara, signori, fresca e chiara come una mattinata d’aprile, e lucida e precisa come uno specchio.
Perché, incamminandomi verso quel primo esperimento, andavo a pórre graziosamente la mia volontà fuori di me, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca. Volevo compiere un atto che non doveva esser mio, ma di quell’ombra di me che viveva realtà in un altro; cosí solida e vera che avrei potuto togliermi il cappello e salutarla, se per dannata necessità non avessi dovuto incontrarla e salutarla viva, non propriamente in me, ma nel mio stesso corpo, il quale, non essendo per sé nessuno, poteva esser mio ed era mio in quanto rappresentava me a me stesso, ma poteva anche essere ed era di quell’ombra, di quelle centomila ombre che mi rappresentavano in centomila modi vivo e diverso ai centomila altri.
Difatti, non andavo forse incontro al signor Vitangelo Moscarda per giocargli un brutto tiro? Eh! signori, sí, un brutto tiro (scusatemi tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d’ammiccare cosí, perché, non potendo sapere come v’appaio in questo momento, tiro anche, con questi ammiccamenti, a indovinare) cioè, a fargli compiere un atto del tutto contrario a lui e incoerente: un atto che, distruggendo di colpo la logica della sua realtà, lo annientasse cosí agli occhi di Marco di Dio come di tanti altri?
Senza intendere, sciagurato! che la conseguenza d’un simile atto non poteva esser quella che m’immaginavo: di presentarmi cioè a domandare a tutti, dopo:
– Vedete adesso, signori, che non è vero niente che io sia quell’usurajo che voi volete vedere in me?
Ma quest’altra, invece: che tutti dovessero esclamare, sbigottiti:
– O oh! sapete? l’usurajo Moscarda è impazzito!
Perché l’usurajo Moscarda poteva sí impazzire, ma non si poteva distruggere cosí d’un colpo, con un atto contrario a lui e incoerente. Non era un’ombra da giocarci e da pigliare a gabbo, l’usurajo Moscarda: un signore era da trattare coi dovuti riguardi, alto un metro e sessantotto, rosso di pelo come papà, il fondatore della banca, con le sopracciglia, sí, ad accento circonflesso e quel naso che gli pendeva verso destra come a quel caro stupido Gengè di mia moglie Dida: un signore, insomma, che Dio liberi, impazzendo, rischiava di trascinarsi al manicomio con sé tutti gli altri Moscarda ch’io ero per gli altri e anche, oh Dio, quel povero innocuo Gengè di mia moglie Dida; e, se permettete, anche me che, leggero e sorridente, ci avevo giocato.
Rischiai, cioè, rischiammo tutti quanti, come vedrete, il manicomio, questa prima volta; e non ci bastò. Dovevamo anche rischiar la vita, perché io mi riprendessi e trovassi alla fine (uno, nessuno e centomila) la via della salute.
Ma non anticipiamo.
Mi recai dapprima nello studio del notaro Stampa, in Via del Crocefisso, numero 24. Perché (eh, questi sono sicurissimi dati di fatto) a dí... dell’anno..., regnando Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della nazione re d’Italia nella nobile città di Richieri, in Via del Crocefisso, al numero civico 24, teneva studio di regio notaro il signor Stampa cav. Elpidio, d’anni 52 o 53.
– Ci sta ancora? Al numero 24? Lo conoscete tutti il notaro Stampa?
Oh, e allora possiamo essere sicuri di non sbagliare. Quel notaro Stampa là, che conosciamo tutti. Va bene? Ma io ero, entrando nello studio, in uno stato d’animo, che voi non vi potete immaginare. Come potreste immaginarvelo, scusate, se vi pare ancora la cosa piú naturale del mondo entrare nello studio d’un notaro per stendere un atto qualsiasi, e se dite che lo conoscete tutti questo notaro Stampa?
Vi dico che io ci andavo, quel giorno, per il mio primo esperimento. E insomma, lo volete fare anche voi, sí o no, questo esperimento con me, una buona volta? dico, di penetrare lo scherzo spaventoso che sta sotto alla pacifica naturalezza delle relazioni quotidiane, di quelle che vi paiono le piú consuete e normali, e sotto la quieta apparenza della cosí detta realtà delle cose? Lo scherzo, santo Dio, per cui pure v’accade d’arrabbiarvi ogni cinque minuti e di gridare all’amico che vi sta accanto:
– Ma scusa! ma come non vedi questo? sei cieco?
E quello no, non lo vede, perché vede un’altra cosa lui, quando voi credete che debba vedere la vostra, come pare a voi. La vede invece come pare a lui, e per lui dunque il cieco siete voi.
Questo scherzo, io dico; com’io già lo avevo penetrato.
Ora entravo in quello studio, carico di tutte le riflessioni e considerazioni covate cosí lungamente; e me le sentivo come friggere dentro, insieme, in gran subbuglio; e mi volevo intanto tenere cosí, in una lucida fissità, in una quasi immobile frigidezza, mentre figuratevi in quale risata fragorosa mi veniva di prorompere nel vedermelo davanti serio serio, poverino, quel signor notaro Stampa, senza il minimo sospetto ch’io potessi per me non essere quale mi vedeva lui, e sicurissimo d’esser lui per me quello stesso che ogni giorno nell’annodarsi la cravattina nera davanti allo specchio si vedeva, con tutte le sue cose attorno.
Capite adesso? Mi veniva d’ammiccare, d’ammiccare anche di lui, per significargli furbescamente «Bada sotto! Bada sotto!». Mi veniva anche, Dio mio, di cacciar fuori all’improvviso la lingua, di smuovere il naso con una subitanea smusatina per alterargli a un tratto, cosí per gioco e senza malizia, quell’immagine di me ch’egli credeva vera. Ma serio eh? Serio, sú, serio. Dovevo far l’esperimento.
– Dunque, signor notaro, eccomi qua. Ma scusi, lei sta sempre sprofondato in questo silenzio?
Si voltò brusco a quadrarmi. Disse:
– Silenzio. Dove?
Per Via del Crocefisso era difatti in quel momento un continuo transito di gente e di vetture.
– Già; non nella via, certo. Ma ci sono qua tutte queste carte, signor notaro, dietro i vetri impolverati di questi scaffali. Non sente?
Tra turbato e stordito, tornò a squadrarmi; poi tese l’orecchio:
– Che sento?
– Ma questo raspío! Ah, le zampine, scusi, le zampine lì del suo canarino; scusi scusi. Sono unghiute quelle zampine, e raspando su lo zinco della gabbia...
– Già. Sí. Ma che vuol dire?
– Oh, niente. Non le dà ai nervi, a lei, lo zinco, signor notaro?
– Lo zinco? Ma chi ci bada? Non l’avverto...
Eppure, lo zinco, pensi! in una gabbia, sotto le gracili zampine d’un canarino, nello studio d’un notaro... Ci scommetto che non canta, questo canarino.
– Nossignore, non canta.
Cominciava a guardarmi in un certo modo il signor notaro, che stimai prudente lasciar lì il canarino per non compromettere l’esperimento; il quale, almeno in principio, e segnatamente lì, alla presenza del notaro, aveva bisogno che nessun dubbio sorgesse sulle mie facoltà mentali. E domandai al signor notaro se sapesse d’una certa casa, sita in via tale numero tale, di pertinenza d’un certo tale signor Moscarda Vitangelo, figlio del fu Francesco Antonio Moscarda...
– E non è lei?
– Già, io sí. Sarei io... –
Era cosí bello, peccato! in quello studio di notaro, tra tutti quegli incartamenti ingialliti in quei vecchi scaffali polverosi, parlare cosí, come a una distanza di secoli, d’una certa casa di pertinenza d’un certo tal Moscarda Vitangelo... Tanto piú che, sí, ero io lì; presente e stipulante, in quello studio di notaro, ma chi sa come e dove se lo vedeva lui, il signor notaro, quel suo studio; che odore ci sentiva diverso da quello che ci sentivo io; e chi sa come e dov’era, nel mondo del signor notaro, quella certa casa di cui gli parlavo con voce lontana; e io, io, nel mondo del signor notaro, chi sa come curioso...
Ah, il piacere della storia, signori! Nulla piú riposante della storia. Tutto nella vita vi cangia continuamente sotto gli occhi; nulla di certo; e quest’ansia senza requie di sapere come si determineranno i casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che vi tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione! Tutto determinato, tutto stabilito, all’incontro, nella storia: per quanto dolorose le vicende e tristi i casi, eccoli lì, ordinati, almeno, fissati in trenta, quaranta paginette di libro: quelli, e lì; che non cangeranno mai piú almeno fino a tanto che un malvagio spirito critico non avrà la mala contentezza di buttare all’aria quella costruzione ideale, ove tutti gli elementi si tenevano a vicenda cosí bene congegnati, e voi vi riposavate ammirando come ogni effetto seguiva obbediente alla sua causa con perfetta logica e ogni avvenimento si svolgeva preciso e coerente in ogni suo particolare, col signor duca di Nevers, che il giorno tale, anno tale, ecc. ecc.
Per non guastare tutto, dovetti ricondurmi alla sospesa, temporanea e costernata realtà del signor notaro Stampa.
– Io, già, – m’affrettai a dirgli. – Sarei io, signor notaro. E la casa, lei non ha difficoltà, è vero? ad ammettere che è mia, come tutta l’eredità del fu Francesco Antonio Moscarda mio padre. Già! E che è sfitta adesso questa casa, signor notaro. Oh piccola, sa... Saranno cinque o sei stanze, con due corpi bassi – si dice cosí? – Belli, i corpi bassi... Sfitta dunque, signor notaro; da poterne disporre a piacer mio. Ora dunque lei...
E qui mi chinai e a bassa voce, con molta serietà, confidai al signor notaro l’atto che intendevo fare e che qui, per ora, non posso riferire, perché – gli dissi:
– Deve restare tra me e lei, signor notaro, sotto il segreto professionale, fintanto che parrà a me. Siamo intesi?
Intesi. Ma il signor notaro mi avvertí che per fare quell’atto gli bisognavano alcuni dati e documenti per cui mi toccava andare al banco, da Quantorzo. Mi sentii contrariato; tuttavia m’alzai. Come mi mossi, una maledetta voglia mi sorse di domandare al signor notaro:
«Come cammino? Scusi: mi sappia dire almeno come mi vede camminare!»
Mi trattenni a stento. Ma non potei fare a meno di voltarmi, nell’aprir l’uscio a vetri, e di dirgli con un sorriso di compassione:
– Già, col mio passo, grazie!
– Come dice? – domandò, stordito, il signor notaro.
– Ah, niente, dico che me ne vado col mio passo, signor notaro. Ma sa che una volta io ho veduto ridere un cavallo? Sissignore, mentre il cavallo camminava. Lei ora va a guardare il muso a un cavallo per vederlo ridere, e poi viene a dirmi che non l’ha visto ridere. Ma che muso! I cavalli non ridono mica col muso! Sa con che cosa ridono i cavalli, signor notaro? Con le natiche. Le assicuro che il cavallo camminando ride con le natiche, sí, alle volte, di certe cose che vede o che gli passano per il capo. Se lei vuol vederlo ridere il cavallo, gli guardi le natiche e si stia bene!
Capisco che non c’entrava dirgli cosí. Capisco tutto io. Ma se mi rimetto nelle condizioni d’animo in cui mi trovavo allora, che a vedermi addosso gli occhi della gente mi pareva di sottostare a un’orribile sopraffazione pensando che tutti quegli occhi mi davano un’immagine che non era certo quella che io mi conoscevo ma un’altra che io non potevo né conoscere né impedire; altro che dirle, mi veniva di farle, di farle, le pazzie, come rotolarmi per le strade o sorvolarle a passo di ballo, ammiccando di qua, cacciando fuori la lingua e facendo sberleffi di là... E invece andavo cosí serio, cosí serio, io, per via. E anche voi, che bellezza, andate tutti cosí serii...
Mi toccò dunque andare al banco per quelle carte della casa di cui aveva bisogno il signor notaro.
Erano mie quelle carte, senza dubbio, poiché mia era la casa, e potevo disporne. Ma se ci pensate bene, quelle carte, benché mie, non avrei potuto averle se non di furto o strappandole di mano con violenza pazzesca a un altro che agli occhi di tutti n’era il legittimo proprietario: voglio dire al signor usurajo Vitangelo Moscarda.
Per me, questo, era evidente, perché io lo vedevo bene fuori, vivo negli altri e non in me, quel signor usurajo Vitangelo Moscarda. Ma per gli altri che in me non vedevano invece se non quell’usurajo, per gli altri io, là al banco, andavo a rubarle a me stesso quelle carte o a strapparmele di mano pazzescamente.
Potevo dir forse che non ero io? o che io ero un altro? Né era in nessun modo da ragionare un atto che agli occhi di tutti voleva appunto apparire contrario a me stesso e incoerente.
Seguitavo a camminare, come vedete, con perfetta coscienza su la strada maestra della pazzia, che era la strada appunto della mia realtà, quale mi s’era ormai lucidissimamente aperta davanti, con tutte le immagini di me, vive, specchiate e procedenti meco.
Ma io ero pazzo perché ne avevo appunto questa precisa e specchiante coscienza, voi che pur camminate per questa medesima strada senza volervene accorgere, voi siete savii, e tanto piú quanto piú forte gridate a chi vi cammina accanto:
– Io, questo? io, cosí? Tu sei cieco! tu sei pazzo!
Il furto, intanto, non era possibile, almeno lì per lì. Non sapevo dove stessero quelle carte. L’ultimo dei subalterni di Quantorzo o di Firbo era in quella banca piú padrone di me. Quando vi entravo, invitato per la firma, gl’impiegati non alzavano nemmeno gli occhi dai loro registri, e se qualcuno mi guardava, chiarissimamente con lo sguardo dimostrava di non tenermi in nessun conto.
Eppure lì lavoravano tutti con tanto zelo per me, per ribadire sempre piú con quel loro assiduo lavoro il tristo concetto che in paese si aveva di me, ch’io fossi un usurajo. E a nessuno passava per il capo ch’io potessi di quel loro zelo, non che esser grato e disposto a compiacerli della mia lode, sentirmi offeso.
Ah che rigido e attediato squallore in quella banca! Tutti quei tramezzi vetrati che correvano lungo i tre stanzoni in fila, tramezzi di vetro diacciato, con cinque sportellini gialli in ciascuno, come gialla era la cornice e gialla l’intelaiatura delle ampie lastre; e qua e là macchie d’inchiostro; qua e là qualche striscia di carta incollata sulla rottura d’una lastra; e il pavimento di vecchi mattoni di terracotta, strusciato in mezzo, lungo la fila dei tre stanzoni; strusciato davanti a ogni sportellino: triste corridojo, con quei vetri dei tramezzi di qua e i vetri delle due ampie finestre di là, per ogni stanzone, impolverati; e quelle filze di cifre nei muri, a penna, a lapis, sopra i tavolini sporchi d’inchiostro, tra una finestra e l’altra, sotto le cornici scrostate di certe telacce affumicate qua e là gonfie e polverose, appese lì; e un tanfo di vecchio da per tutto, misto con quello acre della carta dei registri e con quell’alido esalante da un forno giú a pianterreno. E la malinconia disperata di quelle poche seggiole d’antica foggia, presso i tavolini, su cui nessuno sedeva, che tutti scostavano e lasciavano lì, fuori di posto, dove e come per quelle povere seggiole inutili era certo un’offesa e una pena esser lasciate.
Tante volte, entrando, m’era venuto di far notare:
«Ma perché queste seggiole? Che condanna è la loro, di stare qua, se nessuno se ne serve?»
Me n’ero trattenuto, non già perché avessi avvertito a tempo che in un luogo come quello la pietà per le seggiole avrebbe fatto strabiliare tutti e rischiavo fors’anche d’apparir cinico: me n’ero trattenuto, avvertendo invece che avrei fatto ridere di me per quel badare a una cosa che certamente sarebbe sembrata stravagante a chi sapeva quanto poco badassi agli affari.
Quel giorno, entrando, trovai i commessi affollati nell’ultimo stanzone, che si squaccheravano di tanto in tanto in risate assistendo a un diverbio tra Stefano Firbo e un certo Turolla, burlato da tutti anche per il modo con cui si vestiva.
Una giacca lunga, diceva quel povero Turolla, a lui cosí corto, lo avrebbe fatto sembrare piú corto. E diceva bene. Ma non s’accorgeva intanto, cosí tracagnotto e serio serio, con quei mustacchioni da brigadiere, come gli stava ridicola di dietro la giacchettina accorciata, che gli scopriva le natiche sode.
Ora lì lì per piangere, avvilito, congestionato, frustato dalle risate dei colleghi, alzava un braccino e badava a dire a Firbo:
– Oh Dio, come le piglia lei le parole!
Firbo gli era sopra e gli gridava in faccia, scrollandolo furiosamente per quel braccio levato:
– Ma che conosci? che conosci? tu neanche l’o conosci; eppure ti somiglia!
Come venni a sapere che si trattava di un tale che aveva chiesto un prestito alla banca, presentato appunto dal Turolla che diceva di conoscerlo per un brav’uomo, mentre Firbo sosteneva il contrario, mi sentii stravolgere da un impeto di ribellione.
Ignorando la tortura segreta del mio spirito, nessuno poté intenderne la ragione, e tutti restarono quasi basiti quand’io, strappando indietro due o tre di quei commessi:
– E tu? – gridai a Firbo, – che conosci tu? con qual diritto vuoi importi cosí a un altro?
Firbo si voltò sbalordito a guardarmi e, quasi non credendo a se stesso nel vedermi cosí addosso, gridò:
– Sei pazzo?
Mi venne, non so come, di buttargli in faccia una risposta ingegnosa, che agghiacciò tutti:
– Sí; come tua moglie, che ti conviene tener chiusa al manicomio!
Mi si parò davanti pallido e convulso:
– Com’hai detto? Mi conviene?
Diedi una spallata e seccato dello sgomento che teneva tutti e, nello stesso tempo, entro di me come improvvisamente assordito dalla coscienza dell’inopportunità di quella mia intromissione, gli risposi piano, per troncare:
– Ma sí, lo sai bene.
E non potei udire, come se dopo queste parole fossi diventato subito, non so, di pietra, ciò che Firbo mi gridò tra i denti prima di scappar via sulle furie. So che sorridevo mentre Quantorzo, sopravvenuto all’alterco, mi trascinava via con sé nella stanzetta della direzione. Sorridevo per dimostrare che di quella violenza non c’era piú bisogno e che tutto era finito, quantunque sentissi bene in me, che in quel momento, pur mentre sorridevo, avrei potuto uccidere qualcuno, tanto la concitata severità di Quantorzo mi irritava. Nella stanzetta della direzione mi misi a guardare intorno, stupito io stesso che lo strano stordimento in cui ero cosí di colpo caduto non m’impedisse di percepire lucidamente e precisamente le cose, fin quasi ad avere la tentazione di riderne, uscendo apposta, tra quella fiera riprensione che Quantorzo mi dava, in qualche domanda di curiosità infantile su questo o quell’oggetto della stanza. E intanto, non so, quasi automaticamente pensavo che a Stefano Firbo, da piccolo, avevano dato i bottoni alla schiena e che sebbene la gobba non gli si vedesse, tutta la cassa del corpo era però da gobbo: eh sí, su quelle esili e lunghe zampe da uccello: ma elegante; sí sí: un falso gobbo elegante; ben riuscito.
E, cosí pensando, mi parve chiaro tutt’a un tratto ch’egli dovesse valersi della sua non comune intelligenza per vendicarsi contro tutti coloro che, da piccoli, non avevano avuto come lui i bottoni alla schiena.
Pensavo queste cose, ripeto, come se le pensasse un altro in me, quello che d’improvviso era diventato cosí stranamente freddo e svagato, non tanto per opporre a difesa, se occorresse, quella freddezza, quanto per rappresentare una parte, dietro la quale mi conveniva tenere ancora nascosto ciò che della spaventosa verità, che già mi s’era chiarita, m’avveniva sempre piú di scoprire:
«Ma sí! è qui tutto,» pensavo, «in questa sopraffazione. Ciascuno vuole imporre agli altri quel mondo che ha dentro, come se fosse fuori, e che tutti debbano vederlo a suo modo, e che gli altri non possano esservi se non come li vede lui.»
Mi ritornavano davanti agli occhi le stupide facce di tutti quei commessi, e seguitavo a pensare:
«Ma sí! Ma sí! Che realtà può essere quella che la maggioranza degli uomini riesce a costituire in sé? Misera, labile, incerta. E i sopraffattori, ecco, ne approfittano! O piuttosto, s’illudono di poterne profittare, facendo subire o accettare quel senso e quel valore ch’essi dànno a se stessi, agli altri, alle cose, per modo che tutti vedano e sentano, pensino e parlino a modo loro.»
Mi levai da sedere; m’avvicinai alla finestra con un gran refrigerio; poi mi voltai verso Quantorzo che, interrotto nel meglio del suo discorso, stava a guardarmi con tanto d’occhi; e, seguitando il pensiero che mi torturava, dissi:
– Ma che! ma che! s’illudono!
– Chi s’illude?
– Quelli che vogliono sopraffare il signor Firbo, per esempio! S’illudono perché in verità poi, caro mio, non riescono a imporre altro che parole. Parole, capisci? parole che ciascuno intende e ripete a suo modo. Eh, ma si formano pure cosí le cosiddette opinioni correnti! E guji a chi un bel giorno si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono. Per esempio: usurajo! Per esempio: pazzo! Ma di’ un po’: come si può star quieti a pensare che c’è uno che s’affanna a persuadere agli altri che tu sei come ti vede lui, e a fissarti nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di te e ad impedire che gli altri ti vedano e ti giudichino altrimenti?
Ebbi appena il tempo di notare lo sbalordimento di Quantorzo, che mi rividi davanti Stefano Firbo. Gli scorsi subito negli occhi che m’era diventato in pochi istanti nemico. E nemico subito anch’io, allora; nemico, perché non capiva che, se crude erano state le mie parole, il sentimento che poc’anzi aveva fatto impeto in me, non era contro di lui direttamente; tanto vero che di quelle parole ero pronto a chiedergli scusa. Già come ubriaco, feci di piú. Com’egli, venendomi a petto, torbido e minaccioso, mi disse:
– Voglio che tu mi renda conto di ciò che hai detto per mia moglie!
M’inginocchiai.
– Ma sí! Guarda! – gli gridai, – cosí!
E toccai con la fronte il pavimento.
Ebbi subito orrore del mio atto, o meglio, ch’egli potesse credere con Quantorzo che mi fossi inginocchiato per lui. Li guardai ridendo, e tónfete, tónfete, ancora due volte a terra, la fronte.
– Tu, non io, capisci? davanti a tua moglie, capisci? dovresti star cosí! E io, e lui, e tutti quanti, davanti ai cosí detti pazzi, cosí!
Balzai in piedi, friggendo. I due si guardarono negli occhi, spaventati. L’uno domandò all’altro:
– Ma che dice?
– Parole nuove! – gridai. – Volete ascoltarle? Andate, andate là, dove li tenete chiusi: andate, andate a sentirli parlare! Li tenete chiusi perché cosí vi conviene!
Afferrai Firbo per il bavero della giacca e lo scrollai, ridendo:
– Capisci, Stefano? Non ce l’ho mica soltanto con te! Tu ti sei offeso. No, caro mio! Che diceva di te tua moglie? Che sei un libertino, un ladro, un falsario, un impostore, e che non fai altro che dire bugie! Non è vero. Nessuno può crederlo. Ma prima che tu la chiudessi, eh? stavamo tutti ad ascoltarla, spaventati. Vorrei sapere perché!
Firbo mi guardò appena, si voltò a Quantorzo come a chiedergli consiglio con scimunita angustia e disse:
– Oh bella! Ma appunto perché nessuno poteva crederlo!
– Ah no, caro! – gli gridai. – Guardami bene negli occhi!
– Che intendi dire?
– Guardami negli occhi! – gli ripetei. – Non dico che sia vero! Stai tranquillo.
Si sforzò a guardarmi, smorendo.
– Lo vedi? – gli gridai allora, – lo vedi? tu stesso! lo hai anche tu, ora, lo spavento negli occhi!
– Ma perché mi stai sembrando pazzo! – mi urlò in faccia, esasperato.
Scoppiai a ridere, e risi a lungo, a lungo, senza potermi frenare, notando la paura, lo scompiglio che quella mia risata cagionava a tutt’e due.
M’arrestai d’un tratto, spaventato a mia volta dagli occhi con cui mi guardavano. Quel che avevo fatto, quel che dicevo non aveva certo né ragione né senso per loro. Per ripigliarmi, dissi bruscamente:
– Alle corte. Ero venuto qua, oggi, per domandarvi conto d’un certo Marco di Dio. Vorrei sapere com’è che costui da anni non paga piú la pigione, e ancora non gli si fanno gli atti per cacciarlo via.
Non m’aspettavo di vederli cascare, a questa domanda, in un piú grande stupore. Si guardarono come per trovare ciascuno nella vista dell’altro un sostegno che li aiutasse a sorreggere l’impressione che ricevevano di me, o piuttosto, d’un essere sconosciuto che insospettatamente scoprivano in me all’improvviso.
– Ma che dici? che discorsi fai? – domandò Quantorzo.
– Non vi raccapezzate? Marco di Dio. Paga o non paga la pigione?
Seguitarono a guardarsi a bocca aperta. Scoppiai di nuovo a ridere; poi d’un tratto mi feci serio e dissi come a un altro che mi stésse di fronte, spuntato lì per lì davanti a loro:
– Quando mai tu ti sei occupato di codeste cose?
Piú che mai stupiti, quasi atterriti, rivolsero gli occhi a cercare in me chi aveva proferito le parole ch’essi avevano pensato e che stavano per dirmi. Ma come! Le avevo dette io?
– Sí – seguitai, serio. – Tu sai bene che tuo padre lo lasciò lì per tanti anni senza molestarlo, questo Marco di Dio. Come t’è venuto in mente, adesso?
Posai una mano su la spalla di Quantorzo e con un’altr’aria, non meno seria, ma gravata d’un’angosciosa stanchezza, soggiunsi:
– T’avverto, caro mio, che non sono mio padre.
Poi mi voltai a Firbo e, posandogli l’altra mano sulla spalla:
– Voglio che tu gli faccia subito gli atti. Lo sfratto immediato. Il padrone sono io, e comando io. Voglio poi l’elenco delle mie case con gli incartamenti di ciascuna. Dove sono?
Parole chiare. Domande precise. Marco di Dio. Lo sfratto. L’elenco delle case. Gl’incartamenti. Ebbene, non mi capivano. Mi guardavano come due insensati. E dovetti ripetere piú volte quel che volevo e farmi condurre allo scaffale dove si trovava l’incartamento di quella casa che bisognava al notaro Stampa. Quando fui nello stanzino ov’era quello scaffale, presi per le braccia Firbo e Quantorzo, che mi avevano condotto lì come due automi, e li misi fuori, richiudendo l’uscio alle loro spalle.
Sono sicuro che dietro quell’uscio rimasero ancora un pezzo a guardarsi negli occhi, istupiditi, e che poi uno disse all’altro:
– Dev’essersi impazzito! –
Quello scaffale, appena fui solo, mi occupò subito, come un incubo. Proprio come viva per sé ne avvertii la presenza ingombrante, d’antico inviolato custode di tutti gli incartamenti di cui era gravido, cosí vecchio, pesante e tarlato.
Lo guardai, e subito mi guardai attorno, con gli occhi bassi.
La finestra; una vecchia seggiola impagliata; un tavolino ancora piú vecchio, nudo, nero e coperto di polvere; non c’era altro lì dentro.
E la luce filtrava squallida dai vetri cosí intonacati di ruggine e polverosi, che lasciavano trasparire appena le sbarre dell’inferriata e i primi tegoli sanguigni d’un tetto, su cui la finestra guardava.
I tegoli di quel tetto, il legno verniciato di quelle imposte di finestra, quei vetri per quanto sudici: immobile calma delle cose inanimate.
E pensai all’improvviso che le mani di mio padre s’erano levate cariche d’anelli lì dentro a prendere gl’incartamenti dai palchetti di quello scaffale; e le vidi, come di cera, bianche, grasse, con tutti quegli anelli e i peli rossi sul dorso delle dita; e vidi gli occhi di lui, come di vetro, azzurri e maliziosi, intenti a cercare in quei fascicoli.
Allora, con raccapriccio, a cancellare lo spettro di quelle mani, emerse ai miei occhi e si impose lì, solido, il volume del mio corpo vestito di nero; sentii il respiro affrettato di questo corpo entrato lì per rubare; e la vista delle mie mani che aprivano gli sportelli di quello scaffale mi diede un brivido alla schiena. Serrai i denti; mi scrollai; pensai con rabbia:
«Dove sarà, tra tanti incartamenti, quello che mi serve?»
E tanto per far subito qualche cosa, cominciai a tirar giù a bracciate i fascicoli e a buttarli sul tavolino. A un certo punto le braccia mi s’indolenzirono, e non seppi se dovessi piangerne o riderne. Non era uno scherzo quel rubare a me stesso?
Tornai a guardarmi intorno, perché improvvisamente non mi sentii piú, là dentro, sicuro di me. Stavo per compiere un atto. Ma ero io? Mi risalì l’idea che fossero entrati lì tutti gli estranei inseparabili da me, e che stéssi a commettere quel furto con mani non mie.
Me le guardai.
Sí: erano quelle che io mi conoscevo. Ma appartenevano forse soltanto a me?
Me le nascosi subito dietro la schiena; e poi, come se non bastasse, serrai gli occhi.
Mi sentii in quel bujo una volontà che si smarriva fuori d’ogni precisa consistenza; e n’ebbi un tale orrore, che fui per venir meno anche col corpo; protesi istintivamente una mano per sorreggermi al tavolino; sbarrai gli occhi:
– Ma sí! ma sí! – dissi. – Senza nessuna logica! senza nessuna logica! cosí!
E mi diedi a cercare tra quelle carte.
Quanto cercai? Non so. So che quella rabbia di nuovo cedette a un certo punto, e che una piú disperata stanchezza mi vinse, ritrovandomi seduto sulla seggiola davanti a quel tavolino, tutto ormai ingombro di carte ammonticchiate, e con un’altra pila di carte io stesso qua sulle ginocchia, che mi schiacciava.Vi abbandonai la testa e desiderai, desiderai proprio di morire, se questa disperazione era entrata in me da non poter piú lasciare di condurre a fine quell’impresa inaudita.
E ricordo che lì, con la testa appoggiata sulle carte, tenendo gli occhi chiusi forse a frenar le lagrime, udivo come da una infinita lontananza, nel vento che doveva essersi levato fuori, il lamentoso chioccolare d’una gallina che aveva fatto l’uovo e che quel chioccolío mi richiamò a una mia campagna, dove non ero piú stato fin dall’infanzia; se non che, vicino, di tratto in tratto, m’irritava lo scricchiolío dell’imposta della finestra urtata dal vento. Finché due picchi all’uscio inattesi non mi fecero sobbalzare. Gridai con furore:
– Non mi seccate!
E subito mi ridiedi a cercare accanitamente.
Quando alla fine trovai il fascicolo con tutti gl’incartamenti di quella casa, mi sentii come liberato; balzai in piedi esultante, ma subito dopo mi voltai a guardar l’uscio. Fu cosí rapido questo cangiamento dall’esultanza al sospetto, che mi vidi – e n’ebbi un brivido. Ladro! Rubavo. Rubavo veramente. Andavo a mettermi con le spalle contro quell’uscio; mi sbottonavo il panciotto; mi sbottonavo il petto della camicia e vi cacciavo dentro quel fascicolo ch’era abbastanza voluminoso.
Uno scarafaggio non ben sicuro sulle zampe sbucò in quel punto di sotto lo scaffale, diretto verso la finestra. Vi fui subito sopra col piede e lo schiacciai.
Col volto strizzato dallo schifo, rimisi alla rinfusa tutti gli altri incartamenti dentro lo scaffale, e uscii dallo stanzino.
Per fortuna Quantorzo, Firbo e tutti i commessi erano già andati via; c’era solo il vecchio custode, che non poteva sospettare di nulla.
Provai nondimeno il bisogno di dirgli qualche cosa:
– Pulite per terra là dentro: ho schiacciato uno scarafaggio.
E corsi in Via del Crocefisso allo studio del notaro Stampa.
Ho ancora negli orecchi lo scroscio dell’acqua che cade da una grondaia presso il fanale non ancora acceso, davanti alla catapecchia di Marco di Dio, nel vicolo già bujo prima del tramonto; e vedo lì ferma lungo i muri, per ripararsi dalla pioggia, la gente che assiste allo sfratto e altra gente che, sotto gli ombrelli, s’arresta per curiosità vedendo quella ressa e il mucchio delle misere suppellettili sgomberate a forza ed esposte alla pioggia lì davanti alla porta, tra le strida della signora Diamante che, di tratto in tratto, scarmigliata, viene anche alla finestra a scagliare certe sue strane imprecazioni accolte con fischi e altri rumori sguaiati dai monellacci scalzi i quali, senza curarsi della pioggia, ballano attorno a quel mucchio di miseria, facendo schizzar l’acqua delle pozze addosso ai piú curiosi, che ne bestemmiano. E i commenti:
– Piú schifoso del padre!
– Sotto la pioggia, signori miei! Non ha voluto aspettare neanche domani!
– Accanirsi cosí contro un povero pazzo!
– Usurajo! usurajo!
Perché io sono lì, presente, apposta, allo sfratto, protetto da un delegato e da due guardie.
– Usurajo! usurajo!
E ne sorrido. Forse, sí, un po’ pallido. Ma pure con una voluttà che mi tiene sospese le viscere e mi solletica l’ugola e mi fa inghiottire. Solo che, di tanto in tanto, sento il bisogno d’attaccarmi con gli occhi a qualche cosa, e guardo quasi con indolenza smemorata l’architrave della porta di quella catapecchia, per isolarmi un po’ in quella vista, sicuro che a nessuno, in un momento come quello, potrebbe venire in mente d’alzar gli occhi per il piacere d’accertarsi che quello è un malinconico architrave, a cui non importa proprio nulla dei rumori della strada: grigio intonaco scrostato, con qualche sforacchiatura qua e là, che non prova come me il bisogno d’arrossire quasi per un’offesa al pudore per conto d’un vecchio orinale sgomberato con gli altri oggetti dalla catapecchia ed esposto lì alla vista di tutti, su un comodino, in mezzo alla strada.
Ma per poco non mi costò caro questo piacere di alienarmi. Finito lo sgombero forzato, Marco di Dio, uscendo con sua moglie Diamante dalla catapecchia e scorgendomi nel vicolo tra il delegato e le due guardie, non poté tenersi, e mentre stavo a fissar quell’architrave, mi scagliò contro il suo vecchio mazzuolo di sbozzatore. M’avrebbe certo accoppato, se il delegato non fosse stato pronto a tirarmi a sé. Tra le grida e la confusione, le due guardie si lanciarono per trarre in arresto quello sciagurato messo in furore dalla mia vista; ma la folla cresciuta lo proteggeva e stava per rivoltarsi contro me, allorché un nero omiciattolo, malandato ma d’aspetto feroce, giovine di studio del notaro Stampa, montato su di un tavolino là tra il mucchio delle suppellettili sgomberate in mezzo al vicolo, quasi saltando e con furiosi gesticolamenti, si mise a urlare:
– Fermi! Fermi! State a sentire! Vengo a nome del notaro Stampa! State a sentire! Marco di Dio! Dov’è Marco di Dio? Vengo a nome del notaro Stampa ad avvertirlo che c’è una donazione per lui! Quest’usurajo Moscarda...
Ero, non saprei dir come, tutto un fremito, in attesa del miracolo: la mia trasfigurazione, da un istante all’altro, agli occhi di tutti. Ma all’improvviso quel mio fremito fu come tagliuzzato in mille parti e tutto il mio essere come scaraventato e disperso di qua e di là a un’esplosione di fischi acutissimi, misti a urla incomposte e a ingiurie di tutta quella folla al mio nome, non potendosi capire che la donazione l’avessi fatta io, dopo la feroce crudeltà dello sgombero forzato.
– Morte! Abbasso! – urlava la folla. – Usurajo! usurajo!
Istintivamente, avevo alzato le braccia per far segno d’aspettare; ma mi vidi come in un atto d’implorazione e le riabbassai subito, mentre quel giovine di studio sul tavolino, sbracciandosi per imporre silenzio, seguitava a gridare:
– No! No! State a sentire! L’ha fatta lui, l’ha fatta lui, presso il notaro Stampa, la donazione! La donazione d’una casa a Marco di Dio!
Tutta la folla, allora, trasecolò. Ma io ero quasi lontano, disilluso, avvilito. Quel silenzio della folla, nondimeno, m’attrasse, come quando s’appicca il fuoco a un mucchio di legna, che per un momento non si vede e non si ode nulla, e poi qua un tútolo, là una stipa scattano, schizzano, e infine tutta la fascina crèpita lingueggiando di fiamme tra il fumo:
– Lui? – – Una casa? – Come? – Che casa? – – Silenzio! – Che dice? – Queste e altrettali domande cominciarono a scattar dalla folla, propagando rapidamente un vocío sempre piú fitto e confuso, mentre quel giovane di studio confermava:
– Sí, sí, una casa! la sua casa in Via dei Santi 15. E non basta! Anche la donazione di diecimila lire per l’impianto e gli attrezzi d’un laboratorio!
Non potei vedere quel che seguí; mi tolsi di goderne, perché mi premeva in quel momento di correre altrove. Ma seppi di lì a poco qual godimento avrei avuto, se fossi rimasto.
M’ero nascosto nell’àndito di quella casa in Via dei Santi, in attesa che Marco di Dio venisse a pigliarne possesso. Arrivava appena, in quell’àndito, il lume della scala. Quando, seguíto ancora da tutta la folla, egli aprì la porta di strada con la chiave consegnatagli dal notaro, e mi scorse lì addossato al muro come uno spettro, per un attimo si scontraffece, arretrando; mi lanciò con gli occhi atroci uno sguardo, che non dimenticherò mai piú; poi, con un arrangolío da bestia, che pareva fatto insieme di singhiozzi e di risa, mi saltò addosso frenetico, e prese a gridarmi, non so se per esaltarmi o per uccidermi, sbattendomi contro al muro:
– Pazzo! Pazzo! Pazzo!
Era lo stesso grido dl tutta la folla lì davanti la porta:
– Pazzo! Pazzo! Pazzo!
Perché avevo voluto dimostrare, che potevo, anche per gli altri non essere quello che mi si credeva.
Libro quinto
Mi valse, per fortuna, almeno lì per lì, la considerazione di Quantorzo, che anche mio padre ai suoi tempi s’era dati «lussi di bontà» come questo mio, commisti d’una certa allegra ferocia; e che, a lui Quantorzo, non era mai passato per il capo di poter proporre che mio padre fosse da chiudere in un manicomio o almeno almeno da interdire come ora Firbo sosteneva a spada tratta si dovesse fare per me, se si voleva salvare il credito della banca, seriamente compromesso da quel mio atto pazzesco.
Oh mio Dio, ma non sapevano tutti in paese che negli affari della banca io non m’ero mai immischiato né punto né poco? Come e perché la minaccia di quel discredito ora? Che aveva da vedere con quel mio atto la banca?
Già. Ma allora cadeva la considerazione di Quantorzo, intesa a ripararmi dietro le spalle di mio padre. Che se pur di tanto in tanto aveva avuto di quegli estri, mio padre; poi nella trattazione degli affari aveva saputo dimostrare cosí bene d’aver la testa a segno, che certo a nessuno poteva venire in mente di chiuderlo in un manicomio o d’interdirlo; mentre la mia dichiarata insipienza e quel mio disinteressamento mi scoprivano invece pazzo da legare e nient’altro, buono soltanto a distruggere scandalosamente ciò che mio padre aveva con nascosta accortezza edificato.
Ah, non c’è che dire, stava tutta dalla parte di Firbo la logica. Ma non stava meno, se vogliamo, dalla parte di Quantorzo, allorché questi (non ne ho il minimo dubbio) gli dovette far notare a quattr’occhi che, essendo io il padrone della banca, quel mio disinteressamento dagli affari e la mia insipienza non erano da assumere come armi contro di me, perché, grazie ad essi appunto, i veri padroni là dentro erano divenuti loro due; e che dunque, via, era meglio non toccare questo tasto e star zitti, almeno fin tanto ch’io non déssi altro segno di voler commettere nuove pazzie.
Altro, segretamente, dal canto mio, avrei potuto far notare a Firbo, se - schiacciato com’ero in quel momento dalla prova or ora fatta - non mi fosse convenuto di starmi con la coda tra le gambe, mentre tra lui e Quantorzo pendeva quella lite, o meglio, mentre ancora rimaneva incerto se ai miei danni dovesse prevalere la brama dell’uno di vendicarsi dell’affronto che gli avevo fatto davanti ai commessi, o non piuttosto l’interessata indulgenza dell’altro.
M’ero, mogio mogio, rinchioccito tra le gonnelle di Dida dentro la sorda tranquilla e oziosa stupidità del suo Gengè, perché apparisse chiaro non pure a lei ma a tutti che, se si voleva proprio tenere in conto di pazzia l’atto da me commesso, fosse ritenuto come una pazzia di quel Gengè là, vale a dire piuttosto un vaporoso e momentaneo capriccio da innocuo sciocco.
E intanto alle sgridate ch’ella gli dava, a quel suo Gengè, io mi sentivo ora finir lo stomaco da un avvilimento che non so ridire, ora crepare in corpo da certe risate che non sapevo come trattenere, per l’aspetto che pur dovevo conservare a lui, non già compunto, Dio liberi! ma anzi da cocciuto che non si voleva dare al tutto per vinto, anche riconoscendo che, sí, l’aveva fatta un po’ troppo grossa. E la paura, nello stesso tempo, che all’improvviso, non piú contenuta, s’affacciasse da quegli occhi a spiarla di traverso, o prorompesse da quella bocca in qualche orribile grido l’atroce disperazione della mia angoscia segreta e inconfessabile.
Ah, inconfessabile, inconfessabile, perché solo del mio spirito, quell’angoscia, fuori d’ogni forma che potessi fingermi e riconoscere per mia oltre questa qua, per esempio, che mia moglie dava, vera e tangibile in me, a quel suo Gengè che le stava davanti e che non ero io; anche se non potevo piú dire chi fossi io allora, e di chi e dove, fuori di lui, quell’angoscia atroce che mi soffocava.
E tanto ormai, fisso in questo tormento, m’ero alienato da me stesso, che come un cieco davo il mio corpo in mano agli altri, perché ciascuno si prendesse di tutti quegli estranei inseparabili che portavo in me quell’uno che ero per lui e, se voleva, lo bastonasse; se voleva, se lo baciasse; o anche andasse a chiuderlo in un manicomio.
– Qua, Gengè. Siedi qua. Qua, cosí. Guardami bene negli occhi. Come no? Non vuoi guardarmi?
Ah che tentazione di prenderle il viso tra le mani per costringerla a guardare nell’abisso di due occhi ben altri da quelli da cui voleva essere guardata!
Era lì davanti a me; m’acciuffava con una mano i capelli; mi si metteva a sedere sulle ginocchia; sentivo il peso del suo corpo.
Chi era?
Nessun dubbio in lei ch’io lo sapessi, chi era.
E io avevo intanto orrore dei suoi occhi che mi guardavano ridenti e sicuri; orrore di quelle sue fresche mani che mi toccavano certe ch’io fossi come quei suoi occhi mi vedevano; orrore di tutto quel suo corpo che mi pesava sulle ginocchia, fiducioso nell’abbandono che mi faceva di sé, senza il piú lontano sospetto che non si désse realmente a me, quel suo corpo, e che io, stringendomelo tra le braccia, non mi stringessi con quel suo corpo una che m’apparteneva totalmente, e non un’estranea, alla quale non potevo dire in alcun modo com’era, perché era per me qual’io appunto la vedevo e la toccavo questa – cosí – con questi capelli – e questi occhi – e questa bocca, come nel fuoco del mio amore gliela baciavo; mentre lei la mia, nel suo fuoco cosí diverso dal mio, incommensurabilmente lontano, se tutto per lei, sesso, natura, immagine e senso delle cose, pensieri e affetti che le componevano lo spirito, ricordi, gusti e il contatto stesso della mia ruvida guancia sulla sua delicata, tutto, tutto era diverso; due estranei, stretti cosí – orrore – estranei, non solo l’uno per l’altra, ma ciascuno a se stesso, in quel corpo che l’altro si stringeva.
Voi non lo avete mai provato, quest’orrore, lo so; perché avete sempre e soltanto stretto fra le braccia tutto il vostro mondo nella donna vostra, senza il minimo avvertimento ch’ella intanto si stringe in voi il suo, che è un altro, impenetrabile. Eppure basterebbe, per sentirlo, quest’orrore, che voi pensaste un momento, che so! a un’inezia qualunque, a una cosa che a voi piace e a lei no: un colore, un sapore, un giudizio su una tal cosa; che non vi facessero soltanto pensare superficialmente a una diversità di gusti, di sensazioni o d’opinioni; che gli occhi di lei, mentre voi la guardate, non vedono in voi, e come i vostri, le cose quali voi le vedete, e che il mondo, la vita, la realtà delle cose qual’è per voi, come voi la toccate, non sono per lei che vede e tocca un’altra realtà nelle stesse cose e in voi stesso e in sé, senza che vi possa dire come sia, perché per lei è quella e non può figurarsi che possa essere un’altra per voi.
Mi costò molto dissimulare la freddezza d’un rancore che mi s’induriva nell’animo sempre piú, vedendo che Dida, in fondo, per quanto si sforzasse di far viso fermo, rideva di quello spasso brutale che il suo Gengè s’era preso, evidentemente senza riflettere che non tutti come lei avrebbero compreso ch’egli aveva voluto fare una burla e niente piú.
– Ma guarda un po’, se sono scherzi da fare! Lo sfratto sotto la pioggia; e assistervi, provocando l’indignazione di tutti, scioccone! A momenti t’accoppavano!
Cosí mi diceva, e voltava la faccia per nascondere il riso che intanto le provocava la vista di quel mio rancore, il quale naturalmente nell’aspetto del suo Gengè, come se lo vedeva ora davanti e come s’immaginava che dovesse essere in quel momento dello sfratto tra l’indignazione di tutti, le appariva dispetto, nient’altro che un buffo dispetto di quel suo «scioccone» a causa della burla mancata e mal compresa.
– Ma che ti figuravi? Ti figuravi che dovessero ridere delle furie di quel pazzo mentre tu gli facevi buttare in mezzo alla strada i suoi cenci sotto la pioggia? E intanto lui – guardàtelo là – si teneva in corpo la sorpresa della donazione! Oh bada che ha ragione il signor Firbo, sai! Cosa da manicomio, uno scherzo di cosí cattivo genere, pagarlo a un cosí caro prezzo. Và là, và là! Pigliati qua Bibí, e pòrtala un po’ fuori.
Mi vedevo mettere in mano il laccetto rosso della cagnolina; vedevo ch’ella si chinava, con la facilità con cui sulle loro anche si chinano le donne, per aggiustare al musetto di Bibí la museruola senza farle male, e restavo lì come un insensato.
– Che fai? Non vai?
– Vado...
Chiusa la porta alle mie spalle, m’appoggiavo al muro del pianerottolo con una voglia di mettermi a sedere sul primo scalino, per non rialzarmene mai piú.
E mi vedo, rasente ai muri, per via, che non so piú come né dove guardare, con quella cagnolina dietro, che pare me lo faccia apposta di dare a vedere che, com’io non vorrei andare, cosí non vorrebbe venire con me neanche lei, e si fa tirare puntando le zampine, finché stizzito non le do uno strattone, a rischio di spezzare quel laccetto rosso.
Vado a nascondermi a pochi passi da casa, dentro il recinto d’un terreno venduto per una casa che vi doveva sorgere, grande e chi sa come brutta, a giudicare dalle altre vicine. Il terreno è scavato in parte per le fondamenta; ma i mucchi di terra non sono stati portati via; e qua e là sono sparse tra l’erba ricresciuta folta, le pietre per la fabbrica, come crollate e vecchie prima d’essere usate.
Seggo su una di queste pietre; guardo il muro che para, alto, bianco, stagliato nell’azzurro, della casa accanto. Rimasto scoperto, senza una finestra, tutto cosí bianco e liscio, quel muro, col sole che ci batte sopra, acceca. Abbasso gli occhi qua nell’ombra di quest’erba vana, che respira grassa e calda nel silenzio immobile, tra un brusío d’insetti minuti; c’è un moscone fosco che mi dà addosso, ronzando, irritato dalla mia presenza; vedo Bibí che mi s’è acculata davanti con le orecchie ritte, delusa e sorpresa, come per domandarmi perché siamo venuti qua, in un luogo che non s’aspettava, ove tra l’altro... ma sí, di notte, qualcuno, passando...
– Sí, Bibí, – le dico. – Questo puzzo... Lo sento. Ma mi pare il meno, sai? che possa ormai venirmi dagli uomini. È di corpo. Peggio, quello che esala dai bisogni dell’anima, Bibí. E veramente sei da invidiare, tu che non puoi averne sentore.
La tiro a me per le due zampine davanti, e seguito a parlare cosí.
– Vuoi sapere perché sia venuto a nascondermi qua? Eh, Bibí, perché la gente mi guarda. Ha questo vizio, la gente, e non se lo può levare. Ci dovremmo allora levare tutti quelli di portarci per via, a spasso, un corpo soggetto a essere guardato. Ah, Bibí, Bibí, come faccio? Io non posso piú vedermi guardato neanche da te. Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch’esse appaiano agli altri quali sono per lui; figuriamoci poi se c’è chi pensa che ci siete anche voi bestie che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi e chi sa come li vedete, e che ve ne pare. Io ho perduto, perduto per sempre la realtà mia e quella di tutte le cose negli occhi degli altri, Bibí! Appena mi tocco, mi manco. Perché sotto il mio stesso tatto suppongo la realtà che gli altri mi dànno e ch’io non so né potrò mai sapere. Cosicché, vedi? io – questo che ora ti parla – questo che ora ti tiene cosí sollevate da terra queste due zampine – le parole che ti dico, non so, non so proprio, Bibí, chi te le dica.
Ebbe a questo punto un soprassalto improvviso, la povera bestiolina, e volle sguizzarmi dalle mani che le reggevano le due zampine. Senza indugiarmi a riflettere se quel soprassalto fosse per lo spavento di quel che le avevo detto, per non spezzargliele, gliele lasciai, e subito allora essa si sfogò abbajando contro un gatto bianco intravisto tra l’erba in fondo al recinto: se non che il laccetto rosso trascinato tra i piedi in corsa a un tratto le s’impigliò in uno sterpo e le diede un tale strappo, che la fece arrovesciare all’indietro e rotolare come un batuffolo. Friggendo di rabbia si raddrizzò, ma restò puntata su le quattro zampe, non sapendo piú dove avventare la sua furia interrotta: guardò di qua, di là: il gatto non c’era piú.
Starnutò.
Io potei ridere di quella sua corsa, prima, poi di quel capitombolo all’indietro, e ora di vederla restar cosí; tentennai il capo e la richiamai a me. Se ne venne leggera leggera, quasi ballando sulle esili zampine; quando mi fu davanti, levò da sé le due anteriori per appoggiarsi a un mio ginocchio, quasi volesse seguitare il discorso rimasto a mezzo, che invece le piaceva. Eh sí, perché, parlando, io le grattavo la testa dietro le orecchie.
– No no, basta, Bibí – le dissi. – Chiudiamo gli occhi piuttosto.
E le presi tra le mani la testina. Ma la bestiola si scrollò, per liberarsi; e la lasciai.
Poco dopo, sdraiata ai miei piedi, col musino allungato sulle due zampette davanti, la udii sospirare forte, come se non ne potesse piú dalla stanchezza e dalla noia, che pesavano tanto anche sulla sua vita di povera cagnetta bellina e vezzeggiata.
– Perché, quand’uno pensa d’uccidersi, s’immagina morto, non piú per sé, ma per gli altri?
Tumido e livido, come il cadavere d’un annegato, rivenne a galla il mio tormento con questa domanda, dopo essermi sprofondato per piú d’un’ora nella meditazione, là in quel recinto, se non sarebbe stato quello il momento di farla finita, non tanto per liberarmi di esso tormento, quanto per fare una bella sorpresa all’invidia che molti mi portavano o anche per dare una prova dell’imbecillità che molti altri m’attribuivano.
E allora, tra le diverse immagini della mia morte violenta, come potevo supporre balzassero improvvise, tra la costernazione e lo sbalordimento, in mia moglie, in Quantorzo, in Firbo, in tanti e tanti altri miei conoscenti; costringendomi a rispondere a quella domanda, mi sentii piú che mai mancare, perché dovetti riconoscere che nei miei occhi non c’era veramente una vista per me, da poter dire in qualche modo come mi vedevo senza la vista degli altri, per il mio stesso corpo e per ogni altra cosa come potevo figurarmi che dovessero vederli; e che dunque i miei occhi, per sé, fuori di questa vista degli altri, non avrebbero piú saputo veramente quello che vedevano.
Mi corse per la schiena il brivido d’un ricordo lontano: di quand’ero ragazzo, che andando sopra pensiero per la campagna m’ero visto a un tratto smarrito, fuori di ogni traccia, in una remota solitudine tetra di sole e attonita; lo sgomento che ne avevo avuto e che allora non avevo saputo chiarirmi. Era questo: l’orrore di qualche cosa che da un momento all’altro potesse scoprirsi a me solo, fuori della vista degli altri.
Sempre che ci avvenga di scoprire qualcosa che gli altri supponiamo non abbiano mai veduta, non corriamo a chiamare qualcuno perché subito la veda con noi?
– Oh Dio, che è?
Ove la vista degli altri non ci soccorra a costituire comunque in noi la realtà di ciò che vediamo, i nostri occhi non sanno piú quello che vedono; la nostra coscienza si smarrisce, perché questa che crediamo la cosa piú intima nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi; e non possiamo sentirci soli.
Balzai in piedi, esterrefatto. Sapevo, sapevo la mia solitudine; ma ora soltanto ne sentivo e toccavo veramente l’orrore, davanti a me stesso, per ogni cosa che vedevo, se alzavo una mano e me la guardavo. Perché la vista degli altri non è e non può essere nei nostri occhi se non per un’illusione a cui non potevo piú credere; e, in un totale smarrimento, parendomi di vedere quel mio stesso orrore negli occhi della cagnetta che s’era levata anche lei di scatto e mi guardava, per togliermela davanti, quell’orrore, le allungai un calcio; ma subito ai guaiti laceranti della bestiolina, mi presi disperatamente la testa tra le mani, gridando:
– Impazzisco! impazzisco!
Se non che, non so come, in quel gesto di disperazione tornai a vedermi, e allora il pianto che stava per prorompermi dal petto mi si mutò d’improvviso in uno scoppio di riso, e chiamai quella povera Bibí ch’era mezza azzoppata, mi misi a zoppicare anch’io per burla, e tutto in preda a una gaja smania feroce, le dissi che avevo giocato, giocato, e che volevo seguitare a giocare. La bestiolina starnutiva, come per dirmi:
– Rifiuto! rifiuto!
– Ah sí? Rifiuti, Bibí, rifiuti?
E allora mi misi a starnutire anch’io per rifarle il verso, ripetendo a ogni starnuto:
– Rifiuto! rifiuto!
Un calcio? io? a quella povera bestiolina.
Gliel’aveva appioppato in campagna un certo ragazzaccio smarrito, per non so che strano sgomento da cui era stato invaso, di tutto e di niente: d’un niente che poteva d’improvviso diventare qualche cosa che sarebbe toccato allora di vedere a lui solo.
Qua in città, ora, per via, non c’era piú questo pericolo. Diamine! Ognuno, bello, dentro l’illusione dell’altro, da poter essere sicuri che tutti gli altri sbagliavano se dicevano di no, che cioè ciascuno non era come l’altro lo vedeva.
E mi veniva di gridarlo a tutti quanti:
– Ma sí! Eh eh! Giochiamo, giochiamo!
E anche di farne segno a chi stava per caso a guardare dai vetri di qualche finestra. Ma sí! Eh eh! Anche aprendo quella finestra per buttarsi di sotto.
– Bel giuoco! E chi sa poi che graziose sorprese, caro signore, cara signora, se, dopo esservi buttati fuori cosí d’ogni illusione per voi, poteste ritornare per un momentino, da morti, a vedere nell’illusione degli altri ancora vivi quel mondo in cui vi figuraste di vivere! Eh eh!
Il guajo era che ancora da vivo stavo a vederlo io, questo giuoco, tra gli altri ancora vivi: benché non lo potessi penetrare. E quest’impossibilità di penetrarlo, pur sapendo ch’era lì negli occhi di tutti, esasperava fino alla ferocia quella mia smania gaja.
Il calcio poc’anzi sparato alla povera bestiolina perché mi guardava, Dio me lo perdoni, mi veniva di spararlo a tutti quanti.
Rientrando in casa, vi trovai Quantorzo in seria confabulazione con mia moglie Dida.
Com’erano a posto, sicuri, seduti tutt’e due nel salottino chiaro in penombra; l’uno grasso e nero, affondato nel divano verde; l’altra esile e bianca nella sua veste tutta a falbalà, in punta in punta e di tre quarti sulla poltrona accanto, con una freccia di sole sulla nuca. Parlavano certo di me, perché, come mi videro entrare, esclamarono a un tempo:
– Oh, eccolo qua!
E poiché erano due a vedermi entrare, mi venne la tentazione di voltarmi a cercare l’altro che entrava con me, pur sapendo bene che il «caro Vitangelo» del mio paterno Quantorzo non solo era anch’esso in me come il «Gengè» di mia moglie Dida, ma che io tutto quanto, per Quantorzo, altri non ero che il suo «caro Vitangelo», proprio come per Dida altri che il suo «Gengè». Due, dunque, non agli occhi loro, ma soltanto per me che mi sapevo per quei due uno e uno; il che per me, non faceva un piú ma un meno, in quanto voleva dire che ai loro occhi, io come io, non ero nessuno.
Ai loro occhi soltanto? Anche per me, anche per la solitudine del mio spirito che, in quel momento, fuori d’ogni consistenza apparente, concepiva l’orrore di vedere il proprio corpo per sé come quello di nessuno nella diversa incoercibile realtà che intanto gli davano quei due.
Mia moglie, nel vedermi voltare, domandò.
– Chi cerchi?
M’affrettai a risponderle, sorridendo:
– Ah, nessuno, cara, nessuno. Eccoci qua!
Non compresero, naturalmente, che cosa intendessi dire con quel «nessuno» cercato accanto a me; e credettero che con quell’«eccoci» mi riferissi anche a loro due, sicurissimi che lì dentro quel salotto fossimo ora in tre e non in nove; o piuttosto, in otto, visto che io – per me stesso – ormai non contavo piú.
Voglio dire:
1. Dida, com’era per sé;
2. Dida, com’era per me;
3. Dida, com’era per Quantorzo;
4. Quantorzo, com’era per sé;
5. Quantorzo, com’era per Dida;
6. Quantorzo, com’era per me;
7. il caro Gengè di Dida;
8. il caro Vitangelo di Quantorzo.
S’apparecchiava in quel salotto, fra quegli otto che si credevano tre, una bella conversazione.
(Oh Dio mio, e non sentiranno ora venir meno a un tratto la loro bella sicurezza, vedendosi guardati da questi miei occhi che non sanno quello che vedono?
Fermarsi per un poco a guardare uno che stia facendo anche la cosa piú ovvia e consueta della vita; guardarlo in modo da fargli sorgere il dubbio che a noi non sia chiaro ciò che egli stia facendo e che possa anche non esser chiaro a lui stesso: basta questo perché quella sicurezza s’aombri e vacilli. Nulla turba e sconcerta piú di due occhi vani che dimostrino di non vederci, o di non vedere ciò che noi vediamo.
– Perché guardi cosí?
E nessuno pensa che tutti dovremmo guardare sempre cosí, ciascuno con gli occhi pieni dell’orrore della propria solitudine senza scampo).
Quantorzo, difatti, cominciò presto a turbarsi, non appena i suoi occhi s’infrontarono coi miei; a smarrirsi, parlando; tanto che senza volerlo accennava di tratto in tratto di levare una mano, come per dire:
– «No, aspetta».
Ma non tardai a scoprire l’inganno.
Si smarriva cosí, non già perché il mio sguardo gli facesse vacillare la sicurezza di sé, ma perché gli era parso di leggermi negli occhi che io avessi già compreso la ragione riposta per cui era venuto a farmi quella visita: che era di legarmi mani e piedi, d’intesa con Firbo, protestando che non avrebbe potuto piú fare il direttore della banca, se io intendevo d’arrogarmi il diritto di compiere altri atti improvvisi e arbitrarii, di cui né lui né Firbo avrebbero potuto assumersi la responsabilità.
Allora, certo di questo, mi proposi di sconcertarlo, non però subitaneamente come avevo fatto l’altra volta parlando e gestendo come un pazzo davanti a lui e a Firbo, ma al contrario; per il gusto di vedere come se ne sarebbe andato via, dopo essere venuto cosí fermo in quel proposito; il gusto, dico, che poteva darmi quella sua guerriera fermezza di dimostrarmi ancora una volta, senza che n’avessi piú bisogno, come un nonnulla sarebbe bastato a fargliela crollare: una parola che avrei detta, il tono con cui l’avrei detta, tale da frastornarlo e da fargli cangiar l’animo, e con l’animo, per forza, tutta quella sua solidissima realtà, come ora dentro di sé se la sentiva, e fuori se la vedeva e se la toccava.
Appena mi disse che Firbo specialmente non si poteva dar pace di quanto avevo fatto, gli domandai con un sorriso fatuo, per farlo stizzire:
– Ancora?
Difatti si stizzí:
– Ancora? caro mio! Ci hai fatto trovare tutti gl’incartamenti dello scaffale in tale scompiglio che gli ci vorranno a dir poco due mesi per rimetterli in ordine.
Mi feci allora molto serio e, rivolto a Dida:
– Vedi, cara, tu che credevi una burla?
Dida mi guardò subito incerta; poi guardò Quantorzo; poi di nuovo me; e infine domandò, con apprensione:
– Ma insomma, che hai fatto?
Con la mano le feci segno d’aspettare. Ancora piú serio mi rivolsi a Quantorzo e gli dissi:
– Ha trovato lo scompiglio nello scaffale il signor Firbo? E perché non ti provi ora a domandare, tu a me, che cosa ci ho trovato io?
Ed ecco che Quantorzo s’agitò sul divano e una ventina di volte batté le pàlpebre come per richiamarsi istintivamente all’attenzione dallo sbalordimento in cui cadeva, piú che per la domanda, per il tono di sfida con cui l’avevo proferita.
– Che... che vi hai trovato? – balbettò.
Risposi subito, accompagnando le parole col gesto:
– Un palmo di polvere: cosí!
Si guardarono negli occhi, storditi; perché quel tono escludeva che per sciocchezza avessi detto quella cosa in sé sciocca: e nello stordimento Quantorzo ripeté:
– Un palmo di polvere? che significa?
– Significa, oh bella, che dormivano tutti quegli incartamenti. Da anni! Un palmo, dico un palmo di polvere. E difatti, una casa sfitta; e di quell’altra là, chi sa da quanto tempo non si riscoteva piú la pigione!
Quantorzo – non me l’aspettavo – finse lui questa volta di trasecolare piú che mai:
– Ah, – fece, – e tu allora le svegli cosí, le case: regalandole?
– No, caro mio, – gli gridai subito, riscaldandomi, un po’, sí, ad arte, ma anche sul serio un po’. – No, caro mio! Per dimostrarvi che v’ingannate di molto ma di molto sul conto mio, tu, Firbo, tutti quanti siete! Parlo, parlo, dico sciocchezze, faccio lo svagato; ma non è vero, sai? perché osservo tutto io, invece; osservo tutto!
Quantorzo– questa volta sí, come m’aspettavo – tentò di reagire ed esclamò:
– Ma che osservi? Ma fa’ il piacere! La polvere dello scaffale osservi!
– E le mie mani, – mi venne d’aggiungere subito, non so perché, presentandole: con un tal tono di voce che destò all’improvviso in me stesso un brivido, rivedendomi col pensiero in quello stanzino dello scaffale nell’atto di sollevar le mani per rubare a me stesso l’incartamento, dopo avere immaginato là dentro quelle di mio padre, bianche, grasse, piene di anelli e coi peli rossi sul dorso della dita.
Vengo alla banca, – seguitai, stanco tutt’a un tratto e nauseato, tra il crescente sbalordimento dell’una e dell’altro, – vengo alla banca solo quando mi chiamate a firmare; ma state attenti che non ho neanche bisogno di venirci, io, alla banca, per sapere tutto ciò che vi si fa.
Guardai di traverso Quantorzo; mi parve pallidissimo. (Ma oh, badiamo, dico sempre quello mio; perché forse il Quantorzo di Dida, no, che seppure anche a Dida sarà parso che il suo impallidisse, avrà forse creduto per isdegno e non per paura, com’io del mio avrei potuto giurare.) A ogni modo, le mani se le portò subito al petto per davvero; e gli occhi, tanto d’occhi sgranò nel domandarmi:
– Che ci tieni dunque le spie? Ah dunque tu diffidi di noi?
– Non diffido, non diffido; non tengo spie, – m’affrettai a rassicurarlo. – Osservo, fuori, gli effetti delle vostre operazioni; e mi basta. Rispondi a me: tu e Firbo, è vero? seguite nel trattare gli affari le norme di mio padre?
– Punto per punto!
– Non ne dubito. Ma siete riparati, voi, dico per la vostra parte, dall’ufficio che tenete: l’uno di direttore, l’altro di consulente legale. Mio padre, per disgrazia, non c’è piú. Vorrei sapere chi risponde degli atti della banca davanti al paese.
– Come, chi risponde? – fece Quantorzo. – Ma noi, noi! E appunto perché ne rispondiamo noi, vorremmo essere sicuri che tu non abbia ancora a immischiartene, intervenendo con certi atti; senti, dico inconsulti per non dire altro!
Negai prima col dito; poi dissi, placido:
– Non è vero. Voi no; se seguite punto per punto le norme di mio padre. Davanti a me, tutt’al piú, potreste risponderne voi, se non le seguiste e io ve ne domandassi conto e ragione. Ora dico davanti al paese: chi ne risponde? Ne rispondo io che firmo i vostri atti: io! io! E mi devo veder questa: che voi la mia firma sí, la volete sotto tutti gli atti che fate voi; e mi negate poi la vostra per quell’uno che faccio io.
Doveva essersi impaurito ben bene, perché a questo punto gli vidi dare tre allegri balzi sul divano, esclamando:
– Oh bella! oh bella! oh bella! Ma perché noi, i nostri, sono quelli normali della banca! Mentre il tuo, scusa, me lo fai dire tu, è stato proprio da pazzo! da pazzo!
Scattai in piedi; gli appuntai l’indice d’una mano contro il petto, come un’arma.
– E tu mi credi pazzo?
– Ma no! – fece, smorendo subito sotto la minaccia di quel dito.
– No, eh? – gli gridai tenendolo fermo con gli occhi. – Resta intanto assodato questo tra noi, bada!
Quantorzo, allora, rimasto come a mezz’aria, vagellò; non già perché gli nascesse lì per lì di nuovo il dubbio ch’io potessi anche esser pazzo per davvero, no; ma perché, non comprendendo la ragione per cui mi premeva d’assodare ch’egli non m’aveva per tale, nell’incertezza, temendo un’insidia da parte mia, quasi quasi si pentiva d’aver detto di no cosí in prima, e tentò di disdirsi con un mezzo sorriso.
– No, aspetta... ma devi convenire...
Che bella cosa! ah che bella cosa! Ora Dida, seguitando a guardare accigliata un po’ me e un po’ Quartorzo, dava a vedere chiaramente che non sapeva piú che pensare cosí di lui come di me. Quel mio scatto, quella mia domanda a bruciapelo, che per lei – s’intende – erano stati uno scatto e una domanda del suo Gengè; e del tutto incomprensibili come di lui, se non a patto che Quantorzo lì presente e il signor Firbo avessero commesso qualche mancanza cosí enorme da renderlo ora, Dio mio, proprio irriconoscibile il suo Gengè, di fronte al momentaneo smarrimento di Quantorzo; quello scatto, dico, e quella domanda avevano avuto l’effetto di farla dubitare piú che mai della posata assennatezza di quel suo rispettabile Quantorzo. E cosí palesemente esprimeva con gli occhi questo dubbio, che Quantorzo, appena pensò di rivolgersi anche a lei, in quel tentativo di disdirsi col suo mezzo sorriso, piú che piú si smarrí, avvertendo subito che gli mancava accanto una certezza di consenso, su cui finora aveva creduto di potersi fidare.
Scoppiai a ridere; ma né l’uno né l’altra ne indovinarono la ragione; fui tentato di gridargliela in faccia, scrollandoli: «Ma vedete? vedete? E come potete essere allora cosí sicuri se da un minuto all’altro una minima impressione basta a farvi dubitare di voi stessi e degli altri?».
– Lascia andare! – troncai con un atto di sdegno, per significargli che la stima che poteva essersi fatta di me, della mia sanità mentale, non aveva piú, almeno per il momento, alcuna importanza. – Rispondi a me. Ho visto alla banca bilance e bilancine. Vi servono per pesare i pegni, è vero? Ma tu, dimmi un po’: tu, tu, sulla tua coscienza, li hai mai pesati, tu, col peso che possono avere per gli altri, codesti che chiami gli atti normali della banca?
A questa domanda Quantorzo si guardò di nuovo attorno, quasi che da altri, oltre che da me, si sentisse ancora, proditoriamente, tirare fuor di strada.
– Come, sulla mia coscienza?
– Credi che non c’entri? – ribattei subito. – Eh, lo so! E forse credi che non c’entri neppure la mia, perché ve l’ho lasciata per tanti anni alla banca, con tutto l’altro patrimonio, ad amministrare secondo le norme di mio padre.
– Ma la banca... – si provò a obiettare Quantorzo.
Scattai di nuovo:
– La banca... la banca... Non sai veder altro che la banca, tu. Ma tocca a me poi, fuori, a sentirmi dare dell’usurajo!
A questa uscita inattesa Quantorzo balzò in piedi a sua volta, come se avessi detto la piú fiera delle bestemmie o la piú madornale delle bestialità; e, fingendo di scapparsene: – Uh, Dio benedetto! – esclamò con le braccia levate; e, di nuovo: – Uh, Dio benedetto! – ritornando indietro, con la testa tra le mani e guardando mia moglie, come per dirle: «Ma sente, ma sente che bambinate? E io che supponevo che avesse da dirmi una cosa seria!». M’afferrò per le braccia, forse per scuotermi dallo sbalordimento che a mia volta m’aveva cagionato istintivamente quella sua mimica furiosa e mi gridò:
– Ma ti dai sul serio pensiero di questo? Eh via! eh via!
E per prendersi la rivincita m’additò in prova a mia moglie che rideva, ah rideva, si buttava via dalle risa, certo per quello che avevo detto, ma fors’anche per l’effetto di quelle mie parole su Quantorzo, nonché per lo sbalordimento che n’era seguito in me e che senza dubbio ridestava in lei finalmente la piú lampante immagine della nota e cara sciocchezza del suo Gengè.
Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all’improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento, nell’animo con cui un po’ m’ero messo e un po’ lasciato andare a quella discussione: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse; tanto finora m’era apparso chiaro ch’io alla presenza di quei due, io come io, non ci fossi, e ci fossero invece il «Gengè» dell’una e il «caro Vitangelo» dell’altro; nei quali non potevo sentirmi vivo.
Fuori d’ogni immagine in cui potessi rappresentarmi vivo a me stesso, come qualcuno anche per me, fuori d’ogni immagine di me quale mi figuravo potesse essere per gli altri; un «punto vivo» in me s’era sentito ferire cosí addentro, che perdetti il lume degli occhi.
– Finiscila di ridere! – gridai, ma con tal voce, a mia moglie, che questa, guardandomi (e chi sa che viso dovette vedermi) d’un tratto ammutolì, scontraffacendosi tutta.
– E tu stai bene attento a quello che ti dico, – soggiunsi subito, rivolto a Quantorzo. – Voglio che la banca sia chiusa questa sera stessa.
– Chiusa? Che dici?
– Chiusa! chiusa! – ribattei, facendomegli addosso. – Voglio che sia chiusa. Sono il padrone, sí o no?
– No, caro! Che padrone! – insorse. – Non sei mica tu solo il padrone.
– E chi altri? tu? il signor Firbo?
– Ma tuo suocero, ma tanti altri!
– Però la banca porta soltanto il mio nome.
– No, di tuo padre che la fondò!
– Ebbene, voglio che sia levato!
– Ma che levato! Non è possibile!
– Oh guarda un po’. Non sono padrone del mio nome? del nome di mio padre?
– No, perché è negli atti di costituzione della banca, quel nome; è il nome della banca: creatura di tuo padre, tal quale come te! E ne porta il nome con lo stesso stessissimo tuo diritto!
– Ah è cosí.
– Cosí, cosí!
– E il danaro? Quello che mio padre ci mise, di suo? Lo lasciò alla banca o a me, il danaro, mio padre?
– A te, ma investito nelle operazioni della banca.
– E se io non voglio piú? Se voglio ritirarlo per investirlo altrimenti, a piacer mio, non sono padrone?
– Ma tu cosí butti all’aria la banca!
– E che vuoi che me n’importi? Non voglio piú saperne, ti dico!
– Ma importa agli altri, se permetti! Tu rovini gli interessi degli altri, i tuoi stessi, quelli di tua moglie, di tuo suocero!
– Nient’affatto! Gli altri facciano quello che vogliono: séguitino a tenerci il loro: io ritiro il mio.
– Vorresti mettere dunque in liquidazione la banca?
– So un corno io di queste cose! So che voglio, «voglio» capisci? voglio ritirare i miei denari, e basta cosí!
Vedo bene adesso che questi violenti diverbii, cosí a botta e risposta, sono veri e proprii pugilati tra due avverse volontà che cercano d’accopparsi a vicenda, colpendo, parando, ribattendo, sicura ciascuna che il colpo assestato debba atterrare l’altra; fin tanto che all’una e all’altra non venga dalla resistente durezza d’ogni ribattuta avversaria la prova sempre piú convincente che inutile è insistere poiché l’altra non cede. E la piú ridicola figura l’hanno fatta intanto i pugni veri levandosi istintivamente ad accompagnare irosi quelli parlati, o meglio, urlati, proprio fino all’altezza del grugno avversario ma senza toccarlo, e i denti che si serrano e i nasi che s’arricciano e le ciglia che s’aggrottano e tutta la persona che freme.
Con l’ultima scarica di quei tre «voglio», «voglio», «voglio» dovevo aver bene ammaccata la resistenza di Quantorzo. Gli vidi congiungere le mani in atto di preghiera:
– Ma si può sapere almeno perché? Cosí da un momento all’altro?
Ebbi, vedendolo in quell’atto, come una vertigine. D’improvviso avvertii che spiegare lì per lì a lui e a mia moglie che pendevano da me, l’uno supplichevole e l’altra ansiosa e spaventata, i motivi di quella mia testarda risoluzione, di tanta gravità per tutti, non mi sarebbe stato possibile. Quei motivi, che pur sentivo in me aggrovigliati in quel momento e sottili e contorti dai lunghi spasimi delle mie tante meditazioni, non erano piú chiari del resto neanche a me stesso, strappato dalla concitazione dell’ira a quella terribile fissità di luce che folgorava tetra da quanto avevo cosí solitariamente scoperto: tenebra per tutti gli altri che vivevano ciechi e sicuri nella pienezza abituale dei loro sentimenti. Avvertii subito che, a svelarne appena appena uno solo, sarei parso irremissibilmente pazzo all’uno e all’altra: che, per esempio, non m’ero mai veduto fino a poco tempo addietro com’essi mi avevano sempre veduto, cioè uno che vivesse tranquillo e svagato sull’usura di quella banca, pur senza doverla riconoscere apertamente. L’avevo appena appena riconosciuto in loro presenza, ed ecco che all’uno e all’altra era sembrata un’ingenuità cosí inverosimile da suscitare nell’uno quella comica furiosa mimica e nell’altra quell’interminabile risata. E come dunque dir loro che su questa «ingenuità» appunto, ai loro occhi quasi incredibile, io fondavo tutto il peso di quella risoluzione? Ma se usurajo ero sempre stato, sempre, da prima ancora che nascessi? Non m’ero visto io stesso sulla strada maestra della pazzia incamminato a compiere un atto che agli occhi di tutti doveva apparire appunto contrario a me stesso e incoerente, ponendo fuori di me la mia volontà, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca? Non avevo io stesso riconosciuto che il signor usurajo Vitangelo Moscarda poteva sí impazzire, ma non si poteva in alcun modo distruggere?
Ebbene, ma questo, proprio questo, era il «punto vivo» ferito in me, che m’accecava e mi toglieva in quel momento la comprensione di tutto: che usurajo no, quell’usurajo che non ero mai stato per me, ora non volevo piú essere neanche per gli altri e non sarei piú stato, anche a costo della rovina di tutte le condizioni della mia vita. Ed era finalmente in me un sentimento, questo, ben cementato dalla volontà che mi dava (benché lo avvertissi fin d’allora con una certa apprensione e diffidenza) la stessa consistente solidità degli altri sorda e chiusa in sé come una pietra. Sicché bastò che mia moglie, approfittando del mio improvviso smarrimento, scattasse, imponendo al suo Gengè di finirla una buona volta con quella ridicola aria di comando che voleva darsi, e mi venisse, cosí dicendo, quasi con le mani in faccia, bastò questo perché io perdessi di nuovo il lume degli occhi e le afferrassi i polsi e scrollandola e respingendola indietro la ributtassi a sedere sulla poltrona:
– Finiscila tu, col tuo Gengè che non sono io, non sono io, non sono io! Basta con codesta marionetta! Voglio quello che voglio; e come voglio sarà fatto!
Mi voltai a Quantorzo.
– Hai capito?
E uscii, furioso, dal salotto.
Poco dopo, chiuso in camera come una bestia in gabbia, sbuffavo per quella violenza su mia moglie (la prima) senza potermela levare dagli occhi, nel bianco vagellare della lieve persona che pareva si sfaldasse tutta agli scrolli con cui la respingevo indietro, afferrata per i polsi, e la ributtavo a sedere sulla poltrona.
Ah come lieve, con tutti quei falbalà intorno all’abito di neve, all’urto brutale della mia violenza!
Rotta ormai, come una fragile bambola, là ributtata con tanta furia sulla poltrona, non l’avrei di certo raccapezzata piú. E tutta la mia vita, qual’era stata finora con lei, il giuoco di quella bambola: spezzato, finito, forse per sempre.
L’orrore della mia violenza mi fremeva vivo nelle mani ancora tremanti. Ma avvertivo che non era tanto della violenza quell’orrore, quanto del cieco insorgere in me d’un sentimento e d’una volontà che alla fine mi avevano dato corpo: un bestiale corpo che aveva incusso spavento e rese violente le mie mani.
Diventavo "uno".
Io.
Io che ora mi volevo cosí.
Io che ora mi sentivo cosí.
Finalmente!!
Non piú usurajo (basta con quella banca): e non piú Gengè (basta con quella marionetta).
Ma il cuore seguitava a tumultuarmi in petto. Mi toglieva il respiro. Aprivo e chiudevo le mani, affondandomi le unghie nella carne. E appena, senza saperlo, mi grattavo con una mano il palmo dell’altra, raggirandomi ancora per la stanza, gangheggiavo come un cavallo che non soffra il morso. Farneticavo.
« Ma io, uno, chi? chi?»
Se non avevo piú occhi per vedermi da me come uno anche per me? Gli occhi, gli occhi di tutti gli altri seguitavo a vedermeli addosso, ma ugualmente senza poter sapere come ora m’avrebbero veduto in questa mia neonata volontà, se io stesso non sapevo ancora come sarei consistito per me.
Non piú Gengè.
Un altro.
Avevo proprio voluto questo.
Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?
Questa mia nuova volontà, questo mio nuovo sentimento potevano insorgere ciechi per la ferita in un punto vivo di me che non sapevo, ma subito cadevano, cadevano sotto la terribile fissità di quella luce che folgorava tetra da quanto avevo scoperto.
Volevo tuttavia intravedere, per raccapezzarmi, che cosa avrei potuto mettere su col po’ di sangue di quella ferita, con quel po’ di sentimento, lacerato, macerato, su lo sgangherato scheletro di quel po’ di volontà: oh, un povero omicello sparuto, sempre spaventato dagli occhi degli altri; col sacchetto in pugno dei danari ricavati dalla liquidazione della banca. E come avrei potuto tenermeli piú ormai, quei danari?
Li avevo forse guadagnati io col mio lavoro? Averli ora ritirati dalla banca perché non fruttassero altra usura, bastava forse a mondarli di quella da cui erano venuti? E allora, che? buttarli via? E come avrei vissuto? Di che lavoro ero capace? E Dida?
Era anche lei – lo sentivo bene, ora che non la avevo piú in casa – era anche lei un punto vivo in me. Io l’amavo, non ostante lo strazio che mi veniva dalla perfetta coscienza di non appartenermi nel mio stesso corpo come oggetto del suo amore. Ma pur la dolcezza che a questo corpo veniva dal suo amore, la assaporavo io, cieco nella voluttà dell’abbraccio; anche se talvolta ero quasi tentato di strozzarla vedendole, tra le umide labbra convulse, come una smania di sorriso o di sospiro, tremare uno stupido nome: Gengè.
L’immobilità sospesa di tutti gli oggetti del salotto, in cui rientrai come attratto dal silenzio che vi si era fatto: quella poltrona dov’ella dianzi stava seduta; quel canapè dove dianzi stava affondato Quantorzo; quel tavolinetto di lacca chiara filettato d’oro e le altre seggiole e le tende, mi diedero una cosí orribile impressione di vuoto che mi voltai a guardare i servi, Diego e Nina, i quali mi avevano annunziato che la padrona era andata via col signor Quantorzo lasciando l’ordine che tutte le sue robe fossero raccolte, chiuse nei bauli e mandate a casa del padre; e ora stavano a mirarmi con lo sbalordimento nelle bocche aperte e negli occhi vani.
La loro vista m’irritò. Gridai:
– E sta bene, eseguite l’ordine.
Un ordine da eseguire era già, in quel vuoto, qualche cosa almeno per gli altri. E anche per me, se mi levava dai piedi quei due per il momento.
Come fui solo, stranamente quasi ilare d’improvviso, pensai: «Sono libero! Se n’è andata via!». Ma non mi pareva vero. Avevo l’impressione curiosissima che se ne fosse andata via per farmi la prova della giustezza della mia scoperta, la quale assumeva per me un’importanza cosí grande e assoluta, che a confronto ogni altra cosa non poteva averne se non una molto minore e relativa: anche se mi faceva perdere la moglie; anzi proprio per questo.
«Ecco se è vero!»
Nient’altro che la prova era terribile. Tutto il resto – ma sí, via – poteva parere anche ridicolo: quell’andarsene cosí su due piedi con Quantorzo, come quel mio insorgere per quella stupidaggine là, della gente che mi credeva usurajo.
Ma come, allora? ero già ridotto a questo? di non poter piú prendere nulla sul serio? E la mia ferita di poc’anzi, per cui avevo avuto quello scatto violento?
Già. Ma dove la ferita? In me?
A toccarmi, a strizzarmi le mani, sí, dicevo «io», ma a chi lo dicevo? e per chi? Ero solo. In tutto il mondo, solo. Per me stesso, solo. E nell’attimo del brivido, che ora mi faceva fremere alle radici i capelli, sentivo l’eternità e il gelo di questa infinita solitudine.
A chi dire «io»? Che valeva dire «io», se per gli altri aveva un senso e un valore che non potevano mai essere i miei; e per me, cosí fuori degli altri, l’assumerne uno diventava subito l’orrore di questo vuoto e di questa solitudine.
Venne a trovarmi, la mattina dopo, mio suocero.
Dovrei dir prima (ma non dirò) fin dov’ero arrivato con l’immaginazione, farneticando per gran parte della notte, a furia di trar conseguenze dalle condizioni in cui m’ero messo di fronte agli altri, non solo, ma anche rispetto a me stesso.
M’ero sottratto affannato a un breve sonno di piombo, con la sensazione dell’ostile gravezza di tutte le cose, anche dell’acqua raccolta nel cavo delle mani, per lavarmi, anche dell’asciugamani di cui dopo m’ero servito; quando, all’annunzio della visita, improvvisamente mi sentii tutto alleggerire da un pronto risveglio di quell’estro gaio che per fortuna come un benefico vento m’arieggia ancora a tratti lo spirito.
Feci volar l’asciugamani e dissi a Nina:
– Bene bene. Fallo accomodare nel salotto, e digli che vengo subito.
Mi guardai allo specchio dell’armadio con irresistibile confidenza fino a strizzare un occhio per significare a quel Moscarda là che noi due intanto c’intendevamo a maraviglia. E anche lui, per dire la verità, subito mi strizzò l’occhio, a confermare l’intesa.
(Voi mi direte, lo so, che questo dipendeva perché quel Moscarda là nello specchio ero io; e ancora una volta dimostrerete di non aver capito niente. Non ero io, ve lo posso assicurare. Tant’è vero che, un istante dopo, prima d’uscire, appena voltai un po’ la testa per riguardarlo in quello specchio, era già un altro, anche per me, con un sorriso diabolico negli occhi aguzzi e lucidissimi. Voi ve ne sareste spaventati; io no; perché già lo sapevo; e lo salutai con la mano. Mi salutò con la mano anche lui, per dire la verità).
Tutto questo, per cominciare. La commedia seguitò poi nel salotto con mio suocero.
In quattro?
No.
Vedrete in quanti svariati Moscarda, dacché c’ero, mi spassai a produrmi quella mattina.
Senza dubbio era mio suocero la cagione dell’insperato risveglio del mio estro, per quella (sí, Dio mio) forse irrispettosa realtà che io finora gli avevo dato, di stupidissimo uomo sempre soddisfatto di sé.
Molto curato, non pur nei panni, anche nell’acconciatura dei capelli e dei baffi fino all’ultimo pelo; biondo biondo, e d’aspetto, non dirò volgare, ma comune a ogni modo; tutte quelle cure avrebbe potuto risparmiarsele, perché gli abiti addosso a lui, di fattura inappuntabile, restavano come non suoi, del sarto che glieli aveva cuciti; e anche quella sua testa cosí ben ravviata e quelle sue mani cosí tornite e levigate, anziché attaccate vive e di carne al suo solino e alle sue maniche, potevano figurare senza alcuno scàpito esposte mozze e di cera nelle vetrine d’un parrucchiere e d’un guantajo. Sentirlo parlare, vedergli socchiudere gli occhi cilestri smaltati nella beatitudine d’un perenne sorriso per tutto ciò che gli usciva dalle labbra coralline; vedergli poi riaprire quegli occhi e la pàlpebra del destro restargli un po’ tirata e appiccicata, quasi non riuscisse a distaccarsi cosí presto dal prelibato sapore di un’intima soddisfazione che nessuno avrebbe mai supposto in lui; non poteva non fare una stranissima impressione, tanto pareva finto, ripeto: fantoccio da sarto e testa da vetrina di barbiere.
Ora, mentre me l’aspettavo cosí, la sorpresa di trovarmelo davanti tutto scomposto e agitato serví soltanto a stuzzicare in me d’improvviso il desiderio di provare quel rischio squisito con cui uno muove inerme e sorridente contro un nemico che lo minacci armato, dopo avergli intimato di non muoversi d’un passo.
L’estro riacceso in me m’imponeva difatti sulle labbra un sorriso di sfida e sulla fronte un’aria di smemorataggine per il giuoco che voleva seguitare, pericolosissimo, mentre erano in ballo cosí gravi interessi e per quell’uomo là e per tanti altri: le sorti della banca; le sorti della mia famiglia: avere altre prove di quella terribile cosa che già sapevo: cioè, che sarei inevitabilmente sembrato pazzo, ancora e piú di prima, coi discorsi che mi disponevo a fare, giù a rotta di collo per la china di quell’incredibile e inverosimile ingenuità che aveva fatto strabiliare Quantorzo e buttar via dalle risa mia moglie.
Difatti, anche per me ormai, se consideravo bene a fondo le cose non poteva esser valida scusa la coscienza a cui volevo appigliarmi. Potevo sentirmi rimordere sul serio di quell’usura che non m’ero mai inteso di esercitare? Avevo sí firmato per formalità gli atti di quella banca; ero vissuto fino a quel momento dei guadagni di essa senza mai pensarci; ma ora che finalmente me ne rendevo conto, avrei ritirato i danari dalla banca, e presto, per mettermi del tutto a posto, me ne sarei liberato come che fosse, istituendo un’opera di carità o qualcosa di simile.
– Come! E ti par niente tutto questo? Ma Dio mio, ma dunque è vero?
– Vero, che cosa?
– Che ti sei impazzito! E di mia figlia che vorresti farne? Come vorresti vivere? di che?
– Ecco, questo sí: questo mi pare importante. Da studiare.
– Rovinare per sempre la tua posizione? Ciascuno ha sempre fatto i suoi affari da che mondo è mondo.
– Benissimo. E dunque, d’ora in poi, anch’io i miei.
– Ma come, i tuoi, se butti via i danari guadagnati da tuo padre in tanti anni di lavoro?
– Ho sei anni d’Università.
– Ah! Vorresti tornare all’Università?
– Potrei.
Accennò d’alzarsi. Lo trattenni, domandandogli:
– Scusi: prima di venire alla liquidazione della banca, ci sarà tempo, non è vero?
S’alzò furente, con le braccia per aria.
– Ma che liquidazione! che liquidazione! che liquidazione!
– Se non vuol lasciarmi dire...
Si voltò di scatto.
– Ma che vuoi dire. Tu farnetichi!
– Sono calmissimo, – gli feci notare. – Le volevo dire che ho tante materie di studio già a buon punto e lasciate lì.
Mi guardò stordito.
– Materie di studio? Che significa?
– Che potrei, anche presto, prendere una laurea di medico, per esempio, o di dottore in lettere e filosofia.
– Tu?
– Non crede? Sí. M’ero messo anche per medico. Tre anni. E mi piaceva. Domandi, domandi a Dida come vedrebbe meglio il suo Gengè. Se medico o professore. Ho la parola facile: potrei anche, volendo, far l’avvocato.
Si scrollò violentemente.
– Ma se non hai voluto fare mai niente!
– Già. Ma non per leggerezza, veda. Anzi, al contrario! Mi ci affondavo troppo. E non si riesce a nulla, creda, affondandosi troppo in qualsiasi cosa. Si vengono a fare certe scoperte! Leggermente però, le assicuro che il medico, l’avvocato o, se Dida preferisce, il professore, potrei farlo benissimo. Basta che mi ci metta.
Paonazzo dalla violenza che faceva su se stesso per starmi a sentire, a questo punto scappò via. O schiattava. Gli corsi dietro, gridando:
– Ma no, ma senta, ma dando via i danari di mio padre ma sa che popolarità! Mi potrebbero anche eleggere deputato: ci pensi! Se a Dida piacesse, e anche a lei: il genero deputato... Non mi ci vede? non mi ci vede? –
Se n’era già scappato via, urlando a ogni mia parola:
– Pazzo! Pazzo! Pazzo! –
Il tono era di scherzo, non nego, per via di quel maledetto estro. E poteva anche parere ch’io parlassi con molta fatuità: lo riconosco. Ma le proposte di un Gengè medico o avvocato o professore e perfino deputato, se potevano far ridere me, avrebbero potuto imporre a lui, io dico, almeno quella considerazione e quel rispetto che di solito si hanno in provincia per queste nobili professioni cosí comunemente esercitate anche da tanti mediocri coi quali, poi poi, non mi sarebbe stato difficile competere.
La ragione era un’altra, lo so bene. Non mi ci vedeva neanche lui, mio suocero. Per motivi ben altri dai miei.
Non poteva ammettere, lui, ch’io gli levassi il genero (quel suo Gengè ch’egli vedeva in me, chi sa come) dalle condizioni in cui se n’era stato finora, cioè da quella comoda consistenza di marionetta che lui da un canto e la figlia dall’altro, e dal canto loro tutti i socii della banca gli avevano dato.
Dovevo lasciarlo cosí com’era, quel buon figliuolo feroce di Gengè, a vivere senza pensarci dell’usura di quella banca non amministrata da lui.
E io vi giuro che l’avrei lasciato lì, per non turbare quella mia povera bambola, il cui amore mi era pur cosí caro, e per non cagionare un cosí grave scompiglio a tanta brava gente che mi voleva bene, se, lasciandolo lì per gli altri, io poi per mio conto me ne fossi potuto andare altrove con un altro corpo e un altro nome.
Sapevo altresí che a mettermi in nuove condizioni di vita, a rappresentarmi agli altri domani da medico, poniamo, o da avvocato o da professore, non mi sarei ugualmente ritrovato né uno per tutti né io stesso mai nella veste e negli atti di nessuna di quelle professioni.
Troppo ero già compreso dall’orrore di chiudermi nella prigione d’una forma qualunque.
Pur non di meno quelle stesse proposte, fatte per ridere a mio suocero, io le avevo fatte sul serio a me stesso durante la notte, vincendo il riso che mi provocavano le immagini di me avvocato o medico o professore. Avevo insomma pensato che una di quelle professioni, o un’altra qual si fosse, avrei dovuto prenderla e accettarla come una necessità se Dida, ritornando a me com’io volevo, me n’avesse fatto l’obbligo per provvedere del mio meglio alla sua nuova vita con un nuovo Gengè.
Ma dalla furia con cui mio suocero se n’era scappato potevo argomentare che, anche per Dida, nessun nuovo Gengè poteva nascere dal vecchio. Tanto questo vecchio le dava a vedere d’essersi impazzito senza rimedio, se cosí per niente voleva togliersi da un momento all’altro dalle condizioni di vita in cui era vissuto finora felicemente.
E davvero pazzo volevo esser io a pretendere che una bambola come quella impazzisse insieme con me, cosí per niente.
Fui invitato la mattina dopo con un bigliettino recato a mano ad andar subito in casa di Anna Rosa, l’amichetta di mia moglie che ho nominato una o due volte in principio, cosí di passata.
M’aspettavo che qualcuno cercasse di mettersi di mezzo per tentare la riconciliazione tra me e Dida; ma questo qualcuno nelle mie supposizioni doveva venire da parte di mio suocero e degli altri socii della banca, non direttamente da parte di mia moglie; già che l’unico ostacolo da rimuovere era la mia intenzione di liquidare la banca. Tra me e mia moglie non era avvenuto quasi nulla. Bastava ch’io dicessi ad Anna Rosa d’esser pentito sinceramente dello sgarbo fatto a Dida scrollandola e buttandola a sedere sulla poltrona del salotto, e la riconciliazione sarebbe avvenuta senz’altro.
Che Anna Rosa si fosse preso l’incarico di farmi recedere da quella intenzione, ponendolo come patto per il ritorno di mia moglie in casa, non mi parve in alcun modo ammissibile.
Sapevo da Dida che la sua amichetta aveva rifiutato parecchi matrimonii cosí detti vantaggiosi per disprezzo del danaro, attirandosi la riprovazione della gente assennata e anche di Dida che certo, sposando me (voglio dire il figlio d’un usurajo), aveva dovuto lasciare intendere alle sue amiche che lo faceva perché alla fin fine era un matrimonio «vantaggioso».
Per questo «vantaggio» da salvare Anna Rosa non poteva esser dunque l’avvocato piú adatto.
Era da ammettere piuttosto il contrario: che Dida avesse ricorso a lei per aiuto, cioè per farmi sapere che il padre, d’accordo con gli altri soci, la tratteneva in casa e le impediva di ritornare a me se io non recedevo dall’intenzione di liquidare la banca. Ma conoscendo bene mia moglie, non mi parve ammissibile neppur questo.
Andai pertanto a quell’invito con una grande curiosità. Non riuscivo a indovinarne la ragione.
Conoscevo poco Anna Rosa. L’avevo veduta parecchie volte in casa mia, ma essendomi sempre tenuto lontano, piú per istinto che di proposito, dalle amiche di mia moglie, avevo scambiato con lei pochissime parole. Certi mezzi sorrisi, per caso sorpresi sulle sue labbra mentre mi guardava di sfuggita, mi erano sembrati cosí chiaramente rivolti a quella sciocca immagine di me che il Gengè di mia moglie Dida le aveva dovuto far nascere nella mente, che nessun desiderio m’era mai sorto d’intrattenermi a parlare con lei.
Non ero mai stato a casa sua.
Orfana di padre e di madre, abitava con una vecchia zia in quella casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badía Grande: mura d’antico castello, dalle finestre con le grate inginocchiate da cui sul tramonto s’affacciano ancora le poche vecchie suore che vi sono rimaste. Una di quelle suore, la meno vecchia, era zia anch’essa di Anna Rosa, sorella del padre; ed era, dicono, mezza matta. Ma ci vuol poco a fare ammattire una donna, chiudendola in un monastero. Da mia moglie, che fu per tre anni educanda nel convento di San Vincenzo, so che tutte le suore, cosí le vecchie come le giovani, erano, chi per un verso chi per un altro, mezze matte.
Non trovai in casa Anna Rosa. La vecchia serva che m’aveva recato il bigliettino, parlandomi misteriosamente dalla spia della porta senza aprirla, mi disse che la padroncina era su alla Badía, dalla zia monaca, e che andassi pure a trovarla là, chiedendo alla suora portinaja d’essere introdotto nel parlatorietto di Suor Celestina.
Tutto questo mistero mi stupí. E sul principio, anziché accrescere la mia curiosità, mi trattenne d’andare. Per quanto mi fosse possibile in quello stupore, avvertii il bisogno di riflettere prima sulla stranezza di quel convegno lassú alla Badía in un parlatorietto di suora.
Ogni nesso tra la mia futile disavventura coniugale e quell’invito mi parve rotto, e subito rimasi apprensionito come per un’imprevista complicazione che avrebbe recato chi sa quali conseguenze alla mia vita.
Come tutti sanno a Richieri, poco mancò non mi recasse la morte. Ma qui mi piace ripetere ciò che già dissi davanti ai giudici, perché per sempre sia cancellato dall’animo di tutti il sospetto che allora la mia deposizione fosse fatta per salvare e mandare assolta d’ogni colpa Anna Rosa. Nessuna colpa da parte sua. Fui io, o piuttosto ciò che finora è stato materia di queste mie tormentose considerazioni, se l’improvvisa e inopinata avventura a cui quasi senza volerlo mi lasciai andare per un ultimo disperatissimo esperimento, rischiò d’avere una tal fine.
Per una delle straducole a sdrucciolo della vecchia Richieri durante il giorno appestate dal lezzo della spazzatura marcita, andai su alla Badía.
Quando si sia fatta l’abitudine di vivere in un certo modo, andare in qualche luogo insolito e nel silenzio avvertire come un sospetto che ci sia qualcosa di misterioso a noi, da cui, pur lì presente, il nostro spirito è condannato a restar lontano, è un’angoscia indefinita, perché si pensa che, se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo.
Quella Badía, già castello feudale dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la vasta corte con la cisterna in mezzo, e quello scalone consunto, cupo e rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e quel largo e lungo corridojo con tanti usci da una parte e dall’altra e i mattoni rosi del pavimento avvallato che lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio del cielo, tante vicende di casi e aspetti di vita aveva accolto in sé e veduto passare, che ora, nella lenta agonia di quelle poche suore che vi vagavano dentro sperdute, pareva non sapesse piú nulla di sé. Tutto là dentro pareva ormai smemorato, nella lunghissima attesa della morte di quelle ultime suore, a una a una; perduta da gran tempo la ragione per cui, castello baronale, era stato dapprima costruito, divenuto poi per tanti secoli badía.
La suora portinaja aprì uno di quegli usci nel corridojo e m’introdusse nel parlatorietto. Una campanella malinconica già era stata sonata da basso, forse per chiamare Suor Celestina.
Il parlatorietto era bujo, tanto che in prima non potei discernervi altro che la grata in fondo, appena intravista alla poca luce entrata dall’uscio nell’aprirlo. Rimasi in piedi in attesa; e chi sa quanto ci sarei rimasto se alla fine una fievole voce dalla grata non m’avesse invitato ad accomodarmi che presto Anna Rosa sarebbe venuta su dall’orto.
Non mi proverò a esprimere l’impressione che mi fece quella voce inattesa nel bujo, di là dalla grata. Mi folgorò in quel bujo il sole che doveva esserci in quell’orto della badia. che non sapevo dove fosse, ma che certo doveva essere verdissimo; e d’improvviso mi s’illuminò in mezzo a quel verde la figura d’Anna Rosa come non l’avevo mai veduta, tutta un fremito di grazia e di malizia. Fu un baleno. Ritornò il bujo. O piuttosto, non il bujo, perché ora potevo discernere la grata, e davanti a quella grata un tavolino e due seggiole. In quella grata, il silenzio. Vi cercai la voce che mi aveva parlato, fievole ma fresca, quasi giovanile. Non c’era piú nessuno. Eppure doveva essere stata la voce d’una vecchia.
Anna Rosa, quella voce, quel parlatorietto, il sole in quel bujo, il verde dell’orto: mi prese come una vertigine.
Poco dopo, Anna Rosa aprì di furia l’uscio e mi chiamò fuori del parlatorietto nel corridojo. Era tutta accesa in volto, coi capelli in disordine, gli occhi sfavillanti, la camicetta bianca di lana a maglia sbottonata sul petto come per caldo, e aveva tra le braccia tanti fiori e un tralcio d’edera che le passava sopra una spalla e le tentennava lungo, dietro. Corse, invitandomi a seguirla, in fondo al corridojo, salì sullo scalino sotto al finestrone, ma nel salire, forse per riparare con una mano una parte dei fiori che stava per sfuggirle, si lasciò invece cadere dall’altra la borsetta, e subito il fragore d’una detonazione seguito da un altissimo grido fece rintronare tutto il corridojo.
Feci appena in tempo a sorreggere Anna Rosa che mi si batteva addosso. Nello sbalordimento, prima che riuscissi a rendermi conto di ciò che era avvenuto, mi vidi attorno certe vecchie suore pigolanti spaventate, le quali, pur essendo accorse per quello sparo nel corridojo e pur vedendomi tra le braccia Anna Rosa ferita, erano tuttavia in preda a un’altra costernazione ch’io in prima non potei intendere tanto mi pareva impossibile che non si dovesse aver quella per cui di gran voce io chiedevo loro un letto, dove adagiare la ferita; mi rispondevano – Monsignore –; che stava per arrivare Monsignore. A sua volta, Anna Rosa mi gridava tra le braccia: – La rivoltella! la rivoltella! –, cioè che rivoleva da me la rivoltella ch’era dentro la borsetta, perché era un ricordo del padre.
Che in quella borsetta caduta dovesse esserci una rivoltella la quale, esplodendo, l’aveva ferita a un piede, m’era apparso subito evidente; ma non cosí la ragione per cui la portava con sé, e proprio quella mattina che mi aveva dato convegno alla Badía. Mi parve stranissimo; ma non mi passò neppur lontanamente per il capo in quel momento che l’avesse portata per me.
Piú che mai stordito, vedendo che nessuno mi dava aiuto per soccorrere la ferita, me la tolsi di peso sulle braccia e la portai fuori della Badía, giù per la straducola, a casa.
Mi toccò, poco dopo, risalire alla Badía per riprendere dal corridojo sotto al finestrone quella rivoltella, che doveva poi servire per me.
La notizia di quello strano accidente alla Badía Grande e di me che ne uscivo a precipizio reggendo sulle braccia Anna Rosa ferita, si propagò per Richieri in un baleno, dando subito pretesto a malignazioni che per la loro assurdità mi parvero in prima perfino ridicole. Tanto ero lontano dal supporre che potessero non solo parer verosimili, ma addirittura essere tenute per vere; e non già da coloro a cui tornava conto metterle in giro e fomentarle, ma finanche da colei che reggevo ferita sulle braccia.
Proprio cosí.
Perché Gengè, signori miei, quello stupidissimo Gengè di mia moglie Dida, covava, senza ch’io ne sapessi nulla, una bruciante simpatia per Anna Rosa. Se l’era messo in testa Dida; Dida che se n’era accorta. Non ne aveva detto mai nulla a Gengè; ma lo aveva confidato, sorridendone, alla sua amichetta, per farle piacere e fors’anche per spiegarle che c’era il suo motivo, se Gengè la schivava, quand’ella veniva in visita; la paura d’innamorarsene.
Non mi riconosco nessun diritto di smentire codesta simpatia di Gengè per Anna Rosa. Potrei al piú sostenere che non era vera per me; ma non sarebbe giusto neppure questo, perché effettivamente non m’ero mai curato di sapere se sentissi antipatia o simpatia per quell’amichetta di mia moglie.
Mi pare d’aver dimostrato a sufficienza che la realtà di Gengè non apparteneva a me, ma a mia moglie Dida che gliel’aveva data.
Se Dida dunque attribuiva quella segreta simpatia al suo Gengè, importa poco ch’essa non fosse vera per me: era tanto vera per Dida, che vi trovava la ragione per cui mi tenevo lontano da Anna Rosa; e tanto vera anche per Anna, che le occhiate che qualche volta io le avevo rivolte di sfuggita erano state anzi interpretate da lei come qualche cosa di piú, per cui io non ero quel carino sciocchino Gengè che mia moglie Dida si figurava, ma un infelicissimo Signor Gengè che doveva soffrire chi sa che strazii in corpo a essere stimato e amato cosí dalla propria moglie.
Perché, se ci pensate bene, questo è il meno che possa seguire dalle tante realtà insospettate che gli altri ci dànno. Superficialmente, noi sogliamo chiamarle false supposizioni, erronei giudizii, gratuite attribuzioni. Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che piú vera della vostra stessa realtà è quella che vi dànno loro. Nessuno piú di me ha potuto farne esperienza.
Io mi trovai dunque, senza che ne sapessi nulla, innamoratissimo di Anna Rosa, e per questa ragione impigliato nell’accidente di quello sparo nella Badía come non mi sarei mai e poi mai immaginato.
Assistendo Anna Rosa, dopo averla trasportata a casa sulle braccia e adagiata sul suo letto, corso per un medico, per un’infermiera, e prestato le prime cure del caso, sentii subito anch’io piú che possibile, vero, ciò che ella aveva immaginato di me in seguito alle confidenze di Dida; la mia simpatia per lei. E potei avere dalla sua bocca, stando a sedere a piè del letto nell’intimità color di rosa della sua cameretta offesa dal cattivo odore dei medicinali, tutte le spiegazioni. E, prima, quella della rivoltella nella borsetta, causa dell’accidente.
Come rise di cuore immaginando che qualcuno potesse supporre ch’ella l’avesse portata per me nel darmi convegno alla Badía!
La portava sempre con sé, nella borsetta, quella rivoltella, dacché l’aveva trovata nel taschino d’un panciotto del padre, morto improvvisamente da sei anni. Piccolissima, con l’impugnatura di madreperla e tutta lucida e viva, le era parsa un gingillo, tanto piú carino in quanto nel suo grazioso congegno racchiudeva il potere di dare la morte. E piú d’una volta, mi confidò, in qualche non raro momento che il mondo tutt’intorno, per certi strani sgomenti dell’anima, le si faceva come attonito e vano, aveva avuto la tentazione di farne la prova, giocando con essa, provando nelle dita sul liscio lucido dell’acciajo e della madreperla la delizia del tatto. Ora, che essa, invece che alla tempia o nel cuore per volontà di lei, avesse potuto per caso morderla a un piede, e anche col rischio – come si temeva – di farla restar zoppa, le cagionava uno stranissimo dispiacere. Credeva d’essersela appropriata tanto, che non dovesse avere piú per sé quel potere. La vedeva cattiva, adesso. La traeva dal cassetto del comodino accanto al letto, la mirava e le diceva:
– Cattiva!
Ma quel convegno su alla Badía, nel parlatorietto della zia monaca, perché? E quelle sette suore che, invece di darsi pensiero di lei ferita, mi parlavano, quasi oppresse, della visita di non so qual Monsignore?
Ebbi la spiegazione anche di questo mistero.
Ella sapeva che quella mattina monsignor Partanna, vescovo di Richieri, sarebbe andato a far visita alle vecchie suore della Badía Grande, come soleva ogni mese. Per quelle vecchie suore quella visita era come un’anticipazione della beatitudine celeste: rischiare d’averla guastata da quell’accidente era stato perciò per loro la costernazione piú grave. Mi aveva fatto venire su alla Badía perché voleva ch’io parlassi subito, quella mattina stessa, col vescovo.
– Io, col vescovo? E perché?
Per ovviare a tempo ciò che si stava tramando contro di me.
Mi volevano proprio interdire, denunziandomi come alterato di mente. Dida le aveva annunziato che già erano state raccolte e ordinate tutte le prove, da Firbo, da Quantorzo, da suo padre e da lei stessa, per dimostrare la mia lampante alterazione mentale. Tanti erano pronti a farne testimonianza finanche quel Turolla che avevo difeso contro Firbo e tutti i commessi della banca; finanche Marco di Dio a cui avevo fatto donazione d’una casa.
– Ma la perderà, – non potei tenermi dal fare osservare ad Anna Rosa. – Se sono dichiarato alterato di mente, l’atto della donazione diventerà nullo!
Anna Rosa scoppiò a ridermi in faccia per la mia ingenuità. A Marco di Dio dovevano aver promesso che, se testimoniava come volevano loro, non avrebbe perduto la casa. E del resto, poteva, anche secondo coscienza, testimoniarlo.
Guardai sospeso Anna Rosa che rideva. Ella se n’accorse e si mise a gridare:
– Ma sí, pazzie! tutte pazzie! tutte pazzie!
Se non che, lei ne godeva, le approvava, e piú che piú se con esse volevo arrivare veramente a quella piú grande di tutte: cioè di buttare all’aria la banca e d’allontanare da me una donna che m’era stata sempre nemica.
– Dida?
– Non crede?
– Nemica, sí, adesso.
– No, sempre! sempre!
E m’informò che da tempo cercava di fare intendere a mia moglie ch’io non ero quello sciocco che lei s’immaginava, in lunghe discussioni che le erano costate una fatica infinita per frenare il dispetto che le cagionava l’ostinazione di quella donna a voler vedere in tanti miei atti o parole una sciocchezza che non c’era o un male che soltanto un animo deliberatamente nemico vi poteva vedere.
Strabiliai. D’un tratto, per quelle confidenze d’Anna Rosa, vidi una Dida cosí diversa dalla mia e pur cosí ugualmente vera, che provai – in quel punto, piú che mai – tutto l’orrore della mia scoperta. Una Dida che parlava di me come assolutamente non mi sarei mai immaginato ch’ella ne potesse parlare, nemica anche della mia carne. Tutti i ricordi della nostra intimità comune, separati e traditi cosí indegnamente che, per riconoscerli, dovevo superarne con dispetto il ridicolo che prima non avevo avvertito, riparare una vergogna che prima, in segreto, non m’era parso di dover sentire. Come se a tradimento, dopo avermi indotto confidente a denudarmi, spalancata la porta, m’avesse esposto alla derisione di chiunque avesse voluto entrare a vedermi cosí nudo e senza riparo. E apprezzamenti sulla mia famiglia e giudizii sulle mie piú naturali abitudini, che non mi sarei mai aspettati da lei. Insomma un’altra Dida; una Dida veramente nemica.
Eppure, sono certo certissimo che col suo Gengè ella non fingeva: era col suo Gengè quale poteva essere per lui, perfettamente intera e sincera. Fuori poi della vita che poteva avere con lui, diventava un’altra: quell’altra che ora le conveniva o le piaceva o veramente sentiva di essere per Anna Rosa.
Ma di che mi maravigliavo? Non potevo io lasciarle intero il suo Gengè, cosí com’ella se l’era foggiato, ed essere poi un altro per conto mio?
Cosí era di me, come di tutti.
Non dovevo rivelare il segreto della mia scoperta ad Anna Rosa. Fui tentato da lei stessa, per ciò che ella mi fece sapere, cosí improvvisamente, di mia moglie. E non mi sarei mai immaginato che la rivelazione le avrebbe prodotto nello spirito il turbamento che le produsse, fino a farle commettere la follia che commise.
Ma dirò prima della mia visita a Monsignore, a cui ella stessa mi spinse con gran premura, come a cosa che non comportasse piú altro indugio.
Al tempo che conducevo a spasso Bibí, la cagnolina di mia moglie, le chiese di Richieri erano la mia disperazione.
Bibí a tutti i costi ci voleva entrare.
Alle mie sgridate, s’acculava, alzava e scoteva una delle due zampine davanti, sternutiva, poi con un’orecchia su e l’altra giú stava a guardarmi, proprio con l’aria di credere che non era possibile, non era possibile che a una cagnolina bellina come lei non fosse lecito entrare in una chiesa. Se non ci stava nessuno!
– Nessuno? Ma come nessuno, Bibí? – le dicevo io. – Ci sta il piú rispettabile dei sentimenti umani. Tu non puoi intendere queste cose, perché sei per tua fortuna una cagnolina e non un uomo. Gli uomini, vedi? hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa.
A me era sempre bastato finora averlo dentro, a mio modo, il sentimento di Dio. Per rispetto a quello che ne avevano gli altri, avevo sempre impedito a Bibí di entrare in una chiesa; ma non c’entravo nemmeno io. Mi tenevo il mio sentimento e cercavo di seguirlo stando in piedi, anziché andarmi a inginocchiare nella casa che gli altri gli avevano costruito.
Quel punto vivo che s’era sentito ferire in me quando mia moglie aveva riso nel sentirmi dire che non volevo piú mi si tenesse in conto d’usurajo a Richieri, era Dio senza alcun dubbio: Dio che s’era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva piú tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d’usurajo.
Ma se fossi andato a dire cosí a Quantorzo o a Firbo e agli altri soci della banca, avrei dato loro certamente un’altra prova della mia pazzia.
Bisognava invece che il Dio di dentro, questo Dio che in me sarebbe a tutti ormai apparso pazzo, andasse quanto piú contritamente gli fosse possibile a far visita e a chiedere aiuto e protezione al saggissimo Dio di fuori, a quello che aveva la casa e i suoi fedelissimi e zelantissimi servitori e tutti i suoi poteri sapientemente e magnificamente costituiti nel mondo per farsi amare e temere.
A questo Dio non c’era pericolo che Firbo o Quantorzo s’attentassero a dare del pazzo.
Andai dunque a trovare al Vescovado monsignor Partanna.
Dicevano a Richieri che era stato eletto vescovo per istanze e mali ufficii di potenti prelati a Roma. Il fatto è che, pur essendo da alcuni anni a capo della diocesi, non era ancora riuscito a cattivarsi la simpatia, a conciliarsi la confidenza di nessuno.
A Richieri si era avvezzi al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza del suo predecessore, il defunto Eccellentissimo Monsignor Vivaldi; e tutti perciò si erano sentiti stringere il cuore allorché avevano veduto per la prima volta scendere a piedi dal Palazzo Vescovile lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo, tra i due segretarii che lo accompagnavano.
Un vescovo a piedi?
Dacché il Vescovado sedeva come una tetra fortezza in cima alla città, tutti i vescovi erano sempre scesi in una bella carrozza con l’attacco a due, gale rosse e pennacchi.
Ma all’atto stesso della sua insediatura monsignor Partanna aveva detto che vescovado è nome d’opera e non d’onore. E aveva licenziato servi e cuoco, cocchiere e famigli, smesso la carrozza e inaugurato la piú stretta economia, con tutto che la diocesi di Richieri fosse tra le piú ricche d’Italia. Per le visite pastorali nella diocesi, molto trascurate dal suo predecessore e da lui invece osservate con la massima vigilanza ai tempi voluti dai Canoni, non ostanti le gravi difficoltà delle vie e la mancanza di comunicazioni, si serviva di carrozze d’affitto e anche d’asini o di muli.
Sapevo poi da Anna Rosa che tutte le suore dei cinque monasteri della città, tranne quelle ormai decrepite della Badía Grande, lo odiavano per le crudeli disposizioni emanate contro di loro appena insediatosi vescovo, cioè che non dovessero piu né preparare né vendere dolci o rosolii, quei buoni dolci di miele e di pasta reale infiocchettati e avvolti in fili d’argento, quei buoni rosolii che sapevano d’anice e di cannella! e non piú ricamare, neanche arredi e paramenti sacri, ma far soltanto la calza; e infine che non dovessero piú avere un confessore particolare, ma servirsi tutte, senza distinzione, del Padre della comunità. Disposizioni anche piú gravi aveva poi dato per i canonici e beneficiali di tutte le chiese, e insomma per la piú rigida osservanza d’ogni dovere da parte di tutti gli ecclesiastici.
Un vescovo cosí non è comodo per tutti coloro che han voluto mettere fuori di sé il sentimento di Dio costruendogli una casa fuori, tanto piú bella quanto maggiore il bisogno di farsi perdonare. Ma era per me il meglio che mi potessi augurare. Il suo predecessore, l’Eccellentissimo Monsignor Vivaldi, benvisto a tutti, con tutti alla mano, avrebbe senza dubbio cercato il modo e la maniera d’accomodare ogni cosa, salvando banca e coscienza, per accontentare me, ma anche Firbo e Quantorzo e tutti gli altri.
Ora io sentivo che non potevo piú accomodarmi né con me né con nessuno.
Monsignor Partanna mi ricevette nella vasta sala dell’antica cancelleria nel Palazzo Vescovile.
Sento ancora nelle narici l’odore di quella sala dal tetro soffitto affrescato, ma cosí coperto di polvere che quasi non vi si scorgeva piú nulla. Le alte pareti dall’intonaco ingiallito erano ingombre di vecchi ritratti di prelati, anch’essi bruttati dalla polvere e qualcuno anche dalla muffa, appesi qua e là senz’ordine, sopra armadii e scansíe stinte e tarlate.
In fondo alla sala s’aprivano due finestroni, i cui vetri, d’una tristezza infinita sulla vanità del cielo velato, erano scossi continuamente dal vento che s’era levato d’improvviso, fortissimo: il terribile vento di Richieri che mette l’angoscia in tutte le case.
Pareva a momenti che quei vetri dovessero cedere alla furia urlante del libeccio. Tutto il colloquio tra me e Monsignore ebbe l’accompagnamento sinistro di sibili acuti e veementi, di cupi, lunghi mugolíi che, distraendomi spesso dalle parole di Monsignore, mi fecero sentire con un indefinibile sbigottimento, come non l’avevo sentito mai, il rammarico della vanità del tempo e della vita.
Ricordo che da uno di quei finestroni si scorgeva il terrazzino d’una vecchia casa dirimpetto. Su quel terrazzino apparve a un tratto un uomo, che doveva essere scappato dal letto con la folle idea di provare la voluttà del volo.
Esposto lì al vento furioso, si faceva svolazzare attorno al corpo magro, d’una magrezza che incuteva ribrezzo, la coperta del letto: una coperta di lana rossa, appesa e sorretta con le due braccia in croce, sulle spalle. E rideva, rideva con un lustro di lagrime negli occhi spiritati, mentre gli volavano di qua e di là, lingueggiando come fiamme, le lunghe ciocche dei capelli rossicci.
Quell’apparizione mi stupì tanto, che a un certo punto non potei piú tenermi di farne cenno a Monsignore, interrompendo un discorso molto serio sugli scrupoli della coscienza a cui egli da un pezzo s’era lasciato andare con evidente compiacimento del suo eloquio.
Monsignore si voltò appena a guardare; e, con uno di quei sorrisi che fanno benissimo le veci d’un sospiro, disse:
– Ah, sí: è un povero pazzo che sta lì.
Con tal tono d’indifferenza lo disse, come per cosa da tanto tempo divenuta ai suoi occhi abituale, che mi sorse lì per lì la tentazione di farlo sobbalzare, annunziandogli:
– No, sa: non sta lì. Sta qui, Monsignore. Quel pazzo che vuol volare sono io.
Mi contenni, e non lo dissi. Anzi, con la stess’aria d’indifferenza gli domandai:
– E non c’è pericolo che si butti giù dal terrazzino?
– No, è cosí, da tant’anni, – mi rispose Monsignore. – Innocuo, innocuo.
Spontaneamente, proprio senza volerlo, mi scappò detto allora:
– Come me.
E Monsignore non poté fare a meno di sobbalzare. Ma io gli mostrai subito una faccia cosí placida e sorridente, che d’un tratto lo rimise a posto. M’affrettai a spiegargli che intendevo innocuo anch’io nel concetto del signor Firbo e del signor Quantorzo, di mio suocero e di mia moglie, e insomma di tutti coloro che mi volevano interdire.
Monsignore, rasserenato, riprese il discorso sugli scrupoli della coscienza, che a lui pareva il piú proprio al mio caso, e l’unico a ogni modo da far valere con l’autorità e il prestigio del suo potere spirituale sulle intenzioni e le mene di quei miei nemici.
Potevo fargli intendere che il mio non era propriamente un caso di coscienza com’egli s’immaginava?
Se mi fossi arrischiato a farglielo intendere, sarei d’un tratto diventato pazzo anche ai suoi occhi.
Il Dio che in me voleva riavere il danaro della banca perché io non fossi piú chiamato usurajo, era un Dio nemico di tutte le costruzioni.
Il Dio, invece, a cui ero venuto a ricorrere per aiuto e protezione, era appunto quello che costruiva. Mi avrebbe dato, sí, una mano per farmi riavere il danaro, ma a patto ch’esso servisse alla costruzione di almeno una casa a un altro dei piú rispettabili sentimenti umani: voglio dire, la carità.
Monsignore, al termine del nostro colloquio mi domandò con aria solenne se non volevo questo.
Dovetti rispondergli che volevo questo.
E allora egli sonò un vecchio annerito e insordito campanellino d’argento che stava timido timido sulla tavola. Apparve un giovane chierico biondo e molto pallido. Monsignore gli ordinò di far venire Don Antonio Sclepis, canonico della Cattedrale e direttore del Collegio degli Oblati, ch’era in anticamera. L’uomo che ci voleva per me.
Conoscevo piú di fama che di persona questo prete. Ero andato una volta per incarico di mio padre a consegnargli una lettera su al Collegio degli Oblati, che sorge non lontano dal Palazzo Vescovile, nel punto piú alto della città, ed è un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie, ma tutto bianco, arioso e luminoso, dentro. Vi sono accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparano le varie arti e i varii mestieri. La disciplina vi è cosí dura, che quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantano al suono dell’organo nella chiesa del Collegio le loro preghiere, a udirle da giù, quelle preghiere accorano come un lamento di carcerati.
A giudicarne dall’aspetto, non pareva che il canonico Sclepis dovesse avere in sé tanta forza di dominio e cosí dura energia. Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se tutta l’aria e la luce dell’altura dove viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avessero reso le mani d’una gracilità tremula quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le pàlpebre piú esili d’un velo di cipolla. Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.
Appena entrato e informato da Monsignore dei miei scrupoli di coscienza e delle mie intenzioni, si mise a parlare con me in gran fretta, con grande confidenza, battendomi una mano su la spalla e dandomi del tu:
– Bene bene, figliuolo! Un gran dolore, mi piace. Ringraziane Dio. Il dolore ti salva, figliuolo. Bisogna esser duri con tutti gli sciocchi che non vogliono soffrire. Ma tu per tua ventura hai molto, molto da soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh... fece tanto tanto male! Sia il tuo cilizio il pensiero di tuo padre! il tuo cilizio! E lascia combattere a me col signor Firbo e il signor Quantorzo! Ti vogliono interdire? Te li accomodo io, non dubitare!
Uscii dal Palazzo Vescovile con la certezza che l’avrei avuta vinta su coloro che mi volevano interdire; ma questa certezza e gl’impegni che ne derivavano, contratti ora col vescovo e con lo Sclepis, mi gettavano in un mare d’incertezze senza fine su ciò che sarebbe stato di me, spogliato di tutto, senza piú né stato, né famiglia.
Non mi restava per il momento che Anna Rosa, la compagnia ch’ella voleva le tenessi durante la sua infermità.
Se ne stava a letto, col piede fasciato; e diceva che non se ne sarebbe alzata piú, se, come ancora i medici temevano, fosse rimasta zoppa.
Il pallore e il languore della lunga degenza le avevano conferito una grazia nuova, in contrasto con quella di prima. La luce degli occhi le si era fatta piú intensa, quasi cupa. Diceva di non poter dormire. L’odore dei suoi capelli densi, neri, un po’ ricciuti e aridi, quando la mattina se li trovava sciolti e arruffati sul guanciale, la soffocava. Se non era per il ribrezzo delle mani d’un parrucchiere sul suo capo, se li sarebbe fatti tagliare. Mi domandò, una mattina, se io non avrei saputo tagliarglieli. Rise del mio imbarazzo nel risponderle, poi si tirò sul viso la rimboccatura del lenzuolo e rimase cosí un gran pezzo col viso nascosto, in silenzio.
Sotto le coperte s’indovinavano procaci le formosità del suo corpo di vergine matura. Sapevo da Dida che ella aveva già venticinque anni. Certo, standosene cosí col viso nascosto pensava ch’io non avrei potuto fare a meno di guardare il suo corpo come si disegnava sotto le coperte. Mi tentava.
Nella penombra della cameretta rosea in disordine, il silenzio pareva consapevole dell’attesa vana d’una vita che i desiderii momentanei di quella bizzarra creatura non avrebbero potuto mai far nascere né consistere in qualche modo.
Avevo indovinato in lei l’insofferenza assoluta d’ogni cosa che accennasse a durare e stabilirsi. Tutto ciò che faceva, ogni desiderio o pensiero che le sorgevano per un momento, un momento dopo erano già come lontanissimi da lei; e se le avveniva di sentirsene ancora trattenuta, erano smanie rabbiose, scatti d’ira e perfino scomposte escandescenze.
Solo del suo corpo pareva si compiacesse sempre, per quanto a volte non se ne mostrasse per nulla contenta, anzi dicesse di odiarselo. Ma se lo stava a mirare continuamente allo specchio, in ogni parte o tratto; a provarne tutti gli atteggiamenti, tutte le espressioni di cui i suoi occhi cosí intensi lucidi e vivaci, le sue narici frementi, la sua bocca rossa sdegnosa, la mandibola mobilissima, potevano essere capaci. Cosí, come per un gusto d’attrice; non perché pensasse che per sé, nella vita, potessero servirle se non per giuoco: per un giuoco momentaneo di civetteria o provocazione.
Una mattina le vidi provare e studiare a lungo nello specchietto a mano che teneva con sé sul letto un sorriso pietoso e tenero, pur con un brillío negli occhi di malizia quasi puerile. Vedermelo poi rifare tal quale, quel sorriso, vivo, proprio come se le nascesse or ora spontaneo per me, mi provocò un moto di ribellione.
Le dissi che non ero il suo specchio.
Ma non s’offese. Mi domandò se quel sorriso, come ora gliel’avevo visto, era quello stesso che lei s’era veduto e studiato nello specchio dianzi.
Le risposi, seccato di quell’insistenza:
– Che vuole che ne sappia io? Non posso mica sapere come lei se l’è veduto. Si faccia fare una fotografia con quel sorriso.
– Ce l’ho, – mi disse. – Una, grande. Là nel cassetto di sotto dell’armadio. Me la prenda, per favore.
Quel cassetto era pieno di sue fotografie. Me ne mostrò tante, di antiche e di recenti.
– Tutte morte, – le dissi.
Si voltò di scatto a guardarmi.
– Morte?
– Per quanto vogliano parer vive.
– Anche questa col sorriso?
– E codesta, pensierosa; e codesta, con gli occhi bassi.
– Ma come morta, se sono qua viva?
– Ah, lei sí; perché ora non si vede. Ma quando sta davanti allo specchio, nell’attimo che si rimira, lei non è piú viva.
– E perché?
– Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa.
– E allora io, viva, non mi sono mai veduta?
– Mai, come posso vederla io. Ma io vedo un’immagine di lei che è mia soltanto; non è certo la sua. Lei la sua, viva, avrà forse potuto intravederla appena in qualche fotografia istantanea che le avranno fatta. Ma ne avrà certo provato un’ingrata sorpresa. Avrà fors’anche stentato a riconoscersi, lì scomposta, in movimento.
– È vero.
– Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.
– Ma nient’affatto! Non riesco anzi a tenermi mai ferma un momento, io.
– Ma vuole vedersi sempre. In ogni atto della sua vita. È come se avesse davanti, sempre, l’immagine di sé, in ogni atto, in ogni mossa. E la sua insofferenza proviene forse da questo. Lei non vuole che il suo sentimento sia cieco. Lo obbliga ad aprir gli occhi e a vedersi in uno specchio che gli mette sempre davanti. E il sentimento, subito come si vede, le si gela. Non si può vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà mai a conoscersi per come la vedono gli altri. E allora che vale che si conosca solo per sé? Le può avvenire di non comprendere piú perché lei debba avere quell’immagine che lo specchio le ridà.
Rimase a lungo con gli occhi fissi a pensare.
Sono certo che anche a lei, come a me, dopo quel discorso e dopo quanto le avevo già detto di tutto il tormento del mio spirito, s’aprì davanti in quel momento sconfinata, e tanto piú spaventosa quanto piú lucida, la visione dell’irrimediabile nostra solitudine. L’apparenza d’ogni oggetto vi s’isolava paurosamente. E forse ella non vide piú la ragione di portare la sua faccia, se in quella solitudine neanche lei avrebbe potuto vedersela viva, mentre gli altri da fuori, isolandola, chi sa come gliela vedevano.
Cadeva ogni orgoglio.
Vedere le cose con occhi che non potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano.
Parlare per non intendersi.
Non valeva piú nulla essere per sé qualche cosa.
E nulla piú era vero, se nessuna cosa per sé era vera. Ciascuno per suo conto l’assumeva come tale e se ne appropriava per riempire comunque la sua solitudine e far consistere in qualche modo, giorno per giorno, la sua vita.
Ai piedi del suo letto, con un aspetto a me ignoto, e a lei impenetrabile, io stavo lì, naufrago nella sua solitudine; e lei nella mia, là davanti a me, sul suo letto, con quegli occhi immobili e lontanissimi, pallida, un gomito puntato sul guanciale e il capo arruffato sorretto dalla mano.
Sentiva verso tutto ciò ch’io le dicevo un’invincibile attrazione e insieme una specie di ribrezzo; a volte, quasi odio: glielo vedevo lampeggiare negli occhi, mentre con la piú avida attenzione ascoltava le mie parole.
Voleva tuttavia che seguitassi a parlare, a dirle tutto quello che mi passava per la mente: immagini, pensieri. E io parlavo quasi senza pensare; o piuttosto, il mio pensiero parlava da sé, come per un bisogno di rilasciare la sua spasimosa tensione.
– Lei s’affaccia a una finestra; guarda il mondo; crede che sia come le sembra. Vede giù per via passare la gente, piccola nella sua visione ch’è grande, cosí dall’alto della finestra a cui è affacciata. Non può non sentirla in sé questa grandezza, perché se un amico ora passa giù per la via e lei lo riconosce, guardato cosí dall’alto, non le sembra piú grande d’un suo dito. Ah, se le venisse in mente di chiamarlo e di domandargli: «Mi dica un po’, come le sembro io, affacciata qua a questa finestra?». Non le viene in mente, perché non pensa all’immagine che quelli che passano per via hanno intanto della finestra e di lei che vi sta affacciata a guardare. Dovrebbe fare lo sforzo di staccare da sé le condizioni che pone alla realtà degli altri che passano giù e che vivono per un momento nella sua vasta visione, piccoli transitanti per una via. Non lo fa questo sforzo, perché non le sorge nessun sospetto dell’immagine che essi hanno di lei e della sua finestra, una tra tante, piccola, cosí alta, e di lei piccola piccola là affacciata con quel braccino che si muove in aria.
Si vedeva nella mia descrizione, piccola piccola a una finestra alta, col braccino che si moveva in aria, e rideva.
Erano lampi, guizzi; poi nella cameretta si rifaceva il silenzio. Ogni tanto compariva, come un’ombra, la vecchia zia con cui Anna Rosa abitava: grassa, apatica, con gli enormi occhi biavi orribilmente strabi. Stava un po’ sulla soglia, nella penombra liquida della cameretta, con le mani gonfie e pallide sul ventre; pareva un mostro d’acquario, non diceva nulla e se n’andava.
Con quella zia ella non scambiava che pochissime parole durante tutto il giorno. Viveva con sé, di sé; leggeva, fantasticava, ma sempre insofferente, cosí delle letture come delle sue stesse fantasticherie; usciva a far compere, a trovar questa o quella amica; ma le sembravano tutte sciocche e vane; provava piacere a sbalordirle; poi, rincasando, si sentiva stanca e seccata di tutto. Certi invincibili disgusti, che si potevano indovinare in lei da uno scatto o da un verso improvviso per qualche allusione, forse li doveva alla lettura di libri di medicina trovati nella biblioteca del padre, ch’era stato medico. Diceva che non avrebbe mai preso marito.
Io non posso sapere che idea si fosse fatta di me. Mi considerava certo con uno straordinario interesse, smarrito come in quei giorni le apparivo nei miei stessi pensieri e nell’incertezza di tutto.
Quest’incertezza che in me rifuggiva da ogni limite, da ogni sostegno, e ormai quasi istintivamente si ritraeva da ogni forma consistente come il mare si ritrae dalla riva; quest’incertezza, vaneggiandomi negli occhi, senza dubbio la attraeva, ma a volte, guardandola, avevo pure la strana impressione che le paresse un po’ divertente; una cosa infine un po’ anche da ridere, avere lì ai piedi del letto un uomo in quelle incredibili condizioni di spirito, cosí tutto scisso e che non sapeva come avrebbe fatto a vivere domani, quando, riavuto per mezzo dello Sclepis il danaro della banca, si sarebbe spogliato e liberato di tutto.
Perché ella era certa che io sarei ormai arrivato alle ultime conseguenze, come un perfettissimo pazzo. E questo la divertiva enormemente, con un certo orgoglio, anche, d’avere indovinato, nelle discussioni con mia moglie, non propriamente questo, ma ch’io fossi ad ogni modo un uomo non comune, singolare dall’altra gente; da cui ci si poteva aspettare, un giorno o l’altro, qualcosa di straordinario. Come per dare subito agli altri, e specialmente a mia moglie, la prova ch’ella aveva avuto ragione nel pensare cosí di me, s’era affrettata a chiamarmi, a informarmi delle intenzioni che si avevano contro di me, a spingermi ad andare da Monsignore; e adesso era di me contentissima, vedendomi là ai piedi del suo letto, come mi vedeva, fermo e placido in attesa di quanto doveva necessariamente avvenire, senza piú cura di nulla né di nessuno.
Eppure fu proprio lei a volermi uccidere, e proprio quando da questa soddisfazione ch’io le davo, e che la faceva un po’ ridere, passò a una grande pietà di me, per rispondere, come affascinata, a quella che, certo, io dovevo avere negli occhi, mentre la guardavo come dall’infinita lontananza d’un tempo che avesse perduto ogni età.
Non so precisamente come avvenne. Quand’io, guardandola da quella lontananza, le dissi parole che piú non ricordo, parole in cui ella dovette sentire la brama che mi struggeva di donare tutta la vita ch’era in me, tutto quello che io potevo essere, per diventare uno come lei avrebbe potuto volermi e per me veramente nessuno, nessuno. So che dal letto mi tese le braccia; so che m’attrasse a sé.
Da quel letto poco dopo rotolai, cieco, ferito al petto mortalmente dalla piccola rivoltella ch’ella teneva sotto il guanciale.
Devono esser vere le ragioni ch’ella poi disse in sua discolpa: cioè che fu spinta ad uccidermi dall’orrore istintivo, improvviso, dell’atto a cui stava per sentirsi trascinata dal fascino strano di tutto quanto in quei giorni io le avevo detto.
Di solito, alle normali operazioni della giustizia non è da rimproverare la fretta.
Il giudice incaricato d’istruire il processo contro Anna Rosa, onesto per natura e per principio, volle essere scrupolosissimo e perdere mesi e mesi di tempo prima di venire al cosí detto accertamento dei fatti, dopo aver raccolto, s’intende, dati e testimonianze.
Ma non era stato possibile avere da me una qualunque risposta al primo interrogatorio che avrebbero voluto farmi, subito dopo trasportato dalla cameretta d’Anna Rosa all’ospedale. Quando poi i medici mi permisero d’aprir bocca la prima risposta che diedi, anziché mettere nell’imbarazzo chi m’interrogava, mise nell’imbarazzo me.
Ecco: cosí fulmineo era stato in Anna Rosa il trapasso da quella pietà, per cui mi aveva teso le braccia dal letto, all’impulso istintivo che l’aveva spinta a compiere su me quell’atto violento, ch’io, già cieco nel sentirmi accosto il calore della sua procacissima persona, veramente non avevo avuto né il tempo né il modo d’accorgermi di come avesse fatto a cavare improvvisamente la rivoltella di sotto al guanciale per tirarmi. Cosicché, non parendomi allora ammissibile ch’ella, dopo avermi attratto a sé, avesse poi voluto uccidermi, con la piú schietta sincerità diedi, a chi m’interrogava, quella spiegazione del caso che mi sembrava piú probabile, cioè che il ferimento, anche quel mio ferimento come già il suo al piede, fosse stato accidentale, dovuto al fatto, certo riprovevole, di quella rivoltella che si trovava sotto il guanciale e che certo io stesso dovevo avere urtato e fatto esplodere nello sforzo di sollevare l’inferma che m’aveva domandato d’essere messa a sedere sul letto.
Per me la bugia (bugia doverosa) era soltanto in quest’ultima parte della risposta; a chi m’interrogava apparve invece tutta quanta cosí sfacciata, che ne fui aspramente rimbrottato. Mi si fece sapere che la giustizia si trovava già, per fortuna, in possesso della confessione esplicita della feritrice. Io allora, per un bisogno irresistibile di dimostrare la mia sincerità, fui cosí ingenuo da dare a vedere, nello sbalordimento, la piú viva curiosità di conoscere qual mai ragione avesse potuto dare la feritrice del suo atto violento contro di me.
La risposta a questa domanda fu una fragorosissima sbruffata che quasi mi lavò la faccia.
– Ah, lei voleva soltanto metterla a sedere sul letto?
Restai basito.
La giustizia doveva già anche trovarsi in possesso d’una prima deposizione di mia moglie, la quale, ora piú che mai con quella prova di fatto, aveva certo potuto testimoniare in perfettissima coscienza dell’antica data del mio innamoramento per Anna Rosa.
Cosí sarebbe rimasto, senza dubbio, acquisito alla giustizia che Anna Rosa aveva tentato d’uccidermi per difendersi da una mia brutale aggressione, se Anna Rosa stessa non avesse assicurato con giuramento il giudice che non c’era stata veramente nessuna aggressione da parte mia, ma solo quel tale fascino involontariamente esercitato su lei con le mie curiosissime considerazioni sulla vita: fascino da cui ella s’era lasciata prendere cosí fortemente, da ridursi a commettere quella pazzia.
Il giudice scrupoloso, non soddisfatto del sommario ragguaglio che Anna Rosa aveva potuto dargli di quelle mie considerazioni, stimò suo dovere averne una piú precisa e particolare informazione, e volle venire di persona a parlare con me.
Ero stato ricondotto dall’ospedale a casa in barella; e, già entrato in convalescenza, avevo lasciato il letto e me ne stavo in quei giorni adagiato beatamente su una poltrona vicino alla finestra, con una coperta di lana verde sulle gambe.
Mi sentivo come inebriato vaneggiare in un vuoto tranquillo, soave, di sogno. Era ritornata la primavera, e i primi tepori del sole mi davano un languore d’ineffabile delizia. Avevo quasi timore di sentirmi ferire dalla tenerezza dell’aria limpida e nuova ch’entrava dalla finestra semichiusa, e me ne tenevo riparato; ma alzavo di tanto in tanto gli occhi a mirare quell’azzurro vivace di marzo corso da allegre nuvole luminose. Poi mi guardavo le mani che ancora mi tremavano esangui; le abbassavo sulle gambe e con la punta delle dita carezzavo lievemente la peluria verde di quella coperta di lana. Ci vedevo la campagna: come se fosse tutta una sterminata distesa di grano; e, carezzandola, me ne beavo, sentendomici davvero, in mezzo a tutto quel grano, con un senso di cosí smemorata lontananza, che quasi ne avevo angoscia, una dolcissima angoscia.
Ah, perdersi là, distendersi e abbandonarsi, cosí tra l’erba al silenzio dei cieli; empirsi l’anima di tutta quella vana azzurrità, facendovi naufragare ogni pensiero, ogni memoria!
Poteva, domando io, capitare piú inopportuno quel giudice?
Mi duole, a ripensarci, se egli quel giorno se n’andò da casa mia con l’impressione ch’io volessi burlarmi di lui. Aveva della talpa, con quelle due manine sempre alzate vicino alla bocca, e i piccoli occhi plumbei quasi senza vista, socchiusi; scontorto in tutta la magra personcina mal vestita, con una spalla piú alta dell’altra. Per via, andava di traverso, come i cani; benché poi tutti dicessero che, moralmente, nessuno sapeva rigare piú diritto di lui.
Le mie considerazioni sulla vita?
– Ah signor giudice, – gli dissi, – non è possibile, creda, ch’io gliele ripeta. Guardi qua! Guardi qua!
E gli mostrai la coperta di lana verde, passandoci sopra delicatamente la mano.
– Lei ha l’ufficio di raccogliere e preparare gli elementi di cui la giustizia domani si servirà per emanare le sue sentenze? E viene a domandare a me le mie considerazioni sulla vita, quelle che per l’imputata sono state la cagione d’uccidermi? Ma se io gliele ripetessi, signor giudice, ho gran paura che lei non ucciderebbe piú me, ma se stesso, per il rimorso d’avere per tanti anni esercitato codesto suo ufficio. No, no: io non gliele dirò, signor giudice! È bene che lei anzi si turi gli orecchi per non udire il terribile fragore d’una certa rapina sotto gli argini, oltre i limiti che lei, da buon giudice, s’è tracciati e imposti per comporre la sua scrupolosissima coscienza. Possono crollare, sa, in un momento di tempesta come quello che ha avuto la signorina Anna Rosa. Che rapina? Eh, quella della gran fiumana, signor giudice! Lei l’ha incanalata bene nei suoi affetti, nei doveri che s’è imposti, nelle abitudini che s’è tracciate; ma poi vengono i momenti di piena, signor giudice, e la fiumana straripa, straripa e sconvolge tutto. Io lo so. Tutto sommerso, per me, signor giudice! Mi ci sono buttato e ora ci nuoto, ci nuoto. E sono, se sapesse, già tanto lontano! Quasi non la vedo piú. Si stia bene, signor giudice, si stia bene!
Restò lì, stordito, a guardarmi come si guarda un malato incurabile. Sperando di scomporlo da quel penoso atteggiamento, gli sorrisi; sollevai dalle gambe con tutt’e due le mani la coperta e gliela mostrai ancora una volta, domandandogli con grazia:
– Ma davvero, scusi non le sembra bella, cosí verde, questa coperta di lana?
Mi consolavo con la riflessione che tutto questo avrebbe facilitato l’assoluzione d’Anna Rosa. Ma d’altra parte c’era lo Sclepis che piú volte con un gran tremore di tutte le sue cartilagini era accorso a dirmi ch’io gli avevo reso e seguitavo a rendergli piú che mai difficile il cómpito della mia salvazione.
Possibile che non mi rendessi conto dello scandalo enorme suscitato con quella mia avventura, proprio nel momento che avrei dovuto dar prova d’avere piú di tutti la testa a segno? E non avevo, invece, dimostrato che aveva avuto ragione mia moglie a scapparsene in casa del padre per l’indegnità del mio comportamento verso di lei? Io la tradivo; e solo per farmi bello agli occhi di quella ragazza esaltata avevo protestato di non volere piú che in paese mi si chiamasse usurajo! E tanto era il mio accecamento per quella passione colpevole, che avevo voluto e m’ostinavo a voler rovinare me e gli altri, con tutto che per poco non m’era costata la vita, questa colpevole passione!
Ormai allo Sclepis, di fronte alla sollevazione di tutti, non restava che riconoscere le mie deplorevoli colpe, e per salvarmi non vedeva piú altro scampo che nella confessione aperta di esse da parte mia. Bisognava però, perché questa confessione non fosse pericolosa, che io dimostrassi nello stesso tempo cosí viva e urgente per la mia anima la necessità d’un eroico ravvedimento, da ridare a lui l’animo e la forza di chiedere agli altri il sacrifizio dei proprii interessi.
Io non facevo che dir di sí col capo a tutto quello che lui mi diceva, senza forzarmi a scrutare quanto e fin dove quella che era soltanto argomentazione dialettica, prendendo a mano a mano calore, diventasse in lui realmente sincera convinzione. Certo appariva sempre piú soddisfatto; ma dentro di sé, forse, un po’ perplesso, se quella sua soddisfazione fosse per vero sentimento di carità o per l’accorgimento del suo intelletto.
Si venne alla decisione che io avrei dato un esemplare e solennissimo esempio di pentimento e d’abnegazione, facendo dono di tutto, anche della casa e d’ogni altro mio avere, per fondare con quanto mi sarebbe toccato dalla liquidazione della banca un ospizio di mendicità con annessa cucina economica aperta tutto l’anno, non solo a beneficio dei ricoverati, ma anche di tutti i poveri che potessero averne bisogno; e annesso anche un vestiario per ambo i sessi e per ogni età, di tanti capi all’anno; e che io stesso vi avrei preso stanza, dormendo senz’alcuna distinzione, come ogni altro mendico, in una branda, mangiando come tutti gli altri la minestra in una ciotola di legno, e indossando l’abito della comunità destinato a uno della mia età e del mio sesso.
Quel che piú mi coceva era che questa mia totale remissione fosse interpretata come vero pentimento, mentre io davo tutto, non m’opponevo a nulla, perché remotissimo ormai da ogni cosa che potesse avere un qualche senso o valore per gli altri, e non solo alienato assolutamente da me stesso e da ogni cosa mia, ma con l’orrore di rimanere comunque qualcuno, in possesso di qualche cosa.
Non volendo piú nulla, sapevo di non poter piú parlare. E stavo zitto, guardando e ammirando quel vecchio diafano prelato che sapeva voler tanto e la volontà esercitare con arte cosí fina, e non per un utile suo particolare, né tanto forse per fare un bene agli altri, quanto per il merito che ne sarebbe venuto a quella casa di Dio, di cui era fedelissimo e zelantissimo servitore.
Ecco: per sé, nessuno.
Era questa, forse, la via che conduceva a diventare uno per tutti.
Ma c’era in quel prete troppo orgoglio del suo potere e del suo sapere. Pur vivendo per gli altri, voleva ancora essere uno per sé, da distinguere bene dagli altri per la sua sapienza e la sua potenza, e anche per la piú provata fedeltà e il maggior zelo.
Ragion per cui, guardandolo – sí, seguitavo ad ammirarlo – ma mi faceva anche pena.
IV. Non conclude.
Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio.
Non mi sono piú guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato cosí diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse.
Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere piú larga e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraje qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho piú questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.